Federica Gregoratto
St. Gallen Universität
federica.gregoratto@unisg.ch
Abstract: It seems that the idea of social pathology has recently become unavoidable, within the Frankfurter tradition of critical theory, to pinpoint the wrongs of the socio-historical present. In this article, I would like to frame this new keyword not as an absolute negative, which has to be conceptually sharply separated from the healthy state, but rather as a negative that serves as disruptive, and thus critical and transformative element in a social order conceived of in organicistic terms. The following considerations rely mostly upon Adorno’s dialectical method, which urges us to reflect on the connections between health (or normality) and illness, as well as on the difficulties that are inherent in the attempt to tell them apart. Adorno’s dialectics is reread on the background of a dystopian representation of reality, and in particular of the dystopia outlined in The Handmaid’s Tale, that I consider here both as the novel published by Margaret Atwood in 1985 and as the recent TV show. In this context, I discuss the possibility to conceive of passionate love, characterized by the intertwinement between activity (or agency) and passivity, as a pathology that has revitalizing, beneficial effects.
Keywords: social pathology; dystopia; oppression; love; passion; agency.
1. Introduzione: verso una dialettizzazione dell’idea di patologia sociale
La tradizione francofortese, o hegelo-marxista, di teoria sociale critica ha sempre fatto affidamento, attraverso le generazioni che ne hanno scandito lo sviluppo, a diverse parole-chiave: “dialettica”, “critica immanente”, “riconoscimento”, tra le altre. Ciascuna di queste serve a sintetizzare e illustrare la specificità metodologica e il funzionamento dell’approccio teorico-critico alla società di volta in volta adottati. Nell’ultimo decennio, la parola-chiave che sembra essere diventata imprescindibile per coloro che intendono criticare, o meglio, diagnosticare il presente è “patologia sociale”. Questa espressione viene usata per indicare tutto ciò che vi è di sbagliato nella realtà storico-sociale, spiegandolo in termini che non vogliono porsi come parassitari rispetto a parametri esterni, cioè di natura morale o politica. Nel suo famoso saggio Patologie del sociale, Honneth (1996) sancisce l’autonomia della filosofia sociale rispetto alla filosofia morale e alla teoria politica proprio individuandone la differenza specifica nell’intento di rilevare criticamente le patologie che affliggono la totalità sociale. Mali di questo genere non potrebbero essere capiti fino in fondo se interpretati per esempio come ingiustizie morali o illegittimità politiche (cfr. Laitinen, Särkelä 2018b).
L’idea di patologia sociale può essere declinata in diversi modi, più o meno metaforici, che prendono più o meno sul serio il campo semantico medico e naturalistico inevitabilmente evocato da questi termini. Nella loro utile euristica, Laitinen e Särkelä (2018a) distinguono quattro varianti: patologia sociale come «termine ombrello» per tutto ciò che è esecrabile e condannabile nella nostra società (ideologie, reificazioni, misconoscimenti, etc.), come «disordine di secondo livello», come «malattia dell’organismo sociale», e infine come «degenerazione della vita sociale». Le prime due varianti tendono ad applicare l’aggettivo patologico semplicemente per designare qualcosa che era già stato giudicato, a partire da altri criteri, come sbagliato. Le ultime due varianti, invece, cercano di capire che cosa vi è di sbagliato nel mondo in cui viviamo proprio dissezionando il concetto di patologia sociale. Soffermiamoci più nel dettaglio sulla terza e quarta concezione: queste categorie ci saranno poi utili nel prosieguo dell’articolo. Secondo la terza variante, il tutto sociale, concepito in analogia con il singolo organismo vivente, si “ammala” nel momento in cui le sue funzioni riproduttive e di mantenimento sviluppano anomalie o blocchi[1]. Dal punto di vista della quarta concezione, una tale nozione di patologia è però difettosa in quanto appiattisce la complessità della vita sociale sulla realtà, meno complessa, della vita organica, perdendo di vista le specificità caratteristiche dell’interazione istituzionalizzata tra organismi umani e non umani. L’immagine di società che sottende la terza concezione tende – così i suoi critici – al conservatorismo e alla staticità: secondo la visione organicistica, infatti, lo stato patologico coinciderebbe con la perturbazione dello status quo, con lo sconvolgimento del normale – o normalizzato – funzionamento del tutto sociale. I fautori della quarta versione di patologia sociale, che secondo Laitinen e Särkelä sarebbero soprattutto Theodor W. Adorno, John Dewey, Friedrich Nietzsche e Alfred North Whitehead, intendono invece la vita sociale innanzitutto come crescita e trasformazione. Dewey e Whitehead, in particolare, pensano i processi sociali in continuità con quelli organici. La vita sociale è, secondo loro, emersa da quella biologica, raggiungendo dunque livelli di complessità e organizzazione più ricchi e differenziati. La riproduzione e il mantenimento delle sue funzioni è accompagnata, in modo spesso conflittuale, da cambiamenti che mettono radicalmente in discussione pattern collaudati ma solo apparentemente efficaci. La patologia sociale, dunque, si verifica nel momento in cui una tale vitalità trasformativa viene assorbita dalla pressione sistemica a mantenere lo status quo, quando cioè la vita sociale degenera a vita organica. La differenza tra la terza e la quarta concezione potrebbe essere riassunta così: se, nella terza variante, la società guarisce ristabilendo la norma, o meglio ciò che si suppone debba essere la norma, nella quarta variante la patologia viene superata mettendo in discussione, scardinando e cambiando prescrizioni accettate e automatismi.
Nonostante la varietà di significati e problemi che attraversa le diverse concezioni di patologia sociale, se ne può identificare un comune denominatore: si tratta della percezione, apparentemente ovvia, della patologia sociale come qualcosa di completamente nocivo, che una teoria critica dovrebbe puntare a eliminare. Ciò implica la presunzione di poter disporre di un apparato concettuale che ci metta nelle condizioni di distinguere tra ordini sociali in salute e ordini sociali non sani. E se invece la relazione tra salute e malattia fosse da considerare non come disgiunzione ma piuttosto come giuntura dialettica? Non si potrebbe complicare ulteriormente l’idea di patologia sociale, pensandola – questo mi riprometto di fare nelle pagine che seguono – non semplicemente come target della critica, ma come una sua stessa risorsa?
L’intento di imprimere una torsione dialettica all’idea di patologia sociale è, a ben vedere, già anticipato nella quarta concezione, e nella sua relazione con l’idea problematica di una disfunzione riproduttiva dell’organismo sociale (terza variante): ciò che sembrerebbe esibire l’aspetto della salute dal punto di vista dell’analogia con l’organismo biologico, scrivono Laitinen e Särkelä, può invece rivelarsi patologico per la vita associata. Puntare a ricostituire e riprodurre un ordinamento socio-politico e le sue norme, espellendo o assorbendo le sue disfunzioni, nega la possibilità di imparare proprio dalle anomalie, di fare leva su queste per ridare vita alle interazioni socio-politiche.
Una tale prospettiva è anche quella esplicitamente adottata da Theodor W. Adorno. Nei Minima moralia, per esempio nell’aforisma intitolato, significativamente, La salute mortale, questi considera la «normalità» del presente storico-sociale come la sua «malattia» (Adorno 1994, 59). Il compito del pensiero dialettico è allora proprio quello
Di dare lo sgambetto alle sane opinioni circa l’immodificabilità del mondo. […] La dialettica non può arrestarsi davanti ai concetti di sano e malato […]. Una volta che ha riconosciuto per malato l’universale dominante e le sue proporzioni […] vede la sola cellula di guarigione in ciò che, commisurato a quell’ordine, appare malato, eccentrico, paranoide o addirittura folle; ed è vero oggi, come nel Medioevo, che solo i pazzi dicono la verità al dominio. (Adorno 1994, 76)
Si badi: Adorno non vuole lasciar cadere ogni tentativo di diagnosticare i mali del presente, rendendo salute e malattia indistinguibili e sollecitando così ad abbandonare ogni speranza una volta entrati nel turbine della dialettica negativa. Il metodo dialettico adorniano ha piuttosto la funzione di evidenziare le difficoltà insite nell’atto di distinguere nettamente tra salute e malattia, nonché di indurci a valutare i criteri alla base di tale distinzione.
Vorrei ora provare a chiarire meglio, e forse a complicare ulteriormente, un tale approccio dialettico esplorando una di quelle interazioni “patologiche” che non solo ci potrebbe aiutare a diventare più sani, ma anche a capire meglio di che salute stiamo parlando e a quale salute dovremmo aspirare. Una patologia che, se da una parte rappresenta in determinate circostanze una minaccia per l’ordine dato, dall’altra promette una vita sociale migliore. Mi riferisco a quel tipo di amore che, con riferimento a Niklas Luhmann (2008)[2], possiamo chiamare amore passionale. Come vedremo verso la fine, certe caratteristiche della passione amorosa possono essere estese anche all’amicizia. Per parlare di questa forma speciale – e per il momento forse controintuitiva – di patologia, ritengo utile collocare il mio discorso nella cornice narrativo-concettuale di una rappresentazione distopica dell’attualità storico-sociale, ovvero di quella cornice descritta con dovizia di particolari dalla recente serie televisiva The Handmaid’s Tale (Miller, 2016), ispirata all’omonimo romanzo pubblicato da Margaret Atwood nel 1985 (Atwood 2012). In questo contesto, prenderò in considerazione entrambi i prodotti culturali: se il romanzo offre riferimenti testuali imprescindibili per una teoria critica delle patologie sociali e dell’amore, la serie attualizza le preoccupazioni di Atwood, maturate nel contesto degli anni Ottanta (in relazione all’amministrazione Reagan, a certe derive pseudo-femministe e alla Rivoluzione in Iran del ’79), adattandole al contesto attuale[3].
Nella prossima sezione, tratteggerò il tipo di diagnosi presente in The Handmaid’s Tale e spiegherò la sua rilevanza per il discorso sulle patologie sociali (2). Nell’ultima sezione, chiarirò in che senso l’amore possa essere considerato una patologia e quale ruolo possa assumere nella diagnosi critica (3).
2. Il presente distopico e la normalità mortale delle relazioni di genere e classe
La scelta di partire da una rappresentazione distopica della realtà storico-sociale è in sintonia con il metodo di Adorno: la sua lugubre visione della società occidentale come «connessione di accecamento» (Verblendungszusammenhang), a cui appartiene anche ciò con cui ci si illude «di strappare il velo» (Adorno 2004, 334), e le macine incessanti di una dialettica negativa che continuano a rovesciare ogni bagliore di speranza e scintilla di positività non devono essere infatti presi, io credo, in senso del tutto letterale, realistico. Seguendo la lezione di autori distopici quali George Orwell e Aldous Huxley, Adorno tratteggia una serie di diagnosi sociali che non si vogliono limitare, sociologicamente, a registrare e interpretare i fatti, ma che piuttosto esagerano, allucinano, dilatano certe tendenze attuali. Lo scopo, esattamente come quello della «fiction speculativa» di The Handmaid’s Tale (Potts 2003), è di individuare problemi e pericoli gettando una nuova luce sul quotidiano, facendo saltare certe presunte ovvietà e riorientando i nostri sistemi di percezione e valutazione[4]. Mostrare il mondo non per quello che esattamente è, ma per ciò che è in nuce – o potrebbe diventare, se certi fenomeni attuali fossero portati alle loro estreme conseguenze o se certi accadimenti lontani in senso storico e geografico convergessero nello stesso sistema di coordinate spazio-temporali[5] – non può infatti che acuire la nostra sensibilità critica nei confronti dei mali del presente[6].
Il romanzo di Margaret Atwood e la serie TV prodotta da Hulu raccontano una rivoluzione e confrontano continuamente, attraverso lunghi flashback, l’ordine prerivoluzionario con quello postrivoluzionario. Un manipolo di fanatici cristiani, che si fanno chiamare I figli di Giacobbe (Sons of Jacob), rovescia il governo democratico degli Stati Uniti, ne sospende la Costituzione e instaura una dittatura teocratica, la Repubblica di Gilead, che ha come scopo principale quello di arrestare la degenerazione morale, politica ed economica che affligge non solo il Nord-America ma il mondo intero. Devastato dall’inquinamento chimico e radioattivo, il pianeta sta affrontando una grave crisi riproduttiva, che ha condotto a un crollo delle nascite globale mettendo seriamente a rischio la specie umana. Nella diagnosi dei rivoluzionari poi divenuti classe dominante (i Comandanti), le cause della crisi sono individuate in una complessa matassa di fattori sociali riverberatasi, con conseguenze disastrose, sull’ecosistema: l’estrema libertà romantico-sessuale (simboleggiata, nella serie TV, dall’uso e abuso di Tinder), la fluidità delle convenzioni di genere ma anche di tipo razziale (nella società prerivoluzionaria descritta nella serie, amicizia e amore interrazziali non sembrano incontrare ostacoli), uno sfrenato consumismo capitalista basato sulla sacralizzazione dei desideri individuali, lo sviluppo tecnologico in difesa dell’autonomia riproduttiva della donna – tutti fattori che si sarebbero rivelati, secondo costoro, insostenibili a livello sia sociale che naturale. Il regime di Gilead cercherebbe dunque di superare la crisi attraverso una drastica riduzione delle libertà personali, in misura maggiore per le donne, nonché la cementificazione di un rigido sistema di classe. A ogni classe, o casta, è assegnata una specifica funzione sociale, simboleggiata da un dresscode. Le donne sono suddivise nei seguenti gruppi: le mogli dei Comandanti, vestite in verde (serie TV) o blu (romanzo), la grande maggioranza delle quali è sterile; le Ancelle (Handmaids), vestite in rosso, sorta di madri surrogate, selezionate tra le poche donne fertili rimaste[7]; le Marta, donne di servizio (non più in età riproduttiva), in divisa grigio-verde; le Zie, vestite in marrone, anch’esse non più in grado di procreare, al servizio del regime come addestratrici, guide morali e guardiane delle Ancelle; le Nondonne (Unwomen), le dissidenti più esplicite, tutte coloro che il regime non riesce a integrare e che esilia nei campi di lavoro delle cosiddette “Colonie”; le Jezebel, prostitute che lavorano in bordelli di Stato, le uniche cui è permesso bere, fumare e abbigliarsi con appariscenti reperti della moda prerivoluzionaria (costumi teatrali, bikini, abiti da spogliarellista e coniglietta Playboy). Gli uomini sono invece suddivisi nei seguenti gruppi: i Comandanti della Fede, membri del partito che controlla il regime, gli unici uomini cui è permesso disporre di un’Ancella (e di un’auto); gli Occhi, ovvero le spie; gli Angeli, i soldati al fronte; i Guardiani della Fede, uomini di bassa estrazione sociale utilizzati per le operazioni di polizia interna. Tra le varie misure adottate dal nuovo regime, come l’abolizione del libero mercato, la repressione sanguinosa dei dissidenti (tra cui figurano soprattutto preti e suore che non credono a questa forma di Cristianesimo, medici abortisti, omosessuali), la pretesa di un ritorno a uno stile di vita e di consumo “naturale”, l’istituzione centrale è quella della cosiddetta “Cerimonia”. Una volta al mese, l’ancella assegnata a un Comandante e a sua moglie deve giacere tra le gambe di quest’ultima, mentre l’uomo di casa la penetra e cerca di inseminarla. Il rituale è preceduto da una pomposa lettura del passo della Genesi in cui Rachele, non essendo in grado di dare dei figli a Giacobbe, gli consiglia di provarci con l’ancella Bila. Questo passo rappresenta il fondamento ideologico della Cerimonia, nonché, in nuce, l’intera morale sessuale del regime. A Gilead, l’Ancella è l’unica responsabile del successo dell’atto procreativo: gli uomini, per definizione, non possono essere sterili. Ogni altra forma di interazione sessuale e di ricerca del piacere, anche tra Comandante e Moglie, è vietata o quanto meno fortemente scoraggiata in quanto disfunzionale allo scopo riproduttivo[8]. Qualsiasi forma di intimità, desiderio, amicizia, affetto – a eccezione del legame che può instaurarsi tra una Moglie e il figlio o la figlia eventualmente datogli dall’Ancella – viene sanzionato pesantemente, o deve perlomeno avvenire in segreto.
The Handmaid’s Tale esibisce tutti i tratti distintivi del racconto distopico. Due, in particolare, ci interessano in questo contesto. In primo luogo, come tutti gli orrori distopici, anche quelli immaginati da Atwood non sono semplicemente la conseguenza della sete di potere di un grappolo di uomini e donne malvagi e amorali, ma vengono rappresentati come la deriva illiberale, totalitaria e assurda di un’impresa utopica, basata in teoria sulla volontà di migliorare il mondo, di curare una patologia[9]. La distopia è un’utopia che si è realizzata come inferno (Adorno 2003, 99). Orwell in Nineteen Eighty-Four rifletteva sulle conseguenze dell’intento di superare le patologie capitalistiche soffocandone l’anima liberale, e Huxley in Brave New World sulle conseguenze dell’utopia capitalista di provvedere in massa al soddisfacimento di qualsiasi bisogno e all’eliminazione di qualsiasi freno inibitorio al piacere. The Handmaid’s Tale, da parte sua, ci mostra quali sono le conseguenze di un progetto social-conservatore volto a restaurare le identità tradizionali di genere, ma anche a fissare e giustificare ideologicamente le divisioni di classe[10]. In particolare la serie televisiva fa emergere intelligentemente la relazione inquietante tra il fanatismo religioso e quella tradizione conservatrice sedicente di sinistra che critica aspramente, riconducendolo a politiche neoliberali, l’individualismo sfrenato in materia di relazioni sessuali e familiari. Altri contenuti di “critica sociale”, più o meno giustificati – la promozione di un lifestyle più “naturale”, dal cibo alla cura dei figli, lo scetticismo nei confronti della medicina “occidentale”, le legittime preoccupazioni e paure legate all’inquinamento ambientale e al cambiamento climatico – si riverberano inoltre nelle motivazioni degli ideologi di Gilead. Il romanzo di Atwood, più della serie, fa riflettere inoltre, sempre in un registro iperbolico, sui possibili risvolti di certe critiche femministe all’oggettivazione della donna, a una rivoluzione sessuale rivelatasi fasulla o quanto meno contraddittoria, al falso mito dell’autonomia, anche economica (che include il mito della presunta libertà di “affittare” l’utero), ma anche al modello della “donna in carriera”, che aspira all’uguaglianza con l’uomo e non celebra adeguatamente la differenza femminile[11].
Mi si conceda ora una piccola digressione che si rivelerà utile in seguito: si consideri il seguente passaggio di un discorso di Zia Lydia, riportato da Offred: «Vi è più di un tipo di libertà, disse Zia Lydia. ‘Libertà di’ e ‘libertà da’. Nei giorni dell’anarchia, c’era la ‘libertà di’. Ora vi è data la ‘libertà da’. Non sottovalutatela» (Atwood 2012, 24, trad. mia). Il nostro racconto dell’ancella può essere anche letto come un piccolo trattato sulla libertà, che esplora non solo le diversi accezioni del complicato concetto di freedom, o liberty, ma anche i modi in cui i diversi tipi di libertà possono essere messi in pericolo, e riconquistati. Non solo vi sono «la libertà di», cioè di seguire i propri desideri senza costrizione alcuna – una libertà che Thomas Hobbes concepiva come naturale, ma allo stesso tempo incompatibile con lo stato civile e politico – e «la libertà da», ovvero quella protezione da ingerenze esterne che può essere garantita al meglio dallo Stato di diritto, ma anche minacciata nel modo più invasivo e violento dallo Stato come detentore del monopolio della violenza[12]. Vi sono anche la libertà come possibilità di determinare collettivamente le proprie regole e i propri scopi – ciò che i rivoluzionari Sons of Jacob pretendono di fare – e la libertà di sollevarsi collettivamente contro l’oppressione – una possibilità che, nella serie TV, sembra profilarsi per le ancelle nel momento in cui realizzano le proprietà collettivizzanti e politicizzanti della loro divisa rossa. Ad ogni modo, si noti la qualità squisitamente dialettica dell’esortazione di Zia Lydia ad apprezzare il nuovo tipo di libertà garantita dal regime, la quale dovrebbe promettere a ciascuna donna la protezione da sguardi e avance indesiderati, dalle brutte esperienze che un “mercato degli appuntamenti” estremamente liberale e spesso brutale non sembra risparmiare a nessuna (#metoo), ma anche da preoccupazioni economiche – a patto che ognuna rispetti il ruolo assegnatole rigidamente dalla natura (e dalla società). La protezione da un certo tipo di violenza è garantita a condizione di giustificare, accettare e normalizzare un altro tipo di violenza. La prima è la violenza insita nel rischio di muoversi da individui liberi in un network di relazioni, ove la libertà individuale è il più delle volte praticata come affermazione del proprio potere e perseguimento dei propri interessi a discapito del benessere o della sopravvivenza altrui. Il secondo tipo di violenza è quella a fondamento del regime, che vieta alle donne, ma anche agli uomini, di realizzare il proprio contributo alla comunità al di là delle determinazioni biologico-culturali, dei ruoli decisi dall’alto e delle norme di genere e di classe prefissate e presuntivamente immodificabili[13].
L’ultima battuta della precedente digressione introduce anche la seconda caratteristica saliente che accomuna The Handmaid’s Tale ad altri racconti distopici: si tratta della rappresentazione di una società che mira all’immutabilità, in cui ogni tipo di dinamismo è paralizzato (Adorno 2003, 100), ogni trasformazione bloccata. Ciò implica la cancellazione del passato, e lo sforzo affinché il futuro sia assorbito da un eterno presente. Processi di ricerca e conoscenza non trovano più posto in un contesto di questo tipo. Le cosiddette soluzioni alla crisi planetaria proposte dalla classe dirigente di Gilead – evocando il rifiuto di Trump & Co. di prendere sul serio i dati sul cambiamento climatico, il loro appello a «fatti alternativi», ma anche le remore nei confronti delle tecnologie riproduttive dettate dal conservatorismo religioso – si radicano nel netto rifiuto della scienza e dell’innovazione tecnologica. Ciò si collega direttamente al discorso deweyano sulle patologie sociali, configurato da Laitinen a Särkelä entro la loro quarta concezione: la prassi scientifica non è solo un «processo di apprendimento», caratterizzato da apertura al nuovo, sperimentazione, esplorazione, revisione e cambiamento, che funge da modello per i processi non solo conoscitivi ma, più in generale, sociali; essa stessa è una prassi genuinamente sociale che contribuisce alla dinamizzazione, e dunque alla trasformazione, della vita associata[14].
La staticità dell’ordine sociale, la divisione dei ruoli prestabilita antidemocraticamente e sulla base di presunte datità naturali, il rifiuto del nuovo e del diverso: queste caratteristiche definiscono, dal punto di vista dei sostenitori dell’idea di patologia come «degenerazione della vita associata», il male sociale più pericoloso. Tuttavia, entro la prospettiva dei difensori del regime di Gilead, i cui ragionamenti si rifanno alla concezione organicistica di patologia sociale descritta da Laitinen e Särkelä, la vera patologia era proprio quella che affliggeva la società prerivoluzionaria, i «giorni dell’anarchia», in cui la società occidentale stava «morendo», nelle parole di Zia Lydia, a causa delle troppe possibilità di scelta (Atwood 2012, 24). Le riflessioni di Lydia riportate da Offred-June non solo introducono il vocabolario naturalistico di critica delle patologie nei discorsi ideologici a difesa del regime, ma ci inducono anche a riflettere sul rapporto tra stato “normale” e stato “patologico” in riferimento al tutto sociale. Secondo l’Adorno citato nella sezione precedente, la «connessione di accecamento» si basa proprio sulla cecità nei confronti del fatto che ciò che viene individuato come lo stato normale, abituale, ordinato e dunque sano della società occidentale – per esempio il dominio incontrastato della forma merce – cova in seno un morbo mortale. Come disabituarsi dunque, come far saltare e dialettizzare la distinzione tra normale e anormale? Questo, d’altra parte, è proprio ciò che la rivoluzione di Gilead starebbe facendo, ovvero rieducare a una nuova normalità perfino e soprattutto i corpi, i sentimenti, le relazioni più intime tra esseri umani. Per spiegare il senso dell’operazione dei Sons of Jacob, Lydia profila un futuro in cui si vivrà insieme in «armonia», le ancelle saranno considerate e trattate come parte integrante delle rispettive famiglie dei Comandanti, sentimenti di genuino affetto legheranno le donne appartenenti a classi diverse, ognuna consapevole che la divisione del lavoro riproduttivo e di cura tra i diversi gruppi sociali (concepimento della prole assegnato alle Ancelle, accudimento ed educazione alle Mogli, lavori di casa alle Marte) non è una violenza ma, al contrario, un mero alleviamento della fatica. Lydia prefigura addirittura una «maggiore libertà» (Atwood 2012, 162) per le future generazioni: le donne si saranno abituate alle nuove norme e convenzioni e non le percepiranno più come limitazioni dolorose, ma come possibilità di godere di privilegi e favori; gli abiti rossi, verdi-azzurri e grigi non saranno più vissuti come un’imposizione, ma come una protezione, un segno distintivo e identitario[15].
Cerchiamo di tirare le fila delle riflessioni svolte fino a qui. Probabilmente, anche coloro che condividono e scorgono l’attualità disarmante della feroce critica adorniana alla società tardo-capitalistica non sono disposti a considerare le misure conservatrici, distorte distopicamente in The Handmaid’s Tale, come una valida alternativa alla Verblendungszusammenhang. Seguendo il ragionamento di Laitinen e Särkelä, questo dipende dal fatto che sia la normalità dell’attuale ordine storico-sociale sia la nuova normalità a cui aspirano i Sons of Jacob si basano su una concezione simile di società: una società statica, improntata prevalentemente alla riproduzione dell’ordine, organizzata secondo una divisione del lavoro compartimentalizzata, soffocata dall’armonia, cieca e spaventata di fronte al nuovo e al diverso, refrattaria al dissenso e quindi incapace di trasformarsi.
3. Patologia e passione: per una dialettica di attività e passività
In The Handmaid’s Tale amore erotico e amicizia vengono rappresentati come disturbi in grado di far saltare la visione organicistica della società. Dal punto di vista dei difensori del regime, quel tipo di affetto spontaneo, intenso, incontrollabile, che lega due o più persone e le spinge a cercare la vicinanza con l’altro o l’altra anche a costo di cacciarsi nei guai, è un’infezione pericolosa da curare immediatamente.
In che senso l’amore può essere considerato una patologia, e che tipo di risvolti sociali ha una patologia di questo tipo? Nella Critica della ragion pratica, Kant distingue tra amore «pratico» e amore «patologico». Il primo, nucleo essenziale di ogni legge morale, è quell’amore per Dio e per il prossimo che coincide con l’adeguarsi «volentieri» ai doveri richiesti dalla moralità; quello patologico, al contrario, è amore per «inclinazione», sempre riferito a un oggetto dei sensi. L’amore patologico, ovvero sensuale, in qualche modo naturale, «non può essere comandato, perché non è in potere di nessun uomo amare qualcuno semplicemente su comando» (Kant 2000, 181). Nella Fondazione della metafisica dei costumi, l’amore patologico viene detto risiedere in una «struggente (schmelzende) partecipazione» e non, come l’amore pratico, nei «principi dell’azione» (Kant 2007, 29; trad. mod.).
Ne La metafisica dei costumi, poi, Kant definisce «l’inclinazione sessuale» come una forma di amore «nel senso più ristretto del termine», non semplicemente un amore patologico, generato a livello di trasporto sensibile per un’altra persona o cosa (si può amare patologicamente, in questo senso, anche un’amica o un amico per cui si prova simpatia, o i propri genitori o figli), ma quel tipo di amore patologico . Tale amore è collegato, dice Kant, alla capacità di desiderare nella sua forma più intensa, ovvero alla passione (Kant 1977, 559). Qui, per inciso, Kant sembra anticipare la famosa idea, propagata poi dagli interpreti francesi di Hegel, per cui il desiderio sessuale sarebbe il desiderio del desiderio dell’altro o dell’altra. L’amore sessuale non ha di per sé ovviamente nulla a che vedere con l’amore pratico, che qui Kant chiama «morale». Esso può tuttavia entrare in relazione con quello a patto che si diano certe limitazioni razionali. A patto, vale a dire, che vi sia un contratto a vincolare i due essere esseri umani desideranti. La visione kantiana del matrimonio è nota: il contratto matrimoniale sarebbe l’unione di due persone di sesso opposto finalizzata al possesso e all’uso reciproci dell’organo sessuale del partner (Kant 1977, 390). Le riflessioni kantiane su sesso e amore, nel contesto che qui ci interessa, possono essere ricostruite brevemente così: la definizione dell’amore sensuale, e specialmente sessuale, come patologico non indica qualcosa di necessariamente problematico. L’aggettivo patologico viene utilizzato per descrivere atti e intenzioni motivati e dipendenti dall’elemento sensibile, e dunque non necessariamente “sbagliati”, anche se certamente non morali in quanto non derivanti dal dovere e dal rispetto per esso (Kant 2007, 59, n.*). La passione, però, può diventare ‘pericolosa’ al momento che il godimento sessuale è reso possibile dal possesso e dall’uso del corpo altrui, e rischia dunque di implicare la strumentalizzazione, addirittura la reificazione, del partner. Anzi, la passione sessuale coincide esattamente con l’uso di un’altra persona come mezzo, a meno che la relazione non abbia luogo tra due persone poste sullo stesso piano, cui spetti di diritto l’usufrutto dell’altrui sesso con fini di piacere. E il matrimonio è l’unica istituzione che permette una tale uguaglianza e reciprocità.
Il tentativo di Kant di riavvicinare l’amore sessuale all’ambito morale è quanto meno bizzarro. Innanzitutto, parlare di uguaglianza tra moglie e marito non ha senso fino a quando quest’ultimo venga comunque considerato come «naturalmente superiore» (Kant 1977, 392). Ma non solo: perché il fatto che l’utilizzo dell’organo sessuale altrui, la sua cosificazione, sia reciproco dovrebbe mitigare o annullare il fatto che si tratti appunto di una strumentalizzazione (Kant 1977, 391)? Kant non sta parlando qui della reciprocità del piacere e del desiderio, come nel passaggio citato in precedenza da La metafisica dei costumi, ma proprio del fatto che sia il marito che la moglie abbiano il diritto di trattare il coniuge come una cosa. Il sospetto è che la preoccupazione principale di Kant qui non sia tanto quella di stabilire una connessione tra amore pratico, o morale, e amore sensuale-patologico, quanto quella di riportare la passione entro l’ambito della legalità, domandola. A differenza di Hegel, che vedrà l’istituzione matrimoniale come il necessario riconoscimento sociale e pubblico del legame sentimentale generatosi tra due persone che si amano e si desiderano “, ma non in senso strumentale (Hegel 2006, 309 ss.), l’inclinazione amorosa in Kant non è appresa, assunta, e celebrata dalla e nell’istituzione. La cornice matrimoniale si limita a garantire una patina di rispettabilità alla strumentalizzazione, o cosificazione, reciproca. Kant, probabilmente, ha avvertito anzitempo il ruolo fondamentale che l’amore passionale avrebbe giocato di lì a poco non solo nelle riflessioni dei romantici tedeschi, ma anche nell’organizzazione di una società sempre più individualizzata, e disposta a conferire dignità e potere alle volontà individuali (Luhmann 2008; Giddens 2013). In perfetta consonanza con la sua teoria morale disincarnata, tuttavia, non ha potuto e voluto esplorare le potenzialità più complesse dell’amore per la vita etica (e politica).
La teoria morale kantiana, tuttavia, ci interessa qui limitatamente. La sua idea di patologia, poi, è certamente troppo “sottile” e generalizzata per rappresentare uno strumento di critica sociale. I tratti che caratterizzano quello che lui chiama amore patologico sono però cruciali per l’argomentazione che sto cercando di svolgere. Il punto fondamentale è che per Kant l’amore che ha che fare con i piaceri dei sensi, ma anche altri generi di attaccamento, non possono essere comandati, non sono controllati o condizionabili da leggi, ma semplicemente accadono. Un tale svincolamento dell’amore da ordini normativi esteriori – il fatto che l’amore non si può spiegare a partire da ragioni morali o di altro tipo, ma è esso stesso una fonte di ragioni per l’azione (Frankfurt 2004) – è un’idea potente, anche se non scontata[16], che sarà approfondita dagli autori romantici e dimostrerà di avere significativi risvolti politico-sociali[17]. A partire dalla tarda modernità, i contratti matrimoniali – con tutto quello che ne consegue a livello di auto-rappresentazione individuale, organizzazione del lavoro, riproduzione e trasmissione di ricchezze e capitali, etc. – verranno sempre più giustificati sulla base dell’inclinazione, di quella e del corpo, che per definizione non può essere dettata da imperativi economici, interessi politici, considerazioni di carattere etico o morale. Come notato anche da Kant, gli amanti non possono che essere passivi nei confronti delle loro pulsioni ed emozioni: si dice, e ormai è diventato un cliché, che essi vengono “travolti” da una “forza incontrollabile”, contro cui nulla possono gli inviti alla prudenza o alla ragionevolezza. Un amore autenticamente passionale, secondo questa concezione, è quello che spinge a trascurare impegni presi precedentemente o vincoli di tipo esteriore, per esempio di tipo familiare o lavorativo. Molto spesso, le cose finiscono molto male, e gli strazi non risparmiano nessuno: né gli amanti, che non sono ricambiati o vengono abbandonati dopo aver provato simili emozioni, né coloro che credono che una vita emozionale di questo tipo sia sufficiente a esaurire tutti i bisogni di riconoscimento di una persona, né i compagni e le compagne di quei partner la cui passione viene indirizzata altrove. Un amore di questo tipo è patologico anche in senso etimologico: il termine patologia consiste in un discorso (logos) sulla malattia (pathos), laddove quella malattia che provoca dolore è la matrice anche dei termini “passività” e “passione”.
Diverse sono le ragioni per storcere il naso di fronte a una simile idea di amore. Innanzitutto, come argomentato da diverse posizioni femministe, l’amore romantico e passionale si è dimostrato nocivo soprattutto per le donne. Simone de Beauvoir dedica pagine memorabili, sia ne Il Secondo sesso che nei suoi romanzi, alla descrizione di un’identità di genere che spinge le donne a sacrificarsi e annullarsi per sostenere o semplicemente compiacere i propri compagni, tanto che per loro l’amore diventa un «mortale pericolo» (de Beauvoir 2002, 768). Le riflessioni di Simone de Beauvoir hanno trovato ulteriore conferma nei decenni successivi: numerose sono le ricerche che indagano come le differenze di genere influenzino le relazioni sentimentali tanto da collocare strutturalmente le donne in posizione di sudditanza, sfruttamento (cfr. per es. Jónasdóttir 1994; Gregoratto 2017b) e violenza anche mortale (cfr. per es. Gregoratto 2017a). Calando nel contesto contemporaneo il nocciolo della teoria di Simone de Beauvoir, e indagandola sociologicamente, Eva Illouz mostra come la sofferenza d’amore sia una prerogativa femminile: i partner romantici e la famiglia sono ormai diventati, in un contesto ultra-individualistico in cui i gruppi sociali di appartenenza e le identitàcontano sempre meno, le fonti più importanti di riconoscimento del valore di una donna (Illouz 2015). Sempre Eva Illouz (1997), in una fase precedente della sua carriera, esorta a riflettere sul fatto che ciò che noi consideriamo l’immediatezza dell’emozione è in realtà il prodotto di una fitta trama di operazioni commerciali ed economiche. In Consuming the Romantic Utopia, Illouz mostra i diversi modi in cui l’utopia di una liberazione da vincoli comunitari e di classe, tipica, come abbiamo visto anche prima, dell’amore romantico moderno, è intimamente connessa alla produzione e al consumo di merci massificate e di quelle immagini (per esempio pubblicitarie) finalizzate alla loro diffusione. Adorno aveva del resto già anticipato questa tesi, svelando l’ingenuità ideologica di considerare l’amore, inteso come «involontario», «pura immediatezza del sentimento», quale principio di verità di contro alla falsità della totalità sociale. Coloro che pretendono di seguire i dettami della «voce del cuore», entrando in e uscendo da relazioni sentimentali solo sulla base di questo, non si accorgono di conformarsi pienamente al principio borghese e capitalistico dello scambio e della fungibilità universale delle merci e dunque delle persone (Adorno 1994, 202-203). Nonostante tali remore, nella fase conclusiva dell’articolo, vorrei provare a difendere un’idea di patologia amorosa dialettica, ovvero un’idea di amore come patologia che abbia una funzione di disturbo per la concezione organicistica del sociale. Sempre in riferimento alle figure di relazioni amorose, e amicali, presenti in The Handmaid’s Tale, vorrei raggiungere tale scopo accogliendo e discutendo le obiezioni delineate sopra, ovvero il sospetto che la concezione passionale di amore sia nociva soprattutto per le donne, nonché l’invito a considerare la mediatezza della presunta immediatezza dell’amore (e dell’amicizia).
The Handmaid’s Tale è profondamente consapevole delle insidie insite nell’utopia (per riprendere il termine di Illouz, perfetto in questo contesto) dell’amore passionale per le donne all’interno di un contesto di oppressione di genere[18]. La protagonista Offred-June intreccia diversi legami sentimentali nel corso del romanzo e della serie, tutti “illegali”, atti di sfida e ribellione contro il regime. Consideriamo innanzitutto la sua relazione con il Comandante Fred, il quale, desideroso di allacciare un rapporto più “umano” con la donna che deve cercare di inseminare una volta al mese nella Cerimonia ufficiale, la invita segretamente nel suo studio, di notte, la tenta con oggetti proibiti (alcol, riviste di moda del tempo prerivoluzionario), si intrattiene con lei conversando o giocando a Scarabeo. Più avanti, la trasgressione si intensifica quando Fred la fa agghindare con un vestito di lustrini e perline e la “invita” a uscire, ovvero la porta nel bordello di Stato, ospitato in un vecchio albergo. Fred non costringe la sua ancella a intrattenersi con lui, o ad avere una relazione sessuale al di fuori del ménage à trois con la moglie. Offred-June acconsente alla sua compagnia per paura di ripercussioni, ma anche perché, nelle ore trascorse nello studio o nell’albergo, circondata da libri e oggetti d’altri tempi, sente di recuperare un po’ di quella libertà che le è strutturalmente negata (Atwood 2012, 138). Durante una visita al bordello, riuscirà addirittura a rivedere la sua migliore amica e a portare a termine una missione per la Resistenza. Naturalmente si tratta di un’illusione, e lei ne è consapevole. Questa relazione, anche se illegale, non rappresenta un vero disturbo per il sistema; al contrario, costituisce proprio quell’ordine apparentemente trasgressivo la cui funzione principale è di confermare l’ordine ufficiale. L’affaire con Fred richiama inoltre quelle dicotomie del tempo prerivoluzionario – che è ancora il nostro tempo – parte integrante dell’oppressione di genere: la divisione tra privato e pubblico, la differenza tra relazione sentimentale ufficiale e relazione illegittima, e quella tra donna virtuosa e donna viziosa.
Il motivo per cui la storia tra Fred e Offred-June non può essere nient’altro che un’illusione di libertà è presto detto: i due amanti non sono posti sullo stesso piano. Uno è in una posizione di potere socialmente giustificato e accettato e l’altra è, di fatto, la sua schiava, privata di ogni autonomia e controllo sulla sua vita e sul suo corpo. Un’utile indicazione circa il tipo di legame passionale che può fungere da efficace elemento disfunzionale, e dunque critico, è proprio questa: il trasporto per e il desiderio dell’altro o altra non solo deve essere reciproco; una tale reciprocità deve scaturire da una situazione in cui a tutti gli amanti coinvolti è concesso uno spazio, sia fisico che mentale, in cui riconoscere, esplorare, esplicare il proprio desiderio nel modo più libero possibile, ovvero non intralciato e deformato da preoccupazioni e vincoli esterni. Questo punto diviene meno ovvio se si considera un passo in cui Offred ricorda il marito, Luke, al tempo della prima fase rivoluzionaria. La notte in cui i protagonisti apprendono che una nuova serie di leggi da quel momento in avanti avrebbe vietato alle donne di lavorare e trasferito tutti i loro possedimenti all’autorità maschile più vicina (al padre, al marito), lei realizza di non avere voglia di fare l’amore con lui. Il desiderio sessuale per l’uomo che amava e da cui era sempre stata attratta si era ora affievolito: la perdita dell’indipendenza economica aveva come «rinsecchito», rimpicciolito la donna forte e sicura di sé che era sempre stata, rendendola una «bambola», privandola dunque della capacità di sentirsi e agire come un soggetto sessuale e sentimentale (Atwood 2012, 181). La passività che caratterizza l’amore passionale, dunque, non è separata da una certa agency, capacità di attività: per lasciarsi veramente andare al turbine di emozioni non controllabili, “perdersi” in esse, c’è bisogno che gli amanti siano di per sé sufficientemente indipendenti e autonomi, quindi capaci, a un certo punto, anche di “riprendersi” e ritrovare sé stessi[19]. Questo esempio della relazione tra Offred-June e Luke, nonché l’affaire tra il Comandante e la sua ancella dimostrano, in negativo, che l’agency sessuale ed emozionale delle donne deve essere garantita da certe condizioni sociali ed economiche.
Ci troviamo ora però in una situazione di impasse: in una società che vieta strutturalmente alle donne, a livello sociale, economico, politico e psicologico, le condizioni per sviluppare una tale agency, può l’amore svolgere una funzione di disturbo, può una passione di questo tipo anche solo riuscire a emergere? La relazione tra Offred-June e Nick, l’autista del Comandante, spia del regime e, forse, appartenente al controspionaggio della Resistenza organizzata (Myday), sembra fornire una risposta positiva a una tale domanda. Questa avventura segue il pattern tipico dell’amore passionale: Offred-June e Nick sono intensamente, fisicamente attratti l’una dall’altro, e per trascorrere del tempo insieme, mettono seriamente in pericolo la propria vita. Lei rischia, ovviamente, più di lui. Cruciale, per gli scopi di questo articolo, è il frangente in cui, combattendo contro il senso di colpa per aver “tradito” il marito, che, nella serie TV, sappiamo essere ancora vivo, Offred-June riflette sull’opportunità di considerare la relazione con Nick «un atto di resistenza contro il patriarcato» (cfr. episodio 8 della prima stagione). La sua conclusione, tuttavia, è che questa sarebbe solo una scusa. Il vero motivo che la spinge ad andare a letto con Nick è che questo la fa stare bene, «it feels good», semplicemente[20].
Offred-June ha sia torto che ragione. Ha torto, perché in un regime che tende al soffocamento di qualsiasi diritto, iniziativa, differenza o gioia individuale, la celebrazione di questo tipo di piacere – quel piacere che non ha nessuno scopo al di là di sé stesso, che non ha un futuro, che si fa beffe di qualsiasi tipo di convenzione o morale – è di fatto un atto di ribellione[21]. D’altra parte, Offred-June ha ragione perché una vera ribellione non può esaurirsi nell’unicità dell’esperienza individuale, irrelata e indipendente dal resto delle connessioni sociali e politiche. Ma ciò che l’ancella protagonista sviluppa grazie (anche) alla relazione con Nick è proprio quel tipo di soggettivazione che permette all’individuale, o meglio al particolare, di connettersi in modo dinamico e rivitalizzante al tutto sociale, aprendo dei margini di trasformazione. Con Nick, Offred-June si riscopre un soggetto desiderante e agente. Non solo, quindi, come dicevamo prima, il lasciarsi andare alla passione richiede una certa dose di autonomia e libertà; allo stesso tempo, la passione amorosa – quella passione che non è determinata e non può essere controllata da alcun fattore sociale – può essere vista come un medium per recuperare, o sviluppare, un tale senso di agency. Questo perché, in una relazione d’amore, se da una parte ci si abbandona perdendo il senso di ciò che siamo e vogliamo essere, dall’altra si cerca di portare a galla, esprimere, celebrare l’unicità insostituibile e mai completamente afferrabile propria e dei propri partner. È nei momenti dell’amore che ci si spoglia dei propri abiti, script da seguire, condizionamenti valoriali, norme sociali, preoccupazioni di carattere materiale, per cercare di cogliere – senza naturalmente mai riuscire fino in fondo – l’essenza più profonda di sé e dei propri amanti. Ciò è simboleggiato dal fatto che, nella serie, Nick è l’unica persona a cui Offred-June riveli il proprio vero nome[22].
La ricerca ed espressione della propria irriducibile singolarità, che ha luogo in un rapporto reciproco di «interpenetrazione» (Luhmann 2008), non è qualcosa che avviene solo, come pensava Luhmann, nelle relazioni animate dal desiderio sessuale, ma anche in forme viscerali di amicizia. La serie TV The Handmaid’s Tale è lucidissima nel mostrare questa similitudine tra relazione sessuale e l’amicizia di lunga data che lega Offred-June a Moira, una lesbica di colore cui il sistema, non riuscendo ad assimilarla, assegna il ruolo di Jezebel. Alla fine della prima stagione, Moira riesce a evadere e riparare in Canada. Nel rapporto tra Offred-June e Moira, entrambe cercano di non far dimenticare all’altra ciò che sono veramente, ma anche ciò che possono diventare nel tentativo di spezzare il dominio che le sta schiacciando. L’affetto che nutrono l’una per l’altra le sollecita a creare per sé stesse, ma anche per le altre ancelle, spazi di speranza e azione. Qualcosa del genere si profila anche nell’amicizia che sboccia tra Offred-June e un’altra donna gay, Ofglen.
La ricerca ed espressione della propria singolarità non si limitano dunque a trovare uno spazio all’interno di rapporti passionali e sentimentali, ma fanno saltare le linee di demarcazione tra sfera intima e sfera pubblica, sociale e politica, rendendo i singoli oppressi abbastanza forti da sentirsi uniti nell’oppressione e pronti a ribellarsi in gruppo[23]. Ciò è esemplificato, sempre nella serie TV, dalla breve scena in cui le ancelle marciano compatte, come un esercito, e dalla scena in cui si rifiutano, in massa, di lapidare una loro ex compagna.
Dunque, per tirare le fila di quanto articolato negli ultimi paragrafi, in che senso l’amore, sia nella forma di una relazione sessuale e passionale, sia in quella di un’intensa amicizia, può costituire una patologia, una disfunzione dal punto di vista di coloro che difendono e praticano una concezione organicistica, statica, dell’ordine sociale? Lo è nel senso che la relazione intima è il luogo in cui emerge e si costituisce quella irriducibile, irripetibile e insostituibile singolarità, o particolarità, che non può essere spiegata o assorbita dalle maglie generali di norme, ruoli, leggi, che mai può esattamente coincidere con gli interessi della collettività. L’amore è una patologia perché, dando vita e voce all’irregolarità del particolare, incentiva il disordine, il non-conformismo, la disobbedienza, una spontaneità anarchica che, come l’oiseau rebelle e enfant de Bohême dell’Habanera di Carmen, non solo non conosce leggi, ma non teme neppure la morte. Questo elemento disfunzionale, “impazzito” non coincide semplicemente con un individuo solitario opposto alla comunità, che pretende il rispetto dei suoi diritti individuali e della sua privacy. Nella relazione d’amore e di amicizia, il singolo è per definizione sempre insieme ad altri; è la relazione con altri infatti che fa emergere la differenza singolare, e la differenza, d’altra parte, non si accontenta di sé stessa ma è sempre protesa verso altri, si riverbera su altri, prende senso nelle azioni e nelle emozioni condivise. L’autonomia e libertà dei soggetti desideranti e desiderati non è sfumata ma, al contrario, si costituisce e afferma prima di tutto in queste relazioni, ed è per questo che le condizioni istituzionali, oggettive, sono cruciali per il loro fiorire. Condizioni istituzionali, oggettive, che tollerano e anzi favoriscono le rotture, la messa in discussione, la ribellione, e in ultimo la trasformazione, sono condizioni che non solo garantiscono la salute del tutto sociale, ma che, soprattutto, danno alla società gli strumenti per imparare dai propri mali, e superarli[24]. Una società di questo tipo prende il nome, secondo Dewey, di democrazia.
Affrontiamo ora la seconda obiezione all’idea di amore come risorsa critica: esiste davvero qualcosa come una “forza” della passione che, trascendendo tutte le connessioni sociali, sopraggiunge a sbaragliare l’ordine da queste imposto? Ha senso pensare all’amore come a un oiseau rebelle che non conosce altra legge che la sua? Ancora una volta, la prospettiva dialettica adorniana ci può tornare utile. È vero che, da un lato, Adorno mette in discussione ogni immediatezza e purezza del sentimento. Da ciò però non si può dedurre che le relazioni sentimentali si lascino completamente ridurre a norme sociali, o addirittura a costrutti ideologici[25]. Una tensione tra la determinazione sociale e ciò che non si lascia ridurre al fatto sociale e, anzi, contribuisce alla sua messa in discussione, è inerente all’idea di amore che sto cercando qui di delineare. Importante, per Adorno, è non ipostatizzare il non-sociale in un «principio» (Adorno 1994, 203) normativo in forza del quale si possa tranquillamente criticare la società. L’amore non ci può illudere di essere in grado di fare un salto fuori dal «cerchio magico dell’esistenza», perché anche in questo caso si finirebbe per essere colpiti «dalla stessa deformazione e manchevolezza a cui si propone di sfuggire» (Adorno 1994, 304). The Handmaid’s Tale, del resto, non fa niente per farci cadere in questa tentazione. Tutte le relazioni amorose di Offred-June, anche quella con Nick, che sembra scaturire da un sentimento del tutto naturale, mostrano bene i vari strati di condizionamenti che le hanno rese possibili. Eppure, l’amore riesce a imporsi in modo disfunzionale, per contribuire così al superamento dell’ordine mortale, a patto che non si rappresenti come «oasi pacifica», ma, al contrario, come «resistenza consapevole» (Adorno 1994, 203).
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Note al testo
[1] Come esempi del terzo tipo di patologia, Laitinen e Särkelä citano la diagnosi di Durkheim (2014) della cosiddetta «anomia sociale», ma anche la recente trattazione honnethiana delle «malattie (diseases) sociali» (Honneth 2014).
[2] Non ho il tempo, in questo paper, di esporre il pensiero luhmaniano sull’amore e di discuterne pregi e difetti. In quanto segue, cercherò di menzionare i debiti che le presenti riflessioni hanno contratto con la ricca teoria filosofica e sociologica di Luhmann, nonché di evidenziare alcuni punti di distanza.
[3] La misura in cui il romanzo del 1985 possa essere adattato alla cosiddetta era trumpiana è oggetto di attuale dibattito. Si veda per esempio Atwood (2017); Nally (2017); Douthat (2017).
[4] Si veda anche quello che Honneth (2000) chiama metodo di critica «dischiudente».
[5] Atwood ha infatti dichiarato di non aver descritto, in The Handmaid’s Tale, niente che non fosse già accaduto in qualche momento storico in qualche parte del mondo (Atwood 2017).
[6] Sulla distopia in Adorno si veda per es. Alexander (1998).
[7] Significativamente, tutte queste donne ancora capaci di riprodursi, e dunque essenziali per la sopravvivenza di Gilead, sono allo stesso tempo giudicate «donne perdute» a causa di un passato non esattamente all’insegna dei precetti cristiani. La protagonista Offred-June, per esempio, era sposata con un uomo divorziato, le amiche Moira e Ofglen sono lesbiche, Janine-Ofwarren è la vittima di uno stupro di gruppo, di cui viene ritenuta responsabile. Le ancelle sono reclutate con la violenza, e devono trascorrere un periodo di rieducazione in un istituto (Red Center) prima di essere assegnate a un Comandante. Con questo elemento narrativo, Atwood mostra egregiamente il collegamento, tipico di ogni società afflitta da oppressione di genere, tra giudizio morale e disciplinamento del corpo femminile in vista dell’interesse collettivo.
[8] Nel romanzo, vi è un’ulteriore categoria di donne, le Mogli Economiche (Econowives), le proletarie, che assomigliano alle donne dell’epoca prerivoluzionaria in quanto possono intrattenere normali rapporti con i propri mariti e allo stesso tempo lavorare. Nella prima stagione delle serie TV, tuttavia, non se ne fa menzione.
[9] Per un’eloquente trattazione del romanzo distopico come forma di critica sociale, si veda Moylan (2000), soprattutto i capitoli 5 e 6. Su questa tema, con riferimento ad Atwood, si veda per es. Baccolini (2000).
[10] Da una parte, il controllo del corpo femminile in The Handmaid’s Tale ci può servire da monito in riferimento all’attuale erosione dei diritti riproduttivi (in primis il diritto all’aborto) che si sta attualmente verificando in diversi paesi occidentali, dagli Stati Uniti all’Italia. Dall’altra, la rappresentazione delle disuguaglianze economiche e sociali, che rendono improbabile, utopica, l’idea di una solidarietà femminile universale al di là delle barriere di classe (si veda l’antipatia che contraddistingue il rapporto tra la Moglie del Comandante Fred, Serena Joy, e la sua ancella Offred-June, ma anche tra quest’ultima e le Marta) sembra invece più realistica che mai (cfr. Allen 2017).
[11] Se i bersagli polemici di Atwood erano quelli della fine degli anni Settanta e dell’inizio degli anni Ottanta, tali posizioni femministe non sono del tutto scomparse circa quarant’anni più tardi.
[12] Si veda a questo proposito in particolare la difesa del liberalismo di Judith Shklar (1998).
[13] Con questi riferimenti ai concetti di libertà, che sarebbe utile approfondire, la critica di Atwood all’illiberalismo totalitario contiene allo stesso tempo una critica a certe ingenuità del pensiero liberale.
[14] Un altro elemento che per Dewey ostruisce l’esplorazione, l’apprendimento e dunque la trasformazione è proprio la rigida divisione tra classi sociali; si veda per es. Dewey (2008; 2017).
[15] Nello stesso passaggio in cui ricorda il filosofeggiare di Zia Lydia sulla libertà, Offred rimugina anche sugli abiti («dresses») indossati dalle ancelle e richiama come loro sinonimo il termine «habits», che in italiano si traduce come abiti o abitudini. Gli «habits», commenta, sono «difficili da rompere» (Atwood 2012, 24). L’allusione qui è al fatto che una rivoluzione, per riuscire, non deve semplicemente applicare nuovi simboli e nuove regole da seguire, ma deve anche impegnarsi a cambiare nel profondo, a livello corporale i nostri sentimenti, percezioni e giudizi rispetto a ciò che conta come giusto, giustificato o normale. Così come, secondo la teoria deweyana dell’abitudine, questa per funzionare non deve sopprimere ma anzi favorire la trasformazione, anche l’abito rosso delle ancelle mostrerà le potenzialità per trasformarsi da simbolo di oppressione a elemento identificativo tra gli oppressi e strumento di resistenza.
[16] Recentemente Liao (2006) ha per esempio messo in discussione l’idea kantiana di un amore sensibile non soggetto a comandi morali argomentando in favore di un «dovere ad amare»; vi è un serio dibattito, inoltre, volto a capire se sia possibile, e giusto, condizionare le emozioni legate all’amore con sostanze chimiche con il fine di «potenziare a livello neuronale (neuroenhance)» il matrimonio (si veda per esempio Savulesco e Sandberg 2008).
[17] Sul ruolo sociale e politico dell’idea romantica di amore si veda per es. Luhmann (2008); Ferry (2013); Grossi, West (2017).
[18] In un mio precedente articolo (Gregoratto 2015), avevo parlato del dominio di genere, basato sulla dicotomia tra identità femminili e maschili tradizionali, come di una patologia che affligge la relazione d’amore. In questo articolo la mia prospettiva è diversa, e invita a riflettere sulla possibilità di considerare un certo tipo di amore come una patologia che potrebbe avere, dialetticamente, effetti benefici.
[19] La dialettica tra perdita di sé, annullamento dei confini dell’io, e recupero della propria consistenza ontologica individuale è illustrata nel modo più toccante nel frammento Die Liebe (L’amore) del giovane Hegel francofortese (Hegel 1986, 244-250).
[20] Si noti che Offred-June non indulge troppo nel senso di colpa. Pur non dimenticando l’amore per il marito, che sa essere vivo e libero da qualche parte oltre il confine, nulla la trattiene dal lasciarsi completamente andare alla passione per Nick. Questo particolare, che emerge soprattutto nella serie TV, allude al tema del poliamore, ovvero al fatto che provare dei sentimenti di tipo romantico e passionale per più di un partner allo stesso tempo non solo è possibile, ma rappresenta anche uno strumento di critica sociale. Questo tema, ultimamente sempre più dibattuto sui media ma anche in ambiti filosofici, meriterebbe un saggio ulteriore.
[21] Discutendo la trattazione freudiana del piacere, Adorno collega il «cieco piacere fisico», un piacere senza intenzioni, alla critica della razionalità borghese e capitalistica dominante e addirittura all’utopia (Adorno 1994, 62).
[22] Le ancelle, a Gilead, non sono chiamate con il loro nome di battesimo, residuo di un’istanza prerivoluzionaria di individuazione giudicata pericolosa dal regime, bensì con un nome che indica la loro appartenenza temporanea a un comandante. Il nome Offred rivela dunque che la protagonista appartiene al comandante Fred Waterford, Of-Fred, di-Fred. Il suo vero nome, June, non viene menzionato nel romanzo ma solo rivelato nella serie.
[23] Contrariamente all’interpretazione di Miner (1991), sto sostenendo qui che l’affaire tra Nick e Offred-June non ha una funzione de-politicizzante, ma proprio il suo contrario. Miner, del resto, si riferisce solo al romanzo, in cui in effetti l’elemento di resistenza collettiva non emerge.
[24] Una tale relazione tra salute, o normalità, e patologia viene delineata anche da Canguilhem (1996), a livello di organismo biologico singolare.
[25] Nonostante la ricostruzione di Luhmann sembri ampiamente ispirata – anche se non esplicitamente – a quella adorniana, questo è un punto che li divide: in Luhmann, infatti, l’amore è pensato innanzitutto come codice, è cioè un costrutto storico-sociale, che si evolve nel tempo. Per Adorno, io credo, le relazioni d’amore non si possono che descrivere con riferimento a determinate ideologie e norme sociali, ma al contempo non possono essere completamente ridotte a costrutti sociali, poiché esibiscono un elemento pulsionale, “naturale”, che percepiamo come extra-sociale solo nel momento in cui si pone come negativo rispetto al sociale, ovvero quando riesce a mettere in discussione la forma di vita in cui emerge.