L’amicizia nel Principe

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Annalisa Ceron

Università degli studi di Milano (Dipartimento di Filosofia)

annalisa.ceron@unimi.it

 
 
 
Abstract: This article sheds light on Machiavelli’s view of friendship as a political relationship. As the comparison between Platina’s De Principe and Machiavelli’s The Prince makes clear, the political anthropology, the political ontology and the vision of the world on which Machiavelli realistic idea of politics hinges imply that neither the relationship between a prince and his subjects nor that between the prince and his chosen advisers can be conceived as a form of friendship. What is at stake is not only a new conception of the political meanings and functions of the relationship between a prince and his subjects, according to which friends are unreliable and dangerous allies, but also a new way of conceiving politics, which revolves around the choice of enemies.
 
Keywords: Friendship as a political relationship, Machiavelli, Bartolomeo Platina, fifteenth-century mirrors for princes
 
 
 
1. Note storiografiche introduttive
 

Quella che viene proposta nel Principe è una riflessione così scandalosa che poco dopo essere data alle stampe si pensò fosse stata scritta col «dito del diavolo»1. Lo scandalo consiste nel fatto che quest’opera pone le basi della scienza politica moderna2, scoprendo l’autonomia della politica dalla morale3 e il volto demoniaco del potere4. Se si segue la prospettiva di analisi aperta tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento da alcuni dei più autorevoli intrepreti del pensiero machiavelliano, che restano ancora oggi un punto di riferimento per la critica5, il Principe va letto guardando in avanti, seguendo la via della vera e della falsa ragion di Stato, che s’intreccia con la storia del machiavellismo e dell’anti- machiavellismo6. Per sottolineare l’originalità e la novità della riflessione machiavelliana, in questo articolo proverò a guardare indietro, anziché avanti, tentando di mostrare che il Principe rompe radicalmente con il passato anche sub specie amicitiae.

Quentin Skinner è stato uno dei primi studiosi a sostenere che il capolavoro di Machiavelli può essere compreso meglio se lo si considera come uno speuclum principis che rivoluziona il genere cui appartiene sovvertendo le premesse su cui si fondano le raccolte di consigli quattrocentesche in cui viene dipinto il ritratto dell’ottimo governante (Skinner 1989, 207-244 e Skinner 2006, 155-205). Sulla scia delle analisi skinneriane, Michel Sennelart ha parlato del Principe come di un anti-miroirs des princes e Yves Charles Zarka l’ha addirittura definito un miroir brisè (Senellart 1989, 37-38; Senellart 1995, 46 ss. e Zarka 1994, 114). Come Skinner, Zarka e Senellart non si occupano della concezione machiavelliana dell’amicizia, ma di quella della liberalità, della pietà e di altre virtù che gli umanisti del Quattrocento, a differenza del Segretario fiorentino, ritengono indispensabili perché un principe possa governare bene. Tuttavia, se si considera il Principe come uno specchio infranto, è possibile capire perché Machiavelli si riferisce agli amici nel famoso passo del quindicesimo capitolo in cui sottolinea la singolarità della sua riflessione e in altri passi, non meno cruciali, dell’opera.

Come si cercherà di mostrare attraverso il paragone con uno dei più interessanti specula principum del XV secolo, a causa dell’antropologia e dell’ontologia politica su cui poggia la riflessione machiavelliana, nel Principe non possono prendere la forma dell’amicizia né la relazione tra il principe e i sudditi né quella tra il principe e i consiglieri. In gioco non vi è solo una nuova concezione delle funzioni e del significato politico dell’amicizia, ma anche, e allo stesso tempo, una nuova visione della politica.

 
 
2.1 Il Principe come specchio infranto
 

Il Principe può essere suddiviso in quattro parti distinte, anche se correlate: 1) i primi undici capitoli de principatibus, cui Machiavelli allude nella sua famosa lettera a Francesco Vettori; 2) i tre capitoli che descrivono i diversi tipi di milizia su cui può contare un principe; 3) gli otto capitoli in cui sono esaminate le qualità per cui un principe può essere lodato o biasimato; 4) i tre capitoli finali in cui Machiavelli si chiede per quali ragioni i principi italiani abbiano perso i loro stati e si augura che l’Italia possa presto essere liberata dai barbari. È nella terza sezione dell’opera, tra il quindicesimo e il ventitreesimo capitolo, che il Principe appare come uno specchio infranto perché Machiavelli si confronta criticamente con le idee proposte negli specula principum quattrocenteschi e lo fa, per usare le parole di Gennaro Sasso, «senza indulgere in una tradizione di cui non è ignaro» (Sasso 1993, 422).

All’inizio del quindicesimo capitolo del Principe, Machiavelli sostiene che si occuperà dei modi con cui un principe deve comportarsi con i sudditi e con gli amici. Il riferimento agli amici è degno di nota perché non è immediatamente intuibile per quali ragioni questi possano essere accostati ai sudditi, ma rischia di passare inosservato. L’attenzione del lettore tende, infatti, a concentrarsi sulle successive dichiarazioni con cui Machiavelli sottolinea la incolmabile distanza che separa le analisi che è in procinto di proporre seguendo «la verità effettuale della cosa» dalle riflessioni di quanti hanno scelto la via dell’immaginazione. Vale la pena riportare il passo per esteso:

 

Resta ora a vedere quali debbino essere e’ modi e governi di uno principe o co’ sudditi o con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi maxime nel disputare questa materia da li ordini delli altri. Ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara più presto la ruina che la perservazione sua. (P XV, 1-5, 109-110, corsivo mio)

Pasquale Villari ha suggerito, molto prima di Sasso e di Skinner, che in questo passo Machiavelli stesse alludendo polemicamente non tanto a Platone o agli «scrittori del Medioevo» quanto piuttosto «agli eruditi del XV secolo come il Panormita, il Poggio, il Pontano ed altri molti, i quali avevano sostenuto che il sovrano deve avere tutte le virtù e ne avevano fatto un ritratto ideale di religione, di modestia, di giustizia e di generosità» (Villari 1881, 385). Le analogie e le differenze che sussistono tra la concezione machiavelliana e quella umanistica del principe sono state messe in luce da Felix Gilbert, lo studioso inglese cha ha aperto la via alle analisi skinneriane spostando l’attenzione su alcuni specula principum del XV secolo non menzionati da Villari7. Per farsi un’idea precisa dello sfondo, o meglio del contesto, teorico in cui va collocato il Principe, si può vedere l’elenco delle opere che ha recentemente compilato Gabriele Pedullà. Questi, oltre al De principe di Bartolomeo Platina (1471), il De regno et regis institutionis di Francesco Patrizi da Siena (1481-1484) e il De principe di Giovanni Pontano (1464-1465), su cui Gilbert e Skinner hanno focalizzato le loro analisi, menziona anche i trattati sull’educazione del principe di Enea Silvio Piccolomini, Francesco Filelfo e altri umanisti meno noti8.

In questi specula principum, gli umanisti del Quattrocento riprendono, e rivedono, un’influente tradizione di pensiero che è fiorita durante l’età Carolingia ed è sopravvissuta fino alla prima metà del Settecento9. Da Giona d’Orleans (De institutione regia, 831-840) a Coelestin Herrmann (Idea exacta de bono principe, 1740), passando per Erasmo da Rotterdam (Institutio principis Christiani, 1517), sono stati davvero tanti gli autori che hanno rivolto i loro consigli a un principe per esortarlo a essere un modello – o uno specchio – di virtù per i sudditi. Diversamente dai pensatori medievali, gli umanisti non danno alle loro raccolte di consigli per i principi solo la forma del trattato, ma anche quella del dialogo e della lettera. Nel descrivere le virtù che un principe deve possedere per essere un perfetto governante, continuano a citare l’Etica Nicomachea di Aristotele, che diventa un punto di riferimento già con il De regno di Tommaso d’Aquino e il De regimine principum di Egidio Romano, ma si avvalgono anche di molte altre fonti classiche, le più importanti delle quali sono la Repubblica di Platone10, il De Officiis di Cicerone11, e il De clementia di Seneca12.

L’influenza del De officiis di Cicerone è particolarmente evidente quando gli umanisti distinguono il principe dal tiranno. Negli specula principum di Tommaso di Aquino e di Egidio Romano i principi virtuosi sono contrapposti ai tiranni viziosi perché governano per il bene dei governati anziché per il loro bene. Negli specula principum del Quattrocento, invece, i principi virtuosi sono contrapposti ai tiranni viziosi perché sono amati anziché temuti dai sudditi. Riprendendo il passo del De officiis in cui Cicerone oppone l’amore alla paura perché lo considera il mezzo più adatto e sicuro per proteggere e conservare il potere13, gli umanisti sostengono che il governo del principe può essere stabile e duraturo solo se si basa sulla fiducia e il rispetto dei sudditi. Usando un linguaggio meno ciceroniano, si potrebbe dire che gli umanisti provano a risolvere il problema dell’ordine e della stabilità politica mostrando che il potere di chi governa deve fondarsi sul consenso di chi è governato. In un famosissimo passo del diciassettesimo capitolo del Principe, in cui Machiavelli prende la parola sapendo di partecipare a una disputa in cui è una voce fuori dal coro, l’amore è invece indicato come una delle cause che possono portare il principe alla rovina:

 

Nasce da questo una disputa s’egli è meglio essere amato che temuto o e converso. Rispondesi ch’e’ si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché egli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell’uno de’ dua. Perché degli uomini si può dire questo, generalmente, ch’e’ sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno; e mentre fai loro bene e’ sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli -come di sopra dissi- quando el bisogno è discosto: ma, quando ti si appressa, si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina. Perché le amicizie che si acquistono col prezzo, e non con grandezza e nobiltà d’animo, si meritano, ma elle non si hanno, et alli tempi non si possono spendere, e li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo il quale, per essere gl’uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai. (XVII, 8-11, 117-119, corsivo mio)

L’amore porta il principe alla rovina perché gli uomini, per Machiavelli, sono esseri egoisti e avidi, volubili e instabili, pavidi e insicuri, inclini all’inganno e alla finzione. Si dovrebbe insistere sul fatto che l’antropologia negativa di Machiavelli, vale a dire la sua pessimistica e disincantata concezione dell’uomo, fa sì che la politica sia una realtà inevitabilmente e irriducibilmente conflittuale. Ai fini delle analisi in corso, però, è più utile mettere in luce un altro aspetto della riflessione machiavelliana che non deve passare inosservato. La scelta di considerare gli uomini come effettivamente sono, anziché come dovrebbero essere, porta Machiavelli a dubitare dell’efficacia politica dell’amicizia oltre che dell’amore. L’amore è un legame politicamente inefficace perché non vi sono garanzie che gli uomini rispettino i vincoli e gli obblighi che esso implica. L’amicizia è una relazione politicamente inefficace perché è un rapporto che risulta essere inaffidabile proprio quando dovrebbe servire. Nel passo citato, Machiavelli accenna alla possibilità che esistano delle amicizie basate sulla grandezza d’animo, ma date le premesse antropologiche da cui muove, sembra difficile credere che l’amicizia possa consistere in altro che in un rapporto utilitaristico e strumentale, che si basa esclusivamente sullo scambio di favori e benefici. A rendere politicamente inaffidabile l’amicizia, però, non è solo il fatto che essa è un mezzo per ottenere altri fini, e non un legame gratuito e disinteressato, che è fine a sé stesso. Quel che fa problema, per Machiavelli, è che un principe possa aver bisogno di amici, ma non riesca a contare su di loro perché non ha nulla da offrire per assicurarsi il supporto che chiede.

Perché è necessario spiegare al principe come deve comportarsi con gli amici oltre che con i sudditi? Come gli amici potrebbero essere utili al principe? Perché il principe ha bisogno di amici? E cosa ha a che fare l’amicizia con l’amore? Per cercare una risposta a queste domande, bisogna considerare che all’amicizia sono dedicate ampie ed approfondite analisi in quattro specula principum del Quattrocento: il De institutione regiminis dignitatis di Giovanni Tinto Vicini da Fabriano (ante 1406), che non viene menzionato né da Pedullà né da Skinner, il De principe di Pontano, il De principe di Platina e il De regno di Patrizi. In queste opere, Vicini, Pontano, Platina e Patrizi non si limitano a sostenere che un principe deve essere amato anziché temuto. Come ho mostrato altrove, questi umanisti consigliano al principe come scegliere buoni amici mentre lo invitano ad amare ed essere amato dai sudditi14.

 
 
2.2. L’amicizia nello specchio di Platina
 

Per contestualizzare i riferimenti all’amicizia che si trovano ne passi del Principe che sono appena stati presi in considerazione e in quelli che verranno esaminati in seguito, è utile soffermarsi sul De principe di Platina. Lo speculum principis che quest’umanista ha scritto per Federico Gonzaga è composto da tre parti: la prima e la seconda sono un catalogo delle qualità morali che un principe deve possedere per governare bene i sudditi, mentre la terza spiega come un principe possa mantenersi virtuoso anche in guerra. Platina si occupa dell’amicizia dopo aver preso in esame la benevolenza che il principe deve nutrire nei confronti dei genitori e dei fratelli (pietas), per cui si ha l’impressione che attraverso questa relazione sia possibile estendere la cerchia dei rapporti familiari. La valenza politica dell’amicizia viene messa in luce non appena inizia la sezione Quales amici principum. Platina dichiara, infatti, che
 

Dion ille Prusiensis, qui adeo Traiano familiaris fuit […], de regno scribens “superat” inquit “omnia arma omnes satellites omenm custodiam benevolentia amicorum”. Tot enim aures habent principes, tot oculos, tot manus, tot animos quot amicos. Rerum autem omnium nec aptius est quicquid ad principatum tuendum ac tenendum quam diligi, nec alienus quam timeri […]. Malus enim custos diuturinitatis, ut placet M. Tullio, metus est. (DP, 69)15

Come si evince dalle prime righe del passo citato, gli amici sono paragonati alle orecchie, gli occhi, le mani e l’anima del principe con una metafora organicistica che sembra provenire dalle orazioni de regno che Dione di Prusa scrisse per l’imperatore Traiano (Cohoon 1949, 19, 145, 151, 153). Tale metafora mostra molto chiaramente che gli amici sono gli uomini su cui il principe può contare per amministrare ed esercitare il potere. Ma poche righe dopo il passo citato, Platina si spinge addirittura a sostenere che un principe può affidare «in tutta sicurezza» agli amici le attività politiche che non è in grado di svolgere personalmente16. Qui diventa palese che sono chiamati amici gli aiutanti e i collaboratori di cui il principe può servirsi per governare.

Questa, però, non è la sola funzione politica che l’umanista attribuisce all’amicizia. Subito dopo aver fatto il nome di Dione di Prusa, nel passo citato, Platina chiama in causa anche Cicerone, riferendosi De officiis per sostenere che non vi è niente di più utile che essere amato per «per mantenere e difendere il principato», niente di più dannoso che essere temuto. Dato il contesto in cui è inserita, questa citazione suggerisce che l’amore che unisce il principe ai sudditi sia una forma di amicizia. Non a caso, quando propone una serie di esempi di tiranni antichi e moderni che sono stati temuti anziché amati dai sudditi, Platina specifica che il tiranno si distingue dal principe anche perché conduce una vita in cui non vi è «nessuno spazio per l’amicizia»17. Soltanto a questo punto dell’analisi, per mezzo di un rapido accenno al De amicitia, l’umanista rivela che l’amicizia di cui parla è la vera amicitia che Cicerone contrappone alle amicizie mediocri e volgari, vale a dire l’amicizia basata sulla virtù, che non può che esistere tra i buoni18.

Il ragionamento di Platina può essere compreso meglio, se si distinguono più nettamente di quanto non faccia egli stesso due forme di amicizia basate sulla virtù. In mancanza di termini migliori, propongo di chiamarle “amabilità” e “amicizia intima”. L’amabilità è un’amicizia superficiale ed estesa, che unisce i partners nella benevolenza, nella cortesia e nella gentilezza reciproca, senza richiedere loro di conoscersi a fondo19. L’amicizia intima, invece, è un rapporto personale ed esclusivo, che può sussistere solo tra chi è unito da una profonda familiarità e un’assidua frequentazione. La prima è l’amicizia che unisce il principe a tutti i sudditi su cui governa. La seconda è l’amicizia che lega il principe a quel ristretto numero di sudditi che può effettivamente considerare come le sue mani, le sue orecchie, i suoi occhi e la sua anima quando esercita e amministra il potere. L’una ha una valenza politica perché unisce chi governa a chi è governato generando unità e stabilità. L’altra ha una valenza politica perché permette di individuare i membri dell’élite di governo.

Platina è consapevole che il principe non può essere amico di tutti i sudditi allo stesso modo. E proprio per questo, gli consiglia di scegliere i suoi amici più intimi con cura, preferendo quei boni viri che eccellono per la loro sapienza e le loro qualità morali: «Verum, quia non cum omnibus ob maiestatem dignitatis vivere familiariter princeps potest, deligendi sunt qui ob sapientiam, virtutem et integritatem animi amicitia tua digni habeantur quique merito boni viri appellari possint» (DP, 71).

Come viene spiegato nel capitolo successivo, in cui Platina riflette De nobilibus amicitia principum dignis, gli uomini buoni da scegliere come amici per la loro sapienza e le loro qualità morali sono i sudditi più nobili (DP, 73-75). Attingendo ampiamente dal De nobilitate di Poggio Bracciolini, egli chiarisce che la vera nobiltà non ha nulla a che fare con la ricchezza e con il lignaggio perché dipende solo dalla virtù. Diversamente da Bracciolini, però, Platina sostiene anche che la vera nobiltà è fatta tanto di doti intellettuali quanto di qualità morali. Per capire per quali ragioni la sapienza, la virtù e l’integrità d’animo, nel passo appena citato, sono accostate come se fossero dei sinonimi, si deve volgere lo sguardo verso il capitolo del De principe che è dedicato alla prudenza. Dopo aver precisato che la prudentia (o phronesis) è inseparabile dalla sapientia (o sophia), Platina riprende la tesi platonica dei re-filosofi per affermare che il potere deve basarsi sul sapere (DP, 104). Questo non significa solo che il principe deve essere un governante che ha ricevuto un’educazione umanistica adeguata alla funzione che svolgerà. Questo significa anche che il principe può governare bene solo se i suoi collaboratori e i suoi aiutanti – gli amici che sono le sue mani, le sue orecchie, e i suoi occhi – conoscono la filosofia e gli studia humanitatis.

Da un lato, usando il linguaggio ciceroniano della vera amicizia per indicare le caratteristiche di coloro che noi, oggi, chiameremmo segretari, ministri, o funzionari del principe, Platina prova a imporre dei vincoli morali a un tipo di collaborazione politica che non è ancora un rapporto professionale, ma solo un legame personale. Dato che l’amicizia si fonda sulla virtù ed esiste solo tra i buoni, gli amici da scegliere per essere le mani, le orecchie, gli occhi e la mente del principe, sono collaboratori leali, fedeli e affidabili per definizione. Il ragionamento è evidentemente circolare. Ma se così non fosse, non sarebbe così facile capire che gli amici del principe non sono solo i suoi uomini di fiducia, ma anche dei collaboratori che non potranno tradire la sua fiducia. L’eventualità che essi agiscano in difesa dei loro interessi, anziché per il bene del principe, è infatti esclusa a priori nel momento stesso in cui sono descritti come veri amici. Dall’altro lato, fondando la vera amicizia sulla vera nobiltà, Platina chiarisce che l’élite di governo che aiuta il principe a esercitare e amministrare il potere deve essere un’aristocrazia intellettuale oltre che un’aristocrazia morale. In questo modo, egli tenta di mantenere le porte delle corti ben aperte per gli umanisti come lui: uomini istruiti, ma di umili origini, che sono stati effettivamente scelti come consiglieri e uomini di fiducia dei principi sin dagli inizi del Quattrocento20.

L’idea che gli amici da scegliere con cura siano i consiglieri del principe emerge ancora più chiaramente nel capitolo successivo a quello sulla nobiltà, in cui Platina riflette Contra assentatores. L’adulazione viene equiparata alla lusinga e alla compiacenza seguendo il De amicitia di Cicerone più del Come distinguere l’adulatore dall’amico di Plutarco. Tra un riferimento a Cicerone e l’altro, Platina non prova solo a mostrare che gli adulatori sono cattivi amici, che non possono dare buoni consigli ai principi perché se li ingraziano per riuscire a ottenere un qualche vantaggio personale. Quando contrappone gli adulatori ai buoni consiglieri, egli arriva anche a identificare questi ultimi con gli amici. Diventa così evidente che gli amici del principe sono i consiglieri migliori su cui possa contare perché sono i soli consiglieri capaci di dare consigli onesti e sinceri, che vengono formulati sempre e solo nell’interesse del principe (cfr. DP, 75-79).

 
 
3. Amici, nemici e adulatori: il linguaggio dell’amicizia nel Principe
 

Machiavelli non dedica una sezione del suo speculum principis all’amicizia, ma usa così frequentemente e così pervasivamente il linguaggio dell’amicizia che il lemma friendship è stato inserito nel vocabolario che accompagna una delle più importanti edizioni inglesi del Principe21. Per fare chiarezza sulla concezione dell’amicizia che emerge in quest’opera, bisogna innanzitutto considerare che Machiavelli predilige il plurale: non ricorre mai al termine amicizia”, e si serve del termine “amicizie” e del termine “amici” per designare le alleanze e gli alleati da cui un principe – in particolare un principe nuovo – si trova a dipendere. Il termine “amico” viene usato raramente. Quando è un sostantivo, ha un significato analogo a quello di amici. Quando è un aggettivo, ha valore predicativo e ricorre in un’espressione chiave di cui Machiavelli si avvale per esortare il principe ad «avere il populo amico»22. Nelle prossime pagine mi concentrerò su quelle che mi paiono le occorrenze più significative dei termini di cui consta il linguaggio Machiavelliano dell’amicizia, procedendo con ordine dal terzo al ventitreesimo capitolo del Principe23].

Una parte consistente del capitolo che verte sui principati misti è dedicata all’analisi delle alleanze strette da Luigi XII.  Machiavelli loda il re di Francia sia perché decise di fidarsi di alleati ambiziosi come i Veneziani «volendo cominciare a mettere uno piè in Italia e non avendo in questa provincia amici», sia perché divenne «el re de’ dua terzi» della penisola facendo in modo che «ognuno se gli fece incontro per essere suo amico» (P III 31-35, 20-21). Poi, però, lo critica per non essersi reso conto che l’alleanza con il Papa lo rendeva debole, perché gli toglieva «gli amici e quegli che se gli erano gittati in grembo» (P III 37, 22). Questo esempio è in linea con quello che viene proposto nel sesto capitolo, in cui sono esaminati i principati nuovi che vengono acquistati con armi e virtù proprie. Alla fine di tale capitolo Machiavelli loda Gerone, un privato cittadino che è diventato «principe di Siracusa» alleandosi prima con i Cartaginesi e poi con i Romani, includendo tra le sue straordinarie virtù anche la capacità di lasciare le «amicizie antiche» per prenderne di nuove (P VI 29, 40). Tanto l’esempio di Luigi XII quanto quello di Gerone mostrano che le alleanze, o le amicizie, che un principe stringe non recano necessariamente benefici e non sono sempre vantaggiose. Le ragioni per cui questo accade vengono chiarite tra il quindicesimo e il diciannovesimo capitolo.

Mentre consiglia al principe come comportarsi con i sudditi e gli amici, Machiavelli non nega che esista una qualche differenza tra ciò che è virtuoso e ciò che è vizioso. Semmai, mostra che tale differenza è relativa a, e dipendente da, un nuovo fattore discriminate, che è intrinseco alla politica e sovverte la tradizionale contrapposizione tra il principe e il tiranno: la salvezza dello stato, la conservazione dell’onore e della reputazione che pone il principe in una condizione egemonica, in una parola, la preservazione del potere (cfr. P XV 12, 111). Per Machiavelli, infatti, ciò che permette al principe di mantenere il suo dominio e la sua influenza deve essere considerato degno di lode, anche se implica l’uso di qualità che sono generalmente considerate dei vizi, come la parsimonia e la crudeltà. Al contrario, la liberalità, la pietà, la lealtà, e le altre qualità che sono solitamente considerate virtuose vanno biasimate se diminuiscono l’autorità del principe. Il lato virtuoso dei comportamenti che sono apparentemente viziosi – così come il versante vizioso delle azioni che paiono virtuose, anche se non lo sono – affiora tra le righe del ragionamento machiavelliano mentre vengono esplicitate le premesse antropologiche su cui poggia. Se gli uomini non fossero tristi, ma buoni per natura, il principe non avrebbe bisogno di «partirsi dal bene» ed «entrare nel male» per evitare la sua rovina (P XVIII 15, 126, ma vedi anche P XVIII 9, 125).

Tra le qualità degne di lode, vi sono, com’è noto, anche la forza del leone e l’astuzia della volpe, due caratteristiche ferine che rendono il principe un essere mostruoso, metà bestia e metà uomo (cfr. P XVIII 2-6, 123-124). Quando sostiene che un principe prudente e saggio deve saper «bene usare la bestia e lo uomo» per restare al potere, Machiavelli pone la sua enfasi sull’astuzia di cui la volpe si serve per riconoscere trappole e inside, non sulla forza che è utile al leone per spaventare i lupi24. L’astuzia della volpe sembra cruciale soprattutto quando un principe deve giustificarsi per non aver mantenuto le promesse fatte e non aver prestato fede alla parola data, ma serve anche per altri scopi. Machiavelli, infatti, lega strettamente l’astuzia non solo all’abilità grazie a cui un principe ha «uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano» (P XVIII 15, 152), ma anche alla capacità grazie a cui un principe riesce a farsi lodare per qualità che finge di possedere.

Più Machiavelli svela cosa conta effettivamente e realmente in politica, più riconosce il primato dell’apparenza sulla realtà. Ciò sembra paradossale solo se non si tiene presente che la realtà, per Machiavelli, non è qualcosa di prestabilito, ordinato e coerente, che è fissato una sola volta per tutte, ma qualcosa di mutevole e instabile, sia perché è in costante movimento, sia perché cambia a seconda della prospettiva da cui la si guarda25. Detto in modo forse troppo schematico, l’astuzia della volpe serve al principe non solo perché Machiavelli ritiene che gli uomini non siano buoni per natura, ma anche perché è convinto che il mondo sia un kaos anziché un kosmos, una serie contingente di eventi mutevoli e instabili, che la fortuna domina, ma non regola26. Se la fortuna è il vento capace di sconvolgere ogni aspetto della vita umana e di renderla simile a un fiume che è sempre in piena, l’astuzia è la qualità che consente al principe di non lasciarsi travolgere dalle correnti27. Il principe ha bisogno di tutta la sua astuzia per conoscere chi sono gli alleati su cui può effettivamente contare perché crea alleanze in un mondo instabile e mutevole come un fiume in piena, in cui le relazioni tra gli uomini non possono che essere rapporti utilitaristici e strumentali. Se le premesse antropologiche da cui la riflessione machiavelliana prende le mosse non vengono isolate dalla visione del mondo che emerge nel Principe, è possibile comprendere che gli alleati, per Machiavelli, non possono che essere amici temporanei e potenziali nemici.

Il termine “amico” è esplicitamente contrapposto al termine “nemico” nel capitolo diciannovesimo. Si tratta, com’è noto, del capitolo in cui Machiavelli spiega che essere temuto non significa essere odiato, né essere disprezzato. Subito dopo aver chiarito che un principe viene odiato quando è «rapace e usurpatore della roba e delle donne de’ sudditi» (P XIX 2, 129, ma vedi anche P XVII 13, 119), Machiavelli precisa che questi deve fare i conti con due diverse paure: la paura delle congiure che i sudditi potrebbero organizzare, ossia la paura dei nemici interni, e la paura delle guerre che altri principi potrebbero muovere, ossia la paura dei nemici esterni (cfr. P XIX 6, 154). Per aiutarlo a vincere questa seconda paura, gli ricorda che «sempre, se arà buone arme, arà buoni amici» (P XIX 7, 154). Per aiutarlo a vincere la prima paura, gli spiega come e perché nascono le congiure. Nel diciannovesimo capitolo viene proposta una riflessione molto complessa sulla genesi delle congiure28, che prendo qui in considerazione soltanto perché mostra qual è l’ontologia politica machiavelliana e come questa influenzi la visione dell’amicizia che prende forma nel Principe

Diversamente da Platina, Machiavelli distingue nettamente tra due gruppi, o parti, di sudditi: il «populo» e «i grandi», vale a dire i nobili29. Il Segretario fiorentino non si chiede se la nobiltà sia una questione di lignaggio, di ricchezze, o di virtù morali o intellettuali. Egli dà per scontato che i nobili esistano e prova a mostrare che sono attori politici pericolosi, che hanno interessi specifici, opposti a quelli del popolo e contrastanti con quelli del principe. Nel nono capitolo del Principe è già evidente che nel corpo politico ci sono due umori in conflitto tra loro: il popolo, il quale «desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi», viene contrapposto ai grandi, i quali «desiderano comandare e opprimere el populo»30. Soltanto nel diciannovesimo capitolo del Principe, però, viene spiegato che i grandi sono mossi da una sete di potere che li rende desiderosi di governare al posto del principe, provando, se necessario, a eliminarlo anche fisicamente dalla scena politica.

Machiavelli raccomanda al principe di guadagnarsi l’appoggio del popolo perché è convinto che l’odio sia il terreno di coltura delle congiure31. Spiega altresì che il favore del popolo si ottiene in modo più facile e più sicuro di quello dei grandi, e dura molto più a lungo. I grandi, infatti, vogliono onori e ricchezze in cambio del supporto che offrono, arrivando ad accumularne così tanti da essere una minaccia per il principe. Il popolo si accontenta, invece, di non essere privato dei beni che ha già (cfr. P XIX 3, 129). A legare il principe al popolo è la convergenza d’interessi diversi: sia il principe sia il popolo desiderano contrastare il potere dei grandi, ma l’uno ambisce a mantenere il suo potere, l’altro aspira a salvaguardare le sue proprietà. All’interno di questo complesso bilanciamento d’interessi differenti, che di fatto è un gioco di forze, la relazione tra il principe e il popolo non si configura come un rapporto affettivo, basato sull’amabilità, la gentilezza e l’affabilità reciproca. Si tratta, infatti, di una relazione che non nasce per amore, ma per paura: la paura del principe, che teme che le congiure dei grandi lo porteranno alla rovina, e la paura del popolo, che ha timore di essere privato dei suoi beni. Per di più, il legame che unisce il principe al popolo si basa su un’intesa minimale, che non genera consenso sia perché il popolo non è chiamato a voler bene al principe, sia perché il principe non ha cuore il benessere del popolo e si preoccupa di ottenere da lui quel tanto di stima e di fiducia che basta per permettergli di non essere odiato. Pertanto, anche se il principe deve avere il popolo amico, il rapporto tra il principe di Machiavelli e il popolo non è considerabile come una forma di amicizia analoga a quella che viene descritta nel De principe di Platina. In quello speculum infranto che è il Principe di Machiavelli, il principe deve avere il popolo amico perché questo è l’alleato migliore di cui possa servirsi contro quel potenziale nemico interno che sono i grandi.

Non c’è bisogno di ricordare che politica interna e politica estera, per Machiavelli, sono inseparabili l’una dall’altra. Può, però, essere opportuno precisare che più un principe ha nemici esterni da combattere, più è probabile che goda del favore del popolo (cfr. P XXI 1, 158). Come viene spiegato nel capitolo ventunesimo, infatti, le «grandi imprese», vale a dire le campagne militari contro i nemici stranieri, sono il mezzo migliore con cui un principe può aumentare la stima e la reputazione di cui gode, e quindi preservare il suo potere, non solo presso altri principi, ma anche presso i suoi sudditi. Tale mezzo è preferito a tutti gli altri espedienti che un principe ha a propria disposizione per raggiungere questo fine, inclusi gli onori tributati a chi eccelle in una qualche arte, gli incentivi all’agricoltura e ai commerci, nonché l’organizzazione di feste e spettacoli (cfr. P XXI 25-26, 164-165). Ma le grandi imprese sono un mezzo efficace solo se il principe mostra di essere «vero amico e vero inimico, cioè quando sanza alcuno respetto e’ si scuopre in favore di alcuno contro a uno altro. El quale partito fia sempre più utile che stare neutrale» (P XXI 11-12, 182). Quest’affermazione è degna di nota per due diverse ragioni. Da un lato, mostra più chiaramente di ogni altra che nel Principe l’amico, in quanto sinonimo dell’alleato, è l’antonimo del nemico. Dall’altro, prova che la politica machiavelliana ruota attorno alla scelta dei nemici da combattere32.

La neutralità va evitata, anche se la tenuta delle alleanze a cui si deve il successo delle grandi imprese non è mai garantita, per delle ragioni precise: un principe che non si schiera prontamente e risolutamente perde potere perché chi vince la guerra non farà alleanze con «amici sospetti», che sono stati riluttanti a sostenerlo, mentre chi la perde non farà nulla per soccorrere chi non è corso in sua difesa in passato (cfr.P XXI, 13, 161). È in questo contesto che la prudenza di cui il principe ha bisogno per non far diminuire il suo potere viene a configurarsi come una sorta di saggezza pratica che consente di valutare gli inconvenienti di un’azione in modo da «pigliare el men tristo per buono»33. Questo tipo di prudenza è utile al principe anche per scegliere i suoi collaboratori e i suoi consiglieri. Mentre Platina assimila gli amici ai buoni consiglieri che contrappone agli adulatori, nel ventiduesimo e nel ventitreesimo capitolo del Principe Machiavelli ragiona sulla «elezione dei ministri» opponendo i consiglieri agli adulatori senza mai menzionare gli amici (P XXII 1, 166). Quello che gli preme mostrare è che i consiglieri «sono buoni o no secondo la prudenza del principe», il quale deve far sì che i buoni consigli «naschino dalla prudenza del principe, e non la prudenza del principe da’ buoni consigli»34.

Dati gli assunti antropologici da cui muove Machiavelli, la scelta dei ministri è piena d’inconvenienti. Poiché gli uomini non sono buoni per natura, non è possibile supporre che i collaboratori del principe non aspirino ad avere qualcosa in cambio dei consigli che danno e del supporto che offrono, e proprio per questo essi rappresentano una minaccia per il potere di cui egli dispone. Machiavelli ammette che un principe non possa fare altro che concedere onori e ricchezze a un ministro «per mantenerlo buono». Ma lo esorta anche a farlo in modo da fargli capire che «non può stare sanza lui» (P XXII 7, 167-168). Se il principe non mostra ai ministri che i loro interessi dipendono totalmente dai suoi, non può avere uomini di fiducia su cui contare. Quello che è in gioco, ancora una volta, è il bilanciamento d’interessi diversi, un gioco di forze che non lascia più spazio all’amicizia. Perché il potere del principe non sia minacciato, però, non basta che tale bilanciamento riesca.

Quando contrappone gli adulatori che ingannano il principe con le loro lusinghe ai consiglieri, Machiavelli non esita a riconoscere che il miglior rimedio contro l’adulazione che un principe ha a propria disposizione è la capacità di non sentirsi offeso da chi gli dice la verità, ma sottolinea anche che viene a mancare la «reverenza» quando chiunque si sente libero di dire al principe quello che pensa (P XXIII, 3, 190). Per sfuggire agli adulatori, che ingannano il principe, questi rischia di incorrere in un pericolo peggiore, quello della perdita del potere. Per arginare tale pericolo, Machiavelli non si limita a sostenere che un principe deve «dare libero adito a parlargli la verità» a pochi «uomini savi», che interrogherà singolarmente, e non in gruppo, su questioni specifiche (P XXIII 4, 169 e P XXIII 9-13, 171-172). Egli afferma anche che, dopo aver ascoltato con attenzione la loro opinione, un principe, o meglio un «principe prudente», deve «deliberare da sé a suo modo»35. Mentre Platina tenta di fare spazio ai buoni consiglieri su cui il principe può fare affidamento per governare bene usando il linguaggio dell’amicizia, Machiavelli cerca di preservare l’autonomia del principe limitando l’influenza dei consiglieri che non descrive più come amici.

 
 
4. Considerazioni conclusive
 

Se si considera il Principe come uno speculum infranto, e lo si confronta con il De principe di Platina, è possibile mostrare che in quest’opera Machiavelli non nega che l’amicizia sia una relazione rilevante per la politica, ma la concepisce in modo nuovo e le attribuisce funzioni politiche diverse da quelle che essa aveva in passato. Nel Principe, l’amicizia continua a giocare un ruolo chiave anche se i collaboratori e i consiglieri del principe non sono più chiamati amici perché gli amici sono gli alleati di cui un buon principe sa servirsi riuscendo a non mettere in pericolo il suo potere. Date le premesse antropologiche su cui poggia la riflessione machiavelliana, la relazione tra il principe e i suoi amici non dipende da una serie di qualità morali, ma da una convergenza d’interessi. Le alleanze sono sempre rischiose perché il mondo non è un kosmos, ma un kaos, in cui gli uomini, essendo tristi per natura, non possono che essere amici pro tempore e potenziali nemici. Un principe deve schierarsi apertamente e senza esitazioni a favore di qualcuno contro qualcun altro, anche se l’esito dell’alleanza che stringe non è mai garantito, perché così facendo fornisce una prova della sua potenza, arginando le minacce esterne e interne. Le minacce interne vengono dai grandi, o dai nobili, che potrebbero organizzare congiure per usurpare il potere del principe, mentre il popolo, sentendosi oppresso dai nobili, può essere un alleato, o un amico, del principe. Machiavelli sostiene che principe deve cercare l’amicizia del popolo, ma, data l’ontologia politica che emerge seguendo la verità effettuale delle cose, la relazione tra governate e governati non è concepita come un rapporto affettivo, basato sulla gentilezza, la cordialità e l’affabilità reciproca. Il principe, infatti, viene invitato a cercare l’appoggio di una parte dei governati per difendersi dall’altra, quella che potrebbe mandarlo in rovina. Inoltre, per avere il popolo amico, il principe non deve amarlo né farsi amare da lui: gli basta non farsi odiare, e ci riesce evitando di privare il popolo dei beni che ha già.

Che nel Principe si trovi una nuova concezione del significato e della funzione politica dell’amicizia non è sfuggito a due tra i più celebri lettori francesi di Machiavelli. Tra le massime tiranniche ed empie che Innocent Gentillet confuta nel Discours contre Machiavel (1576) ce n’è una, la decima, secondo la quale «Le Prince ne se doit fier en l’amitié des homes». Gentillet dimostra che un principe deve fidarsi degli amici negando che non si possano distinguere gli uomini buoni da quelli malvagi. Una volta rifiutate le premesse antropologiche da cui muove la riflessione machiavelliana, questi non si limita a descrivere la relazione d’amore che deve esistere tra il principe e tutti i suoi sudditi come una forma di amicizia, ma contrappone anche i consiglieri che sono veri amici del principe agli adulatori che lo ingannano con le loro lusinghe36.

In una famosa lettera che scrive alla principessa Elisabetta di Boemia (settembre del 1646), Cartesio esamina alcuni temi che Machiavelli affronta nel Principe. Egli è disposto ad ammettere «qu’on accouple le renard avec le lion» per combattere i nemici, ma è persuaso che «les ennemis» debbano essere chiaramente e nettamente distinti da «les amis ou allies». Per questo motivo, rifiuta «une espèce de tromperie, qui est si directement contraire à la société, que je ne crois pas qu’il soit jamais permis de s’en servir […]: c’est de feindre d’être amis de ceux qu’on veut perdre, afin de les pouvoir mieux surprendre. L’amitié est un chose trop sainte pour en abouser de la sorte»37.    

Cartesio ritiene che Machiavelli insegni a ingannare e tradire gli amici anziché a non fidarsi di loro. Alla concezione machiavelliana dell’amicizia non contrappone una diversa visione del significato e delle funzioni politiche di questa relazione, ma una generica difesa della sua santità. Queste differenze non possono essere ignorate. Ma qui contano meno di quel che accomuna Cartesio a Gentillet: l’impossibilità di accettare una visione dell’amicizia che per entrambi è troppo scandalosa.

 
 
 
Tavola delle abbreviazioni
 
DP = Platina, B. (1979), De principe, Ferraù, G. (a cura di), Palermo: Il Vespro
P = Machiavelli, N. (2013), Il Principe, Inglese, G. (a cura di), Chabod, F. (con un saggio di), Torino: Einaudi
 
 
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Note al testo
 

  1. Sono le parole che usa il Cardinal Reginald Pole già nel 1539, come ricorda, tra gli altri, Procacci (1995, 87). Tutte le citazioni del Principe sono tratte da Machiavelli (2013), cui d’ora in poi, faccio riferimento con P.
  2. Si pensi a Cassirer, che in Il mito dello stato sostiene che «Machiavelli studiò e analizzò i movimenti politici nello stesso spirito con cui Galileo, un secolo più tardi, studierà il movimento dei corpi che cadono»; ma è bene ricordare che già De Sanctis, nelle Conferenze su Niccolò Machiavelli del 1896, aveva sostenuto che Machiavelli è il «fondatore dei tempi moderni» perché nel Principe si genera la «scienza dello Stato» che affranca la politica, intesa come razionalità sperimentale e autonoma, dall’egida della Chiesa e della religione. Cfr. Cassirer (1950, 226) e De Sanctis (1972, 56-57).
  3. È la tesi di Croce, secondo cui «Il Machiavelli scopre la necessità e l’autonomia della politica, della politica che è di là, o piuttosto di qua, del bene e del male, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta» (Croce 1945, 252). Com’è noto Croce sostiene questa tesi negli Elementi di Politica, un testo del 1925 in cui riprende l’interpretazione proposta da Meinecke in Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, ma si confronta col Principe anche in diversi scritti successivi, e alla fine degli anni Quaranta, in La questione Machiavelli, arriva a criticare il Segretario fiorentino per aver visto un’antinomia tra morale e politica laddove, invece, si dà solo una distinzione (Croce 1967, 176-182).
  4. Mi riferisco, ovviamente a Ritter (1947), in cui, come è noto, vengono riprese alcune tesi di Meinecke (1924).
  5. Per un quadro più approfondito delle interpretazioni novecentesche di Machiavelli si veda almeno Bassani e Vivanti (2006).
  6. Per rendersi conto di quanto sia consolidato questo approccio storiografico è utile Baldini (2000), in cui si trova una bibliografia delle pubblicazioni uscite prima del 1999 su ragion di Stato, tacitismo, machiavellismo e antimachiavellismo.
  7. Gilbert (1964, 109-160); questo contributo di Gilbert, che è uscito nel 1939 col titolo The Humanist Concept of the Prince and “The Prince” of Machiavelli nel 1939 sul «Journal of Modern History», è citato sia in Skinner (1989, 207-244) sia in Skinner (2006, 155-205).
  8. Pedullà (2013, 81-89). Non è ancora chiaro quali siano gli specula princpum che Machiavelli potrebbe aver effettivamente usato come fonte, ma per avere un quadro di questa vexata quaestio resta fondamentale Dionisotti (1980, 227-263).
  9. Per la genesi e lo sviluppo della tradizione degli specula principum, oltre a Quaglioni (1988, 103-122), che arriva sino all’Institutio principis Christiani di Erasmo da Rotterdam, e a Lambertini (2011, 791-797), che si concentra sul De regno di Tommaso d’Aquino e il De regimine principum di Egidio Romano, si veda anche Foresta (2013, 51-70), che dedica particolare attenzione agli specchi dei principi scritti tra la fine del XVI e gli inizi del VIII secolo.
  10. Come chiarisce Vasoli (1980, 151-187), da Uberto Decembrio a Erasmo da Rotterdam, la maggior parte degli umanisti riprende la tesi platonica dei re-filosofi per persuadere i principi che possono diventare ottimi governanti solo se sono consigliati ed educati da loro.
  11. Secondo Pastore Stocchi (1989, 3-68) che riprende le analisi di Skinner, gli specula principum quattrocenteschi sono influenzati soprattutto dal De officiis di Cicerone.
  12. Come mostra Stacey (2007), il De clementia di Seneca influenza soprattutto gli specula principum di Pontano ed Erasmo, a cui viene contrapposto il Principe di Machiavelli.
  13. Cicerone (1991, 146): «Omnium autem rerum nec aptius est quicquam ad opes tuendas ac tenendas quam diligi necalienius quam timeri».
  14. Oltre a Ceron (2011b,  283-484), mi sia concesso rimandare anche a Ceron (2011a), un articolo in cui esamino quattro specula principum umanistici facendo riferimento al Principe senza però offrire un’analisi dettagliata della concezione machiavelliana dell’amicizia.
  15. Tutte le citazioni del De principe sono tratte da (Platina 1979), cui d’ora in poi mi riferisco con DP.
  16. DP, 72: «Quod si (amici) boni erunt, quae per te geri in re publica non potuerunt, horum integritati tutissime committentur».
  17. DP,  70-71: «huius erat tota vita tyrannica in qua (…) nullus erat locus amicitiae»; questo è un topos aristotelico (Eth. Nich. 1161a, 30–35), che viene ripreso anche da Cicerone (De am. XV, 52).
  18. Cfr. DP, 71 e De am. XVIII, 65–66.
  19. Lamicitia viene esplicitamente connessa alla comitas e alla benevolentia in DP, 82.
  20. Sul ruolo dei consiglieri nella corte dei Gonzaga si veda Mozzarelli (1997); per un quadro più generale sul ruolo degli umanisti nelle corti, oltre a Bertelli (1986), è utile Folin (2011).
  21. È il vocabolario stilato da Price in appendice all’edizione del Principe curata da lui e da Skinner: (Machiavelli 1988, 113).
  22. P IX 18, 71: «a uno principe è necessario avere il populo amico, altrimenti non ha nelle adversità remedio», ma si veda anche P IX 14, 70 e P XXIV 5, 173.
  23. Come si può constatare facilmente, se si consulta l’edizione on line del Principe del sito Biblioteca Italiana , due delle cinque occorrenze totali di “amicizie” si trovano nel sesto capitolo dell’opera; “amico” è usato solo dodici volte, di cui tre nel nono capitolo, due nel ventunesimo capitolo; “amici” ricorre per ventisette volte, di cui sette sono nel terzo capitolo, sei nel diciannovesimo capitolo; [http://ww2.bibliotecaitaliana.it/xtf/view?docId=bibit000214/bibit000214.xml, [consultato il 5 settembre 2017
  24. P XVIII 7, 150: «coloro che stanno semplicemente in sul lione non se ne intendono».
  25. Vale la pena ricordare che in Ménissier (2010, 187-214) la visione machiavelliana della politica è analizzata in parallelo alla teoria della prospettiva di Leon Battista Alberti, prendendo le mosse dai famosi passi della dedica del Principe a Lorenzo di Piero de’Medici, in cui il Segretario fiorentino si paragona ai pittori che dipingono paesaggi guardandoli dall’alto o dal basso.
  26. La contrapposizione è ripresa da Barbuto (2008, 39-78). Sul ruolo della fortuna in Machiavelli si veda almeno Brown (2013). Sia Brown sia Barbuto prendono le distanze da Parel (1992) perché ritengono che si debba dare meno enfasi alla credenza machiavelliana nelle forze occulte dei cieli e degli umori per spiegare quale sia la visione del mondo del Segretario fiorentino.
  27. Come si è già visto, la fortuna è paragonata al vento in P XVIII 15, 127, mentre è descritta come un fiume in piena (che può essere arginato dalla virtù della prudenza) in P XXV 4-7, 176-177.
  28. Per un’analisi approfondita della concezione machiavelliana delle congiure, oltre alle analisi che Campi proporne in Machiavelli (2014), si veda Geuna (2015).
  29. Sia in Machiavelli (1988, 34 e 86) sia in Machiavelli (2008, 35, 65 e 83) i grandi viene tradotto con the nobles. Segue questa traduzione, riferendosi al nono capitolo del Principe oltre che a vari passi dei Discorsi anche Najemy  (2010, 104-106), in cui viene suggerito che nella categoria dei grandi rientrano sia le famiglie patrizie ed ottimatizie in una repubblica sia i membri dell’élite di governo in un principato.
  30. P IX 2-9, 67-69; in P XIX 31, 137, quando Machiavelli usa il linguaggio degli umori per riferirsi alla situazione politica che si crea a Roma quando non è più una repubblica, gli umori che sono in conflitto tra loro sono diversi: se governa l’imperatore, l’opposizione principale è quella tra il popolo e i soldati, se governa il principe, è quella tra il popolo e i nobili.
  31. P XIX 10, 131: «E uno de’ più potenti remedi che abbia uno principe contro alle congiure, è non essere odiato da lo universale: perché sempre chi coniura crede con la morte del principe satisfare al populo, ma quando creda offenderlo non piglia animo a prendere simile partito».
  32. La tentazione di considerare Machiavelli come un precursore, o un ispiratore del concetto del politico di Schmitt è forte, ma non bisogna cadere in essa. Come ha dimostrato Galli (2005, 123-142), infatti, «Schmitt pensa Machiavelli in modo estemporaneo e esterno» perché questi «non riesce ad essere per lui, a differenza di Hobbes e Donoso Cortés, una presenza centrale alla modernità» (Galli 2005, 123) e «la stessa invenzione lessicale del ‘politico’ come rapporto amico/nemico non deriva a Schmitt da Machiavelli ma da un autore spagnolo d’età barocca, Alamo de Barrientos» (Galli 2005, 132).
  33. P XXI 24, 164: «Né creda mai alcuno stato potere pigliare sempre partiti sicuri, anzi pensi di avere a prenderli tutti dubi; perché si truova questo, nell’ordine delle cose, che mai si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro: ma la prudenza consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti e pigliare el men tristo per buono». Sulla concezione machiavelliana della prudenza, mi limito a rimandare a Taranto (2003).
  34. Ibidem e P XXIII 14, 172.
  35. P XXIII 4, 169. Per una disamina approfondita della distinzione tra consiglio e deliberazione nel Principe si veda Damien (2001).
  36. (Gentillet 1974, 317-320).
  37. Le citazioni della lettera di Cartesio sono tratte da Guenancia (2008, 119).
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