Raffaele Carbone
Università di Napoli Federico II
raffaele.carbone@unina.it
Abstract: In this article, I put forward a particular reading of the chapter “De l’amitié” from Montaigne’s Essais, which also draws upon other chapters with which it can be compared. Having dealt with the well-known question of the relationship between Montaigne and La Boétie, I go on to highlight those aspects which characterize the Montaignian model of perfect friendship compared with the paradigms of the ancient world, particularly that of Aristotle. I draw particular attention to the features of autonomy (as opposed to “heteronomous” friendships, the purpose of which is not to be found in the relationship of friendship itself, but elsewhere, in other matters), of mixing (the confusion of wills) and the abolition of the set of attitudes, practices and expectations (such as obligation, gratitude, prayer, thanksgiving) which imply a dividing and hierarchical temporality: a clear division at the heart of the relationship of friendship, which the perfect friendship counters with a synchronic temporality and symmetrical motion. Finally, I will explore a political reading of the chapter by means of the concept of brotherhood, as a possible expansion of the model embodied by the relationship of friendship between Montaigne and La Boétie.
Keywords: Montaigne, autonomy, mixture, reciprocity, confraternity
1. «De l’amitié»: Montaigne e La Boétie
Nel tracciare un percorso sul tema dell’amicizia in Montaigne va preso in esame un noto capitolo degli Essais, «De l’amitié» (I, 28). Questo saggio si struttura secondo una pluralità di piani in cui emergono:
a) il personale rapporto di amicizia che legava Montaigne a Étienne de La Boétie, scomparso qualche anno prima della redazione del testo in questione;
b) un chiaro riferimento al concetto di amicizia delineato nel Discours de la Servitude volontaire di La Boétie e che, in questo autore, non designa un rapporto affettivo ma un modello di relazioni sociali incompatibile con l’ingiustizia e con la soggezione;
c) la posizione di Montaigne sul significato e sul valore dell’amicizia che emerge dal confronto con le concezioni degli autori antichi, in particolare Aristotele.
In questo articolo, pur richiamando il rapporto tra Montaigne e La Boétie (su cui esiste una consistente letteratura critica, che evochiamo in parte nelle note), ci soffermiamo principalmente sugli aspetti della concezione montaignana dell’amicizia che la caratterizzano rispetto al modello aristotelico, sulle problematicità di tale concezione e sulle sue potenzialità e aperture.
Nella prima parte del saggio, dopo un incipit molto celebre nel quale Montaigne paragona i suoi saggi alle grottesche, entra subito in scena La Boétie e il suo Discours de la servitude volontaire, che fu pubblicato con questo titolo nel 1576 nei Mémoires de l’État de France sous Charles IX, con altri scritti che contestavano la monarchia dei Valois. Nel 1571 Montaigne aveva fatto pubblicare le opere di La Boétie, ad eccezione del celebre Discours, in un unico volume che includeva traduzioni di Senofonte e di Plutarco, i versi latini e un discorso di Montaigne stesso sulla morte dell’amico[1].
Montaigne menziona il libello dell’amico sulla servitù volontaria con l’altro titolo con cui era conosciuto o piuttosto con cui è stato «ribattezzato»: Le contre un. «Lo scrisse a mo’ di saggio – scrive il bordolese –, nella sua prima giovinezza, in onore della libertà, contro i tiranni» (Montaigne 2012, 332-333). Poi nota che, se l’amico fosse vissuto più a lungo, avrebbe certamente pubblicato opere «di raro pregio», in grado di rivaleggiare con gli antichi e di superare lo stesso Discours. A questo scritto – «tutto quello che ho potuto recuperare di ciò che resta di lui» –, Montaigne, erede della biblioteca e delle carte di La Boétie (come sottolinea in couche C), era particolarmente legato, in quanto aveva costituito il primo contatto lui:
Infatti mi fu mostrato molto tempo prima che lo vedessi, e mi fece per la prima volta conoscere il suo nome, avviando così quell’amicizia che abbiamo nutrito tra noi, finché Dio ha voluto, così completa e perfetta (si entière et si parfaite) che certo non si legge ne sia esistita un’altra simile, e fra i nostri contemporanei non se ne trova traccia alcuna. Per costruirne di simili è necessario il concorso di tante cose che è già molto se la fortuna ci arriva una volta in tre secoli. (Montaigne 2012, 332-333)
Montaigne precisa in due punti (Montaigne 2012, 333 e 353-355) che il saggio sull’amicizia avrebbe dovuto precedere proprio il Discours de la Servitude volontaire, incastonato nel posto più bello, al centro del primo libro degli Essais, e non elimina queste indicazioni quando decide di non inserirlo perché gli ugonotti, pubblicando clandestinamente il testo di La Boétie, lo avevano utilizzato per i loro fini particolaristici. La riflessione di Montaigne sull’amicizia si inscrive dunque sotto il segno di La Boétie[2] ovvero, più dialetticamente, sotto il segno di una doppia assenza: la morte dell’amico e la rimozione del Discours de la Servitude volontaire dagli Essais[3]; essa sembra così configurarsi come un ricordo che nello stesso tempo dimentica[4] o come un rimuovere che contemporaneamente conserva la memoria nell’assenza.
2. Montaigne e le concezioni dell’amicizia nell’antichità
Dopo questa prima rievocazione dell’amicizia che lo ha legato a La Boétie, Montaigne tematizza il ruolo e il senso dell’amicizia nelle società umane e fa riferimento alle concezioni dell’amicizia che l’antichità ci ha lasciato in eredità.
Il bordolese interpreta l’amicizia come una forma particolare di quella socialità originaria propria della natura umana. Se la natura sembra aver piantato nell’uomo un’inclinazione speciale per la società, l’amicizia costituisce il culmine di questa natura sociale dell’essere umano. Qui Montaigne (2012, 332-333) menziona esplicitamente Aristotele (Etica Nicomachea, VIII, 1155a), secondo il quale «i buoni legislatori hanno avuto più cura dell’amicizia che della giustizia»[5], ma dopo questo riferimento, Montaigne fa capire in modo più o meno velato che la posizione degli antichi (Aristotele e Cicerone) sulla questione va corretta. Il bordolese insiste infatti sulla necessità di distinguere l’amicizia da altri tipi di legami e di solidarietà. In primo luogo, a suo avviso, bisogna evitare di confondere l’amicizia con certi tipi di relazioni in cui il piacere o il profitto, il bisogno pubblico o privato creano, condizionano e alimentano la relazione stessa, e che «sono tanto meno belle e generose, e tanto meno vere amicizie, in quanto mescolano all’amicizia altra cagione e scopo e frutto (en sont d’autant moins belles et généreuses, et d’autant moins amitiés, qu’elles mêlent autre cause et but et fruit en l’amitié, qu’elle même)» (Montaigne 2012, 332-335). Sembra che Montaigne percepisca in queste amicizie lacunose e imperfette («tanto meno belle e generose, e tanto meno vere amicizie») una sorta di “eteronomia”, nel senso che l’origine, la ragione e la finalità della presunta relazione di amicizia – e la norma stessa, il principio che la anima – non risiedono nella relazione stessa e nel suo perfezionarsi nel corso del tempo, ma sono altrove; esse sono altra cosa rispetto al tipo di rapporto che egli sta descrivendo al lettore. Montaigne aggiunge pertanto: «né quei quattro tipi di amicizia dell’antichità: naturale, sociale, ospitale, erotica, vi si confanno, singolarmente o complessivamente» (Montaigne 2012, 334-335).
A questo punto il bordolese esplicita la sua posizione rispetto alle concezioni dell’amicizia trasmesse dall’antichità e distingue questo sentimento dai seguenti legami:
a) i vincoli familiari, e segnatamente la relazione padre-figlio, che non si basano sulla libera volontà e implicano disparità notevoli;
b) le relazioni affettive nell’ambito matrimoniale, che in una certa misura generano asimmetria, frustrazione e alienazione;
c) le relazioni omosessuali, che presuppongo una disparità tra gli amanti.
Quanto alla relazione padre-figlio, essa ruota intorno al rispetto dei secondi verso i primi. «L’amicizia si nutre di una comunione (se nourrit de communication) che tra loro non può esservi, per la troppo grande disparità, e offenderebbe forse i doveri di natura» (Montaigne 2012, 335). Il divario che esiste tra padre e figlio comporta dei limiti alle modulazioni di questa relazione: ad esempio, i padri non possono comunicare tutti i loro pensieri ai figli per «non generare in essi una sconveniente dimestichezza», né i figli posso ammonire o correggere i padri, come invece un amico può fare. D’altro canto non tutti hanno le stesse idee sugli atteggiamenti da tenere e i doveri da adempiere nell’ambito di questa relazione, e per di più da un paese all’altro i costumi variano notevolmente (ci sono popoli presso cui si soleva uccidere i propri padri, e altri presso cui erano i padri a uccidere i figli per impedire che si ostacolassero l’uno con l’altro). Inoltre, padre e figlio possono manifestare personalità e indoli assolutamente diverse, il che rende impossibile quell’intima comunione che caratterizza la vera amicizia (Montaigne 2012, 334-335). Montaigne sta in effetti cominciando a indicare in positivo cos’è per lui l’amicizia.
C’è però ancora un punto, decisamente importante, su cui occorre soffermarsi quando si legge questa pagina sulla relazione padre-figlio. Per quanto questo legame possa essere pregno di sincero affetto o di riguardo e rispetto – come nel caso stesso di Montaigne –, esso non nasce da una scelta libera e volontaria, il che costituisce un ulteriore e decisivo limite che gli impedisce, agli occhi del bordolese, di godere del crisma della vera amicizia:
E poi, quanto più si tratti di amicizie che ci vengono imposte dalla legge e dal dovere naturale, tanto meno entrano in gioco la nostra scelta e la nostra libera volontà. E la nostra libera volontà (notre liberté volontaire) non produce niente che sia più propriamente suo dell’affetto e dell’amicizia. (Montaigne 2012, 334-335)
Montaigne prende poi in considerazione il legame erotico-affettivo che può instaurarsi tra un uomo e una donna. Anche in questo caso, non è possibile parlare di amicizia, anzi tra l’amore e l’amicizia sembra delinearsi una relazione di vera o propria opposizione, ma un’opposizione che non genera mai una competizione:
Ma [l’affetto verso le donne (l’affection envers les femmes)] è un fuoco cieco e volubile, ondeggiante e vario, fuoco di febbre, soggetto ad accessi e pause, e che ci occupa da un lato solo. Nell’amicizia, è un calore generale e totale, del resto temperato e uguale, un calore costante e calmo, tutto dolcezza e nitore, che non ha nulla di aspro e pungente. E per di più, nell’amore non è che un desiderio forsennato di ciò che ci sfugge […]. Appena entra nei termini dell’amicizia, cioè nell’accordo delle volontà, svanisce e s’illanguidisce. Il goderne lo annulla, in quanto il suo fine è corporale e soggetto a sazietà. L’amicizia, al contrario, si gode a misura che la si desidera, e si innalza, si alimenta e cresce solo godendone, in quanto è spirituale, e l’anima si affina con l’uso […]. Così queste due passioni sono entrate in me in conoscenza l’una dell’altra, ma mai in competizione. (Montaigne 2012, 336-337)
Il riferimento all’affetto verso le donne permette a Montaigne di aggiungere ulteriori tasselli alla sua caratterizzazione dell’amicizia: se l’amore è un sentimento irragionevole, incostante, mutevole, scandito da un alternarsi di alti e bassi, con picchi di grande passione e momenti di raffreddamento, l’amicizia – in questo passo connotata attraverso metafore e sinestesie, attinte alla sfera della percezione tattile – è contrassegnata dalla costanza, dalla continuità e dalla stabilità. Inoltre, se l’amore è una passione che fa leva sul corpo e, come ogni altro desiderio e piacere corporei, una volta soddisfatto, genera sazietà o assuefazione, l’amicizia ha una natura spirituale, il che la preserva dalla discontinuità e dall’alternanza tra il desiderio/mancanza e l’appagamento del desiderio che disinnesca, sia pur temporaneamente, la tensione erotica interrompendo per qualche tempo la ricerca del piacere. In sintesi, l’amicizia gode di una prerogativa che la rende irriducibile all’amore fisico: si alimenta costantemente sia con il desiderio della relazione sia con il suo stesso fruirne.
Nel seguito del saggio Montaigne si sofferma sui legami matrimoniali, che rappresentano un caso particolare dei legami affettivi tra uomo e donna. Il matrimonio è presentato dal bordolese in termini giuridici. Si tratta di un «accordo dove soltanto l’ingresso è libero – la sua durata essendo costretta e forzata, dipendendo da altro che dalla nostra volontà –, e un accordo che si fa in genere per altri fini, vi sopravvengono mille garbugli estranei da districare, sufficienti a rompere il filo e turbare il corso di un vivo affetto; laddove nell’amicizia si ha a che fare solo con essa, e solo con essa si tratta» (Montaigne 2012, 337-339). In altri termini, quando la passione amorosa si traduce nel matrimonio, entrano in gioco altri scopi e tante altre complicazioni esterne (Montaigne dice: «mille fusées étrangères à démêler», «mille garbugli estranei da districare») che minacciano e turbano l’autenticità del sentimento. Qui, per contrassegnare ulteriormente la linea che la distingue dal matrimonio, il bordolese ribadisce che l’amicizia è una relazione che non si piega a regole e fini esterni, è “auto-centrata”, non rinvia a un fine che sia fuori di essa e altro rispetto ad essa.
Quanto all’amore omosessuale, com’era praticato presso i Greci – «quell’altra licenza greca (cette autre licence Grecque) [che] è giustamente aborrita dai nostri costumi» –, esso presentava «una così necessaria disparità d’età e differenza di servigi fra gli amanti» da non poter realizzare quella «perfetta unione e armonia» che l’amicizia esige (Montaigne 2012, 338-339). Montaigne fa esplicitamente riferimento alla testimonianza su questo tipo di relazione che ci ha lasciato Platone e, in sintesi, vi coglie da un lato una preponderanza della corporeità – anche se in essa si perseguiva una certa finalità spirituale in virtù della sua dimensione pedagogica –, dall’altro un’asimmetria nei ruoli che non collimano con la spiritualità e l’armonia dell’autentica amicizia.
3. Verso la caratterizzazione montaignana dell’amicizia
Nel tratteggiare l’amicizia, Montaigne – si è visto – usa una tecnica argomentativa che si basa – soprattutto in questa prima parte del saggio – sul confronto con altri tipi di relazione (rapporto padre-figlio o vincoli di fratellanza, legami uomo-donna, relazioni omosessuali) e sull’individuazione di quelle caratteristiche che distinguono l’amicizia stessa da questi ultimi. Queste pagine confermano quanto l’autore ha chiarito all’inizio: l’amicizia è una modulazione della natura sociale e politica dell’essere umano e anzi ne costituisce l’apice, il punto di massima espressione. Infatti, attraverso questo serrato confronto con altre relazioni, Montaigne inserisce l’amicizia nel quadro più ampio dei legami umani. In particolare,
a) i legami familiari costituiscono il fondamento e la prima esperienza che ciascuno fa della condizione sociale di essere umano;
b) il legame uomo-donna rappresenta nella dimensione matrimoniale un accordo che gode di uno statuto giuridico e si inserisce quindi nel quadro di comunità umane in cui i legami spontanei e naturali tra i loro componenti si canalizzano e si codificano in una complessa sfera di formalità e convenzionalità;
c) la relazione omosessuale costituisce una variante, storicamente attestata, del rapporto tra uomo e uomo, che pure si segnala per precisi ruoli e finalità che allargano il ventaglio delle forme della socialità.
Irriducibile a queste forme di relazione, l’amicizia si contraddistingue per il suo carattere speciale, se non addirittura eccezionale. Così comincia a delinearsi il volto della autentica amicizia, che si rivela come accordo delle volontà instaurato tra pari per una decisione di libertà volontaria (Montaigne 2012, 334-335), vale a dire l’opposto della servitù volontaria che regge e perverte le società fortemente gerarchizzate. Questo ideale di amicizia sembrerebbe postulare il principio della reciprocità tra uguali, quel principio messo in luce da La Boétie come fondamento della comunità degli uomini liberi[6]. In altri termini, contro Aristotele e contro la concezione tradizionale della philía, il bordolese sostiene che non può germogliare autentica amicizia dove esistono costrizione, disparità, rapporti di subordinazione e gerarchia, mentre le relazioni di philía includono anche interazioni reciproche asimmetriche regolate da rapporti d’autorità. Montaigne – come ha scritto Tournon (2006, 239) – fa valere qui il postulato in virtù del quale La Boétie aveva dedotto la libertà degli uomini dalla fraternità naturale che dovrebbe farne dei pari.
4. Autonomia ed eteronomia, divisione e comunione
Nel seguito del capitolo I, 28, esauriti i confronti, Montaigne considera la nozione comune che si ha dell’amicizia, l’uso che ordinariamente si fa di questo concetto. Egli dunque sottolinea:
[A] Del resto, quelli che chiamiamo abitualmente amici e amicizie, sono soltanto dimestichezze e familiarità annodate per qualche circostanza o vantaggio (accointances et familiarités nouées par quelque occasion ou commodité), per mezzo di cui le nostre anime si tengono insieme (nos âmes s’entretiennent). Nell’amicizia di cui parlo, esse si mescolano e si confondono con un connubio così totale da cancellare e non ritrovar più la commessura che le ha unite (En l’amitié de quoi je parle, elles se mêlent et confondent l’une en l’autre, d’un mélange si universel qu’elles effacent et ne retrouvent plus la couture qui les a jointes). Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere [C] che rispondendo: “Perché era lui; perché ero io” (Si on me presse de dire pourquoi je l’aimais, je sens que cela ne se peut exprimer [C] qu’en répondant: parce que c’était lui: parce que c’était moi). (Montaigne 2012, 340-341)
A partire da questo punto Montaigne insiste sulla rarità della vera amicizia. In tal senso, al di là dell’esperienza strettamente personale, sembra aver presente ancora l’Etica Nicomachea. Sempre nella prima parte del libro VIII (1155a) Aristotele nota che l’amicizia non è soltanto qualcosa di necessario, ma anche di «moralmente bello»: «infatti coloro che amano attorniarsi di amici vengono lodati, e l’abbondanza di amici è giudicata una delle cose belle, e alcuni credono perfino che se un uomo è moralmente retto è anche amico» (Aristotele 2008, 787). Qui Aristotele sta riportando un’opinione comunemente diffusa ai suoi tempi. Ora Montaigne – come del resto Aristotele – non crede che tale «abbondanza di amici» (Aristotele 2008, 1156b, 787) sia realmente possibile[7]. Nel passo appena citato il bordolese spiega che spesso utilizziamo impropriamente i termini “amici” e “amicizie”: si tratta in realtà di «dimestichezze e familiarità annodate (accointances et familiarités nouées) per qualche circostanza o vantaggio (par quelque occasion ou commodité)». Coerentemente con quanto ha già messo in luce, egli spiega che la vera amicizia è disinteressata, non può fondarsi su ragioni occasionali né sulla speranza di ricavare un profitto – come pensava anche Aristotele, che inseriva questi legami nell’ampia sfera dell’amicizia, ma riservandosi di rilevare che essi «rappresentano delle amicizie solo accidentalmente» e che in ogni caso «simili amicizie sono destinate a durare poco» (Aristotele 2008, 1156a, 791)[8]; idea, questa, rielaborata poi da Cicerone: «se l’utilità unisse le amicizie, mutata che fosse, anche la scioglierebbe» (Cicerone 1994, 108-109)[9].
La vera amicizia, secondo Montaigne, non può dunque essere né occasionale, legata a circostanze particolari e contingenti, né “eteronoma”, cioè non può trovare la sua ragion d’essere in un vantaggio o profitto particolare che si persegue e che così finisce per costituire la norma esterna, la ragion d’essere estrinseca del legame con l’amico. La presunta relazione di amicizia legata all’“occasione” e alla “circostanza” non regge, a meno che non trascenda la ragione occasionale che l’ha prodotta e si trasformi in qualcosa di più essenziale. La relazione fondata sulla ricerca del vantaggio personale non può avere nulla in comune con l’amicizia tratteggiata da Montaigne, che – come vedremo a breve – si presenta come mélange, mescolamento, fusione degli intenti e delle volontà, mentre la finalità “eteronoma”, “deviante” del beneficio personale, ponendo sempre in primo piano l’esigenza e il profitto di una delle due parti o anche di entrambi, le mantiene separate, distinte: in tal caso non c’è connubio ed è sempre possibile rintracciare la couture, la cucitura che ha unito queste dimestichezze e familiarità.
5. Le amicizie fiacche e irregolari e l’amicizia perfetta
Soffermandosi sulla sua amicizia con Étienne de La Boétie, germogliata tardi, quando entrambi erano ormai «uomini fatti», Montaigne ricorda una lettera dell’amico in cui questi metteva in luce «la rapidità della [loro] intesa», che «non poteva conformarsi al modello delle amicizie fiacche e regolari (se régler au patron des amitiés molles et régulières), per le quali occorrono tutte le precauzioni di una lunga frequentazione preliminare» (Montaigne 2012, 342-343). Se, alla luce dell’esperienza comune, si pensa all’amicizia al plurale secondo uno spettro di variazioni e modulazioni, va subito chiarito che queste forme plurali restano più o meno distanti rispetto al modello di amicizia autentica che ha in mente il bordolese, quello in cui si realizza una condivisione profonda di sentimenti e di idee. L’amicizia messa in luce da Montaigne «non ha altra immagine che se stessa, e non può paragonarsi che a sé (Cette-ci n’a point d’autre idée [que] d’elle-même et ne se peut rapporter qu’à soi)» (Montaigne 2012, 342-343). Esistono, certo, altre forme di relazione che possiamo denominare, con lo stesso Montaigne, «amitiés communes», «amitiés ordinaires et coutumières», che possono essere «perfette nel loro genere», ma vanno ben distinte dall’amicizia-mélange. «In queste altre amicizie bisogna procedere con le redini in mano, con prudenza e precauzione: il legame non è annodato in modo tale che non si debba assolutamente diffidarne (La liaison n’est pas nouée en manière qu’on n’ait aucunement à s’en défier)». Si tratta di quelle amicizie per le quali calza bene «il motto che Aristotele aveva tanto familiare: “Amici miei, non esistono amici”» (Montaigne 2012, 344-345)[10].
Chiariti i distinguo di Montaigne all’interno del campo plurale di quelle che sono comunemente considerate relazioni di amicizia, soffermiamoci ora su alcuni passi chiave del capitolo I, 28, in particolare il seguente:
[A] In questo nobile commercio (En ce noble commerce), i servizi e i benefici che alimentano le altre amicizie non meritano neppure d’essere messi in conto. E ciò è dovuto al totale connubio delle nostre volontà (Cette confusion si pleine de nos volontés en est cause) […]. E odiare e bandire da sé queste parole che dividono e differenziano (ces mots de division et de différence): beneficio, obbligo, riconoscenza, preghiera, ringraziamento e simili. Tutto essendo fatto di comune tra loro, volontà, pensieri, giudizi, beni, donne, figli, onore e vita, [C] e la loro essendo come un’anima in due corpi, secondo la definizione assai pertinente di Aristotele, [A] essi non possono prestarsi né regalarsi alcunché. (Montaigne 2012, 344-347)
Il mélange si universel, la confusion si pleine delle volontà, il comune accordo[11] bandiscono ciò che introduce differenza e divisione tra gli amici, ovvero quelle parole e quelle attitudini (beneficio, obbligo, riconoscenza, preghiera, ringraziamento) che implicano una temporalità divisoria e gerarchizzante (c’è un certo squilibrio tra chi prega e chi è pregato, chi ringrazia e chi viene ringraziato…): in queste pratiche ogni gesto e ogni parola contribuiscono a differire la pienezza dell’amicizia autentica (e in tal senso la relazione che configurano differisce dalla perfetta amicizia). Eppure la confusion delle volontà non sembra annullare il plurale e la differenza; essa non è disordine, caos, destabilizzazione, ma è il confluire delle volontà nella sfera dell’amalgama, dell’intesa che è coesione; indica l’emergere di una realtà compatta nella quale la sutura tra le componenti che la costituiscono non è più riconoscibile (il che però non significa che tale giuntura non esista più): «la chose la plus une et unie» (Montaigne 2012, 348-349) richiama la commessura che ha unito le componenti, ma non permette più di ritrovare i punti di sutura. Non si tratta di una disintegrazione delle personalità e del plurale – e nemmeno della differenza[12] – ma di un loro potenziamento a un livello più elevato, dove la «confusione» delle volontà realizza la cosa più una e unita che esista quale punto d’approdo di un movimento nel corso del quale le pareti della temporalità divisoria (intessuta di richieste, preghiere, ringraziamenti, sentimenti di riconoscenza, che mantengono una distanza temporale, gerarchica e affettiva tra gli amici) vengono abbattute perché beni e intenti sono comuni: a essa si sostituisce una temporalità sincronica e una relazione egualitaria e simmetrica[13].
Questo dato emerge in particolare in couche C, in un’aggiunta sull’esemplare di Bordeaux:
[A] Ce n’est pas une spéciale considération, ni deux, ni trois, ni quatre, ni mille: c’est je ne sais quelle quintessence de tout ce mélange, qui ayant saisi toute ma volonté, l’amena se plonger et se perdre dans la sienne, [C] qui ayant saisi toute sa volonté, l’amena se plonger et se perdre en la mienne: d’une faim, d’une concurrence pareille. [A] Je dis “perdre” à la vérité, ne nous réservant rien qui nous fût propre, ni qui fût ou sien ou mien. (Montaigne 2012, 342-343)
In questa reciprocità completa, nella quale Starobinski (1993, 103) individuava il modello della donazione reciproca messo in luce da Rousseau nel primo libro del Contrat social[14], la confusione delle volontà – che si accompagna allo scambio delle rispettive immagini, nella misura in cui ciascuno dei due amici offre all’altro uno specchio veridico – realizza una «unité dans le dédoublement […]. Ma volonté se redouble et s’augmente dans la volonté de l’ami; mon image se dédouble, dans l’image plus vraie que recueille, pour me l’offrir, le regard de l’ami» (Starobinski 1993, 105). Il raddoppiamento coesiste con lo sdoppiamento, anche per questo la confusion non azzera la differenza e la pluralità.
Proseguiamo la lettura del capitolo rievocandone un altro passaggio chiave:
Di fatto la perfetta amicizia di cui parlo è indivisibile: ciascuno si dà al proprio amico tanto interamente che non gli resta nulla da spartire con altri; al contrario, si duole di non esser doppio, triplo, o quadruplo, e di non aver più anime e più volontà (plusieurs âmes et plusieurs volontés) per consacrarle tutte a quell’unico oggetto. Le amicizie comuni si possono distribuire (Les amitiés communes, on les peut départir): si può amare in questo la bellezza, in quello la dolcezza dei costumi, nell’altro la liberalità, nell’altro il sentimento paterno, in un altro ancora il sentimento fraterno e così via. Ma quell’amicizia che possiede l’anima e la domina con sovranità assoluta è impossibile che sia duplice (Mais cette amitié qui possède l’âme et la régente en toute souverainété, il est impossible qu’elle soit double) […]. L’unica e suprema amicizia scioglie tutti gli altri obblighi (L’unique et principale amitié découd toutes autres obligations). (Montaigne 2012, 346-349)
In tal modo, se è facile trovare «uomini adatti ad una familiarità superficiale (des hommes propres à une superficielle accointance)», in quella relazione in cui ne va del più profondo di se stessi, del proprio cuore («en laquelle on négocie du fin fond de son courage)», «bisogna certo che tutti gli intenti siano perfettamente netti e sicuri (certes il est besoin que tous les ressorts soient nets et sûrs parfaitement)» (Montaigne 2012, 348-349). Quest’ultima considerazione sottolinea ancora, indirettamente, la rarità e la singolarità dell’amicizia di cui qui si tratta; ad essa si riannoda quanto l’autore scrive nella pagina successiva:
Ma sapendo come una tale amicizia sia cosa lontana dalla norma comune (commun usage), e quanto sia rara, non mi aspetto di trovarne alcun buon giudice. Infatti anche i discorsi che l’antichità ci ha lasciati su questo argomento mi sembrano fiacchi (lâches) in confronto al sentimento che io ne ho. E, a questo riguardo, i fatti superano i precetti stessi della filosofia:
Nil ego contulerim jucundo sanus amico. (Montaigne 2012, 350-351)
6. Dal mélange delle volontà alla moltiplicazione dell’amicizia: la confrérie
Montaigne insiste dunque sul concetto e sull’immagine del connubio, del mescolamento, della «confusione» delle volontà quale nucleo essenziale dell’amicizia perfetta. Eppure, se da un lato l’amicizia così denotata appare come un evento rarissimo nei commerci umani, dall’altro essa lascia intravedere tratti e sfumature che permettono di delineare un ideale di humanitas, un modello di essere umano capace di nutrirsi di esperienze molteplici e diverse e che così promuove una piena attuazione delle potenzialità della relazionalità.
Nel capitolo «De la vanité» (III, 9), Montaigne asserisce che un uomo onesto è un uomo mescolato: «Si dice molto giustamente che un uomo dabbene è un uomo composito (On dit bien vrai qu’un honnête homme, c’est un homme mêlé)» (Montaigne 2012, 1832-1833). In questo capitolo il bordolese allarga i confini della conversazione, di cui ha trattato nel capitolo precedente, «De l’art de conférer», ne sottolinea l’immenso valore per la formazione e l’arricchimento delle società umane e ne mette in luce una qualità notevole: l’apertura all’altro. Se in linea generale nessun piacere e nessun’idea danno gioia e soddisfazione quando non c’è qualcuno a cui comunicarli, cioè acquistano senso in un orizzonte condiviso, nondimeno non tutte le conversazioni sono realmente produttive e feconde per la formazione di un «honnête homme». Le migliori sono quelle che ci mettono in contatto con uomini di altri paesi, di sfere sociali o di costumi diversi dai nostri. Si commette un errore, sostiene Montaigne, ogniqualvolta ci si chiude volontariamente entro i confini rigidi del proprio quartiere, della propria cerchia di amici, del proprio paese, della propria lingua e delle proprie usanze, un errore che contrasta con la nostra originaria condizione naturale, dato che la natura ci ha messo al mondo liberi e senza legami («libres et déliés»), mentre siamo noi stessi ad ancorarci a certi confini e a certe abitudini («nous nous emprisonnons en certains détroits») (Montaigne 2012, 1806-1807). Se «on dit bien vrai qu’un honnête homme, c’est un homme mêlé», e se questa connotazione positiva dell’essere mêlé va connessa al carattere psicologico ed etico-relazionale del mélange, ogni individuo può formarsi, esprimere al meglio le proprie potenzialità, agire conformemente alla propria natura, nella misura in cui fa esperienza dell’altro, accogliendo e incorporando elementi estranei al proprio milieu originario. Quel che affiora in questo movimento che spinge un individuo a guardare oltre le sue contrade e a discorrere con altri uomini di favella diversa dalla propria è il mescolamento delle differenze. La formazione di un individuo, il suo percorso esistenziale, dispiega le sue migliori virtualità quando si schiude alla diversità di altre vite e opinioni e assapora una ricca varietà di forme della natura umana[15]. L’apertura all’altro, l’osservazione, la conversazione e la pratica di altri costumi sono massimamente utili quando l’altro è incorporato, quando in qualche modo diventa parte di noi in base al principio generale, che emerge in «Du pedantisme», secondo cui non bisogna tenere in serbo le opinioni e il sapere altrui, ma farli propri (Montaigne 2012, 246-247). In «De l’institution des enfans» non a caso Montaigne aveva paragonato la formazione dei ragazzi all’attività delle api: come le api attingono il polline ai fiori qua e là per farne poi il miele, che è tutta opera loro, non è più timo né maggiorana, così il giovane deve essere in grado di trasformare e fondere insieme («il les transformera et confondra») i pezzi di sapere presi da altri per farne un’opera tutta sua, il proprio giudizio (Montaigne 2012, 272-273).
Questi e altri luoghi degli Essais mettono in luce l’importanza del concetto di mélange nella riflessione montaignana. Il mescolamento e la comunanza delle volontà di cui Montaigne parla nel saggio sull’amicizia possono costituire una ulteriore prova della fecondità del mélange in opposizione alla separazione delle identità e alla cristallizzazione delle differenze. Forse l’amicizia autentica rappresenta una delle guglie più alte, una delle realizzazioni più complete e compiute dell’esperienza del mélange: l’assimilazione dell’altro da sé, che si riscontra nella rielaborazione del sapere appreso o, in un altro contesto, nell’antropofagia rituale dei brasiliani Tupinamba («Des Cannibales»), raggiunge una particolare e notevole espressione nella con-fusione delle volontà propria dell’amicizia autentica, fusione portata al punto in cui non è più visibile la cucitura che unisce le due personalità: in questo caso si tratta di un mélange si universel perché non si realizza una pura assimilazione/incorporazione dell’altro che diventa parte di sé, ma un connubio di accointances et familiarités, una mescolanza di volontà in una relazione di reciprocità, su un piano speculare e simmetrico.
Eppure Montaigne non sembra fermarsi qui. «Connubio così totale [mélange si universel]» (Montaigne 2012, 340-341), capace di possedere e dominare l’anima con sovranità assoluta[16], l’amicizia perfetta che egli dipinge realizza una comunanza radicale di idee e intenti che contiene in nuce i germi di una possibile estensione della volontà comune. Scrive infatti il bordolese:
È un grandissimo miracolo il raddoppiarsi; e non ne conoscono la grandezza quelli che parlano di triplicarsi (C’est un assez grand miracle <de> se doubler, et n’en connaissent pas la hauteur ceux qui parlent de se tripler). Nulla è estremo se esiste un suo simile. E chi supporrà che, fra due, io ami l’uno come l’altro, e che essi si amino fra loro e mi amino quanto io li amo, moltiplica in confraternita la cosa più unica e unita che esista, e di cui è già rarissimo trovare al mondo un solo esempio (il multiplie en confrérie la chose la plus une et unie: et de quoi une seule est encore la plus rare à trouver au monde). (Montaigne 2012, 348-349)
Montaigne invita a moltiplicare in confraternita quella che è la cosa più una e unita in modo tale che la volontà comune incarnata dall’amicizia perfetta possa diventare «la cellula madre della società futura» (Panichi 2004, 439). L’idea del moltiplicare si riannoda peraltro a quanto il bordolese scrive nella lettera a Henri de Mesmes riferendosi all’amico scomparso[17]:
Or Monsieur, par ce que chaque nouvelle cognoissance que je donne de luy et de son nom, c’est autant de multiplication de ce sien second vivre, et davantage que son nom s’enoblit et s’honore du lieu qui le reçoit, c’est à moy à faire non seulement de l’espandre le plus qu’il me sera possible, mais encore de le donner en garde à personnes d’honneur et de vertu. (Montaigne 1967, 1361-1362)
Far conoscere le opere e i pensieri di La Boétie, moltiplicare questa sua seconda vita attraverso i libri e le idee si accompagna all’esigenza di conservarne la grandezza e la nobiltà affidandoli a persone onorate e virtuose: qui si delinea una piccola comunità etica nella quale certe virtù fondamentali sono preservate e trasmesse. Nel capitolo sull’amicizia sembra però che si compia il passaggio dal morale al politico: la moltiplicazione non riguarda il ricordo dell’amico ma un tipo di relazione, non concerne una cerchia di individui che praticano la virtù e sono animati dal senso dell’onore[18] ma una più ampia confraternita capace di realizzare in una dimensione socio-politica l’amicizia ideale vissuta e narrata dal bordolese. Montaigne ci introduce così nel campo di una «politica dell’amicizia» e, nell’orizzonte della confrérie, supera, sorprendentemente, «la divisione da lui stesso teorizzata tra un io privato e un io pubblico» (Panichi 2004, 440). Qui è essenziale richiamare un passo già citato nel presente lavoro: «il n’est rien à quoi il semble que nature nous ait plus acheminés qu’à la société: [C] et dit Aristote que les bons législateurs ont eu plus de soin de l’amitié que de la justice: [A] or le dernier point de sa perfection est cettui-ci» (Montaigne 2012, 332-333). In tal modo l’amicizia appare come il culmine e il compimento – sul piano politico-giuridico – della vocazione sociale radicata nella natura umana.
La confrérie additata da Montaigne si configura dunque come «associazione fondata sull’amicizia perfetta dei suoi membri» (Panichi 2004, 439). Essa trova il suo stesso fine nell’amicizia leale e vera che sin dall’origine la nutre, in una comunità che realizza appieno la coerenza tra i pensieri, le parole e le azioni dei suoi membri[19]. Così modulata, l’amicizia è reinscritta nello spazio della parola e della discorsività; in altri termini, da questo punto di vista, essa esorcizza finanche lo spettro dell’indicibilità e dell’extradiscorsività[20] che affiorano quando si cerca di spiegare la singolarità del legame che univa Montaigne e La Boétie: «Si on me presse de dire pourquoi je l’aimais, je sens que cela ne se peut exprimer [C] qu’en répondant: parce que c’était lui: parce que c’était moi» (Montaigne 2012: 340-341). In altri termini, la lettura en politique del saggio sull’amicizia permette di oltrepassare il momento dell’inesplicabilità della relazione perfetta tra Montaigne e La Boétie, quella soglia mistica e afasica su cui a un certo punto ci si arresta nel corso di «De l’amitié», ribaltandola nella dimensione della confrérie quale attuazione perfetta, realizzazione politica del principio della coerenza e veridicità della parola quale interprete e messaggera della nostra interiorità e grazie alla quale i vincoli sociali trovano i loro nodi e i membri di una società si riconoscono l’un l’altro.
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Note al testo
[1] La Boétie (1571).
[2] O forse gli Essais nella loro interezza: Riveline (1939) dedicava l’ultima parte del suo saggio alle tracce che il ricordo dell’amicizia con La Boétie avrebbe lasciato nell’opera di Montaigne, argomentando che tale influenza riguarda sia la lettre del libro del bordolese (le sue considerazioni sulla politica, la religione, la consuetudine) sia la forme (che è quella dell’entretien, della conversazione). Seguendo tale lettura, gli Essais si configurerebbero come la continuazione della conversazione tra i due amici interrotta dalla morte prematura di La Boétie. E se quest’ultimo non fosse scomparso – si spinge a dire Riveline (1939, 182) –«les Essais auraient été des lettres adressées à lui». In altri termini, gli Essais avrebbero preso il testimone di quel dialogo interrotto, fonte, per Montaigne, di incomparabile piacere.«C’est la mort de La Boétie – scriveva Thibaudet un paio di decenni dopo Riveline – qui a amené Montaigne à écrire ses Essais. Son livre a remplacé son ami, comme dans le mythe de Phèdre le livre remplace le discours vivant» (Thibaudet 1963, 148). Cfr. anche Jones (1977, 179-180): «With La Boétie’s death, the source of pleasure being cut off, Montaigne turned to the Essais as a substitute for the interrupted dialogue»;«Communication and friendship are therefore the sine qua non in Montaigne’s life, and the Essais may then be understood as a substitute for the dialogue that had been lost». Sulla questione si rinvia in modo più particolareggiato al libro di Défaux (2001), che scandaglia il lavoro interiore effettuato da Montaigne sul ricordo di La Boétie nel corso di più di trent’anni per assicurare all’amico quella place che gli aveva chiesto sul letto di morte. Cfr. la celebre lettera al padre in cui Montaigne ricostruisce gli ultimi momenti di vita dell’amico e ricorda tra l’altro queste sue parole: «Mon frere, mon frere me refusez-vous doncques une place?» (Montaigne 1967, 1359). Sulle enigmatiche frasi di La Boétie in punto di morte e sulla loro interpretazione psicologica alla luce della place effettiva che La Boétie avrà negli Essais cfr. Rigolot (1988, 61-78).
[3]«“De l’amitié” bears witness to the legacy of a double absence realized as a work of mourning: the death of the friend and the excision of La Servitude volontaire» (Kritzman 2009, 80).
[4] «Among the great philosophical meditations on friendship as an experience of mourning, the Montaignian testimony to friendship […] functions as a remembrance that that simultaneously forgets» (Kritzman 2009, 74).
[5] «L’amicizia poi, a quanto pare, tiene unite le città, e perfino i legislatori si preoccupano più dell’amicizia che della giustizia; infatti si ritiene che la concordia sia qualcosa di simile all’amicizia e i legislatori perseguono soprattutto questa, mentre è soprattutto la discordia che si preoccupano di scacciare come una nemica. E mentre tra gli amici non c’è alcun bisogno di giustizia, i giusti, al contrario, hanno bisogno di amicizia, e il più alto livello di giustizia sembra consistere in un sentimento vicino all’amicizia». (Aristotele 2008, 787)
[6] Cfr. ad esempio questo passo: «c’est cela que certainement le tyran n’est jamais aimé ni n’aime. L’amitié, c’est un nom sacré, c’est une chose sainte; elle ne se met jamais qu’entre gens de bien, et ne se prend que par une mutuelle estime; elle s’entretient non tant par bienfaits que par la bonne vie. […] Il n’y peut avoir d’amitié, là où est la cruauté, là où est la déloyauté, là où est l’injustice» (La Boétie 1983, 168 e 1995, 31).
[7] Sulla rarità dell’amicizia perfetta cfr. Aristotele (2008, 793-795).
[8] Nel suo libro su Montaigne Hugo Friedrich (1984, 256-257) notava che nella stessa Etica Nicomachea è prefigurata l’idea di una relazione d’amicizia ideale, disinteressata, nella quale l’amico ama l’amico per se stesso. Scrive infatti Aristotele (2008, 1156a, 791): «ora, mentre coloro che si vogliono bene reciprocamente in vista dell’utile non si vogliono bene per se stessi ma in quanto ognuno trae dall’altro un qualche bene, lo stesso vale anche per coloro che si vogliono bene a causa del piacere». Montaigne poteva inoltre trovare nella tradizione epicurea e in Cicerone l’idea che l’amicizia, nel mezzo della mediocrità generale, costituisca una specie di protezione per gli uomini di buon senso e che essa sia un commercio affettivo generoso e comprensivo tra persone che non sono attratte da ciò che seduce la massa. Il culto antico dell’amicizia è stato poi rinnovato dagli umanisti italiani con tutti i suoi tratti distintivi particolari, soprattutto la sua opposizione alla volgarità e l’idea che in essa si consumino piaceri intellettuali tra pari. Eppure, secondo Friedrich, una differenza tra la tradizione antica e umanistica e la posizione di Montaigne va sottolineata: non si riscontra nel bordolese la condizione morale dell’amicizia, il presupposto secondo il quale la vera amicizia non può prodursi che tra cuori virtuosi. Secondo lo studioso tedesco, in Montaigne l’amicizia esprime una relazione liberamente umana, una fusione dell’uno nella natura copiosa, feconda e illimitata nell’altro e una pienezza affettiva che sgorga da strati profondi e non ha bisogno di qualità oggettive ideali, non cerca di accrescere il valore della condizione umana e nemmeno di presentarsi come modello per coloro che ne cercano uno (Friedrich 1984, 257-258). Anne Moss (2000, 190), invece, rileva che Montaigne colloca l’amicizia, inequivocabilmente e sin dall’inizio, all’interno dell’«environment of ancient moral philosophy, where it is considered ‘a kind of virtue, or implying virtue’, as Aristotle says in the first sentence of book VIII».
[9] Né, per Cicerone, l’amicizia può considerarsi come un’equivalenza di doveri e di voleri («paribus officiis ac voluntatibus»). «Questo, in realtà, è un ridurre troppo meschinamente e grettamente l’amicizia a un semplice calcolo, per modo che il bilancio del dato e del ricevuto sia in pareggio» (Cicerone 1994, 130-131).
[10] Cfr. Diogene Laerzio, V, 21, secondo una versione inesatta adottata nel XVI secolo. Il testo ricostituito intende dire: chi ha molti amici, non ha amici. Questa idea in effetti si sposa con la tesi di Montaigne (2012, 2331, n. 20).
[11] Nel far valere l’amicizia autentica quale fusione delle volontà, comunione degli intenti, Montaigne ha potuto trarre ispirazione ancora da Aristotele: infatti, nella conclusione del libro IX dell’Etica Nicomachea (1171b), il filosofo greco afferma che «l’amicizia rappresenta una comunione (koinonía)» (Aristotele 2008, 885).
[12] In «De l’art de conférer» (III, 8), Montaigne scrive: «mi piace una dimestichezza (société) e una familiarità forte e virile, un’amicizia che si compiaccia dell’asprezza e del vigore della sua pratica [une amitié qui se flatte en l’âpreté et vigueur de son commerce]: come l’amore di morsi e graffi sanguinanti» (Montaigne 2012, 1714-1715). Facendo leva in particolare su questo passo, Zalloua mette in questione il comune convincimento che Montaigne e La Boétie pensassero assolutamente allo stesso modo (cfr. Platt 1998, 41) e che la loro amicizia escludesse differenze intellettuali: nel capitolo III, 8, «Montaigne describes friendship not as a passive condition but as a kind of praxis, that is, as a relationship presupposing two active subjects» (Zalloua 2005, 80). Zalloua ipotizza dunque che sia possibile identificare due registri dell’amicizia in Montaigne: 1) da un lato, l’amicizia come fenomeno esistenziale, come relazione dinamica, che implica due spiriti generosi e una relazione di potere; 2) dall’altro, l’amicizia che sfugge alla mediazione e all’esercizio di potere, rappresentata in un’esemplarità che idealizza e immortala l’altro finendo però con l’alterare il suo stesso oggetto (Zalloua 2005, 81).
[13] Con altra sfumatura anche Cicerone richiamava un’istanza egualitaria insita nell’amicizia: «come coloro che sono superiori devono nell’amicizia abbassarsi (submittere), così in un certo modo gli inferiori devono innalzarsi (extollere)» (Cicerone 1994, 142-143).
[14] «Chacun de nous met en commun sa personne et toute sa puissance sous la suprême direction de la volonté générale» (Rousseau 2003a, 361 e Rousseau 2003b, 80). «Cette “aliénation totale” devient constitutive d’un nouveau corps, d’une nouvelle volonté – la volonté générale. Il ne serait pas hasardeux d’affirmer que Rousseau se sert du modèle de la philia et de l’amicitia, tel qu’il pouvait le trouver dans Aristote et Cicéron, ou dans Montaigne, pour l’appliquer à la polis, à la Cité animée par un “moi commun”» (Starobinski 1993, 103).
[15] «E non conosco scuola migliore, come ho detto spesso, per formare alla vita, che presentarle continuamente la diversità di tante altre vite, opinioni e usanze [la diversité de tant d’autres vies, fantasies et usances], e farle assaggiare una così continua varietà di forme della nostra natura» (Montaigne 2012, 1808-1809).
[16] «cette amitié qui possède l’âme et la régente en toute souveraineté» (Montaigne 2012, 348-349).
[17] Si tratta di una delle lettres-dédicaces che Montaigne pubblica in margine alle opere di La Boétie di cui ha curato l’edizione (1571).
[18] Si tratta di quei pochi a cui Montaigne ha pubblicamente donato il libro che raccoglie le opere di La Boétie affidando il nome del suo amico, autore ancora poco conosciuto, alla loro custodia (cfr. Starobinki 1993, 100-101).
[19] Teniamo a mente che in II, 27, couche A, Montaigne biasima la menzogna come pratica che dissolve i vincoli sociali fondamentali e, in modo complementare, esalta la sincerità, la coerenza tra pensieri, parole e azioni, quale base e regola delle comunità umane: «poiché i nostri rapporti si regolano per la sola via della parola, colui che la falsa tradisce la pubblica società. È il solo strumento per mezzo del quale si comunicano le nostre volontà e i nostri pensieri; è l’interprete della nostra anima: se ci viene a mancare, non abbiamo più nessun legame, non ci conosciamo più tra noi. Se ci inganna, distrugge ogni nostro scambio e dissolve tutti i vincoli del nostro ordinamento (notre intelligence se conduisant par la seule voie de la parole, celui qui la fausse trahit la société publique. C’est le seul outil par le moyen duquel se communiquent nos volontés et nos pensées: c’est le truchement de notre âme: s’il nous faut, nous ne nous tenons plus, nous ne nous entre-connaissons plus. S’il nous trompe, il rompt tout notre commerce, et dissout toutes les liaisons de notre police)» (Montaigne 2012, 1236-1237).
[20] Cfr. in particolare Langer (1994, 172-175) e Zalloua (2005, 85-90).