Pietro Gori
(IFILNOVA, Universidade Nova de Lisboa)
pgori@fcsh.unl.pt
Abstract: The paper explores the few occurrences of the expression «will to nothingness» (Wille zum Nichts) in Nietzsche’s writings, and its relationship with the notions of ‘will to truth’ and ‘ascetic ideal’. Aim of this research is to show that these notions are mutually related, and that they outline the objectives of Nietzsche’s late thought. The investigation will focus in particular on the concept of “realism” that appears in Nietzsche’s late writings, and that can be interpreted as an existential attitude towards life that contrasts pessimistic nihilism.
Keywords: Nietzsche; Nihilism; Morality; Revaluation of values; Realism.
- Avversione alla vita e calunnia del mondo
L’espressione di matrice schopenhaueriana «volontà del nulla» (Wille zum Nichts) viene utilizzata da Nietzsche a partire dal 1887 e compare in un numero estremamente limitato di passi, tra opere a stampa e carte private[1]. Malgrado la scarsità di occorrenze, essa è dotata di una particolare rilevanza per il pensiero maturo di Nietzsche, in quanto si inserisce in una problematica decisiva prima di tutto per il progetto filosofico ed editoriale della Trasvalutazione dei valori. La sua presenza è infatti attestabile tra il 1887 e il 1888, vero e proprio crocevia della nietzscheana “filosofia dell’avvenire”, dal momento che agli estremi di quel biennio si trovano la pubblicazione del quinto libro della Gaia scienza (redatto nel 1886) e la stesura del manoscritto definitivo dell’Anticristo – che a detta di Nietzsche costituiva, di fatto, la Trasvalutazione nella sua forma conclusiva[2]. In quel periodo, come noto, Nietzsche tira le fila della propria riflessione sulla morale europea, tracciando i contorni di quella che diviene per lui una questione non solo culturale, ma anche antropologica nel senso più strettamente fisiologico del termine. Nel fare questo, egli non si preoccupa solo di individuare gli elementi critici della forma di pensiero occidentale storicamente determinatasi a partire da Platone, ma, sulla base di questa sua diagnosi, predispone un percorso alternativo che permetta all’uomo di indirizzarsi verso una modalità superiore e più sana (prima di tutto intellettualmente) di esistenza. Il tema della volontà del nulla appartiene evidentemente al momento diagnostico di questo processo, in quanto a esso Nietzsche si riferisce in un senso profondamente negativo. Tuttavia, proprio per la radicalità con la quale questo tema viene trattato, esso risulta essere un efficace mezzo di contrasto per individuare il male che ammorba il tipo umano declinante cui Nietzsche dedica particolare attenzione dopo l’esperienza dello Zarathustra.
L’ultima occorrenza dell’espressione «volontà del nulla» si trova proprio nell’Anticristo. Al §18 di quell’opera, Nietzsche definisce – criticamente – «il concetto cristiano di Dio», da lui considerato «uno dei più corrotti concetti di Dio che siano mai stati raggiunti sulla terra». Quella cristiana, in particolare, sarebbe una divinità degenerata
fino a contraddire la vita, invece di esserne la trasfigurazione e l’eterno sì! In Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell’«al di qua», di ogni menzogna dell’«al di là»! In Dio è divinizzato il nulla, è consacrata la volontà del nulla!… [In Gott das Nichts vergöttlicht, der Wille zum Nichts heilig gesprochen!].
Secondo Nietzsche, nel suo concetto di Dio il cristianesimo ha ipostatizzato l’atteggiamento spirituale di un’umanità oppressa e malata, l’esatto opposto del modello che lo Zarathustra vorrebbe insegnare, quello dell’individuo che si erge sovrano del proprio corpo e dei propri istinti, e che naviga con gioiosa serenità nell’incontrastabile marea del fato[3]. Al contrario, come si legge per esempio nel Crepuscolo degli idoli, il cristianesimo ha sostenuto un atteggiamento ostile ai sentimenti più propri della vita e per il quale Nietzsche adotta l’espressione «contronatura» (GD, Morale come contronatura 4 e 5). Esso consiste, più precisamente, in una morale che si rivolge contro gli istinti della vita, contro le passioni e le brame che costituiscono l’elemento vitale più basilare. Una morale che, come Nietzsche sottolinea più volte nel Crepuscolo, è manifestazione di un tipo di «vita declinante, indebolita, esausta, condannata»; in altre parole, essa è «l’istinto della décadence stesso» (GD, Morale 5) assunto a criterio di giudizio della vita. La posizione a partire dalla quale questo giudizio viene espresso è in effetti decisiva, secondo Nietzsche: per lui, infatti, «una condanna del vivente resta in ultima analisi solo il sintomo di una certa specie di vita», e la morale che segue dall’umanità mediocre e malata cui egli si riferisce è di fatto quella conforme alla «negazione della volontà di vivere» di cui parla Schopenhauer (ibidem).
Nel cristianesimo trova quindi espressione la volontà del nulla di cui Nietzsche parla nell’Anticristo e alla quale aveva dedicato maggiore spazio nell’unica altra opera pubblicata in cui tale tema compare: La genealogia della morale. Nell’ultimo paragrafo della terza dissertazione di questo testo – di fatto, il paragrafo che conclude l’intera opera – Nietzsche tira le fila delle considerazioni svolte relativamente agli ideali ascetici, la cui funzione principale è stata quella di offrire un senso alla sofferenza dell’uomo (GM III 28). Questo è stato possibile, secondo Nietzsche, salvaguardando il principio metafisico della volontà, elemento portante dell’edificio antropologico occidentale e al quale sembra non essere possibile rinunciare. Poco importa a cosa fosse indirizzata questa volontà, osserva Nietzsche, l’importante era preservarla, non rinunciare a essa a qualsiasi costo. In questo modo, però, si è dato spazio a una tendenza antivitale e per questo nichilista, dal momento che
questo odio contro l’umano, più ancora contro il ferino, più ancora contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, il timore della felicità e della bellezza, questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza, trasmutamento, divenire, morte, desiderio, dal desiderare stesso – tutto ciò significa, si osi renderne conto, una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà! (GM III 28).
La ‘volontà del nulla’ viene quindi definita da Nietzsche in un senso squisitamente antropologico. Essa è il principio antitetico alla vita per eccellenza, l’elemento che determina quella avversione a istinti e pulsioni che caratterizza la modalità declinante di esistenza realizzatasi nell’Europa della morale cristiana – il décadent. Al tempo stesso, essa possiede un valore esistenziale se si vuole positivo, in quanto è grazie a lei che l’ideale ascetico ha potuto offrire un senso all’interrogativo – ancora una volta schopenhaueriano – relativo al senso dell’esistenza (cfr. FW 357). Nella volontà del nulla si trovano quindi connesse due tendenze apparentemente antitetiche: il bisogno di dare un senso alla propria vita, a costo di ricercare quest’ultimo al di fuori della vita stessa, porta infatti l’uomo a denigrare la vita, manifestando quella forma di avversione di cui Nietzsche parla. In questa tendenza a cercare un senso a tutti i costi si esprime un più generale bisogno metafisico che in altri luoghi Nietzsche individua come caratteristica dell’umanità occidentale. Il principio fondamentale, nel caso in questione, è che «un qualsiasi senso [sia] meglio che nessun senso», da cui è possibile concludere che «l’uomo preferisce volere il nulla, piuttosto che non volere» (GM III 28).
Quest’ultima osservazione posta in chiusura della Genealogia era stata anticipata da Nietzsche nel paragrafo di apertura della terza dissertazione di quell’opera. In quella sede, Nietzsche la presenta come «il fondamentale dato di fatto dell’umano volere, il suo horror vacui: quel volere ha bisogno di una meta» (GM III 1). La paura che la vita non abbia un senso, che non sia possibile offrire principi di orientamento assoluti per trovare la propria strada nella selva dell’umana esistenza, è ciò che l’uomo teme più di ogni altra cosa. Questo, secondo Nietzsche, ha da sempre segnato la sua crescita spirituale, crescita che è stata poi volontariamente impedita da coloro che su questa paura hanno costruito il proprio potere, offrendo ai disorientati modelli ideali da idolatrare. Questi potenti (siano essi sacerdoti e preti o cattivi filosofi ed educatori) hanno ben compreso quale fosse la necessità fondamentale dell’uomo, il suo bisogno di indirizzare la propria esistenza verso qualcosa, fosse anche la cosa più estrema, illogica e innaturale. In ragione di questo, essi hanno operato una «millenaria vivisezione della coscienza» e un «pervertimento del gusto» che ha portato l’uomo a considerare negativamente le proprie tendenze naturali (GM II 24). Al contrario, sono state stimolate «tutte quelle aspirazioni al trascendente, all’anti-senso, all’anti-istinto, all’anti-natura, all’anti-animale, insomma gli ideali esistiti sino a oggi, che sono tutti quanti ideali ostili alla vita, ideali calunniatori del mondo» (ibid.).
La volontà del nulla non è che un prodotto di questi ideali ascetici, assieme al «grande disgusto» e al «nichilismo» (ibid.); come si è detto, in essa si manifesta precisamente il tipo di avversione alla vita che tali ideali esprimono, e occorre guardare a essa come al prodotto estremo del disorientamento dell’uomo occidentale. Al termine della seconda dissertazione della Genealogia, nel momento in cui vengono tracciati i contorni di questo esercizio spirituale degenerativo[4], Nietzsche manifesta però anche la propria speranza in una futura «redenzione dalla maledizione che l’ideale esistito sino a oggi ha posto» sulla realtà (GM II 24). A suo avviso, è infatti possibile attendersi l’avvento di un «uomo dell’avvenire» in grado di contrastare le derive nichilistiche degli ideali ascetici; uno «spirito creatore» dagli evidenti tratti zarathustriani, in quanto, si legge, la sua «solitudine è fraintesa dal popolo come se fosse una fuga dalla realtà – mentre è soltanto il suo sprofondare, il suo seppellirsi, il suo inabissarsi nella realtà» (ibid.). All’umanità educata a denigrare vita e mondo, a rifiutare i principi della terra per guardare a vuoti simulacri di conoscenza, Nietzsche contrappone quindi una figura in grado di affrontare compiutamente la realtà che ha di fronte, senza timore di perdersi al suo interno o di rimanere disgustato dagli orrori che in essa potrà incontrare. Lo spirito forte e in salute che «ci redimerà tanto dall’ideale perdurato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, […] questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla» (GM II 24) sembra quindi dover essere un realista. Ma in che senso ci si deve dire realisti, nella prospettiva di Nietzsche? E quali conseguenza ha questa posizione nell’economia del suo pensiero maturo?
A questi interrogativi si cercherà di dare risposta in quanto segue, con una premessa fondamentale: il realismo di cui si parla in queste pagine non è certo una posizione ontologica o metafisica, ma è piuttosto atteggiamento e pratica esistenziale. In questo senso, quindi, esso si lega strettamente al discorso fin qui svolto relativamente alla volontà del nulla e all’interrogativo sul senso dell’esistenza cui quel tema rimanda. Per quanto riguarda, poi, le questioni sollevate, per poterle affrontare compiutamente è necessario aggiungere un ulteriore elemento a quanto detto sopra, completando una triade ideale costituita dalle nozioni di ‘volontà del nulla’, ‘ideale ascetico’ e ‘volontà di verità’. Se, infatti, la volontà del nulla è conseguenza e prodotto di quell’ideale, Nietzsche è anche particolarmente chiaro nell’individuare nella volontà di verità «il nocciolo» dell’ideale ascetico (GM III 27). Come infatti egli scrive al termine della terza sezione della Genealogia, in un discorso volto a circoscrivere la problematica cui Nietzsche intende dedicare le proprie successive riflessioni filosofiche, l’ideale ascetico riposa su una «sopravvalutazione della verità» e, più precisamente, su una «fede nella insuscettibilità di valutazione e di critica da parte della verità» (GM III 25). In altre parole, in esso si manifesta quella «volontà di verità» che è per Nietzsche un arrendersi di fronte alla cultura platonico-cristiana e alla «fede in un valore metafisico, in un valore in sé della verità» (GM III 24) che essa ha insegnato. Una volta individuato quale «lacuna di ogni filosofia» il fatto che «l’ideale ascetico è stato fino a oggi padrone di ogni filosofia, […] che la verità è stata posta come essere, come Dio» e che «non era in alcun modo lecito alla verità essere problema» (ibid.), Nietzsche si propone invece di farsi carico di tale critica e di mettere in questione proprio il valore della verità[5]. Questa operazione può in effetti essere considerata per lo meno uno strumento di quell’opera di redenzione dagli ideali ascetici di cui Nietzsche parla in GM II 24. Essa sarebbe infatti destinata a chiamare in causa la radice stessa della cultura e morale europee, l’asse portante di un sistema di pensiero che Nietzsche vede collassare su se stesso e del cui crollo si fa promotore e spettatore privilegiato: quel «grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai due prossimi secoli europei, il più tremendo, il più problematico e forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli spettacoli…» (GM III 27).
Attraverso l’ideale ascetico, quindi, volontà del nulla e volontà di verità si trovano in relazione. Riflettere sul modo in cui questa relazione si svolga – principalmente, sul motivo per cui entrambe siano per Nietzsche espressione di una forma nichilistica di pensiero – permette di entrare nel merito del summenzionato “realismo” apprezzato da Nietzsche e di intervenire quindi, conclusivamente, sulla funzione di queste tematiche nel contesto del suo pensiero maturo.
- Volontà di verità e nichilismo
La connessione tra la volontà del nulla e la volontà di verità, con l’ideale ascetico quale “terzo termine” all’interno del quale entrambe confluiscono, si trova già implicitamente espressa al paragrafo 24 della seconda dissertazione della Genealogia della morale. Come si è visto sopra, in quella sede Nietzsche osserva infatti che «gli ideali esistiti sino a oggi […] sono tutti quanti ideali ostili alla vita, ideali calunniatori del mondo». La seconda di queste caratteristiche appartiene più strettamente al tema della volontà di verità e di fatto definisce l’orientamento nichilistico che a esso appartiene. Questo aspetto è bene evidente in quanto si legge in Gaia scienza 344, luogo in cui Nietzsche affronta la questione della «fede metafisica» sulla quale anche la forma di pensiero che si pretende scientifica, atea e antimetafisica risulta essere edificata. Alla base del modello occidentale del sapere vi è infatti sempre e comunque una convinzione fondamentale, il «pregiudizio morale» in base al quale «la verità ha maggior valore dell’apparenza» e che si possa pertanto individuare una dimensione in cui non trovi spazio alcun tipo di diffidenza epistemologica o assiologica (JGB 34). La conseguenza di questa volontà di verità è però chiara a Nietzsche: «L’uomo verace, in quel temerario e ultimo significato che la fede nella scienza presuppone, afferma con ciò un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia; e in quanto afferma questo “altro mondo”, come? non deve per ciò stesso negare il suo opposto, questo mondo, il nostro mondo?» (FW 344)[6]. Mentre si guarda alla dimensione – solo apparentemente – positiva della questione, all’utilità del principio metafisico che verrebbe a sanare un vuoto epistemico senza il quale mancherebbero i fondamenti primi dell’edificio teoretico e pratico della nostra cultura, non ci si rende conto che si è compiuto un danno ancora maggiore, i cui effetti si protraggono dal piano culturale a quello antropologico. La tradizione di pensiero che fugge di fronte alla realtà per paura della sua mancanza di senso e che a essa reagisce istituendo una dimensione ideale in cui ogni imperfezione di vita, natura e storia viene sanata o anche solo giustificata, è nichilista in un senso più proprio di quello che è possibile attribuire all’atteggiamento di chiunque a quella dimensione ideale guardi criticamente. A vantaggio di un mondo “vero” – «irraggiungibile, indimostrabile, impromettibile», scriverà successivamente Nietzsche (GD, “Mondo vero”) – si priva infatti di valore quella che è l’unica dimensione entro cui ci si muove, l’ambito del “reale” che per Nietzsche coincide con l’esperibile (in altri termini, il piano della nostra effettiva “conoscenza”)[7].
La svalutazione di questo ambito è l’elemento nichilistico che appartiene alla volontà di verità, quella forma di calunnia del mondo di cui Nietzsche parla nella Genealogia della morale. Tutto questo assume maggiore evidenza nel momento in cui si segua il ragionamento che Nietzsche porta avanti in FW 344, al termine del quale egli introduce il dubbio che proprio la verità cui ci si è finora inchinati possegga invece i caratteri dell’illusione e della falsità che «niente più si rivel[i] divino, salvo l’errore, la cecità, la menzogna», e che «Dio stesso si rivel[i] come la nostra più lunga menzogna» (FW 344). Posta la questione in questi termini, la volontà di verità viene dunque a coincidere con una disposizione per cui si preferisce «agonizzare su un sicuro nulla piuttosto che su un incerto qualche cosa. Ma questo – osserva Nietzsche – è nichilismo e indice di un’anima disperante, mortalmente esausta» (JGB 10). C’è qui una profonda corrispondenza con la questione della volontà del nulla, malgrado l’apparente pretesa, da parte della volontà di verità, di guardare a un contenuto positivo. Quest’ultima, anzi, sembra essere un’espressione ancora più subdola della prima, in quanto capace di irretirci mascherando il proprio odio nei confronti del reale coi colori della metafisica. Quel che si rivela, una volta che si affronti criticamente la volontà di verità e si decida di porla in questione, è invece la stessa logica interna che anima la volontà del nulla e su cui Nietzsche riflette nel periodo che intercorre tra la stesura della Genealogia e quella dell’Anticristo.
Il punto di arrivo di questa riflessione è in effetti il contenuto del sopra citato AC 18, in cui Nietzsche ripropone un’idea già espressa in GM II 24. In sintesi, la sua posizione è che la volontà del nulla sia sostanzialmente ostile alla vita, in quanto nega tutto ciò che appartiene a quest’ultima, e che il Dio cristiano risulti essere espressione di questo odio nei confronti del vitale e della negazione della volontà di vivere. Si manifesta, in questo, «l’istinto nichilistico» che «dice di no», la cui «affermazione più attenuata è che non essere è meglio di essere, che la volontà del nulla ha più valore della volontà di vivere; quella più rigorosa è che il nulla è la cosa più desiderabile, che questa vita, come opposto del nulla, è assolutamente priva di valore: essa diventa una cosa abietta» (NF 1888, 17[7])[8]. In questa nota postuma, Nietzsche sintetizza con chiarezza la logica che appartiene tanto alla volontà del nulla quanto alla volontà di verità. Entrambe, prestando attenzione al solo elemento che intendono affermare, esprimono un giudizio di valore ostile a tutto ciò che gli è contrapposto. Nel far questo, denigrano i caratteri del reale, operando in senso nichilistico su tutto ciò che è proprio di vita e natura. Questa riflessione appartiene allo stesso quaderno in cui si trova una stesura preparatoria del paragrafo 18 dell’Anticristo. Nella nota 7[4] del 1888, infatti, Nietzsche elabora un’articolata riflessione sulla «storia del concetto di Dio», all’interno della quale si insiste particolarmente sulla versione cristiana di questo concetto, in cui Nietzsche vede la sublimazione di un atteggiamento ostile alla vita. «Il concetto cristiano di Dio» viene infatti definito come «il più basso concetto di Dio mai raggiunto sulla terra»; Dio è «degenerato a contraddizione della vita, invece di significarne la trasfigurazione e l’eterno “sì”; in Dio si dichiara guerra alla vita, alla natura, alla volontà di vita; Dio è la formula di ogni diffamazione della vita»; e ancora, come poi si leggerà nell’Anticristo: «in Dio è divinizzato il nulla, santificata la volontà del nulla!» (NF 1888, 17[4]). La ragione per cui Nietzsche arriva a definire il cristianesimo come una religione nichilista (ibid.) consiste dunque proprio in questa contrapposizione tra la volontà del nulla – ascritta a formula nel concetto di Dio – e la volontà di vita, in cui si assiste a un prevalere della prima sulla seconda.
Il rimando al cristianesimo mostra già di per sé la valenza morale della questione in esame. Il motivo etico e antropologico emerge però ancora meglio in un appunto di poco precedente, in cui Nietzsche aveva espressamente preso in considerazione il rapporto di predominio tra volontà del nulla e volontà di verità. Nella primavera del 1888, infatti, Nietzsche osserva che la morale che definisce lo stato dei fatti, la situazione che è possibile diagnosticare analizzando la realtà che ci si trova di fronte, è sostanzialmente questa: «I tipi medi hanno più valore delle eccezioni, i figli della decadenza [Decadenz-Gebilde] più dei tipi medi, la volontà del nulla predomina sulla volontà di vivere – il fine ultimo è quindi, espresso in termini cristiani, buddhistici, schopenhaueriani: meglio non essere che essere» (NF 1888, 14[123]). Il riferimento polemico di questo appunto è la concezione della «scuola di Darwin» in base alla quale la selezione naturale comporta un progresso della specie e un’affermazione della vita[9]. Al contrario, le osservazioni che Nietzsche svolge in quegli anni si raccolgono attorno al concetto di décadence, ovvero all’idea che a prevalere non siano le «eccezioni e i casi felici», quanto piuttosto «i tipi della decadenza [Typen der décadence]» (ibid.)[10]. Ciò a cui si assiste è dunque una degenerazione dell’animale uomo, un suo «immeschinimento in perfetta bestia da armento» (JGB 203) prodotto dall’azione coercitiva che la metafisica occidentale e la morale edificata su quest’ultima hanno svolto sul suo spirito. Il motivo nichilistico che esse incarnano ha in effetti, secondo Nietzsche, educato l’umanità a principi anti-vitali, ha mosso guerra alle passioni invitando finanche a una loro castrazione (GD, Morale come contronatura 1). In questo modo, si è impedito all’animale uomo di seguire il corso del proprio sviluppo naturale e si è venuto a determinare un sistema di valori che denigra ciò che appartiene più propriamente alla dimensione fisiologica dell’individuo.
A conferma della stretta relazione tra volontà del nulla e volontà di verità, va infine detto che anche quest’ultima possiede un esplicito valore culturale, in Nietzsche. Anzi, egli la mette in relazione proprio con la questione morale e antropologica di cui si è appena detto, come dimostrano i §§ 24 e 27 della terza dissertazione della Genealogia della morale. Sono queste le pagine in cui Nietzsche circoscrive come azione necessaria e innovativa la messa in discussione del valore della verità e la critica della volontà di verità sulla quale si è retto l’ideale ascetico che ha determinato l’orientamento del pensiero filosofico occidentale. Riprendendo e citando quanto scritto in FW 344, in GM III 24 Nietzsche annuncia pertanto il proprio compito, il cui carattere distruttivo va però inteso come una liberazione dal giogo dell’ultimo residuo di quell’ideale – la fede nella verità, appunto. Il discorso viene poi ripreso al §27, in cui il tema culturale emerge con maggiore evidenza. Come osserva Nietzsche, la messa in questione della volontà di verità è infatti il punto di arrivo di un percorso che coinvolge la storia culturale europea nella sua totalità. Nel momento in cui si guardi criticamente a quest’ultima ci si trova infatti al termine di un lungo percorso durante il quale la «bimillenaria costrizione educativa alla verità» è venuta a maturazione, arrivando infine a coinvolgere se stessa nel proprio vortice distruttivo (GM III 27). La moralità cristiana ha oramai fatto il suo tempo, ed è ora di lasciare spazio a quei «buoni europei ed eredi del più lungo e più valoroso autosuperamento dell’Europa» di cui Nietzsche aveva parlato nella Gaia scienza e che a suo avviso possono guidare l’umanità verso una nuova fase[11]. Costoro dovranno accompagnare la morale europea – nella quale comunque affondano le proprie radici – alla suo momento finale, e fare i conti con la «più drastica conclusione» che essa trae, «la sua conclusione contro se stessa; ma questo avviene quand’essa pone la questione “che cosa significa ogni volontà di verità?”» (GM III 27). Questo interrogativo porta dunque con sé profonde conseguenze sul piano etico. Esso, infatti determina il definitivo crollo della morale cristiana e non vi è quindi da stupirsi se, nello stesso paragrafo in cui parla di questo, Nietzsche annuncia il progetto filosofico ed editoriale della Trasvalutazione dei valori (al cui interno egli avrebbe dedicato spazio agli argomenti solo accennati al termine della Genealogia, in una sezione intitolata «Per la storia del nichilismo europeo». Cfr. GM III 27).
Volontà di verità e volontà del nulla sono dunque due nozioni che individuano in Nietzsche la problematica storica e culturale del nichilismo. In quanto espressioni della sua logica interna, esse intervengono nell’orizzonte etico e antropologico che si lega a temi cari al tardo Nietzsche, quali appunto il discorso della morale cristiana come «contronatura», la questione della décadence e, non da ultimo, la proposta filosofica di una trasvalutazione dei valori. Questi temi, com’è noto, trovano sviluppo nello scritto compilato nel 1888 a Torino, quel Crepuscolo degli idoli che agli occhi di Nietzsche costituiva un compendio essenziale del proprio pensiero e che, proprio per questo, avrebbe dovuto preparare il terreno per la pubblicazione della Trasvalutazione. Al suo interno, Nietzsche recupera il discorso relativo alla critica della verità e, come si vedrà nel prossimo paragrafo, tornerà a esprimersi rispetto alla questione del nostro rapporto col reale.
- Il coraggio di fronte alla realtà
Rovesciare idoli (parola che uso per dire «ideali») – questo sì è affar mio. La realtà è stata destituita del suo valore, del suo senso, della sua veracità, nella misura in cui si è dovuto fingere un mondo ideale… Il «mondo vero» e il «mondo apparente» – in altre parole: il mondo finto e la realtà… (EH, Prologo 2).
Con queste parole Nietzsche presenta, nella sua autobiografia filosofica, la propria attività. L’obiettivo che egli circoscrive come tema più rilevante e decisivo consiste in una messa in questione della contrapposizione puramente fittizia, ideale, tra un mondo «vero» e un mondo «apparente», la quale porta con sé la svalutazione del piano del reale di cui si è detto sopra. «Rovesciare idoli» viene dunque a essere l’elemento propulsore di quel «contromovimento» rispetto al nichilismo europeo che prende il nome di trasvalutazione dei valori (NF 1887-’88, 11[411]) e che Nietzsche prospetta quale traguardo dell’umanità a venire. Quest’ultima, proprio in virtù di un nuovo atteggiamento critico nei confronti del sapere, sarà in grado di vagliare i contenuti tramandati e mai messi in discussione, per poi rivelarne la vacuità e fragilità sul piano teoretico. In questo consiste in effetti l’obiettivo del Crepuscolo degli idoli, che, come spiega Nietzsche, offre uno strumento di guarigione rispetto alla malattia che affligge la sua contemporaneità – la décadence. Tale strumento consiste in una metodologia d’indagine che è, per l’appunto, una metodologia critica: «Porre una buona volta domande con il martello e, forse, udire come risposta quel noto suono cavo, che parla dalle viscere gonfiate» (GD, Prefazione). Non si tratta di un agire distruttivo, come spesso ancora si legge; il percorso che Nietzsche delinea è piuttosto un paziente ma inesorabile lavoro di auscultazione, nel corso del quale gli «idoli eterni» vengono «toccati con il martello come con un diapason» (ibid.), risuonando con fragore proprio perché al loro interno non vi è alcunché di consistente[12]. Questi idoli – Nietzsche lo rivela nella sezione di Ecce Homo dedicata al Crepuscolo – sono proprio le antiche verità, i principi sui quali l’umanità ha fino a oggi edificato il proprio sapere e il proprio agire, e delle quali secondo Nietzsche occorre sbarazzarsi, per poter dare avvio a una nuova stagione di pensiero.
Il Crepuscolo degli idoli sorge pertanto dall’incorporazione delle istanze critiche nei confronti della volontà di verità che Nietzsche espone al termine della sua Genealogia. Esso, inoltre, si pone in continuità con quest’ultima opera nel momento in cui viene a essere il momento preparatorio della progettata Trasvalutazione dei valori[13]. Nel Crepuscolo Nietzsche svolge una vera e propria diagnosi delle condizioni fisiologico-antropologiche dell’europeo cristiano, figlio della tradizione di pensiero che vede nella razionalità socratica il suo momento iniziale. Socrate, assieme a Platone, è per Nietzsche il primo décadent; in lui, cioè, si manifestano i sintomi di una malattia degenerativa destinata ad affliggere il mondo occidentale (GD, Socrate e EH, Nascita della tragedia 3). La principale conseguenza di questa malattia è di fatto quell’atteggiamento ostile alla vita che in altri luoghi Nietzsche descrive nei termini di una volontà del nulla. Come si legge in particolare nel già citato paragrafo 5 della sezione Morale come contronatura, infatti, secondo Nietzsche «la morale, come è stata concepita finora […] è l’istinto della décadence stesso», ma soprattutto è «il sintomo di una certa specie di vita; […] della vita declinante, indebolita, esausta, condannata». L’atteggiamento di condanna della vita che appartiene a questa morale, il suo rivolgersi «contro gli istinti della vita» e l’«attaccare le passioni alla radice», è quindi il prodotto di una determinata fisiologia, che Nietzsche ritiene essersi realizzata per la prima volta all’epoca dei Greci. È proprio in quel mondo, recuperando una sua riflessione giovanile – se si vuole, anche in chiave di strategia editoriale –, che Nietzsche individua il motivo antitetico al tipo umano declinante e negatore della vita, quel principio del dionisiaco che nella Nascita della tragedia era stato messo a tema parallelamente all’elemento apollineo e che nel Crepuscolo torna a giocare un ruolo di particolare rilievo in quanto promotore di un realismo filosofico che deve essere recuperato.
Secondo quanto Nietzsche scrive nel capitolo conclusivo del Crepuscolo degli idoli, il dionisiaco incarna per lui il vero e proprio motivo antitetico alla volontà del nulla. In esso si esprime «il fatto fondamentale dell’istinto ellenico – la sua “volontà di vita”» che già Platone, anticipando in questo il Cristianesimo, aveva rinnegato (GD, Antichi 2 e 4). Contrariamente a questa tendenza nichilista, la psicologia dello stato dionisiaco consiste in una completa affermazione della vita, in un «dire di sì» alla vita nei suoi aspetti più terribili, e quindi in un «coraggio di fronte alla realtà» che Nietzsche attribuisce ad esempio a Tucidide (GD, Antichi 2). Lo storico greco è in effetti qui direttamente contrapposto a Platone proprio in ragione del suo realismo. Egli, a detta di Nietzsche, era in grado di «vedere la ragione nella realtà»; in lui trova espressione «la cultura dei realisti: quell’inestimabile movimento in mezzo all’impostura morale e ideale delle scuole socratiche dilaganti ovunque» (ibid.). In contrasto con la tendenza declinante degli istinti greci, Tucidide risulta essere l’«ultima rivelazione di quella forte, severa, dura fattualità, che stava nell’istinto degli antichi Elleni» (ibid.). Egli si distingue in particolare da Platone, il quale è per Nietzsche «un codardo di fronte alla realtà» che «fugge nell’ideale; Tucidide ha se stesso in proprio potere, di conseguenza tiene anche le cose in proprio potere» (ibid.). La spiritualità forte che Nietzsche individua in Tucidide è l’elemento fisiologico che ha permesso a quest’ultimo di contrastare la malattia della décadence e di mantenersi in uno stato di salute. Tale condizione era propria dei greci nell’epoca della massima espressione del «sentimento tragico», una sensibilità oramai persa proprio per la difficoltà di reggere il peso di terrore e compassione e di essere «noi stessi l’eterno piacere del divenire» (GD, Antichi 5). L’invito di Nietzsche a recuperare un atteggiamento dionisiaco di fronte all’esistenza consiste pertanto in questa avversione per i motivi pessimisti che si possono ritrovare già in Aristotele, il quale parla di una catarsi delle passioni, del cui peso l’uomo dovrebbe volersi alleggerire (ibid.). Tutto questo è, ancora una volta, solo espressione di un’incapacità prima di tutto fisiologica di gestire tale carico, la cui espressione più sublimata viene a essere, in epoca moderna, la schopenhaueriana volontà del nulla. Al contrario, secondo Nietzsche «l’artista tragico non è un pessimista, – egli dice precisamente sì perfino a tutto ciò che è problematico e terribile, egli è dionisiaco…» (GD, “Ragione” 6).
Il tema del realismo in senso anti-nichilistico, un realismo inteso come sguardo coraggioso rivolto al carattere terribile dell’esistenza, è presente nel Crepuscolo anche in relazione a un’altra personalità che per Nietzsche è esemplare: Johann W. Goethe. Questi è «l’ultimo Tedesco del quale [Nietzsche] abbia un profondo rispetto» (GD, Scorribande 51), in ragione di un’affinità spirituale che renderebbe Goethe «non un evento tedesco, ma europeo» (GD, Scorribande 49)[14]. Agli occhi di Nietzsche, Goethe si è saputo elevare al di sopra della propria contemporaneità e ha offerto uno sguardo diverso da quello che la tradizione imponeva. In altre parole, «Goethe era, in mezzo a un’epoca disposta verso l’irreale, un realista convinto: disse di sì a tutto quanto gli era in questo affine» (ibid.). In lui, pertanto, Nietzsche ritrova quell’atteggiamento nei confronti del reale e del naturale che è proprio delle nature forti e che si pone agli antipodi del nichilismo pessimista schopenhaueriano. Goethe incarna la speranza che la cultura tedesca possa produrre un tipo umano differente, che l’umanità declinante non sia destinata a proseguire nel suo percorso degenerativo, ma che sia in grado di risollevare lo sguardo ed elevarsi a una nuova cultura affermativa. Come scrive ancora Nietzsche, «Goethe concepì un uomo forte, di elevata cultura», in grado di contrastare le forze disgreganti della décadence («che tiene a freno se stesso e ha rispetto di sé» e «sa usare a proprio vantaggio ciò di cui una natura media perirebbe») e di guardare al mondo entro cui è inserito «con un fatalismo gioioso e fiducioso» (ibid.). Questo tipo umano, che Nietzsche chiama uno «spirito divenuto libero», è promotore di un atteggiamento positivo rispetto alla vita, di una sua affermazione che nasce dalla «fede che solo ciò che è singolo sia riprovevole, che nell’intero tutto si redima e si affermi – egli non nega più… Ma questa fede è la più elevata di tutte le fedi possibili: io l’ho battezzata con il nome di Dioniso. – » (ibid.).
Come si può notare, il discorso di Nietzsche è estremamente coerente nel ribadire la medesima costellazione tematica nel momento in cui si trovi ad affrontare la questione del rapporto dell’uomo nei confronti dell’esistenza. La sua diagnosi del nichilismo europeo e della volontà del nulla che sta alla base della degenerazione antropologica prodotta da duemila anni di cultura metafisica, lo porta a concepire come unico strumento di guarigione un atteggiamento in cui non vi sia traccia di negazione alcuna. Nietzsche, evidentemente, ragiona per contrapposizione: avendo individuato il principio che ha prodotto il male che si vuole debellare, egli immagina che il principio opposto possa produrre un tipo umano differente e “sano”. Pertanto, al nichilismo derivante dal rifiuto della realtà naturale, dal rifiuto della vita, Nietzsche contrappone un incondizionato dire di sì a quest’ultima e un puro realismo che di essa affronti apertamente la complessità e ricchezza. Nel Crepuscolo degli idoli questo atteggiamento viene esemplificato dalla figura di Dioniso, ma essa è strettamente quanto espressamente legata anche a Zarathustra, che in Ecce Homo viene descritto come «colui che ha la visione più dura, più tremenda della realtà […]. Ma ancora una volta, questo è il concetto di Dioniso» (EH, Zarathustra 6). I tratti del profeta persiano ci riportano però al punto di partenza di questa riflessione, ovvero al paragrafo conclusivo della seconda dissertazione della Genealogia della morale, in cui Nietzsche preconizzava l’avvento di un «uomo dell’avvenire» in grado di redimere l’umanità dalla volontà del nulla prodotta dagli ideali ascetici (GM II 24). Come si è detto, a quell’«uomo redentore» Nietzsche attribuisce tratti marcatamente zarathustriani – senza però chiamare in causa la figura del profeta –, tra i quali risalta la sua capacità di «sprofondare […] nella realtà» (ibid.). Tutto questo dimostra quindi quanto il tema del realismo venga adottato da Nietzsche in chiave anti-nichilistica, e costituisca per lui un vero e proprio farmaco per contrastare il male della propria epoca. Immergersi nella realtà senza cercare rifugio in un mondo ideale significa infatti dover poi reggere il peso di tutto ciò che essa contiene; ma se si sarà in grado di sopportare tale fatica e di riemergere da quella palude, allora vorrà dire che si possiede una forza spirituale in grado di debellare la malattia e di superare una convalescenza che, per quanto lunga, lascerà spazio a una rinnovata «grande salute».
Tavola delle abbreviazioni
MA = Umano, troppo umano
FW = La gaia scienza
JGB = Al di là del bene e del male
GM = La genealogia della morale
GD = Crepuscolo degli idoli
AC = L’anticristo
EH = Ecce Homo
NF = Frammenti postumi
Le opere e i frammenti di Nietzsche sono citati a partire dall’edizione critica italiana di riferimento: F. Nietzsche, Opere complete, trad. it. Colli, G., Montinari, M. (a cura di), Milano: Adelphi 1964 ss.; a eccezione del Crepuscolo degli idoli, per il quale si è seguita la traduzione italiana: Gori, P., Piazzesi, C. (a cura di), Roma: Carocci, 2012.
I passi tratti dalle opere di Nietzsche sono indicati con l’abbreviazione del titolo dell’opera, seguita dal numero o dal titolo della sezione (ove presente) e dal numero del paragrafo (es. FW 344; GM II 24; EH, Zarathustra 6).
I passi tratti dai quaderni e dai taccuini di Nietzsche sono invece indicati con la sigla NF (Nachgelassene Fragmente), seguita dall’anno di redazione, dal numero del gruppo e da quello della nota (es. NF 1888, 17[7]).
Riferimenti bibliografici
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Gori, P., Piazzesi, C. (2012), “Un demone che ride”: esercizi di serenità filosofica, in Nietzsche, F., Crepuscolo degli idoli, trad. it. Gori, P., Piazzesi, C. (a cura di), Roma: Carocci, 9-35.
Montinari, M. (1992), Compiti della ricerca nietzscheana oggi, in Campioni, G., Venturelli, A. (a cura di), La biblioteca ideale di Nietzsche, Napoli: Guida: 267-282.
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Thatcher, D., (1985), A Diagnosis of Idols: Percussions and Repercussions of a Distant Hammer, «Nietzsche-Studien», 14, 250-268.
Note al testo
[1] Alcune considerazioni sulle radici di questa espressione nel pensiero di Schopenhauer sono contenute in Constâncio (forth.).
[2] Cfr. per esempio le lettere a Georg Brandes del 20 novembre 1888, e quella a Paul Deussen del 26 novembre 1888. Sull’elaborazione della Trasvalutazione dei valori si veda Montinari (1999: cap. 4).
[3] La «gioiosa serenità» (Heiterkeit) è in effetti la Stimmung dei filosofi che affrontano senza paura la morte di Dio, gli eredi e destinatari ideali degli scritti e del pensiero di Nietzsche di cui egli parla per esempio nel quinto libro della Gaia scienza (cfr. in particolare §§ 343 e 357). Si veda su questo ad esempio Stegmaier (2012, 95-101).
[4] Sugli effetti antropologici degli ideali ascetici Nietzsche dirà più esaustivamente nella terza trattazione della Genealogia. Nel §13 di quella sezione, in particolare, egli osserva che «l’ideale ascetico scaturisce dall’istinto di protezione e salute di una vita degenerante, che cerca con tutti i mezzi di conservarsi e lotta per la sua esistenza; esso indica una parziale inibizione ed estenuazione fisiologica, contro la quale combattono incessantemente, con nuovi mezzi e invenzioni, i più profondi istinti vitali rimasti intatti». Subito dopo, nel più esteso §14, Nietzsche svolge una serie di considerazioni sul rapporto tra malati e benriusciti, portando poi il discorso sul tema del ressentiment. In questo contesto si trova una nuova occorrenza dell’espressione ‘volontà del nulla’, qui presentata come «ultima volontà dell’uomo» e sinonimo di nichilismo.
[5] Sul “compito” che Nietzsche assume su di sé e che programmaticamente espone in questi paragrafi conclusivi della Genealogia, si veda Gori (2015).
[6] Le prime considerazioni su una contrapposizione tra un mondo “vero” e un mondo “apparente” e sulla metafisica implicata nel linguaggio che comunemente adottiamo, si trovano in MA I 11.
[7] Per una riflessione sulla ridefinizione che Nietzsche propone del concetto di “conoscenza”, in stretta connessione con i risultati della moderna epistemologia, cfr. Gori (2016, 80 ss.).
[8] Questa riflessione riprende quanto Nietzsche aveva già esposto in GM, Prefazione 5, paragrafo in cui egli chiama in causa Schopenhauer. A suo dire, le posizioni schopenhaueriane relative al tema degli istinti di «compassione, di autonegazione, di autosacrificio» sono «il sintomo più inquietante della nostra cultura europea, […] forse il suo tortuoso cammino verso un nuovo buddhismo? verso un buddhismo europeo? verso il – nichilismo?…» In quei discorsi, Nietzsche afferma in particolare di aver visto «il grande pericolo dell’umanità, la sua più sublime tentazione e seduzione – verso che cosa poi? verso il nulla? – precisamente qui vedevo il principio della fine, il momento di arresto, la stanchezza che volge indietro lo sguardo, la volontà che si rivolta contro la vita».
[9] Sul tipo di darwinismo che Nietzsche riceve e critica, si vedano per es. Fornari (2006), Richardson (2004) e Stegmaier (1987).
[10] Per una disamina sintetica della questione della décadence in Nietzsche, si veda Gori, Piazzesi (2012: 23 ss.). Montinari (1992: 281) sottolinea in particolare il rapporto che Nietzsche instaura tra décadence e nichilismo, per cui il secondo non è tanto causa, quanto logica della décadence (cfr. NF 1888, 14[86] e 17[6]).
[11] Dei buoni europei Nietzsche parla in particolare in FW 357 e 377. Vale la pena notare che il primo di questi aforismi è citato in GM III 27 e regge l’argomentazione relativa alla critica della volontà di verità. Per un approfondimento su questo tema si veda Gori, Stellino (2016).
[12] Si veda su questo il saggio di D. Thatcher (1985).
[13] Su questo si veda Gori, Piazzesi (2012) e, nuovamente, Montinari (1999: cap. 4).
[14] Sulla figura di Goethe in Nietzsche si veda ad esempio Prange (2013, cap. 7).