Pierluigi Marinucci – Adelino Zanini
D.: Affrontare il tema delle relazioni tra antropologia ed economia richiede una riflessione preliminare: in merito cioè a quanto questo complesso viluppo di relazioni abbia innanzitutto trovato esplicazione ”progettuale” nel campo epistemologico delle scienze umane, intese in chiave necessariamente e sufficientemente ampia da includere nel loro alveo concettuale anche la disciplina economica.
R.: Per quanto concerne lo statuto delle scienze umane, c’è un prima e un dopo Foucault (mi sia permesso di richiamare direttamente ciò che ho scritto nel mio libro dedicato al filosofo francese). Egli ci ha insegnato, infatti, come nel caso di tali scienze non vi sia “discorso” capace di restituire, attraverso un’unità architettonica formale, la totalità della propria storia. Il ricorso storico-trascendentale (l’individuazione di una fondazione originaria) e quello empirico (la ricerca del fondatore) appaiono, rispettivamente, tautologici ed estrinseci. Ciò che, ad esempio, permette di individuare un discorso come “economia politica”, non è l’unità di un oggetto, non è una struttura formale, un’architettura concettuale o una scelta filosofica fondamentale, appunto; è piuttosto l’esistenza di regole di formazione per tutti i suoi oggetti, per tutte le sue operazioni, per tutti i suoi concetti, per tutte le sue opzioni teoriche. È per questo che un’episteme non è la somma di conoscenze di un’epoca, bensì lo scarto, le distanze, le opposizioni, le differenze, le relazioni dei suoi molteplici discorsi scientifici. Essa non è una grande teoria sottostante, ma uno spazio di dispersione: non è uno stadio generale della ragione; è un complesso rapporto di spostamenti successivi.
In breve, le scienze umane non sono sovrapponibili alla biologia, all’economia, alla filologia; piuttosto, ne interrogano i loro versanti esterni, il “fuori” che le distingue: ciò che le rende possibili è infatti una certa situazione di prossimità nei riguardi della biologia, dell’economia, della filologia (o della linguistica); non esistono che nella misura in cui vengono a situarsi a fianco di queste, o piuttosto sotto di esse, nel loro spazio di proiezione.
Nello specifico, il fatto che l’uomo costituisca l’unica specie per la quale la produzione, la distribuzione e il consumo dei beni hanno assunto l’importanza che sappiamo, non serve a spiegare perché la scienza economica – pensabile certamente solo attraverso la formulazione di leggi che rappresentano i comportamenti degli individui – sia parte delle scienze umane. Una tale spiegazione, infatti, emerge solo là dove l’oggetto di queste ultime non è quell’uomo che da sempre lavora, scambia, consuma, ma quell’essere che, dall’interno delle forme di produzione che ne governano l’intera esistenza, forma la rappresentazione dei propri bisogni, della società tramite cui, con cui o contro cui li appaga, fino a poter da ultimo darsi la rappresentazione dell’economia stessa. Qui e solo qui è possibile osservare una scienza economica – che nel suo evolversi si sarebbe voluta “pura”, artefice e padrona delle proprie leggi, dei propri specifici linguaggi – lungo il suo “versante esterno”, nel “fuori” che ne interroga le pratiche, non già in ciò che sono, ma in ciò che non cessano di essere quando lo spazio della rappresentazione si schiude. Questo ci dice Foucault.
Ciò detto, la meta-narrazione economica si è costituita pur sempre nella ricerca di una fondazione originaria, anche quando ha provato a dubitare delle proprie ambizioni scientifiche, non ha quasi mai dubitato della possibilità di escludere il “fuori”, ossia, d’individuare un’origine che autorizzasse a ragionare di scienza naturale (comprensiva di azione, rappresentazione, meta-rappresentazione di un soggetto razionale), piuttosto che di scienza umana o, nel caso specifico, sociale. I richiami possibili sarebbero molti. Non c’è il solo interesse di L. Walras per il modello fisico.
D.: È dunque rilevabile uno scivolare della dottrina economica su posizioni progressivamente più ”scientifiche” – svanendo quindi la venatura ”morale” – proprio laddove i suoi enunciati e il suo apparato concettuale dovrebbero esprimere una crescente attenzione alla complessità antropologica?
R.: Anzitutto, è bene ricordare che la dottrina economica ha una storia “breve”, rispetto alla quale, lo slittamento semantico del termine oikonomia, la lunghissima evoluzione che conduce dal governo dell’oikos a quello della civil society, lo specifico governamentale delle Polizeiwissenschaften, la messa a tema del “governo della popolazione”, etc., non sono semplici presupposti, poi superati, appunto, dall’imporsi di un paradigma: quello liberale. Va poi ricordato che in Smith la dimensione etica e quella economica poggiano entrambe su di un presupposto antropologico. Il quale, del resto, rappresenta, in realtà, ciò che, pur presente, mancherà, ben presto, il suo obiettivo. Non tanto perché il “sonno antropologico” foucaultiano non abbia avuto anche in questo caso un ruolo, quanto perché il soggetto economico, con il venir meno di quello che Foucault definisce l’ordine di rappresentazione dell’analisi delle ricchezze, ha ben presto richiesto una meta-rappresentazione o, più banalmente, una autolegittimazione; quella stigmatizzata, ad esempio, da Karl Polanyi. Il quale ricorda come le motivazioni economiche non abbiano mai costituito per l’uomo l’unico incentivo al lavoro. Onore, orgoglio, senso civico e dovere morale, rispetto di sé e comune decenza erano spesso, in passato, elementi caratterizzanti il lavoro; né fame né profitto hanno mai rappresentato da soli i moventi economici. I morsi della fame non si sono mai tradotti, automaticamente, in un incentivo a produrre, giacché la produzione non è un affare individuale, bensì collettivo. L’homo oeconomicus è perciò un’astrazione e la sua trasformazione in uomo “reale” è frutto del riduzionismo economico, la cui tenuta scientifica è garantita in quanto sia garantito il determinismo e, ancor prima, una sorta di individualizzazione che fa dei rapporti sociali delle relazioni naturali. Ora, l’individualizzazione è la scommessa con cui ci si “salva” da ogni tentazione antropologica. Nei fatti, il “sonno antropologico” è già dissolto con Ricardo. Con Walras e Pareto diviene una superflua chimera. Certo, accanto al “puro” economico non manca lo spazio per una dottrina di politica sociale, ma essa non è riconosciuta e legittimata come un “fuori”: è solo un’appendice.
D.: Stai dicendo che nel corso della sua storia l’economia politica tende ad abbandonare la zavorra delle presupposizioni antropologiche relative a quello che l’illuminismo chiamava “uomo in generale”, a favore di un individualismo che ammette in linea di principio solo singolarità, ma nessuna cornice universale in grado di contenerle e di connetterle? Ossia, che l’economia politica, in fondo, accoglie e promuove la “morte dell’uomo” e il suo divenire “obsoleto”, molto prima che questo processo sia riconosciuto dalle teorie critiche contemporanee?
R.: Diciamo, anzitutto, che via via che gli apparati concettuali si specializzano, le grandi presupposizioni teoriche assumono un significato sempre meno significativo. Si tratta di un processo che non riguarda la sola economia – “evento” e “narrazione”, insieme. Quando si dica, ad esempio, che l’economia attuale non pone al centro gli interessi dei più (“uomo” o “persona”, “uomini e donne”), altro non si dice che una banalità: non perché non sia vero, ma perché la verità è a volte ovvia e inutile. Certamente, l’“uomo in generale” fu dapprima collocato alla base di un ragionamento secondo cui l’ordre naturel avrebbe trovato conferma in un’argomentazione razionale che coglieva in esso la solida base per l’ordine sociale. È la Naturform der gesellschaftlichen Produktion da Marx demolita. Nel momento in cui al centro fu posta la figura del consumatore edonista – e dunque una teoria soggettiva del valore – l’individualismo metodologico divenne però un processo autofondantesi, accanto al quale potevano convivere le più encomiabili e oneste preoccupazioni per le sorti dei meno fortunati: la “cornice”. Non andrei oltre, però. Per l’economia politica divenuta Economics (nel rispetto delle originali intenzioni marshalliane), la domanda: L’homme est-il mort? sarebbe apparsa semplicemente impenetrabile (anche allo “hegeliano” Marshall …). Poi, certo, la crisi dei fondamenti non risparmiò niente e nessuno. La scena viennese ne fu la culla; Schumpeter che cita a ragion veduta Mach è un fatto; nella scena cantabrigense, accanto a Keynes, troviamo Ramsey, Wittgenstein. Tuttavia, le grandi e suggestive interpretazioni devono essere filologicamente attrezzate; in quanto solo sintomatiche, han fatto il loro tempo. Simplex sigillum veri – appunto.
D.: L’homo oeconomicus è per la teoria economica una realtà da creare e solo poi da comprendere? E in che misura il mutamento dell’idea di uomo presupposta dall’economia politica, da Adam Smith alle teorie neoclassiche, può essere compreso in rapporto al mutato ruolo sociale della scienza economica, vale a dire del suo sempre più intenso coinvolgimento in quella che, dietro la maschera del libero mercato, appare come una vera e propria governamentalizzazione della realtà sociale? In questo scenario, come si alternano e si combinano istanze di ”scientificità” prescrittiva e istanze performative?
R.: L’homo oeconomicus è il perno teorico di una disciplina che pensa se stessa dopo aver raggiunto determinati esiti. Porta con sé l’invenzione di una “paternità” e di una “origine” (entrambe smithiane). Nel miglior dei casi, e solo in essi, è una semplificazione argomentativa relativamente innocente – penso a Hannah Arendt. In quanto tale, però, è anche una meta-rappresentazione e, se vogliamo mantenere il riferimento all’interpretazione di Foucault, potremmo dire che già con Ricardo l’homo oeconomicus non è colui che rappresenta i propri bisogni, ma colui che trascorre la propria vita nello sfuggire all’imminenza della morte. Egli è perciò un essere finito, e il problema della finitudine soppianta l’analisi della rappresentazione circolare della ricchezza. Con Ricardo, un’antropologia della finitudine scalza la mathesis quale scienza generale di tutti gli ordini possibili. Apre però la strada – questo Foucault non lo dice – ad una ben più ambiziosa rappresentazione, possibile proprio a partire dalla “carenza”, dalla “rarità”. In breve, l’homo oeconomicus si qualifica come l’agente economico perfettamente razionale, informato, libero di scegliere, che deve misurarsi con risorse per definizione scarse: il consumatore della tradizione marginalistica. Che in questa tradizione, ciò che è descrittivo sia anche prescrittivo è piuttosto evidente. La normatività dell’enunciato dell’equilibrio economico generale walrasiano è uno dei punti più discussi dalla letteratura. Che qui si possa individuare anche un’istanza performativa, mi pare lo si possa sostenere se – lasciando in pace il buon Walras – guardiamo all’odierna assiomatica economica e alla sua cecità…
D.: Appunto. Ai fini di una posizione critica nei confronti dell’economia e della società, il rapporto specifico con l’antropologia ne valorizza gli aspetti dissonanti e reattivi, spesso ponendosi obliquamente rispetto al soggetto economico-politico liberale: acquisendone cioè i tratti dinamici – vitalistici, eudaimonistici –, scorporandoli però dai suoi effetti finali, soprattutto in termini di generalità sociale.
R.: Sono gli esiti di una governamentalizzazione che ha saputo e potuto inglobare diversi elementi, attivi e reattivi, tipici della fuoriuscita da una società del welfare, a cui ha corrisposto – e qui, indirettamente, la lezione di Foucault qualche equivoco l’ha creato – un appello generico ad un “altro” pensiero economico: quello ordoliberale.
D.: A proposito di Foucault e della sua analisi del pensiero ordoliberale, inscritta nella più generale cornice della “biopolitica”, occorrerebbe domandarsi se alcuni aspetti – aporetici, quando non strutturalmente predisposti all’equivoco, come tu accennavi – non vadano ricollocati altrimenti rispetto alla mappatura foucaultiana. In particolare, un tema portante in Nascita della biopolitica è quello della ”demoltiplicazione della forma-impresa”, come fenomeno specifico della socializzazione neo-liberale. In esso come in molti altri emerge la natura ambivalente dell’ipotesi ordoliberale. D’altro canto stupisce come Foucault concentri la sua attenzione sui pensatori liberali tedeschi limitandosi alla sola cerniera storica degli anni intorno alla seconda guerra mondiale. La tradizione politico-economica tedesca, in cui pure sarebbe naturale inscrivere la vicenda di Ordo, è sostanzialmente omessa da Foucault.
R.: Partiamo dall’ultima parte della domanda. La mappatura foucaultiana ha un obiettivo proprio, che non è quello di fare la storia dell’ordoliberalismo. Si tratta di lettura, diciamo così, autorale – come lo sono il Kant o il Nietzsche di Heidegger – che si svolge, e non è poco, ancora dentro gli anni ’70 del secolo scorso. Ciò detto, alcune critiche specifiche non hanno certamente mancato il bersaglio: penso ad esempio a quelle di J.-Y. Grenier e A. Orléan e relative alla comprensione effettiva della scena politica tedesca postbellica. Tuttavia, io parlavo di possibile equivoco indirettamente creato, intendendo, in particolare, il fatto che quel Foucault ha finito per essere adoperato in mille salse di sapore diverso, sino al punto di giungere ad attribuirgli una “conversione” al neoliberalismo. Egli, invece, ci stava insegnando che l’ordoliberalismo, a differenza del liberalismo classico, era frutto di una tradizione in cui non c’era spazio alcuno per l’anarchico laissez-faire; anzi, per gli ordoliberali, non si governa mai abbastanza, quantunque, non si governi a causa del mercato ma per il mercato. Il neoliberalismo – dice Foucault – non si pone sotto il segno del laissez-faire, bensì sotto il segno di una vigilanza, di un’attività e di un intervento permanente. Dunque, uno stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato. Ciò che nella specifica temperie di fine anni ’70 era anche finalizzato a mettere in questione lo stereotipo di un “modello tedesco” totalitario, anziché ispirato a quella governamentalità neoliberale che – secondo il filosofo francese –, a partire dal secondo dopoguerra, si era ampiamente diffusa, dalla Francia giscardiana agli Stati Uniti (pur, in questo caso, su di un terreno già predisposto).
Poi, ci si può chiedere se l’ordoliberalismo come dottrina, con le sue molte sfaccettature, possa effettivamente aiutare a “fondare”, per così dire, nascita e sviluppo della biopolitica. Lo storico potrebbe sollevare problemi diversi e considerevoli, inerenti non solo all’intera e complessa tradizione della Wirtschaftspolitik tedesca, ai legami espliciti o alla semplice subordinazione silenziosa dell’ordoliberalismo degli anni Trenta nei confronti del Nazismo (penso al bel lavoro di Dieter Haselbach), ma potrebbe anche esprimere non pochi dubbi circa i modi in cui Foucault interpreta Keynes. O, meglio, non lo interpreta, adottando, sostanzialmente, cliché a tratti imbarazzanti. Ma ciò era funzionale a un’idea davvero importante: quella di governamentalità. Piaccia o meno.
Alla quale – vengo ora alla prima parte della domanda – è funzionale, allo stesso modo, quanto tu osservi circa la “demoltiplicazione della forma-impresa”, la quale costituisce, all’interno del corpo sociale, la posta in gioco della politica neoliberale. Si tratta di fare del mercato, della concorrenza, e dunque dell’impresa, quella che Foucault chiama la puissance de la société, la quale poggia sulla molteplicità e la differenziazione delle imprese – ossia, degli individui, imprenditori di se stessi, e delle diseguaglianze che li caratterizzano. Ovviamente, più questa moltiplicazione si sviluppa, più l’azione governamentale è forzata a lasciar corso a questo moltiplicarsi, più le frizioni aumentano; tuttavia, sulla base di una premessa forte e chiara: non si governa a causa del mercato, ma per il mercato.
Non sarà necessario dire che per Foucault ciò non prefigura un modello di Wirtschaftsordnung in quanto tale; significa “solo” che l’individuo è (costretto ad essere) imprenditore di se stesso. E a tal fine egli afferma che l’homo oeconomicus a cui l’ordoliberalismo guarda non è l’homme de l’échange, ma l’homme de l’entreprise, non il consumatore, ma l’imprenditore. Affermazione che può sembrare falsa, qualora si abbia a mente quanto Walter Eucken intende per Wettbewerbsordnung. E tuttavia, di nuovo, non è propriamente così – a patto, ovviamente, che si interroghi la lettura “autorale” di Foucault come una riscrittura (come si interroga il Nietzsche di Heidegger), utile a comprendere una bio-politische Ordnung, non l’oggetto di cui il filosofo francese è incidentalmente interprete. Di qui in poi, certamente, il termine biopolitica ha iniziato a significare … “troppe cose”. È divenuto un mot-clé a tratti persino irritante…
D.: Vorrei ripartire da una notazione in merito ad una delle sfaccettature del complesso prisma ordo-liberale, per estendere la sollecitazione al più generale campo della critica dell’economico. Mi riferisco cioè alla questione della differenziazione sociale, dei margini della sua autentificazione in termini di verità, naturalmente fondata e realmente legittimata.
Volgendo lo sguardo alla cultura politica e teorica marxista, il perno fondamentale che lega insieme piano epistemologico e prassi politico-trasformativa è quello del disvelamento, dello “scarto” tra realtà e mistificazione. Credo sia questa una questione decisiva; mi pare che lo spazio di questa declinabilità sia contenuto tra due operatori speculari: un massimo di valutatività soggettiva (penso ad alcune componenti della vicenda operaista) e un massimo di descrittivismo funzionalistico – e qui si potrebbe tentare un parallelo paradossale, ma forse non del tutto spericolato, tra alcuni linguaggi marxisti particolarmente ”deterministici” e la predilezione programmatica di Foucault per il modo di funzionamento del potere, più che per gli oggetti specifici presi all’interno di questa relazione.
Lungi dal fare una mappatura complessiva della questione, per quello che pertiene soprattutto il retroterra teorico di un’azione politica, come giocano questi due fattori nella composizione di una teoria critico-trasformativa ? La relativa crisi delle teorie critico-trasformative è imputabile in qualche misura ad un complessivo assorbimento di queste nell’orizzonte teorico a-valutativo (sociologizzante, descrittivo, etc.) a scapito del momento demistificante?
R.: Il Marx leggendo il quale anch’io sono cresciuto era certamente un Marx dialettico – non vi si sottraeva affatto l’operaismo. Diverso sarebbe il discorso se si dovesse discutere di quale rapporto con Hegel si trattasse – ma non è questo ad essere qui d’interesse, credo. Interesserebbe forse più ragionare di filosofie del sospetto, della menzogna della “realtà”; ma anche in questo caso si sposterebbe la questione qui essenziale. Che è, per Marx, l’arcano della forma merce, la quale rimanda agli uomini, come in uno specchio, i caratteri sociali del loro proprio lavoro come se essi fossero caratteri oggettivi (gegenständliche Charaktere), proprietà sociali naturali, in modo che il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo diviene un rapporto sociale tra cose. Sin qui Marx, poi cominciano i marxismi. La distinzione da te proposta ha un suo sostanziale fondamento; la ritrovi, ad esempio, entro la breve storia di “Quaderni rossi” – determinismo a parte, però. Con il quale, del resto, non vedo possibilità alcuna di stabilire un legame con l’analisi foucaultiana dei poteri. Ancorché si sia voluto vedere in Foucault un esponente del grande strutturalismo francese, di determinismo non mi pare possibile parlare. Proprio il fatto di interrogare più le relazioni che non gli oggetti rende impensabile un tale sospetto.
Va poi detto, in generale, che un certo funzionalismo è stato molto utile per comprendere le cose. E anche per svolgerne una critica non più solamente filosofica. La migliore sociologia italiana è stata indispensabile per la formazione politica di più di una generazione tra anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Il secolo scorso è però terminato con una sconfitta secca di ogni pensiero che avesse nel (non)-lavoro un riferimento critico-sociale. Eppure, l’arcano della forma merce ha lo stesso valore veritativo, ma non c’è un soggetto che se ne appropri – o forse dovrei dire che possa farlo (quantunque questo “sguardo” sia irrimediabilmente “occidentale”). Resta la critica, non c’è trasformazione: meglio, le trasformazioni avvengono dall’alto. E anche la critica è così depotenziata. Più che di sociologizzazione, però, parlerei di eticizzazione. Che è molto peggio.
D.: Per concludere, prenderei spunto da un dettaglio del tuo discorso per toccare un ultimo punto. Parlavi, infatti, di una secca sconfitta di ogni pensiero che abbia avuto nel (non)-lavoro un riferimento critico-sociale. Non voglio tornare sull’alternativa tra lavoro e non-lavoro, tra liberazione del lavoro e liberazione dal lavoro, che ha avuto un ruolo importante nelle discussioni interne alle diverse sinistre. Il punto che mi interessa è piuttosto il fatto che, mentre perdeva posizioni sul piano della realtà, negli ultimi decenni il lavoro ha simultaneamente perso importanza anche sul piano della critica. Penso ad esempio al modo in cui la critica del consumismo o della mercificazione (che tende per altro ad assumere i tratti del discorso ‘etico’ di cui parlavamo poco sopra) ha contribuito a spostare l’attenzione dal piano della produzione a quello della circolazione. Penso anche, per fare un altro esempio, al dibattito sul “reddito di cittadinanza”. Ti volevo dunque chiedere quale sia lo spazio che bisogna riconoscere al lavoro in un discorso sul rapporto tra antropologia e politica: in quale modo gli sconvolgimenti che hanno avuto luogo in questo campo (la precarizzazione, certo, ma anche la disoccupazione o la sotto-occupazione di massa) hanno contribuito non solo a produrre una nuova antropologia, ma anche all’emergenza di nuove forme – spesso discutibili – della critica? Ed è poi vero che dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva?
R.: Spesso si è parlato e si parla di fuoriuscita dalla società del lavoro, intendendo con essa un vero e proprio mutamento antropologico, oltre che sociologico. Niente di più vero, ma anche di più contraddittorio: è mutata la tipologia del lavorare, entro una globale divisione internazionale del lavoro; sono mutati i tipi di subordinazione e le forme di reddito ad essi legate; in molti casi il processo lavorativo si è interamente “cognitivizzato” e/o “feminilizzato”, etc. Bene, comunque sia, né il lavoro si è liberato, né ci si è liberati dal lavoro. Anzi. Il concetto foucaultiano di biopolitica trova qui un fruttuoso impiego nella lettura post-operaista, in particolare, ove si ragiona di “vite messe al lavoro”. Qui sorge altresì un paradosso, perché nel momento in cui il re è nudo – o, come spesso si dice, quando la sussunzione reale diviene sussunzione di un’intera vita messa al lavoro –, il lavoro sembra scomparso dagli schermi. Si invocano, certamente, alcune buone ragioni per ricordare come il quadro sociologico sia profondamente mutato. Già agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, il Censis coniò l’espressione “famiglia lunga”, per dar conto della capacità di assorbimento della vecchia struttura nei confronti del sovvertimento del mercato del lavoro. Nel corso di trent’anni, le cose sono notevolmente cambiate – in peggio. Inizialmente, le spinte alla fuoriuscita dalla società del lavoro erano per lo più determinate dagli esiti di un ventennio di lotte sociali; poi venne l’automazione (il LAM a Mirafiori), etc.
Il lavoro non ha affatto perso importanza sul piano della realtà, perché si lavora diversamente ma non meno; in luoghi e spazi diversi, spesso “senza orario” e senza tutele: né presenti, né future. Ha invece perso il ruolo che aveva rispetto alla “critica”. Si potrebbe dire – se il termine non fosse notoriamente ambiguo – che non è più “rappresentabile”. Di sociologia (non sempre buona) della precarizzazione ce n’è sin troppa, ma spesso è solo stanca ripetizione del già molte volte detto. Però, non mi convince affatto la distinzione, anch’essa alquanto vetusta, tra produzione e circolazione. È un nobile cliché marxiano: ma che significa, oggi? Dovremmo forse ambire a restaurare la scomparsa centralità di un soggetto produttivo (la classe operaia) che, pur massicciamente presente a livello planetario, ha smarrito il “ruolo” liberatorio assegnatole, starei per dire il proprio “concetto” – occidentale, è bene ricordarlo? Dovremmo perciò guardare con diffidenza al “reddito di cittadinanza”, perché poco rispettoso di un’ideologia lavorista? L’angelo di Benjamin: … Das, was wir den Fortschritt nennen, ist dieser Sturm.
Le forme della “critica” stanno dentro questa tempesta, che ha persino generato una nuova antropologia del precario. C’è addirittura un’estetica della precarizzazione, ormai. C’è poi un “mestiere della critica”, una “metafisica della critica”, una “critica della critica”, ma senza un soggetto che esprima un’egemonia potenziale. Persino l’operaismo, alla fine, ha dovuto riconoscere di aver trascurato Gramsci – seppur, in anni tumultuosi, di quell’idea, a torto o meno, non sapessimo che farcene. Wo aber Gefahr ist,… Mi piace credere che Hölderlin avesse ragione. Ma forse tu pensavi ad Heidegger …