Recensione a “Paure della contemporaneità”, Rivista di psicologia analitica, n. 36

Giorgia Aloisio

‘Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto’: queste sono le suggestive parole con le quali lo scrittore statunitense H. P. Lovecraft, tra i maggiori autori del genere ‘horror’, descrive questa intensa, universale emozione.

La paura è «un’emozione primaria di difesa, […] spesso accompagnata da una reazione organica, di cui è responsabile il sistema nervoso autonomo, che prepara l’organismo alla situazione d’emergenza»[1]. Sigmund Freud ha distinto paura, angoscia e spavento: la paura richiede la presenza di un oggetto del quale si ha timore, l’angoscia «indica una certa situazione che può essere definita di attesa del pericolo e di preparazione allo stesso, che può anche essere sconosciuto»[2], quindi una paura senza nome, senza identificazione e che, come precisa Y. Kobayashi, non abbiamo ancora mai sperimentato; lo spavento, infine, «designa lo stato di chi si trova di fronte a un pericolo senza esservi preparato e sottolinea l’elemento della sorpresa»[3].

Una delle più celebri scene tratta dal film ‘Psycho’ di A. Hitchcock (1960)

Queste distinzioni, nette sulla carta e facilmente afferrabili dalla mente, al giorno d’oggi sembrano farsi nebulose, oscure, ambigue, come sottolinea B. Massimilla nell’editoriale di questa rivista: attualmente le emozioni di angoscia e timore, questo ‘malessere ingovernabile’ (definizione tratta dalla testimonianza anonima), sono convogliate nel processo di globalizzazione e, condensate tra di loro, danno vita ad un’enorme paura generale dai tratti indistinti e imprecisi. Si tratta di un’emozione molto comune e gli ingredienti di questo amalgama sono generati da terrorismo internazionale, violenza diffusa in ambito pubblico e privato, catastrofi più o meno naturali (terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, esplosioni di centrali nucleari), conflitti mondiali, armi chimiche, esclusione sociale, carenza di lavoro, epidemie: paure da sempre esistite come entità singole ma che oggi, in questo esplosivo mix, hanno generato quella che l’autrice definisce in modo molto calzante una ‘cupola di inquietudine planetaria’ (p. 10).

Nonostante le nuove tecniche mediche ci permettano, ad oggi, di osservare, diagnosticare e trattare i malesseri del corpo più precocemente rispetto al passato, la paura di contrarre malattie, o le diffuse epidemie (influenza aviaria, botulismo, morbo della ‘mucca pazza’, solo per citarne alcune tra le più note) rimane intensa e dura da combattere: oggi più di ieri assistiamo a processi di diffusione del disagio in modalità invisibili, come accade nei casi di propagazione di particelle radioattive, unità impercettibili in grado di generare danni irreparabili su larga scala. Gli strumenti radiologici, sempre più raffinati nella loro capacità di scansionare il nostro corpo, dentro e fuori, ci permettono di mostrare i referti medici con una decisa dose di esibizionismo (e, naturalmente, vengono scrutati con pari voyeurismo), quasi fossero ‘amuleti’ (N. Janigro) o riti apotropaici da utilizzare per scongiurare un’angoscia impossibile da acquietare altrimenti. Sebbene le moderne tecnologie siano state create per risolvere problemi e non per generarne di nuovi, in alcuni momenti si ha l’inevitabile sensazione che le incertezze, attualmente, si siano quadruplicate e che la natura si stia ribellando a tutta questa novità, alla ‘supertecnologia’ che abbiamo finora prodotto (M. Augé). La paura è dentro il corpo ma influisce inevitabilmente anche sulla psiche; l’angoscia, il terrore ci ‘contaminano’ attraverso i mass media e, soprattutto, tramite il canale di internet, che pervade tutto il globo e lo connette in ogni sua parte.

Viviamo in un’epoca, nota R. Finelli, nella quale si sta sempre più affievolendo la capacità di ‘sentirsi’: il trend post-moderno insegna agli adulti – ma soprattutto alle nuove generazioni – a osservare con fascinazione la superficie, l’aspetto esteriore, l’estetica di noi e dell’altro. Oggi è come se la globalizzazione avesse intrapreso un processo di superficializzazione e frammentazione; questa nuova modalità porta, come proprie naturali e dirette conseguenze, sradicamento interiore e ‘svuotamento emozionale’ (p. 40), rendendoci ciechi e dimentichi del viaggio nel mondo interiore intrapreso dall’uomo nel corso dei secoli grazie a pensatori come Agostino, Cartesio, Kant, Hegel.

Quasi quotidianamente i mass media portano alla nostra attenzione fatti criminali più o meno eclatanti e questo, spesso, innesca e diffonde capillarmente meccanismi di paura e paranoia (C. Pavoni): la paura genera ulteriore paura e, utilizzando l’efficace massima di T. Todorov, ‘la paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari’.

In un momento storico nel quale l’angoscia e il senso di asfittica invasione non risparmiano bambini, anziani, né persone di culture diverse, cosa si può mettere in pratica per arginare questi devastanti, invalidanti, dilaganti e condivisi vissuti? Come metterci al riparo dal male?

La centrale nucleare di Fukushima durante l’esplosione del 2011.

Prima di qualsiasi progetto o anche di semplici considerazioni dettate dal buon senso, dobbiamo fare i conti con il fatto che ‘il male’ abita questo mondo, fa parte della realtà nella quale viviamo, la alimenta quotidianamente: ogni individuo racchiude in sé zone ‘assolate’ e zone ‘in ombra’ e trattare la pars destruens che vive in noi come se fosse ‘un gioco da bambini’ (per ricordare il romanzo di J. Ballard citato da C. Pavoni) è un errore che può rivelarsi fatale per il raggiungimento di uno stato di equilibrato benessere: lo stesso dicasi per l’atteggiamento proiettivo, la tendenza, cioè, a proiettare al di fuori di sé e quindi sull’altro la propria ombra, come nel caso della moda della cosiddetta ‘violenza sulle donne’ (C. Pavoni).

A inizio secolo J. Conrad ci ricordava che «non è necessario credere in una fonte sovrannaturale del male: gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità»[4]. Non esiste alcun rimedio per immunizzarci dal male, se non ammettendolo nella nostra dimensione. Annientare ed eliminare dalle nostre vite il male è un’aporia: un ‘totale sradicamento’ è del tutto impensabile, anzi, non è affatto auspicabile, affermano i criminologi Ceretti e Cornelli, perché significherebbe tentare di praticare un vero e proprio sabotaggio dell’essere umano nella sua globalità. Se è vero, quindi, che la malvagità abita naturalmente le nostre dimore, va da sé che il ‘male assoluto’ non esiste: tutti noi partecipiamo a questa dimensione e una collettività che tenti di eliminare la violenza dalle proprie dinamiche individuali e sociali la ritroverebbe ancor più potente al proprio interno, come insegna la lezione junghiana.

Per attenuare il male, è indispensabile accettare il dato di fatto che esiste in noi un principio maligno: dobbiamo riconoscerlo, sia a livello interpersonale che intrapsichico (R. Finelli). Accogliere questa verità – seppur scomoda – ci permetterebbe, in qualche forma, di addomesticare ‘il male oscuro’, ed è in questo senso che dovremmo incamminarci, direzionandoci verso una ricucitura della spaccatura che la società post-moderna sta operando tra emozionale e razionale, biologico e psichico, particolare e universale, naturale e culturale, psichico e corporeo.

In quest’opera di inclusione, comprensione e ‘risveglio’ (Y. Kobayashi), è fondamentale mescolare tra loro varie discipline, apparentemente distanti tra loro (sociologia, psicologia, psicoanalisi, antropologia, scienza politica, storia, filosofia, medicina) e diverse specializzazioni: la condivisione di punti di vista e professionalità differenti, il ‘meticciato’ che auspica G. Villa, è l’unico motore in grado di generare processi di cura e sollievo a più livelli e permette di ‘generare visioni’ tutti insieme, come testimoniato dall’esperienza clinica di conduzione dei gruppi multifamiliari della comunità terapeutica della quale l’autore tratta. L’ambivalenza, la molteplicità costituiscono l’essenza della natura umana: è grazie alla copresenza e alla contrapposizione di pulsioni di vita e di morte che noi esistiamo[5]. Grazie alla nostra capacità di guardare fuori di noi ma anche di osservarci dal nostro interno, possiamo entrare in relazione con l’altro in quanto totalità e connetterci con il mondo naturale nel quale viviamo (L. Campanello).

L’Ombra è la parte di noi che dobbiamo riconoscere e integrare poiché senza di essa

non saremo completi.

C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo.

 

E. Munch, La pubertà (1894-1895)

[1] U. GALIMBERTI, Dizionario di psicologia, Utet, Torino, 1992, p. 661.

[2] S. FREUD (1920) Al di là del principio di piacere, in Opere, Boringhieri, Torino, 1977, vol. IX, p. 198.

[3] Ibidem.

[4] J. CONRAD (1911) Sotto gli occhi dell’Occidente, Garzanti, Milano: 1995.

[5] S. FREUD (1920) Al di là del principio di piacere, in Opere, Boringhieri, Torino, 1977, vol. IX.

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