Roberto Finelli
Lo spirito del tempo, lo Zeitgeist hegeliano, ci esorta con la durezza di una crisi che investe e travolge la materialità dell’esistere, con il riproporsi non più rimovibile delle richieste del realismo, a dare per conclusa l’epoca del postmodernismo, quale insieme di ideologie e di culture che hanno complessivamente teorizzato la cancellazione della realtà a favore dell’artefatto e dell’immateriale. Per circa un trentennio abbiamo assistito al dominio e all’egemonia di un atteggiamento generalizzato pronto a riconoscersi nella tesi che l’Essere si risolva in linguaggio, che l’essenza del filosofico consista nella decostruzione, che la verità sia questione solo di un’ermeneutica infinitamente aperta, che la gnoseologia del frammento e della differenziazione espella qualsiasi istanza di sistema e di totalità. Per quello che mi interessa in questa sede, però, la cultura del postmoderno ha significato soprattutto la dilatazione e l’estremizzazione della dimensione dell’intersoggettività e dell’esposizione all’altro, maiuscolo o minuscolo che sia, per la rimozione o lo svalorizzazione di ogni nota di sintesi e d’identità nella strutturazione dell’individualità soggettiva[1]. Per questo, dopo l’estenuazione della cultura del postmodernismo, possiamo ritornare con maggiore consapevolezza, io credo, ai problemi centrali delle scienze umane, tra cui s’annovera, com’è ovvio, il tema della natura e della funzione dell’inconscio nell’opera di Freud, con specifico riferimento alla questione delle invarianze di contro alle trasformazioni che il pensiero del viennese sopporta durante il percorso della sua vita.
1. Il corpo dell’inconscio.
Il passaggio dalla prima topica (conscio, preconscio, inconscio) alla seconda topica (Es, Io, Super-io), con la modificazione profondissima della natura della pulsione cui si accompagna (prima pulsioni dell’Io contro pulsioni sessuali del Genere, ora pulsione dell’eros contro pulsione di morte), costituisce indubbiamente la trasformazione più radicale del paradigma freudiano: una trasformazione che va, a mio avviso, nel verso di una progressiva materializzazione ed incarnazione della riflessione di Freud. Nella prima topica l’inconscio coincide con il rimosso e con esso si conclude. E’ costituito da rappresentazioni ed affetti, da un conoscere e un sentire, ai quali la censura inibisce l’accesso alla coscienza. Che non hanno cioè parola e che, non legate dalla catena delle parole, possono a loro volta, nell’inconscio, scindersi tra rappresentazione ed affetto, generando tutte le patologie di un affetto non messo in scena e vissuto. In tal caso l’inconscio è un aposteriori, è un posto, un prodotto da altro, conseguenza di una censura che ammutolisce e toglie parola. L’inconscio è cioè distruzione di linguaggio.
Con il passaggio alla seconda topica l’Es è invece un originario, l’insieme dei movimenti organici profondi del corpo che si manifestano nello psichico attraverso il gioco dei sentimenti di piacere e dispiacere. E’ il fondo dello psichico – quella sua parte che affonda nel corporeo, e traduce i movimenti e i processi biologici quantitativi del bios nella percezione quantitativo-qualitativa della mente – che li avverte e riconosce come sentimenti di piacere e di dispiacere. L’Es è cioè il rappresentante del corpo nella mente. Il suo modo precipuo di essere, di esistere nello psichico, è il sentire: quella percezione proveniente dall’interno che Freud chiama propriamente sensazione, sentimento o pulsione, e che si distingue radicalmente dalla percezione sensoriale provienente dall’esterno, la cui composizione dà luogo alla rappresentazione del conoscere. Il sentire attiene all’interno, radicandosi nel corpo della mente, mentre il percepire-rappresentare attiene al rapporto con il mondo esterno. Ed è appunto su questa eterogeneità di funzioni, su questa distinzione tra il sentire da un lato e il rappresentare dall’altro, che si basa la distinzione dello psichico della seconda topica: l’Es come altro del corpo e l’Io come altro del mondo esterno, il primo composto da pulsioni e il secondo da percezioni/rappresentazioni. «E’ facile rendersi conto – scrive Freud ne L’Io e l’Es – che l’Io è quella parte dell’Es che ha subíto una modificazione per la diretta azione del mondo esterno grazie all’intervento del [sistema] Percezione-Coscienza: in certo qual modo è una prosecuzione della differenziazione superficiale. L’Io si sforza altresí di far valere l’influenza del mondo esterno sull’Es e sulle sue intenzioni tentando di sostituire il principio di realtà al principio di piacere, che nell’Es esercita un dominio incontrastato. La percezione ha per l’Io la funzione che nell’Es spetta alla pulsione (cors. mio). L’Io rappresenta ciò che può dirsi ragione e ponderatezza, in opposizione all’Es che è la sede delle passioni»[2].
L’Es è dunque il corpo che prende corpo nella mente. E come tale è il vero luogo del simbolico, perché è il quantitativo del corporeo che si traduce nel qualitativo dello psichico. Già nel saggio del 1915 sulla Verdrängung, sulla rimozione, Freud usava del resto i termini Triebräpresentant e Tribräpresentanz per designare il rappresentante o la rappresentanza della pulsione, vale a dire la traduzione e la rappresentanza del somatico nello psichico. Questi lemmi sono legati all’atto politico del delegare e del rappresentare, ad ambiti di senso, cioè, lontanissimi da quelli della rappresentazione intesa in chiave gnoseologico-conoscitiva. Räpresentanz o Räpresentation indicano infatti, nella lingua tedesca, gli istituti politici della delega o della mediazione tra due sfere della vita civile e politica legate ma di natura e funzione tra loro eterogenea, mentre il rappresentare nel senso della dimensione conoscitivo-ideativa si esprime propriamente come Vorstellen o funzione della Vorstellung. Basti pensare che già nello scritto neurologico del 1891, Zur Auffassung der Aphasien, Freud, allora ancora lontano dalla psicoanalisi, parlava di Räpresentation per dire che, a suo avviso, non c’era corrispondenza biunivoca, nel senso di un rapporto 1 a 1, tra l’innervazione di un qualsiasi punto della superficie corporea e un corrispondente punto sulla corteccia cerebrale, e che la rappresentazione del corpo nella corteccia cerebrale avveniva dunque per rappresentanza, cioè per elaborazione e sintesi di più elementi. Tentare di mettere a tema l’Es, la sua natura e le sue funzioni, significa dunque parlare e pensare in termini più di Räpresentanz che non di Vorstellung, più di rappresentanza che non di rappresentazione. L’Es trova perciò il suo fondamento, nell’Affektbetrag, che pure si lega a una rappresentazione ideativa, ma che vale di per sé come ammontare di affetto, cioè come traduzione ed espressione qualitativa della quantità di energia somatica e delle sue variazioni, che si manifestano appunto come variazioni su tutto l’arco possibile dei sentimenti di piacere e dispiacere. Il sentire è il piano intermedio tra corporeità e psichicità. Ed è dunque qui che Freud colloca, topologicamente e dinamicamente, l’Altro. L’Es è l’altro dell’Io, in quanto è alterità in sé stesso, rappresentanza – e non rappresentazione – del corpo nella mente e come tale funzione simbolica che assegna il senso e la verità non al conoscere ma al sentire. Perché attraverso il sentire è il corpo che si fa a se stesso simbolo, traducendosi nel sentire della mente. E’ qui che a mio avviso va collocato il fondamento di una concezione materialistica dell’uomo e della sua natura simbolica. Non nella semplice capacità di produrre e di usare simboli linguistici, ma nella sua capacità di essere simbolo a se stesso in quanto mente che assume il corpo ad oggetto primo e permanente, privilegiato e intrascendibile, del proprio pensare, in quanto mente cioè la cui funzione primaria è quella di riconoscere e di rappresentarsi un corpo che di per sé non può mai essere completamente ridotto a rappresentazione.
Con il passaggio alla seconda topica il rimosso non coincide più con l’inconscio. Ne costituisce solo una sezione, una parte. «Ma anche il rimosso – scrive Freud – confluisce con l’Es, di cui non è altro che una parte»[3]. Ciò significa che larga parte dell’inconscio non deriva più dalla distruzione del linguaggio, non è più il prodotto di una funzione linguistica inibita e corrotta, non è più una funzione di senso derivata e deformata, ma è una funzione di senso primaria e non linguisticamente mediata.
Con tale incorporazione e incarnazione dell’inconscio, con tale sua biologizzazione[4], Freud anticipava, io credo, la critica alla dismisura e alla retorica dell’intersoggettività da cui è stato caratterizzato il postmodernismo. La pregnanza biologica, corporea, della pulsione, quasi prossima all’animalità, anticipa infatti la critica e il rifiuto di una teoria solo culturalistica e sociologica dell’antropogenesi e della formazione dell’individualità. Freud costruiva così una topica dell’asse verticale di costituzione della soggettività articolata secondo scansioni di piani più profondi e di piani più di superficie, fondata sull’irriducibilità e sull’irrapresentabilità, nel senso della rappresentazione e non della rappresentanza, del corporeo nel mentale.
Una topica dell’asse verticale quale critica anticipata della costruzione solo socio-culturale e relazionale dell’essere umano, che impedisce di risolvere l’umano nel rapporto con l’altro-da-sé perché rivendica ed esplicita una costituzione verticale istituita sull’altro-di-sé.
A partire dalla riformulazione freudiana dell’inconscio nella seconda topica si può infatti sostenere e teorizzare che altro-da-sé e altro-di-sé formino i termini delle diverse relazioni, una orizzontale e l’altra verticale, che costituiscono gli assi trascendentali e permanenti del vivere umano: l’una intersoggettiva e interpsichica, l’altra infrasoggettiva e intrapsichica[5]. Proprio la svalorizzazione dell’asse intrapsichico e la valorizzazione unilaterale del solo asse intersoggettivo tracciano il confine profondo, riguardo alla teoria dell’azione e dell’agente, tra sociologia e scienze sociali da un lato e psicoanalisi dall’altro.
Del resto – a conferma di quanto sia complessa la trasformazione del paradigma freudiano tra prima e seconda topica – non va dimenticato come la riformulazione, topica e funzionale, dell’inconscio attraverso l’introduzione dell’Es comporti quel rivoluzionamento della teoria delle pulsioni incentrata sulla messa in scena della pulsione di morte come tendenza originaria dell’umano alla dissoluzione dei legami e alle dinamiche distruttive, volte sia verso l’altro che verso il sé. Giacché ora non si tratta più di un semplice confronto tra vita sessuale e vita sociale, di un inconscio cioè che nasce da censure e divieti, ma di un’antropologia ben più vasta e complessa, fatta della dialettica tra pulsioni di costruzione e di sintesi e pulsioni di disgregazione e dissoluzione.
2. La rappresentazione di linguaggio in Freud e le tre logiche.
All’interno di questo campo di variazioni profonde e significative – che vanno nel verso, come dicevo, di una progressiva incarnazione dell’inconscio in Freud e del suo costituirsi come l’effettivo altro interiore dell’umano, come un corpo che è pesante, nel senso che pesa e dà senso alla vita della mente e che tende possibilmente a costituire la mente come ciò che si prende cura di quel proprio oggetto, tra tutti, privilegiato che è appunto il proprio corpo – ciò che permane, non variato, nell’opera freudiana, qui si può dire, veramente dall’inizio alla fine del suo pensare, è la concezione della struttura e della funzione del linguaggio nel rapporto tra conscio e inconscio, con tutto ciò che ne deriva sul piano della teoria clinica e del campo insieme transferale e controtrasferale costituito dalla coppia analitica. Freud infatti, com’è noto, teorizza analiticamente e in modo assai articolato sulla funzione del linguaggio in connessione con le patologie della mente fin dallo scritto già citato del 1891 sulla concezione delle afasie, se ne occupa in vario modo in pressocché tutti i suoi scritti, e in modo esplicito torna a trattarvi nella sua ultima, impegnativa e sistematica opera teorica costituita dall’Abriss der Psychoanalyse, il Compendio di Psicoanalisi, del 1938. Quasi a costituire un’unica idea, permanente e fissa pur nelle sue variazioni, a conferma che la profondità di un pensiero consiste verosimilmente, io credo, nel pensare, per un’intera vita, senza tradimenti e rotture epistemologiche, di fondo un’unica e sola idea. Lo scritto del 1891, di un Freud ancora solo neurologico, è rilevante e fondamentale perché Freud vi matura quella distinzione, come lui si esprime in quelle pagine, tra Sachvorstellung o Objektvorstellung da un lato e Wortvorstellung dall’altro, cioè tra rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola, che utilizzerà appunto come struttura concettuale permanente per l’intera sua opera[6].
Le due rappresentazioni (siamo sul piano, si badi, della Vorstellung) hanno natura e composizione assai diversa tra loro. Sono non dei semplici ma dei composti. Costituiscono entrambi degli insiemi formati dalla relazione di più elementi. Per cui per il neurologo Freud le varie patologie del linguaggio non possono che derivare dalla scomposizione, in vario modo, all’interno di ciascun insieme. Ma con il particolare rilievo attribuito a quella scissione più determinante che può accadere invece tra i due insiemi e che distacca un contenuto ideativo, composto, da percezioni sensoriali visive, tattili, acustiche, olfattive, cinestetiche, dal suo significante linguistico. In una scissione cioè tra rappresentazioni senza linguaggio e funzione linguistica che prepara il terreno, per ora solo su un piano neurologico, alla topica di una parte della mente che vive di una logica e di un pensiero che pensa, incredibilmente, senza linguaggio, con sole rappresentazioni cosali. Infatti è nella possibile mancanza di sintesi tra rappresentare con linguaggio e rappresentare senza linguaggio che già quel Freud scorgeva il luogo centrale della genesi di scissioni e patologie. «In quanto qualcosa fa pensare, scriveva Freud nel saggio sulle afasie, che il collegamento fra rappresentazione di parola e rappresentazione di cosa sia la parte più facilmente esauribile dell’attività di linguaggio, in un certo senso il suo punto debole»[7].
Basti ricordare un passo decisivo del saggio su L’inconscio (Das Unbewusste) del 1915 in cui Freud utilizza esplicitamente la distinzione/scissione tra rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola per designare che cos’è una rappresentazione inconscia: «Ciò che abbiamo potuto chiamare la rappresentazione conscia dell’oggetto si scinde ora nella rappresentazione della parola e nella rappresentazione della cosa; quest’ultima consiste nell’investimento, se non delle dirette immagini mestiche della cosa, almeno delle tracce mestiche più lontane che derivano da quelle immagini. Tutto a un tratto pensiamo di aver capito in che cosa consista la differenza fra una rappresentazione conscia e una rappresentazione inconscia. Contrariamente a quanto avevamo supposto, non si tratta di due diverse trascrizioni dello stesso contenuto in località psichiche differenti, e neanche di due diverse situazioni funzionali dell’investimento nella stessa località; la situazione è piuttosto la seguente: la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa cosa viene sovrainvestita in seguito la suo nesso con le relative rappresentazioni verbali. Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrainvestimenti a determinare una più alta organizzazione psichica, e rendere possibile la sostituzione del processo primario con il processo secondario che domina nel Prec. A questo punto siamo in grado di indicare con precisione cos’è la rimozione ricusa nelle nevrosi di traslazione alla rappresentazione respinta: le ricusa la traduzione in parole destinate a rendere congiunte con l’oggetto. La rappresentazione non espressa con parole, o l’atto psichico non sovrainvestito, resta allora nell’Inc, rimosso»[8]. Ed ancora dopo vent’anni circa Freud riafferma nel Compendio che, affinché il mondo interno riesca a giungere alla coscienza, è necessario che le scene emozionali si connettano a rappresentazioni verbali, le quali costituiscono appunto il medium percettivo con cui il mondo inconscio giunge a farsi conscio. «Processi coscienti alla periferia dell’Io, – scrive Freud – e tutti gli altri inconsci nell’Io, questo sarebbe lo stato di fatto più semplice da supporre. Negli esseri umani si aggiunge una complicazione per cui anche processi interni all’Io possono acquisire la qualità della coscienza. Questa è opera della funzione del linguaggio che porta i contenuti dell’Io in stretto collegamento con i contenuti mnestici di percezioni visive, e ancor più di percezioni auditive»[9].
Così quando Freud passa dal suo primo ventennio di studi neurologici alla pratica e alla teoria della psicoanalisi porta con sé, nel nuovo continente, questa acquisizione fondamentale della connessione neurologica, nella loro diversità di struttura e di funzione, di rappresentazione di cosa e di rappresentazione di parola, di rappresentazione senza linguaggio e di rappresentazione con linguaggio. Una endiadi, a cui la nuova ambientazione psicoanalistica, unisce il terzo livello, non secondo Vorstellung ma secondo Räpresentanz, della pulsione, dell’Affektbetrag, della carica emozionale. In tal modo Freud, fin dalla prima topica, può concepire la verticalità intrapsichica della psiche umana come rapporto tra mente e corpo costituito e articolato, sia nella fisiologia che nella patologia, da tre distinti ordini e dalle tre distinte logiche del loro operare: l’ordine dell’affetto, l’ordine della rappresentazione di cosa e l’ordine della rappresentazione di parola. L’ordine dell’affetto per quello che abbiamo detto appare istituirsi come un ambito psichico non solo a-linguistico ma in qualche modo anche a-rappresentativo. E’ di natura intrinsecamente bina perché traduce la quantità in qualità, ossia gli stati quantitativi di energia elettro-fisica ed elettro-chimica del corpo in presenze avvertite dalla mente, gli affetti. La logica dell’affetto si struttura secondo il modello idraulico definito da Freud nel Progetto del 1893. E’ tensione energetica che tende alla scarica. Si muove per la sua base quantitativo-organica lungo una scala di diminuzione o di crescita continua, che nella sua fluidità non ammette segmentazioni e scomposizioni discontinue.
La logica della rappresentazione di cosa è invece quella di un pensiero eidetico-sensoriale che, in assenza di catene e connessioni linguistiche, pensa attraverso associazioni di somiglianza, contiguità, analogie, metafore, condensazione e spostamento. Pensa cioè secondo la logica del sogno come modo peculiare di pensare attraverso un pensiero del concreto e non un pensiero della verbalizzazione concettuale e discorsiva che, come tale, si distingue nel suo essere animato da scene qualitativamente articolato e distinto dal pensiero solo quantitativo dell’ordine pulsionale.
Infine la terza logica della rappresentazione di parola, in cui la funzione della catena linguistica caratterizza un pensare che lega l’energia libera della pulsione e la trasforma in energia legata, perché connessa all’esame e al principio di realtà.
Queste tre logiche[10], che si muovono tra rappresentanza e rappresentazione, articolano solo il verticale in Freud. Articolano solo quello che nei termini della filosofia potremmo chiamare l’effetto Kant nell’opera di Freud, quale articolazione dei diversi luoghi e delle diverse facoltà della mente, la cui sintesi genera la fisiologia e le cui scissioni invece la patologia e le mortificazioni della mente. La relazione orizzontale, di quello che potremmo chiamare l’effetto Hegel, quanto a relazioni di riconoscimento o disconoscimento con l’altro da sé, mi sembra sia scarsamente considerata e approfondita nel corso dell’intera opera freudiana.
La sintesi di questi due grandi campi relazionali costituisce il nodo più complicato dello psichico e dell’antropologia esistenziale e politica contemporanea e a muovere dal quale si può tentare una sorta di enciclopedia delle scienze e sul quale, non a caso, con esiti diversi, ma comunque di discussione e di approfondimento, ha continuato a lavorare la migliore psicoanalisi postfreudiana.
3. J. Lacan: relazione adversum corporeità.
A fronte di ciò che definerei, soprattutto con la seconda topica, il materialismo incarnato di Freud, vorrei ora svolgere, nella seconda parte di questo mio scritto, qualche riflessione forse troppo rapida (non me ne vogliano gli amici lacaniani) sull’opera di J.Lacan, per evidenziare quale grado di dematerializzazione spiritualistica, di allontanamento dalla corporeità, se non di prossimità teologiche, possa raggiungere la cultura psicoanalitica quando, invece che partire dal corpo pulsionale come principio della vita, e dunque dall’infrasoggettività, mostra di privilegiare essenzialmente l’intersoggettività, cadendo in una prospettiva tutta culturalista e linguistica dell’essere umano. Basti pensare, a proposito di lontananza dalla materialità e dalla corporeità, che nel pensiero di Lacan, tra le molti fonti cui attinge il sulfureggiante maestro francese, s’intrecciano in particolare quella di A. Kojéve e quella di M. Heidegger.
Il desiderio fondamentale, ciò che muove a vivere l’essere umano, per Lacan, nasce con il corpo ma non è nel corpo o del corpo, come avviene invece per Freud, per il quale la pulsione ha un’origine irriducibilmente biologico-corporea, e per tutta la psicoanalisi che accoglie l’origine prioritaria del corpo rispetto alla mente. Il desiderio, proprio e specifico della specie umana, è quello del riconoscimento. Ossia quello che cerca la risposta alla domanda: “chi sono?”. Per cui, appunto, l’origine della vita umana non sta nel corpo e nei suoi bisogni materialistici, ma in un interrogarsi sulla propria identità, che appartiene ad una coscienza già in qualche modo riflessiva ed autoriflessiva. O, più precisamente, secondo lo stadio dello specchio, la cui prima versione Lacan presenta nel 1936 a Marienbad al XIV° Congresso dell’International Psychoanalitic Association, ciò che si dà nell’essere umano è una prematurazione della funzione conoscitiva, un’eccedenza del conoscere/vedere, rispetto alle altre funzioni somatiche[11]. Questa ipervalorizzazione della funzione scopica (la cui ragione Lacan acriticamente non spiega), accompagnata alla sottovalutazione e ad una presunta crescita ritardata delle altre funzioni corporee, produce l’identità immaginaria dell’Io (moi). Il bambino, inizialmente incapace di coordinazione motoria, è un corpo-in-frammenti (corp morcélé) e può dare essere ed unità a tale non-essere solo vedendosi riflesso come un tutto nello specchio. Questo significa che la nascita dell’Io, la sua identificazione, è sempre legata ad un’immagine che gli proviene da Altro, un’immagine idealizzata che corrisponde al Super-io. L’Io sta sempre al di là dello specchio ed è, nella sua sintesi fittizia, intrinsecamente Super-io, mentre il vero soggetto (je) sta sempre al di qua dello specchio, come condizione frustante e disperante di disgregazione e frammentazione in pezzi. «La coscienza si produce ogni volta che è data una superficie tale da poter produrre ciò che si chiama un’immagine. E’ una definizione materialistica»[12]. A partire da questa origine speculare, la vita dell’essere umano consisterà così in una serie infinita di identificazioni immaginarie con l’Altro da sé, con gli altri, e in un precipitare sempre di nuovo, data la realtà solo immaginaria di quelle identificazioni, nella realtà veracemente reale, oltreché amarissima e insopportabile, della disgregazione: in un’altalena senza fine di transiti e di passaggi tra l’Io e il vero Soggetto. E, com’è noto, per Lacan la catena ininterrotta di identificazioni speculari o immaginarie potrà essere interrotta solo da quell’identificazione culturale o simbolica che costituirà per lui il nucleo del complesso d’Edipo.
Ma qui intanto, prima che del significato della tripartizione tra «reale», «immaginario» e «simbolico» nell’opera di Lacan preme sottolineare il carattere appunto fortemente antinaturalistico e antipulsionale dell’impostazione lacaniana e di quanto abbia potuto pesare per tal verso la lezione dell’hegelismo antinaturalistico di Kojève.
E’ cosa ben conosciuta l’influenza che nella cultura francese del ‘900 ha avuto la lettura che A. Kojève ha diffuso a partire dagli anni ’30 della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Qui basti dire che è stata un’interpretazione quanto originale quanto assai poco fondata nel testo. Kojève si concentra, com’è noto, sulle sole pagine della famosa lotta per il riconoscimento che Hegel illustra nella sezione sull’autocoscienza a proposito della dialettica di signore e servo. E quelle pagine per l’interprete russo valgono come l’inizio: l’inizio della storia umana e la sua fuoriuscita dalla natura. Un passaggio, che vede da un lato il mondo naturale come caratterizzato solo dal “bisogno”, ossia dalla necessità di riproduzione fisica e materiale degli individui viventi che lo compongono, e dall’altro il mondo umano, della storia e della cultura, fondato invece sul “desiderio”, ossia sulla volontà di essere riconosciuto, ciascuno nella propria incomparabile ed irriducibile soggettività, da tutti gli altri. Da un lato il mondo dei corpi e della vita biologica legata alla nascita e alla morte, nel costante timore del non soddisfacimento del bisogno e del venir meno della vita, dall’altro il mondo degli esseri umani, capaci di superare la naturalità biologica, la paura della morte, e di gareggiare in lotta con gli altri simili, per imporre il riconoscimento del proprio sé. Salvo non esser capaci di rifiutare la naturalità e di accedere alla dimensione del riconoscimento tutti quegli esseri umani che, schiavi del corpo e della paura della morte, non lottano fino in fondo, fino alla morte, con l’altro per l’affermazione di sé: ma cedendo appunto di fronte all’altro, lo riconoscono come padrone, facendosene servi. Di qui l’asimmetria delle classi e la genesi, appunto. della storia umana come storia, secondo l’impianto marxiano, di classi e di lotta di classi.
Ora l’errore fondamentale di Kojève, almeno a parere di chi scrive, nella sua fretta di stringere insieme hegelismo e marxismo (pur muovendo, va detto, dall’ottima intenzione di coniugarli non secondo l’ottica della “dialettica della contraddizione”, cara alla tradizione del leninismo-stalisnimo, ma appunto da quella, assai più feconda e meno destinata a tragedie storiche, della “dialettica del riconoscimento”) è stato quello di imporre al testo hegeliano un inizio, che non è per nulla tale e che, non essendo tale, non consegna alla relazione del riconoscimento quel carattere di assolutezza e di radicale discontinuità tra natura e storia, tra “corpo” e “spirito” che Kojève le impone. La coscienza che giunge alla coscienza di sé, che si fa autocosciente attraverso il riconoscimento da parte di un’altra coscienza, vi giunge dopo aver percorso già una complessa serie di figure psicologiche, gnoseologiche, culturali della propria identità, pur non potendovisi fernare e riconoscere ma dovendo sperimentare, per ciascuna di esse, lo scacco e il rovesciamento delle sue credenze iniziali. «Coscienza sensibile», «percezione» e «intelletto» – le figure dell’identificazione che precedono quella dell’autocoscienza – costruiscono già vissuti di una coscienza capace di riflessione e d’interrogazione e che rimandano a segmenti e luoghi culturali già consolidati della storia della filosofia. La storia della cultura è dunque già ben iniziata, non foss’altro per la presenza e la funzione del linguaggio, vettore indispensabile di costruzione e di rovesciamento dialettico nella costruzione delle prime tre figure della Fenomenologia. Tant’è che, a ben vedere, la lotta tra signore e servo può connotare, forse anche nell’intenzione hegeliana, più il riferimento ad epoca storica determinata, come quella eroico-omerica dell’aristocrazia ellenica o come quella alto medievale del feudalesimo germanico, che non un riferimento alla storia tout court, al principio cioè e al fondamento della storia in generale.
Certo è indubbio che nel confronto tra la vita del corpo e la paura della morte da un lato e la vita dello spirito e l’assenza di paura della morte, al signore viene attribuita da Hegel una capacità di negazione assoluta della propria corporeità, che appunto gli garantisce, nel dominio e nel controllo della propria bisognosità, il dominio e la riduzione a servitù dell’altro. Ma è una capacità di dir no già preparata e introdotta, nella sua assolutezza, dall’operare della negazione linguistica, e delle sue versioni ontologico-logiche, nelle precedenti figure fenomenologiche della coscienza hegeliana. Senza inoltre dimenticare che il desiderio di essere riconosciuto in una lotta che non esita neppure di fronte alla morte, quale appartiene al signore, presuppone, più generalmente, quella necessità di identificarsi senza residuo nell’altro da sé, ovvero quel più ampio e generale «riconoscimento» o «riconoscersi nell’altro», che connota, come presupposto generale, il procedere del Geist hegeliano e che Hegel ha attinto dal milieu filosofico a lui contemporaneo, quali la Vereinigungsphilosophie di Hölderlin, la dottrina dell’Io/Non-Io di Fichte e la filosofia dell’identità di Schelling. Per cui il Kampf um Anerkennung della dialettica di signore e servo nella Fenomenologia dello spirito – anziché costituire l’inizio assoluto della vicenda umana, come pretende Kojève – appare rimandare a un contesto di presupposti, più generali come più determinati, che, relativizzando la sua portata, mettono profondamente in discussione quella differenza radicale tra bisogno e desiderio, che Kojève istituisce in quel luogo del testo hegeliano e che Jacques Lacan ha assunto come asse fondamentale della sua teorizzazione.
Ma, oltre a ciò, in Lacan la differenza ontologica tra bisogno e desiderio si coniuga con la differenza ontologica tra Essere/Esserci/Ente (Sein/Dasein/Seiendes) di Heidegger e con la tesi, sempre heideggeriana, che il linguaggio sia una manifestazione dell’Essere ossia che la struttura della realtà sia di natura linguistica. Per Heidegger la differenza ontologica tra Sein e Dasein implica che l’essere appaia solo sottraendosi, solo sparendo: giacché ogni possibilità d’identificazione e di definizione ridurrebbe l’«Essere» ad «Ente», a mera cosa. Analogamente per Lacan l’essere umano stesso vive in una trama di assenza e di presenza. La sua vita è una pulsazione costante tra la morte e la frammentazione (je) e l’identificazione alienante (moi): un’alternanza tra non-essere ed essere, tra un «meno e un più d’identità». Se la funzione per eccellenza del linguaggio è quella simbolica, in quanto l’uso e la presenza della parola rimanda all’assenza della cosa significata, l’essere umano è intrinsecamente simbolico – è esso stesso simbolo – in quanto costituito da un’alternanza tra assenza e presenza di essere.
Mentre in Freud – e tale differenza appare sostanziale – l’essere umano è simbolo a sé stesso in quanto costituito insieme da un sentire e da un conoscere, ossia da un corpo che si relaziona ad una mente, e dove dunque c’è un problema costante di dialogo e di traducibilità, come d’incomprensione e di scissione, tra le due componenti, per Lacan l’uomo è essere simbolico, perché vive in una costante estraneità rispetto a se stesso: perché, rispetto alle sue presunte certezze d’identità, è invece costantemente parlata da Altro (ça parle), ovvero l’inconscio parla in lui. Con possibili allusioni, va aggiunto, ad una vox dei neppure troppo dissimulata, Lacan può così argomentare che il senso di ogni parola non sta nel significato cui rimanda ogni significante. Perché il vero significato di ogni parola si ritrova nella perenne domanda di riconoscimento. Il senso per Lacan è qualcosa che eccede sempre, che travalica il significato. Ed appunto per tale eccedenza il senso, quale alternanza tra il vuoto originario e il pieno fittizio dell’identità immaginaria, impone che il significato di un significante è sempre «un altro significante».
Per Freud il luogo del senso sta nel sentire del corpo, nell’avvicendarsi dei suoi sentimenti/emozioni, mai mancanti ad essere ma sempre pieni di emotività e di significatività. Invece per Lacan , data la riduzione del corpo a non-essere e data perciò l’impossibilità di ancorare il senso al sentire del corpo, il luogo del senso sta nel «non senso». Sta nel non senso di tutte le parole e i discorsi che pretendono di dare identità al soggetto, per via immaginaria, attraverso il susseguirsi di identificazioni speculari e simbiotici con l’altro/i. Perché solo la riduzione a non senso dell’identità immaginaria del moi, può aprire il vero senso del je, della vera soggettività, consistente nella capacità di non fermarsi in nessuna delle forme identitarie ma di attraversare, senza complicità di permanenza, tutte le opportunità del divenire. Il senso infatti sta nel venire meno dell’«immaginario» e nella possibilità dell’accesso al «simbolico», quale coincidenza del soggetto con la sua condizione alternante di «più» e di «meno», di più di identità e di meno di identità, di essere e di non-essere. E d’intendere con ciò che la verità del soggetto umano sta nel non cessare mai d’identificarsi e, poi, nel superare l’identificazione: in un perenne domandarsi «chi sono?», che non può e non deve mai trovare una forma definitiva e rassicurante.
In conclusione a tale confronto, assai schematico, tra alcune tematiche freudiane e lacaniane, ciò che sembra poter dire è che molto del pensiero e delle filosofie della differenza – molto cioè del pensiero postmoderno – abbia preso alimento dalla differenza tra Freud e Lacan, ossia dal modo in cui un pensiero come quello di Lacan, fortemente esposto alla seduzione, quando non alla mistica, del Nulla ha riletto e reinterpretato l’opera di Freud: più legata, invece, a quell’indagine sulla compresenza di corpo e mente, in cui, secondo la preziosa indicazione di Spinoza, si circoscrive e si risolve l’antropologia dell’essere umano.
[1] Mi permetto di rinviare su ciò a R. Finelli-F. Toto, Dal moderno all’ipermoderno, in Consecutio temporum. Hegeliana, Marxiana, Freudiana, (www.consecutio.org), n. 5, aprile 2013.
[2] S. Freud, L’Io e l’Es, in Opere, Boringhieri, Torino 1977, vol. 9, p. 488.
[3]Ivi, p. 487.
[4] Cfr. su ciò S. Haber, Freud et la théorie sociale, La Dispute, Paris 2012, pp. 25-60.
[5] Cfr. su ciò A. B. Ferrari, L’ecclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma 1992.
[6] Su ciò rimando all’ottimo studio di M. De Lillo, Freud e il linguaggio. Dalla neurologia alla psicoanalisi, Pensa, Lecce 2005.
[7] S. Freud, L’interpretazione delle afasie, tr. it., Sugarco, Milano 1980, p. 150.
[8] S. Freud, L’Io e l’Es, op. cit., p. 85.
[9] S, Freud, Compendio di psicoanalisi e altri scritti, tr. it di I. Castiglia, Newton Compton, Roma 2010, p. 66.
[10] Rimando al mio Perché l’inconscio ‘non’ è strutturato come un linguaggio, Prefazione a S. Freud, Compendio di psicoanalisi, op. cit., pp. 7-30.
[11] Per uno sguardo complessivo sull’opera di J. Lacan cfr. D. Tarizzo, Introduzione a Lacan, Laterza, Roma-Bari 2009.
[12] J. Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, tr. it. a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1991, p. 62.
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