Paolo Godani
Una certa riflessione novecentesca cresciuta all’ombra della strana (per non dire mostruosa) alleanza tra Nietzsche e Hegel ha creduto necessario rovesciare la centralità del bisogno, caratteristica del marxismo, attraverso una paradossale valorizzazione della gratuità, del dono, della dépense. Così, nell’epoca del trionfo della borghesia o di quello che potremmo chiamare il materialismo borghese (fatto di utilitarismo ed economicismo), ma anche nell’epoca della realizzazione del comunismo e del suo materialismo storico, Georges Bataille e altri rivendicavano il diritto di una teoria (al contempo esistenziale e politica) del lusso o dello spreco. Nello stile del radicalismo nietzschiano, ciò che si proponeva era un rovesciamento dialettico dei valori allora dominanti, che avrebbe fatto tornare in auge nientemeno che il principio del pensiero aristocratico. All’interno di questa opposizione tra utilità e spreco, calcolo e dispendio, bisogno e lusso, è rimasta invischiata anche la teoria del desiderio sviluppatasi, non a caso, proprio a partire da quello stesso contesto culturale francese. Da Mauss a Kojève, da Bataille a Lacan, da Girard a Derrida, si rimane decisamente all’interno di una dialettica che, opponendo il desiderio al bisogno, relega il primo dalla parte del lusso.
Per quanti appelli si possano firmare in favore della realtà dell’impossibile, resta il fatto che pensare il desiderio come un lusso significa considerarlo perfettamente irreale e ineffettuale di fronte alla materialità evidente del bisogno. Detto altrimenti, la dialettica a cui abbiamo fatto riferimento conduce a considerare il campo psicologico e sociale come rigorosamente diviso tra istanze materiali, dunque ineludibili, e istanze immateriali, come tali sacrificabili. Nonostante il radicalismo batailliano, è proprio questa la logica che ha retto il welfare state novecentesco: soddisfare i bisogni più o meno elementari, lasciando alla “fortuna” o all’intrapresa individuale il soddisfacimento dei desideri. Lo stato ha certo il compito di garantire a tutti che siano soddisfatti i bisogni, poiché si tratta di esigenze reali, effettive, autentiche, ma certo non si può pretendere che esso assecondi le fisime di ognuno, perché queste ultime altro non sono che fantasticherie, esigenze gonfiate, inautentiche. Come si comprende senza sforzo, dietro la logica distributiva del welfare novecentesco sta una profonda istanza di carattere morale, capace di decidere ciò che è legittimamente pretesto e ciò che è invece una pretesa ingiustificabile. L’essenziale di questo moralismo sta in un’operazione sottile, attraverso la quale veniamo convinti del fatto che le persone hanno innanzitutto dei bisogni, ovvero che quella del bisogno sia una categoria determinante nell’interpretazione delle istanze soggettive. È in conseguenza di questa operazione che il desiderio viene ridotto a esigenza sacrificabile, avendo come oggetto non ciò di cui si ha bisogno, bensì ciò di cui, per definizione conseguente, non si ha bisogno. La teoria della dépense va contro questo moralismo economico-libidinale, ma limitandosi a rovesciarne il segno non riesce ad uscire dal circolo da esso tracciato: si mostra capace di rivendicare il desiderio al di là del bisogno, ma può rivendicarlo solo come un lusso; ovvero, prende posizione a favore del lusso, anziché del bisogno, ma in questo modo ribadisce il senso stesso della partizione moralistica.
Più precisamente, le riflessioni novecentesche sul desiderio, tutte fondate su di un essenziale riferimento alla svolta psicoanalitica, condividono una concezione idealistica e dialettica che fa del desiderio l’istanza di una produzione meramente immaginaria, fantasmatica, posta al di fuori della “realtà stessa” come si presenta nella materialità del bisogno. Così, il desiderio sarebbe produttivo di un mondo simbolico, psichico, i cui oggetti sarebbero derivati dalla mancanza reale che è costitutiva della vita stessa e che si manifesta come bisogno. Il “fantasma” del desiderio sarebbe insomma un supplemento immaginario di fronte alla mancanza costitutiva del reale. Come scrivono Deleuze e Guattari per descrivere l’impostazione psicanalitica: “l’oggetto reale di cui il desiderio è mancante rinvia per conto suo a una produzione naturale o sociale estrinseca, mentre il desiderio produce intrinsecamente un immaginario che fiancheggia la realtà, come se ci fosse ‘un oggetto sognato dietro ogni oggetto reale’ o una produzione mentale dietro le produzioni reali. E certo – continuano Deleuze e Guattari – la psicoanalisi non è costretta a sfociare così in uno studio dei gadgets e dei mercati nella forma più misera d’una psicoanalisi dell’oggetto (psicoanalisi del pacchetto di pasta, dell’automobile o del ‘coso’). Ma anche quando il fantasma è interpretato in tutta la sua estensione (…), è il bisogno ad essere definito dalla mancanza relativa e determinata del suo proprio oggetto, mentre il desiderio appare come ciò che produce il fantasma o produce se stesso staccandosi dall’oggetto, ma raddoppiando la mancanza, portandola all’assoluto, facendone una ‘incurabile insufficienza d’essere’, una ‘mancanza-ad-essere’ che è la vita. Di qui la presentazione del desiderio come puntellato sui bisogni” (L’Anti-Edipo, p. 28).
2. Lacan e le necessità del desiderio
Eppure, almeno Lacan non pareva volesse andare in questa direzione – lui che aveva perfettamente riconosciuto “nel desiderio il carattere paradossale, deviante, erratico, eccentrico o scandaloso, per cui si distingue dal bisogno” e aveva annotato con dispiacere come la stessa psicoanalisi si ritrovasse “in testa all’oscurantismo di sempre” negando quella differenza di natura e giungendo ad una “riduzione teorica e pratica del desiderio al bisogno” (La significazione del fallo, in Scritti II, pp. 687-688).
Nella riflessione di Lacan, il luogo del desiderio e la sua dinamica sono ben distinti dal luogo e dalla dinamica del bisogno. Mentre quest’ultimo, situato nella sfera biologico-fisiologica, si presenta come uno stato di necessità e di tensione che sospinge il soggetto all’appagamento, un appagamento inteso come risoluzione della tensione, grazie all’acquisizione dell’oggetto necessario, il desiderio è situato nell’ordine del simbolico, è dunque determinato dal linguaggio e dalla cultura piuttosto che dalla natura, e appare come una sorta di domanda rivolta non all’acquisizione di un oggetto, ma (secondo una dialettica già hegeliana e che tornerà sistematicamente in Girard) alla conquista del desiderio dell’altro. Più dettagliatamente, Lacan spiega come nella relazione con la madre, il soggetto costituisca l’altro come avente il privilegio di soddisfare i bisogni e, per ciò stesso, di privarli delle sole cose da cui sono soddisfatti, sostituendosi ad esse. In tal modo, il desiderio si costituisce come istanza che si rivolge non più agli oggetti capaci di soddisfare i bisogni bensì all’amore dell’altro che quegli oggetti ha il potere di concedere e che, proprio per questa sua facoltà, si sostituisce ad essi divenendo così oggetto del desiderio. Da qui, fra l’altro, la confusione costitutiva tra la concessione senza riserve degli oggetti del bisogno e la risposta amorevole nei riguardi della domanda del desiderio in quanto tale. Ora, il fatto è precisamente che questa confusione instaura, per Lacan, la discrepanza costitutiva e insuperabile non solo tra desiderio e bisogno, ma soprattutto tra il desiderio e la sua propria realizzazione (cfr. La significazione del fallo, cit., p. 688). Infatti, se la prova d’amore (e con essa il desiderio stesso) si costituisce proprio in funzione della discrepanza rispetto alla soddisfazione del bisogno (il che è come dire: “se ti amo voglio essere riamato, non mi basta il tuo corpo, voglio la tua anima!”), se, in altre parole, non c’è desiderio che possa essere soddisfatto dalla semplice consumazione del suo oggetto (altrimenti si tratterebbe non di un desiderio, ma appunto di un bisogno), il desiderio stesso, stretto tra la sua differenza dal bisogno, dunque tra la mancanza di oggetti capaci di soddisfarlo, e la pretesa infinita rivolta all’altro, finisce per svilupparsi in un intermezzo che ne testimonia solo la costitutiva impotenza, la radicale finitezza. Con ciò, sembrerebbe evidente e inaggirabile, nella riflessione di Lacan, un’ispirazione hegeliana, heideggeriana, sartriana, che lo spinge a pensare il desiderio come pura negatività, come una sorta di buco di non-essere in mezzo all’essere, come un reale che manca a se stesso.
Per quanto lo stesso Deleuze si sforzi di riconoscere nella teoria lacaniana dell’oggetto-a un’anticipazione della “macchina desiderante che definisce il desiderio tramite una produzione reale, superando ogni idea di bisogno e anche di fantasma” (L’anti-Edipo, p. 29, nota), nondimeno anche l’oggetto-a come oggetto pulsionale o del godimento non ha infine altra funzione che quella di far sì che il soggetto lo riconosca come ontologicamente inadeguato a saturare il desiderio vuoto o la mancanza-a-essere. E in questo senso è indubbio che la teoria lacaniana del desiderio finisca per replicare, suo malgrado e benché su un piano ulteriore, la medesima struttura del bisogno da cui pure intendeva smarcarsi.
Tuttavia, in un altro senso la riflessione di Lacan sembra indicare una direzione per cui il desiderio, pur conservando la sua differenza di natura rispetto al bisogno, non si profila né come il luogo che testimonia la finitezza, né come un’istanza che, in quanto produttrice di meri fantasmi, relega i suoi oggetti nell’ambito del frivolo. Un passo del saggio su Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano (in Scritti, p. 814) sembra suggerire, benché nella tipica oscurità della prosa lacaniana, questa direzione. Parafrasandolo, diremo che l’impotenza naturale dell’animale umano, per un certo tempo dopo la nascita, costituisce una dipendenza rispetto ai suoi simili che non si cancella, ma viene conservata, nel passaggio al simbolico, alla cultura e alla società; anzi, quella dipendenza cresce con la trasformazione dei bisogni in desideri o meglio con il passaggio dall’ordine del bisogno all’ordine del desiderio. Qui, per quanto Lacan continui a fondare il suo discorso sulla base di un’antropologia negativa che prolunga la dipendenza infantile dell’animale umano sino a farne la ragione stessa della società, l’elemento di interesse è l’idea secondo cui il passaggio dal bisogno al desiderio implica sì una diversificazione e una moltiplicazione degli oggetti ambìti, ma non certo il loro scadimento da oggetti reali a fantasmi; conseguentemente, quel passaggio non decreta affatto una partizione tra necessità dei bisogni e futilità dei desideri. Per quanto situati su piani differenti, tanto gli oggetti del desiderio quanto quelli del bisogno e, più in generale, tanto il desiderio stesso quanto il bisogno presentano il loro marchio di necessità, la loro ananke.
3. Il bisogno come proiezione
Comunque stiano le cose con Lacan, fuori dalla dialettica di desiderio e bisogno diremo che nessuno – se non in situazioni estreme ed estremamente rare – ha dei bisogni, mentre chiunque, sempre, nutre dei desideri. In questo senso, la categoria del bisogno è pressoché espunta dal novero delle categorie atte ad interpretare o descrivere le dinamiche soggettive, lasciando quasi intero il campo al desiderio. La categoria del bisogno coglie ciò che resta del desiderio una volta che questo viene filtrato nelle maglie dell’oggettiva considerazione sociale, morale, politica. Quest’ultima funge dunque da setaccio che distingue le pretese legittime, che si chiameranno bisogni, dalle pretese illegittime, che verranno dette desideri.
Ma come è possibile affermare che sul piano della soggettività quasi non esistano bisogni, ma solo desideri? Appare a tutti gli effetti come una tesi controintuitiva: il povero mendicante ha bisogno del cibo. Eppure, ci sono buone probabilità che egli non senta il bisogno di mangiare senza immaginare di gustare qualche leccornia. Chi sta morendo di sete ha certo bisogno di liquidi, ma probabilmente sognerà con qualche eccitazione il momento in cui potrà sentire l’acqua fresca sulle sue labbra. Chi non ha un tetto sotto cui abitare ha certo bisogno di una casa, ma difficilmente sentirà di aver bisogno di vivere in una casa qualunque: forse avrà il desiderio di starsene al caldo e all’asciutto, di avere una stanza tutta per sé o magari persino di poter uscire in giardino.
Nessuno, di norma, oserebbe rivendicare un desiderio come tale. Ci si sente in colpa a farlo. Questo senso di colpa è inoculato assieme alla distinzione tra esigenza moralmente legittimata ed esigenza superflua, ovvero assieme alla considerazione del desiderio come lusso. Così, sotto il giogo della colpa, le rivendicazioni restano sempre al riparo della morale collettiva, cioè della ripartizione della società in “classi di bisogno” e “classi di desiderio”. Qualcosa di simile diceva Godard con un’immagine formidabilmente icastica: la fiction agli israeliani, per i palestinesi i documentari.
Da questo tipo di ragionamento discende almeno una conseguenza politica: nessuno, mai, lotta per il soddisfacimento dei propri bisogni, ma sempre e solo inseguendo qualche desiderio. Si dà certo il caso, assai frequente, di una oggettiva riduzione al bisogno, da cui deriva un inaridirsi quasi inevitabile della fonte del desiderio. Ma la fonte del desiderio, la vita, resta desiderante anche quando è costretta a osservare gli oggetti del desiderio come in sogno. Essere ridotti al bisogno significa essere ridotti all’ineffettualità del desiderio. Ci si può accontentare di aver soddisfatto un bisogno, ma una vita ridotta al bisogno è morta. In tal senso, l’applicazione della categoria del bisogno ha letteralmente una funzione mortificante. I ragazzi di Jenin e di Gaza, come i profughi di Lampedusa, vanno aiutati – si dice – perché sono interamente determinati dal bisogno, perché e finché sono ridotti ad esseri di bisogno. Si descrivono minuziosamente le loro condizioni disgraziate per essere pietosi di fronte ad un’umanità tanto inerme, al limite si intervistano alcuni di questi disperati affinché si mostrino quasi incapaci di parola. Ci si scandalizza, certo, ma solo fino a che i soggetti dello scandalo restano nell’impotenza che genera l’indignazione. Non deve accadere, però, che persino in quello stato di disperazione essi manifestino qualcosa d’altro dal bisogno. Qualora ciò accada, immediatamente la nostra pietà è capace di trasformarsi in giudizio senza appello. Il ragazzo fuggito da chissadove per arrivare in Europa sa bene che le ragioni confessabili della sua fuga devono essere quelle del bisogno o del diritto, e sa ancora meglio che le ragioni inconfessabili sono anche d’altra natura. Si fugge e si lotta contro le proprie catene perché si desidera, si sogna una vita più felice. Si fugge e si lotta sempre in funzione di ciò che si desidera, non in ragione di ciò di cui si ha bisogno.
4. Desiderio e godimento
Una partizione analoga a quella tra desiderio e bisogno, un’opposizione che ha la medesima funzione moralizzante della prima, benché con segno rovesciato, è quella oggi assai di moda tra desiderio e godimento. L’imperativo a godere del capitalismo consumistico ci spingerebbe – secondo la vulgata – a cercare sempre nuovi piaceri immediati e irresponsabili, facendoci cedere così di fronte alla famosa responsabilità del desiderio. In questa retorica, il desiderio assume valore positivo in quanto implica fedeltà a se stessi e a qualche valore consolidato, mentre il puro godimento è deprecato in quanto meramente pulsionale. Ma il fatto è che non esiste affatto (o esiste solo in situazioni estreme ed estremamente rare) un’istanza rivolta al mero godimento pulsionale immediato. Il che – verrebbe da dire – significa semplicemente: non esistono esseri umani ridotti a sottouomini. Nessuno, mai, vuole semplicemente godere. Certo, anche qui, ci si può accontentare del godimento, si può essere stati ridotti al godimento. Ma questo non cancella il fatto che chi si accontenta in tal modo continui a desiderare di più e di meglio rispetto al piacere puro e semplice. Anche l’alcolista e il drogato, attraverso la loro condizione di alcolisti e drogati, non solo desiderano di più e di meglio rispetto alla loro condizione, ma persino in quella stessa condizione non vogliono semplicemente soddisfare un bisogno, non hanno l’esigenza di un godimento quale che sia, bensì preferiscono o preferirebbero, ad esempio, una certa sostanza piuttosto che un’altra.
In entrambi i casi, tanto nell’opposizione di desiderio e bisogno, quanto in quella di desiderio e godimento, ciò che viene cancellato è la presenza (comunque incancellabile) del desiderio: nel primo caso, se ne riduce l’istanza al superfluo e si cancella la sua presenza sotto il nome oggettivo di bisogno, conducendo in tal modo alla naturalizzazione di una riduzione al bisogno che è invece interamente politica; nel secondo caso, si stigmatizza la riduzione collettiva del desiderio a godimento immediato, cioè a bisogno o necessità pulsionale, occultando però, anche in questo caso, la costrizione sociale che riduce al bisogno, che costringe ad accontentarsi del godimento.
5. Il desiderio è dei giovani, il bisogno degli operai?
In un testo che ha avuto grande eco tra i fautori di un pensiero critico venato di malinconie apocalittiche, Le nouvel esprit du capitalisme di Luc Boltanski e Eve Chiapello, la partizione tra desiderio e bisogno acquista un preciso riferimento storico e s’incarna nelle figure del giovane ribelle piccolo-borghese e del vecchio operaio. Secondo le analisi dei sociologi francesi, attorno al movimento del Maggio 1968 si sarebbe giocata una lotta tra due forme di critica al capitalismo, la critica “artista” e la critica “sociale”, incarnate rispettivamente dagli studenti in rivolta contro l’autoritarismo e contro l’uniformazione delle società disciplinari, e dagli operai in lotta contro la miseria e contro la disgregazione dei legami sociali; dai giovani che rivendicavano il desiderio, la creatività individuale e l’autonomia, e dai lavoratori che, nell’ottica di quella che sarebbe la “classe di bisogno”, rivendicavano invece la giustizia sociale e la conservazione delle relazioni comunitarie. La tesi di Boltanski e Chiapello è che il capitalismo contemporaneo, post-fordista, avrebbe integrato le istanze giovanili del Sessantotto nella forma del lavoro flessibile, dell’appello all’iniziativa individuale, della fine dell’inquadramento disciplinare etc., riuscendo così a marginalizzare le istanze concrete, materiali e comunitarie del movimento operaio organizzato. Come nota Jacques Rancière in Le spectateur émancipé (La Fabrique 2008, pp. 40 e sgg.), questa interpretazione sociologica è del tutto priva di fondamento sia rispetto alle istanze del Sessantotto, sia in relazione alle rivendicazioni del movimento operaio. Da un lato, infatti, il problema della creatività sul luogo di lavoro non è mai stata una rivendicazione del movimento del Sessantotto, le cui parole d’ordine semmai sono state rivolte proprio contro l’integrazione, contro gli inviti pressanti a partecipare al nuovo capitalismo moderno e dal volto umano di cui favoleggiavano gli ideologi e i riformatori di quegli anni. D’altra parte, e soprattutto, “la lotta collettiva per l’emancipazione operaia non è mai stata separata dalla sperimentazione vitale delle capacità individuali, strappata alla costrizione degli antichi legami comunitari. L’emancipazione sociale è stata allo stesso tempo un’emancipazione estetica, una rottura con i modi di sentire, di vedere e di parlare che caratterizzavano l’identità operaia nell’antico ordine gerarchico. Questa solidarietà del sociale e dell’estetico – continua Rancière –, della scoperta dell’individualità per tutti e del progetto di una collettività libera è stata il cuore stesso dell’emancipazione operaia. Ma essa ha implicato anche il disordine delle classi e delle identità che la visione sociologica del mondo ha costantemente rifiutato” (ibidem). In altri termini, non c’è mai stata una critica sociale avanzata dal movimento operaio che non fosse, al contempo, contro la riduzione al bisogno e per una nuova forma di vita; non c’è mai stata una lotta del bisogno senza che fosse accompagnata dal desiderio di una vita nuova; non è mai esistito un linguaggio, un immaginario operaio ridotto al semplice rifiuto dello sfruttamento, volto al solo miglioramento delle condizioni materiali. Se le rivendicazioni sociali del movimento operaio si sono sempre presentate come un pericolo non localizzato, non regionale, ma sistemico, un pericolo capace di mettere in discussione lo stesso ordine gerarchico della formazione sociale capitalista, è proprio perché le lotte operaie non si sono mai segregate nel recinto del mero bisogno, ma si sono sempre accompagnate a rivendicazioni estetiche, libidinali, edonistiche. Se il movimento operaio ha potuto terrorizzare le classi dirigenti è proprio perché gli operai, ad un certo momento, hanno tradito la classe di bisogno a cui erano stati assegnati, proprio perché si sono rifiutati di sentire, parlare, pensare e sognare da operai, mettendo così in discussione la ripartizione propria dell’ordine sociale.
Lo spirito dell’analisi sociologica proposta da Boltanski e Chiapello quando oppongono una critica artista ormai integrata ad una critica sociale sconfitta e perduta si prolunga facilmente nella stigmatizzazione di ogni forma di rivolta che non abbia il mero bisogno come sua motivazione. Adottando questa logica si riesce persino a dimenticare le condizioni sociali, se è possibile puntare il dito contro l’emergere di un qualche desiderio. I casi recenti più eclatanti, che gli spiriti sociologici non si sono certo lasciati sfuggire, sono certamente quelli delle rivolte delle banlieue parigine nel 2005 e delle periferie inglesi nel 2011. Alain Finkielkraut, ad esempio, stigmatizza le rivolte francesi descrivendone i protagonisti come persone il cui unico scopo sarebbe quello di liquidare tutto quanto impedisca l’accesso agli oggetti dei loro desideri. “E quali sono gli oggetti dei loro desideri – si domanda arguto il critico della società del consumo? Semplice: il denaro, i vestiti firmati e qualche volta le ragazze. […] Vogliono tutto ora, e ciò che vogliono è l’ideale della società del consumo. È ciò che vedono alla televisione” (citato da Rancière in Le spectateur émancipé, p. 45). Più sobria, la reazione di Zygmunt Bauman di fronte ai saccheggi inglesi condivide però lo stesso apparato categoriale. Il “Corriere della sera”, che l’11 agosto 2011 traduce l’articolo del sociologo polacco, mette subito in evidenza l’essenziale in un titolo che non teme di manifestare il proprio paternalismo (con anche una maiuscola a santificare la pia esistenza di una categoria sociologica moralizzatrice): “I ragazzi deviati dal Consumismo”. Il fondo del discorso di Bauman è proprio quello icasticamente compendiato dal titolo redazionale, anche se ovviamente la sua analisi è un po’ più articolata e sfumata. In sintesi, dice Bauman, “queste non sono rivolte del pane o della fame. Queste sono rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato (…). Gli oggetti del desiderio, la cui assenza provoca una reazione scomposta e rabbiosa, sono oggi sempre più numerosi e variegati – il loro numero, anzi, aumenta di giorno in giorno, assieme alla tentazione di impadronirsene. Così crescono di pari passo il malumore, la rabbia, l’umiliazione, il risentimento rinfocolato dal non averli, come pure l’impulso di distruggere tutto ciò che non si può ottenere. Il saccheggio e l’incendio dei negozi sono la conseguenza di quello stesso impulso e soddisfano quello stesso desiderio”. La logica è chiara: i protagonisti delle rivolte e dei saccheggi non sono affatto protagonisti, bensì soggetti “deprivati”, le cui azioni sono in verità mere “reazioni” e il cui carattere “scomposto” denuncia il loro radicarsi in personalità soggette ad “impulsi” (come tali incontrollabili, tipici di un’umanità discretamente menomata) che producono malumore e rabbia, e conducono al saccheggio. Naturalmente, il desiderio manifestato da questi deprivati è perfettamente inautentico, è un desiderio indotto dalla società del consumo e dello spettacolo; naturalmente non si ha bisogno dell’Iphone come un tempo si aveva bisogno del pane, dunque nel saccheggio si ruba un Iphone perché si è “deviati” dalla logica che Bauman riassume in un futile “compro ergo sono”. Per non forzare il discorso di Bauman, bisogna ammettere che esso sembra oscillare tra due soluzioni differenti: la prima, secondo cui appunto i desideri dei rivoltosi essendo eterodiretti, consiglia implicitamente a chi eventualmente fosse tentato di seguire la strada della rivolta consumistica, di rivolgersi piuttosto a desideri più autentici; l’altra, secondo la quale sarebbe invece legittimo, anzi ovvio, che oggi nei saccheggi si rubino Iphone e non baguettes, dato che l’accesso alla conoscenza e alla comunicazione è ormai un bisogno a tutti gli effetti. Comunque sia, resta la difficoltà di accettare o anche solo di riconoscre come tale una rivolta che, manifestando nient’altro che desiderio, per ciò stesso abbatte le barriere di status che separano le classi sociali. Lo scandalo, in effetti, non sta nel saccheggio, ma nel fatto che i saccheggiatori fuggono dal luogo che compete loro, smettono di essere i ragazzi poveri, senza lavoro e senza futuro, che possono essere oggetto di compatimento e solidarietà, inziando ad essere invece soggetti attivi, sovrani, pretenziosi, soggetti che non stanno al loro posto. Si dirà che non basta rubare un Iphone per essere rivoluzionari. Naturalmente. Ma talvolta può essere un buon primo passo. Quel che è certo è che la retorica paternalistica dei “ragazzi deviati dal Consumismo” ha come unico scopo di ribadire quei ragazzi nella loro condizione subalterna, elogiando implicitamente l’autenticità di legami sociali che partecipano alla conservazione dell’ordine sociale. La morale è chiara: “statevene buoni nelle vostre famiglie, pensate agli affetti e alla salute, lavorate onestamente accontentandovi di quel che vi si dà, e vivrete felici”.
6. L’uguaglianza al di là del bisogno
Come accennato, uscire da queste logiche paternalistiche, perfettamente funzionali alla conservazione dell’ordine sociale vigente, significa ridare al desiderio il suo pieno diritto. Se, alla maniera di Spinoza, il diritto coincide con la potenza, ovvero c’è in ognuno tanto diritto quanta potenza, allora è la sola potenza del desiderio a stabilire i confini del suo diritto. Non si tratta di libertinismo, per la semplice ragione che assai spesso il desiderio si trova ad essere piuttosto selettivo e talvolta persino ascetico. Si tratta semmai di affermare che il campo del desiderio coincide con l’intero campo della soggettività, che non c’è spazio per una potenza seconda (il bisogno, il godimento). Tutto il bene e tutto il male possibili sono da accreditare o da addebitare al desiderio in quanto tale. Le pseudo-potenze seconde come il bisogno e il godimento non sono che proiezioni di istanze d’ordine sul corpo del desiderio.
Si accennava anche alle conseguenze politiche di una certa teoria del desiderio. L’impressione è che le lotte siano sconfitte in partenza quando, accettando l’ordine del discorso dominante, fondano le proprie rivendicazioni su quanto si può configurare come un semplice diritto. Non che ottenere il riconoscimento di un diritto sia deprecabile in sé, o ancor meno sia da rigettare come conquista meramente “riformista”, dal punto di vista di qualche giudizio da autentico rivoluzionario. Piuttosto, il problema è che la rivendicazione di un diritto in quanto tale ribadisce, benedice in qualche modo la divisione sociale, si rassegna al fatto che a qualcuno siano concessi dei diritti perché il desiderio e la potenza spettano ad altri. Rivendicare un diritto significa riconoscere che si è ridotti al bisogno, significa aver già ceduto sul proprio desiderio. Come sarebbe altrimenti? Che cosa possono fare le classi subalterne se non rivendicare diritti? In alcuni momenti storici, niente altro che questo. Sono i momenti della ritirata o della sconfitta. Ma ci sono altri momenti nei quali ciò che viene messo in discussione dalle rivolte sociali è la ripartizione stessa dei posti nella gerarchia sociale. Momenti nei quali ciò che è in gioco non è se qualcosa debba stare sopra o sotto, se qualcuno abbia o meno questo o quel diritto, ma l’abolizione del sopra e del sotto, l’abolizione del fondamento di ogni diritto: la possibilità di non averne.