Giorgia Aloisio
Corpo, visione, parola: tre concetti di difficile definizione, intensamente evocativi ma diversi. Eppure, il fil rouge che lega questi tre concetti resta sempre saldo e coerente all’interno del discorso di Lucio Russo.
La riflessione parte e si dipana da quella del fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud, da cui Russo individua quelli che ritiene gli aspetti imprescindibili della teoria e della pratica analitiche: tempo, inconscio, analisi del transfert, legame che unisce indissolubilmente corpo e psiche. Freud è il maestro del quale non è possibile fare a meno, che ha posto le pietre miliari della professione terapeutica ma che, come sempre accade, è necessario superare. Ricordare Freud, dunque, per poi dimenticarlo e reinventarlo nell’incontro con la novità e l’attualità della psicopatologia odierna; sembra questo il motto volutamente provocatorio che risuona tra le righe del libro.
La base del pensiero dell’autore è dunque Freud, senza ombra di dubbio, arricchita da numerose e suggestive riflessioni di sapore dichiaratamente bioniano, junghiano, winnicottiano, lacaniano, comprese all’interno di una cornice personale.
Definizione e ridefinizione della psicoanalisi
Secondo il parere di Russo, la psicoanalisi non rientra nelle scienze mediche, né in quelle umane, né nella critica letteraria. Non sono mancate influenze reciproche tra queste diverse discipline: fin dalla nascita della stessa psicoanalisi, ci ricorda l’autore, sono state intense e molteplici le suggestioni che la teoria psicoanalitica ha prodotto nel secolo scorso nel mondo della letteratura (pensiamo anche solo alle opere di Pirandello, che morì nel ’36, solo tre anni prima di Freud), della cinematografia (Pabst, ‘I misteri di un’anima’), dell’arte pittorica (la corrente surrealista). Questi stessi mondi hanno a loro volta reinterpretato e diffuso il pensiero psicoanalitico, traghettando questo sapere, così arricchito, nel mondo comune, generando quindi un fecondo scambio psicoanalisi – arte – mondo.
Il discorso di Russo parte dagli albori della psicoanalisi: questa disciplina nata a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, pur avendo illustri ‘protoantenati’ nel pensiero filosofico antico – evocativa la definizione che la Doolittle dà della psicoanalista, ‘levatrice dell’anima’ – nacque come metodo di indagine sull’anima e come tale necessitava di un linguaggio proprio, specifico, distinto dalla parola comune.
Freud ‘inventò’ la psicoanalisi e con essa il suo linguaggio (lo stesso termine ‘psicoanalisi’ è un suo prodotto); numerosi furono i neologismi che l’ideatore della psicoanalisi coniò per dar corpo alle proprie riflessioni. Freud, inoltre, attribuì a termini già esistenti significati insoliti e nuovi (quella che N. Abraham definì ‘scandalosa antisemantica’ o ‘anasemia’). Lacan, in seguito, trasformò ulteriormente il linguaggio psicodinamico, creando una netta cesura con quello freudiano e attribuendo al linguaggio un ruolo addirittura traumatogeno.
Russo individua nel transfert e nella sua interpretazione da parte dell’analista la funzione terapeutica di base della pratica analitica: fondamentale è quindi lo scambio, il passaggio di affetti che avviene tra i due poli della relazione terapeutica. Sigmund Freud ha analizzato nella maggior parte dei casi pazienti nevrotici, con i quali l’instaurarsi del transfert (o traslazione) non era problematico; nel lavoro che possiamo realizzare con i pazienti che oggi ci troviamo a trattare, siamo costretti a confrontarci con disagi estremamente profondi, quali i disturbi dell’area borderline e quelli afferenti alla psicosi. Il rapporto con pazienti in queste condizioni cliniche è di non facile gestione e quando si instaura, il transfert è fragile, completamente giocato sul piano corporeo, non-verbale e asimbolico, soggetto a continui strappi, rotture, è incostante, in balia di emozioni non facilmente codificabili né contenibili; nonostante queste difficoltà, suggerisce l’autore, non dobbiamo scoraggiarci, perché è possibile trattare questo tipo di pazienti, un tempo ritenuti ‘incurabili’ tramite il metodo psicoanalitico. L’ausilio maggiore sopraggiunge soprattutto nei casi in cui i pazienti sono presi in carico da una equipe terapeutica (medici, psicologi, infermieri, assistenti sociali, tirocinanti, volontari): in queste situazioni è grazie al gruppo di più menti curanti che si possono osservare le numerose sfaccettature di queste complesse condizioni cliniche e il gruppo stesso, se unito e opportunamente supervisionato, può fornire contenimento e significato al transfert spesso bizzarro, poliedrico e caotico che viene a prendere forma quando si lavora con pazienti afflitti da grave e cronico disagio psichico.
Originario prototipo della relazione analitica, ci ricorda l’autore sulle note di Winnicott, è il legame madre-bambino, interamente costituito da linguaggio affettivo, epidermico, irrappresentabile linguisticamente, a-razionale; Russo evidenzia che non dobbiamo mai dimenticare il contributo che il pediatra e psicoanalista inglese ha dato in merito al ruolo attivo e influente delle figure genitoriali sullo sviluppo dello psichismo infantile. Per avvicinarsi al mondo inconscio infantile del paziente è, dunque, indispensabile che il linguaggio analitico si uniformi a quell’antica, ignota lingua materna e che si renda evocativo, flessibile, modificabile, mitopoietico. L’asimmetria che caratterizza il rapporto paziente/terapeuta rievoca quella più antica asimmetria che connota il rapporto del bambino con la propria madre: immerso in una totale originaria impotenza (Hilflosigkeit), il bambino dipende da lei in tutto. La madre nutre fisicamente e psichicamente il proprio bambino e interpreta il mondo per lui: questo è quanto accade anche nel rapporto analitico (per dirla con Bion, il terapeuta metabolizza gli elementi Beta del paziente trasformandoli in elementi Alfa). Dopo una iniziale fase di ‘conoscenza’ reciproca, nei percorsi che vanno a buon fine, si instaura l’‘alleanza terapeutica’ che permette al paziente di affidarsi al terapeuta e di vivere in questo rapporto gli affetti per lui primari.
La teoria dell’inconscio rappresenta la base, la pietra miliare della teoria e della tecnica analitiche, il punto di riferimento di ogni psicoanalista di ieri oggi e domani: il ‘nocciolo’ (Abraham) privo di tempo, ineffabile, inesprimibile tramite un linguaggio fisso e codificato che avvolge inesorabilmente paziente e terapeuta. Ed è proprio in questo magma che vive ‘l’infante inerme’, oggetto dell’analisi.
Nonostante la teoria dell’inconscio sia così rilevante, Russo è convinto di una verità a dir
poco paradossale: l’inconscio rimane ciò che è, cioè inconscio, inconoscibile in modo assoluto e obiettivo. Questa istanza psichica è certamente sondabile, ma indirettamente, tramite i suoi derivati (lapsus, libera associazione, sogno, sintomo) che fungono da indizi, orme, tracce, tutte da studiare, osservare ai fini della ‘ricostruzione’ psichica. Si tratta di una paradossale evidenza che sulle prime può generare sconforto e scoraggiamento ma che è indispensabile accettare, per svolgere pienamente la professione terapeutica: aspettative alimentate da spinte onnipotenti rischiano di creare disillusione e abbandono dell’investimento psicologico da parte di paziente e analista. È fondamentale, invece, accogliere la sfida insita nel paradosso, per avere accesso al ‘fondo oscuro di Psiche’ (Russo).
La società attuale, il momento storico che stiamo vivendo, presentano condizioni cliniche estremamente diverse da quelle del secolo scorso: tale fatto impone una ridefinizione e una rimodulazione della psicoanalisi, dei suoi metodi, dei suoi obiettivi, generando nuove, inevitabili sfide diagnostiche e terapeutiche. L’esasperata, voyeuristica attenzione alla dimensione estetica da parte della società, porta oggi all’attenzione degli specialisti della salute mentale una serie di disturbi di area narcisistica di fronte ai quali è fondamentale riflettere per intervenire in modo adeguato. Nei reality-show o nel mondo cinematografico, nei telegiornali, nelle fiction, l’ideologia dell’apparire è sempre più dominante, minuziosa, logorante. In questi ultimi decenni abbiamo imparato (e purtroppo anche insegnato e tramandato) che se il nostro aspetto estetico non si allinea a certe omologanti e spersonalizzanti condizioni, abbiamo sempre un’opzione: modificarlo. Cambiamo il colore dei capelli, ma possiamo anche cambiare i connotati, eliminare il grasso in eccesso: l’autore del libro menziona anche il passaggio da un sesso biologico all’altro, nuova possibilità in questo ventaglio di camaleontiche, magmatiche trasformazioni. Tutto ciò avviene all’ordine del giorno e sotto gli occhi di tutti: non senza conseguenze psichiche, naturalmente.
Questo disagio che coinvolge la sfera narcisistica della personalità non era frequente all’epoca di Freud: come già precisato poco sopra, nei suoi studi, negli scritti, il ‘paziente modello’ è quasi sempre un soggetto nevrotico alle prese con desideri libidici rimossi e la teoria e la tecnica analitiche si basano proprio su questo assunto, ovvero la nevrosi del paziente. La psicoanalisi classica ha fornito un dispositivo in grado di trattare i disturbi di area nevrotica e questo rende impossibile l’applicazione tout court del metodo analitico classico nella pratica clinica attuale; si tratta, piuttosto, di adattare la ‘strada’ freudiana alle diverse situazioni di rilevanza clinica di fronte alle quali l’analista è attualmente esposto. Un lavoro non semplice, che necessita di ‘spirito imprenditoriale’, creatività, empatia, rischio, coraggio, ma non solo.
Gli individui afflitti da questo tipo di fragilità narcisistica si presentano, in apparenza, ben adattati, realizzati dal punto di vista professionale, incredibilmente ‘vincenti’; sotto una spessa, illusoria scorza, nel loro intimo, questi soggetti avvertono, invece, un senso di insicurezza di entità spaventosa. Tali individui, in precario equilibrio costante, vengono da Lucio Russo definiti ‘soggetti senza identità’, i quali sotto una maschera di pseudo-normalità o addirittura di successo, cercano di nascondere un Sé che ad un occhio esperto si configura come ‘grandioso’ (Kohut). Questi soggetti covano un’angoscia, un segreto desolante, quasi un presentimento: il crollo interiore, personale. Come funamboli incerti su un sottile cavo di seta, quando sentono questa angoscia fare irruzione in maniera roboante e annichilente nelle loro vite, queste persone esplodono, manifestando tale profondo, devastante disagio nelle proprie vite e in quelle dei loro cari. Questo tipo di disturbi rientra nello spettro borderline, ampiamente studiato da autori quali Kernberg e Kohut e si caratterizza per l’uso di difese primitive invalidanti, tipiche dell’epoca infantile (scissione delle immagini, onnipotenza/svalutazione, identificazione proiettiva, dipendenza, forclusione), identità diffusa e Sé instabile, Io fragile, relazioni oggettuali conflittuali, mantenuto contatto con la realtà: la presenza di questi elementi è patognomonica per formulare la diagnosi. Individui caratterizzati da una personalità così strutturata sono tiranneggiati dall’intensa angoscia di crollare, un affetto che va però nettamente distinto dall’angoscia teorizzata e osservata da Freud nella sua pratica analitica: i primi pazienti della psicoanalisi erano di area nevrotica, attanagliati quindi dall’angoscia di castrazione, in questi casi invece, ci troviamo a confrontarci con un’angoscia più pervasiva, definita da numerosi autori ‘angoscia di abbandono/intrusione’. Questi pazienti sono in costante disequilibrio, combattuti tra il dipendere completamente dall’altro in maniera incondizionata, come infanti nei confronti delle loro madri e il terrore di questo desiderio: tale conflitto interiore, profondamente lacerante, li conduce a spezzare ogni legame con l’altro, perché vissuto come persecutorio. Come ci ricorda Russo, per affrontare e trattare questo tipo di disagio è fondamentale poter entrare in contatto con il passato più remoto di questi pazienti, tornando alle fasi più precoci dello sviluppo psichico, durante le quali non c’erano linguaggio né alcuna forma di rappresentazione e probabilmente non esisteva neppure un Sé.
Un compito senza dubbio estremamente gravoso, che porta il terapeuta a compiere una ‘incursione’ in un stadio primordiale, afasico, inaccessibile alla memoria del paziente, dove manca la luce del linguaggio e della razionalità: un non-luogo dove il terapeuta rischia di soccombere di fronte all’impatto dell’intenso transfert con tutto il suo materiale affettivo. In questi casi il terapeuta deve essere ‘forte’ abbastanza da resistere, sopravvivere ai tentativi di distruzione da parte del paziente, come spiega Winnicott; il curante deve anche essere in grado di scostare un poco il proprio narcisismo e farsi da parte, quanto meno nelle fasi iniziali del rapporto analitico, per dar spazio a questa angoscia dilagante, al caos e alla frammentazione che invadono tali individui; tutto questo allo scopo di dar voce a quel Sé antico, bloccato a stadi evolutivi precedenti.
La visione e la parola: il sogno.
Con L’interpretazione dei sogni (1899) il secolo inizia interrogandosi sul dinamico rapporto tra immagine e linguaggio: secondo la teoria freudiana, l’energia psichica legata ai desideri libidici infantili rimossi stimola la psiche che dà vita al sogno. Lo psicoanalista, dunque, svolge per Freud una funzione simile a quella del glottologo: decifrare un’antica, primitiva, primaria lingua e tradurla attraverso l’uso del linguaggio attuale, moderno. Il sogno si esprime in una lingua primordiale, immersa e nutrita dallo stesso sistema Inc (sfera inconscia) e viene trasformato nella lingua parlata da paziente e analista, un linguaggio discreto, basato sul processo secondario, quindi su regole logiche, razionali, condivise, non contraddittorie. L’analista, con l’aiuto del sognatore, spoglia il sogno manifesto dei suoi meccanismi di censura e di elaborazione per raggiungere le pulsioni più profonde e antiche, nel cuore dello psichismo del paziente. Il sogno è, in definitiva, una forma di rappresentazione che da iconica viene tradotta in verbale. Russo ricorda Fédida, che attribuisce all’analista un importante compito: afferrare e dare un senso all’irrappresentabile del sogno del paziente, che poi è il desiderio sessuale rimosso.
Sempre rimanendo ancorato alla consapevolezza che una parte della psiche è inconscia e mai completamente sondabile, Russo propone di osservare la sfera onirica attraverso una nuova lente: il modello dei ‘due sogni’, il sogno raccontato e ‘l’altro sogno’, o ‘sogno impensato’. Il ‘sogno impensato’ è l’ombra stessa dei nostri sogni, quell’esperienza onirica inaccessibile all’interpretazione, alla conoscenza diretta, intraducibile, il ‘sogno originale’ sottostante, privo di censura, che genera a propria volta il sogno così come lo ricordiamo in stato di veglia. L’‘altro sogno’ è il ricordo che non possiamo ricordare e che, in quanto tale, conduce il soggetto a produrre il ricordo del sogno sognato: l’‘altro sogno’ rende il sognatore creatore e narratore della propria esperienza onirica, perché è il sogno perduto che ci fa generare il sogno ricordato.
Russo riprende una fondamentale distinzione proposta originariamente da Kahn (1974) e la fa propria personalizzandola, ovvero quella tra spazio onirico (o esperienza del sognare) e contenuto del sogno. Per fare un ‘buon sogno’ è necessario che il sognatore abbia in sé uno spazio onirico adatto e idoneo a contenere, elaborare, produrre un sogno: questo ‘luogo’ è frutto di appropriata sedimentazione dovuta a ‘provvigioni ambientali adeguate’, di un ambiente ‘sufficientemente buono’, per utilizzare la terminologia winnicottiana. Sognare implica la capacità di dare vita al sogno come fosse una gestazione, quindi richiede una certa fecondità a priori e uno spazio adatto a ospitare il sogno stesso.
L’aspetto ‘impensato’ della vita onirica è quell’aspetto connesso al contenuto del sogno che si rivela fondamentale perché permette al paziente di entrare in contatto con ambiti non verbalizzati né verbalizzabili del Sé, intimamente connessi all’ES. Nella pratica terapeutica si incontrano spesso casi nei quali è manifesta una intensa difficoltà a sognare: alcuni pazienti, peraltro, si mostrano quasi completamente impossibilitati a conservare memoria dei loro sogni, eccezion fatta, in taluni casi, per qualche esperienza onirica molto frammentata, di epoca più remota, che risulta molto difficile poter utilizzare nel percorso terapeutico.
Gli individui traumatizzati, evidenzia Lucio Russo, non hanno potuto sviluppare completamente questo spazio creativo, ‘transazionale’ (Winnicott), atto a generare il sogno, e sono incapaci di utilizzare l’esperienza onirica in modalità creativa durante la psicoterapia: interpretazioni anche non approfondite dei sogni di questi soggetti rischiano di generare in questi pazienti perdita di equilibri, seppur instabili e di conseguenza creare veri e propri danni iatrogeni. Un curante accorto e competente deve sapere fino a che punto entrare nel mondo psichico del paziente e quando è bene arrestarsi.
In definitiva, secondo Russo il lavoro analitico sul sogno non dovrebbe limitarsi al ‘testo-sogno’, cioè ad una mera traduzione in parola dicibile del contenuto onirico: dovrebbe invece includere in modalità complementare anche la comprensione e l’analisi dello ‘spazio onirico’ del paziente, la sua capacità creativa di ‘partorire’ un sogno, e l’aspetto ‘impensato’ dell’esperienza onirica, tutti elementi atti a guidare l’esplorazione interiore verso le antiche relazioni dell’analizzato con le figure di riferimento e verso il modo nel quale i caregivers si sono occupati del paziente durante l’età evolutiva. Questi due elementi proposti dall’autore sono di estrema rilevanza soprattutto nel momento in cui si lavora con pazienti di area borderline, soggetti per i quali il passato pre-linguistico risulta alla base dell’instaurarsi di meccanismi più o meno evidentemente traumatici.
Il tempo.
Russo, all’interno del dispositivo terapeutico, distingue due modalità cronologiche: esiste un tempo determinato, quello cioè legato al tempo della seduta terapeutica (45 o 50 minuti, a seconda della scelta del terapeuta) e un tempo indeterminato, relativo invece al trattamento analitico nella sua interezza, quel tempo che permette al paziente di spaziare fino al periodo dell’infanzia, per poi fare ritorno al momento attuale. Questo ultimo meccanismo, tipico della psicoanalisi e delle psicoterapie ad orientamento analitico, dà luogo al cruciale meccanismo della regressione. Tale movimento, che si genera dall’infanzia all’attualità e viceversa, fa emergere i desideri libidici infantili rimossi che affliggono ancora la psiche dell’adulto e può riportare il paziente all’antico ‘trauma’ che ha dato vita al suo quadro clinico.
Il termine ‘trauma’ è stato variamente inteso, nel corso dei decenni: nel primo Freud (1893-1897) sembrava che un trauma realmente vissuto da parte del paziente fosse l’origine del disturbo nevrotico (teoria della seduzione), in un secondo momento, poi, lo stesso Freud intorno al 1897 si accorse che nella maggior parte dei casi si era trattato di un trauma dai contorni sfumati, spesso legato alle fantasie delle pazienti e non realmente accaduto. Secondo O. Rank (1924), il primo grande trauma con il quale ogni individuo deve fare i conti è quello della nascita; attualmente i maggiori teorici della disciplina ammettono che con ‘trauma’ si possono indicare eventi passati macroscopicamente traumatizzanti (ospedalizzazioni prolungate, gravi lutti familiari, come ci ha insegnato Spitz, o abusi) ma anche traumi di minore entità che si sono ripetuti nel tempo (il cosiddetto ‘trauma cumulativo’, Kahn, 1974). Altri autori (van der Kolk, 1970) preferiscono parlare di ‘atmosfera traumatica’. In ogni caso, sostiene Russo, quando ci si riferisce a un trauma di ordine psicologico si intende una intensa reazione psichica allo scontro tra psiche e un evento accaduto nel passato che non può essere elaborato: il lavoro terapeutico consiste nel ritrovare questo antico incidente, farlo riaffiorare e permettere che venga in qualche maniera integrato, metabolizzato dalla psiche del paziente.
Il ‘trauma’ avvenuto durante l’esperienza di vita dell’analizzato, nonostante la sua lontananza cronologica, è un trauma ancora attuale, come una ferita non ancora rimarginata e nel tentativo di renderlo apparentemente innocuo, la psiche mette inconsciamente in atto alcuni meccanismi difensivi tipici affinché questo evento, inaccettabile, resti incistato, ‘chiuso’ da una specie di membrana impermeabile e quindi in apparenza meno pericoloso. Grazie a forclusione, dissociazione, scissione, rimozione, l’evento traumatico viene isolato, ma continua a sopravvivere nel paziente, producendo disagio psichico. L’analista, nota Russo, ha la possibilità di ritrovare le ‘impronte del trauma’ e attraverso gli indizi dei quali dispone (sogno, transfert, sintomo, …), la diade terapeutica può procedere alla ricostruzione e all’elaborazione del trauma.
In questa cornice cronologica, lo stadio edipico (tra i 3 e i 6 anni di età circa) funge da spartiacque temporale nell’esperienza di vita del paziente, creando una sorta di separazione tra il periodo pre-edipico, immerso nell’oblio, fuori dal tempo, dalla coscienza e dal linguaggio, e quello post-edipico, temporalizzato, spazializzato e nella consapevolezza, linguisticamente accessibile e quindi rappresentabile. Il pre-edipico si attualizza ripetendosi nella vita del paziente, soprattutto negli individui più gravemente afflitti e il terapeuta ha il compito di osservare e restituire al paziente ciò che quest’ultimo ripete automaticamente ma che non può ricordare: questa restituzione del passato traumatico permette il processo di guarigione.
L’analisi di questo passato così remoto (pre-edipico) non è da intendersi come una sorta di ricostruzione fedele, una restitutio ad integrum del passato: una pratica del genere sarebbe assolutamente impossibile in quanto non verificabile né da Altri né dal paziente stesso. Si tratta, piuttosto, di una sua riscrittura, sempre in bilico tra realtà e fantasia, evento accaduto mescolato ad angoscia, una ricostruzione operata dall’analista/archeologo/interprete, che unisce tracce mnestiche emerse dal transfert, elementi clinici, analisi del transfert e tutto il materiale che l’analista ritiene rilevante ai fini della cura.
Il corpo.
Freud subì senza dubbio l’influenza di Positivismo e Fisicalismo, fin dagli albori della psicoanalisi (Progetto di una psicologia scientifica, Studi sull’isteria, 1895) ma in queste prime opere era già chiaro a Freud quanto stretto fosse il rapporto che legava psiche e corpo. In seguito, provato nel soma e nell’anima da anni di atroci sofferenze fisiche causate dal carcinoma alla bocca che lo avrebbe portato alla morte nel 1939, dopo periodi di uso – e probabile abuso – di oppiacei per sopportare un dolore insopportabile, Sigmund Freud aveva compreso quanto osmotico fosse il legame tra queste due realtà, quanto, nell’inconscio, soma e psiche fossero mescolate, permeabili, quasi prive di confini, tanto che un anno prima di morire scrisse l’emblematica frase che colpisce Russo e continua a far riflettere tutti noi: ‘La psiche è estesa’. Ed è il concetto di ‘pulsione’ (Trieb) che sembra meglio tradurre questa sorta di ‘contaminazione’ tra mente e corpo, ‘mediatore tra somatico e psichico’ (Russo), questo dualismo ineliminabile e originario dell’esperienza umana. In Pulsioni e loro destini (1915) la pulsione è un ‘concetto-limite tra lo psichico e il somatico’, in L’Io e l’Es (1922) la psiche è definita ‘Io-corpo’. Possiamo quindi affermare che, rispetto alla scissione iniziata da Cartesio tra corpo e psiche, con la psicoanalisi questo dualismo dicotomico si placa, non c’è più conflitto tra le due istanze ma soluzione di continuità e reciproca influenza.
Il corpo rappresenta una sfera di straordinaria rilevanza quando si trattano disturbi borderline o psicotici: in questi ambiti, le difese (somatizzazione, acting-out, aggressività) traghettano attraverso il somatico un disagio non verbalizzabile, non comunicabile altrimenti. Analizzare e affrontare questo tipo di condizioni, secondo l’autore, è possibile: questi stati evolutivi precocemente bloccati nel loro sviluppo sono individuabili attraverso analisi delle difese, uso massiccio della dissociazione (depersonalizzazione), scarso collegamento con il piano della realtà, eccessiva aggressività, intensa tristezza, dipendenza dall’altro, narcisismo fragile.
Nulla è scontato nella complessa, straordinaria professione psicoterapeutica: servono creatività, inventiva, lucidità, un pensiero lineare, coerente, deterministico, capace di riflettere su di sé, privo di interferenze personali, ma allo stesso tempo è indispensabile che un terapeuta sia capace di provare empatia nei confronti del paziente, quella possibilità di ‘mettersi nelle scarpe dell’altro’ (come ci suggerisce un calzante modo di dire anglosassone) pur mantenendo ben saldi i confini del Sé. Le variabili in gioco in questa attività professionale sono numerose e riguardano non solo il paziente ma anche il terapeuta con tutta la sua storia di vita, la personalità, le inclinazioni, il cammino interiore. Una professione, insomma, che amo definire (provocatoriamente) insieme ad alcuni autori ‘impossibile’, o quanto meno impossibile da realizzarsi assolvendo a tutti criteri sopra indicati. Nonostante la formazione costante di cui possiamo fornirci e l’esperienza maturata in anni di attività professionale, i risultati non sono mai garantiti e i cambiamenti che avvengono nei nostri pazienti sono spesso una sorpresa, una scoperta fatta insieme a loro. È anche questa ‘sorpresa finale’ che rende il lavoro terapeutico stimolante, mai noioso, ogni volta differente.
Come indica Lucio Russo, è bene che la pratica terapeutica si trasformi aprendosi al mondo esterno, affinché possa meglio comprendere ciò che attualmente affligge coloro che richiedono una consulenza psicologica: è molto importante che il terapeuta sia sempre a contatto con la società e con ciò che accade al suo interno, in modo da non perdere di vista che, oltre all’analisi del mondo intrapsichico del paziente, fuori dalla stanza della psicoterapia c’è una realtà che non ha certamente minor peso sulla psiche del paziente.
Trattiamo di psiche ma, come abbiamo potuto comprendere, trattiamo allo stesso tempo anche di corporeità. Credo quindi che, in calce ad una riflessione di carattere psicologico, non possiamo esimerci dall’affrontare alcune considerazioni su quale è il ruolo del corpo nella società odierna, analizzando le trasformazioni, i veri e propri “usi” che ne fa di esso il costume, la società, l’arte, perché proprio questo tipo di analisi contiene importanti spunti utili ad illuminare anche quali possono essere limiti, forme e contenuti della pratica psicoterapica che vogliamo – e possiamo – svolgere al giorno d’oggi.
Il corpo oggi ha ottenuto un’attenzione molto diversa da quella dei secoli passati e ci aiuta a capire alcune fondamentali dinamiche psicologiche di massa e individuali: il corpo non esiste isolato dal mondo, ma va considerato come espressione e parte integrante della nostra attuale società e del suo pensiero. ‘Sottratto al mondo, il corpo diventa incomprensibile’, scrive Eco (1983, p. 140).
Penso a quanto il corpo sia stato oggetto di attenzione nelle arti performative già all’inizio del ‘900: mi riferisco, ad esempio, alle opere di Gina Pane, in cui l’artista entrava in scena infliggendo al proprio corpo graffi, tagli sanguinolenti, vera sofferenza fisica (come in Azione Sentimentale). Penso alle attuali installazioni di Marina Abramović nelle quali la stessa artista è presente nelle performance per lunghe ore, nei musei di tutto il mondo, lasciando ‘maltrattare’ il proprio corpo dagli spettatori, piangendo, ruotando vorticosamente intorno a sé fino a cadere a terra svenuta.
In numerose occasioni i corpi si mostrano addobbati di piercing, tatuaggi, scarificazioni a volte cruente (la cosiddetta ‘body art’) come se tutto questo colpire, forare, punzecchiare il corpo non veicoli alcun messaggio e sia semplicemente dettato da un gusto personale da non mettere in discussione. Un corpo che esprime intenso dolore psichico, come ci hanno fatto notare i cartelloni pubblicitari che, non molto tempo fa, ritraevano modelle francamente anoressiche; una conflittualità che si esprime sul corpo e attraverso di esso, come osserviamo nelle sempre più diffuse condizioni psicosomatiche, quali psoriasi, tricotillomania, dermatite atopica, alopecia, disturbi gastrointestinali, asma, e altri ancora. In un momento storico nel quale marchi noti su scala internazionale cercano di carezzare il nostro narcisismo applicando i nostri nomi di battesimo su lattine o barattoli, di fronte a tutte queste sfide e alle richieste a volte magiche, irrealistiche dei pazienti, sono numerosi gli interrogativi che affollano la mente di noi curanti: esiste davvero un momento in cui un terapeuta sarà veramente pronto ad accogliere e occuparsi di qualsiasi genere di disturbo? E quand’anche la terapia venga conclusa in maniera soddisfacente, si potrà davvero considerare il paziente definitivamente uscito dall’originaria psicopatologia che lo aveva portato alla consulenza psicologica? Anche Sigmund Freud ne era dubbioso e in Analisi terminabile e interminabile (1937) definiva ‘ottimistiche’ questo tipo di aspettative.
Ritengo imprescindibile, per lavorare in campo psicoterapeutico e farlo nel modo migliore, che il terapeuta abbia compiuto una approfondita analisi di sé e delle proprie dinamiche interiori, in modo che tali meccanismi non vadano a interferire in modalità inconscia sul lavoro che si realizza con i propri pazienti. Credo inoltre che, in un momento storico nel quale tutti sembrano avere ‘la risposta giusta a portata di mano’, semplicemente facendo un ‘clic’ su un portale internet, sia basilare accettare, per noi terapeuti, che siamo fallibili, che le ricette ‘giuste’ non esistono: la risposta ai conflitti dei pazienti deve essere costruita insieme a loro in una ricerca approfondita, che richiede riflessione, tempo, disponibilità.
Giorgia Aloisio (psicologa e psicoterapeuta-Roma)
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Filmografia
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