Riccardo Bellofiore
Abstract: This article will deal in two steps with the Marx–Hegel (dis)connection in Capital. First, I’ll present a survey of what I take to be the most relevant positions about the role of dialectics in Marx. Second, after reviewing Marx’s criticisms of Hegel, I’ll consider the debate within the International Symposium on Marxian Theory. Third, I will argue that it is exactly Hegel’s idealism which made the Stuttgart philosopher crucial for the understanding of the capital relation. Here, I will refer to the ‘Hegelian’ Colletti of the late 1960s-early 1970s, to Backhaus’ dialectic of the form of value, and to Rubin’s interpretation of abstract labour as a process. At this point, I will provide my reading of Marx’s movement from commodity to money, and then to capital, in the first 5 chapters of Capital. Marx is moving on following a dual path. The first path reconstructs the ‘circularity’ of Capital as Subject, as an Automatic Fetish: it is here that Hegel’s idealistic method of ‘positing the presupposition’ served Marx well. The second path leads him to dig into the ‘constitution’ of the capital-relation, and therefore into the ‘linear’ exploitation of workers and class-struggle in production. Here we meet Marx’s radical break from Hegel, and understand the materialist foundation of the critique of political economy.
Introduzione
In questo articolo mi interrogherò sul rapporto di continuità/discontinuità tra Marx e Hegel. Inizierò con una rassegna personale idiosincratica delle posizioni più importanti che hanno influenzato la mia posizione. A seguire, prima ricorderò le critiche principali di Marx a Hegel, poi alcuni momenti del vivace dibattito all’interno dell’International Symposium on Marxian Theory (ISMT). Sosterrò quindi che è proprio l’idealismo assoluto di Hegel che ha reso il filosofo di Stoccarda così importante per la comprensione del ‘rapporto di capitale’. Lo farò ricordando la lettura, a suo modo hegeliana, che Colletti dà del valore di Marx a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. Userò pure il rimando a Backhaus e alla sua dialettica della forma di valore, e a Rubin e alla sua interpretazione del lavoro astratto, autori che aiutano ad approfondire il discorso di Colletti in una prospettiva a mio parere convergente.
Presenterò a questo punto la mia posizione personale. Il movimento che va dalla merce al denaro, e poi al capitale, deve essere inteso come un doppio movimento. Il primo movimento, più evidente ne Il Capitale, ricostruisce la ‘circolarità’ del Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto. È qui che per Marx è stato massimamente utile il metodo ‘idealistico’ di Hegel e il circolo del ‘presupposto-posto’. Il secondo movimento, sotterraneo ne Il Capitale, è un movimento ‘lineare’, e fonda tutto il discorso marxiano nella lotta di classe nella produzione come momento ‘dominante’ della totalità capitalistica. È qui che incontriamo la rottura radicale di Marx con Hegel, e comprendiamo la fondazione materialistica della critica dell’economia politica.
Devo avvisare che nella comprensione di Marx un ostacolo non da poco è costituito dal fatto che questo autore sia stato lost in translation, perso nella ‘traduzione’. Ciò è vero alla lettera: in qualsiasi lingua si incontrano problemi, ma – come dimostrerò – la situazione è particolarmente grave in inglese, dunque nella lingua veicolo della discussione internazionale. Senza un controllo attento dell’originale tedesco abbiamo spesso, nel dibattito anglosassone, in particolare tra gli economisti marxisti di quella lingua, un dibattito sul nulla.[1] È vero però anche, come dirò, per quel che riguarda la lettura concettuale di Marx: che questa sia di taglio hegeliano, ricardiano (come è di fatto anche per gli economisti marxisti che si vogliono critici del neoricardismo), o postkeynesiano (inclusa la teoria del circuito monetario).
La questione che tratto è tutto meno che filologica, e spinge a una rilettura di Marx come complementare a una ricostruzione della critica dell’economia politica oggi, e a una ripresa del nesso teoria-pratica. Il tema mi obbliga a entrare su un terreno filosofico che non mi è proprio: debbo quindi confidare nella pazienza del lettore, che saprà raddrizzare ciò che avrò espresso in modo incerto e a tentoni.
Tre modi di guardare alla dialettica
Negli ultimi decenni il rapporto tra Hegel e Marx è stato messo nuovamente al centro del dibattito. È emersa una nuova interpretazione per cui la dialettica sistematica, e per alcuni persino la logica della contraddizione, assume un ruolo fondamentale nella critica dell’economia politica marxiana. A dir la verità, è stato Marx stesso a sottolineare l’importanza della sua seconda lettura della Logica di Hegel poco prima di scrivere i Grundrisse. Un autore come Helmut Reichelt (1995) sostiene che Marx avrebbe ‘nascosto’ il suo metodo dialettico ad ogni nuovo manoscritto dopo il 1857-1858. Per lui, ma non solo per lui, l’autocomprensione metodologica di Marx rimane indietro rispetto a quello che è il suo contributo positivo. Può essere utile tornare ad alcune delle posizioni in questo dibattito.[2]
Cominciamo dal significato del termine ‘critica’ nella critica dell’economia politica di Marx. Alfred Schmidt ha sottolineato come per Marx non ci siano fatti sociali che possano di per sé essere studiati nei confini disciplinari tradizionali. Il vero oggetto della conoscenza è il fenomeno sociale nella sua interezza, e dunque il capitale come totalità. Ciò non deve essere inteso come se le condizioni empiriche della produzione fossero gli oggetti immediati di conoscenza. Marx invece procede con una critica delle categorie e delle teorie borghesi. Tenendosi, per così dire, vicino alle premesse teoriche dell’economia borghese, Marx rivela le contraddizioni tra queste premesse e la realtà sociale (nel pensiero), e dunque anche le contraddizioni oggettive della medesima realtà sociale. Marx non fa della dialettica un’ontologia in senso forte, e non annulla l’oggetto reale nel processo ideale di conoscenza, come farebbe invece Hegel (Schmidt 1968, pp. 95-96).
La teoria e il suo contenuto oggettivo sono intrecciati, ma non sono la stessa cosa. Questo è il motivo per cui il metodo della ricerca è formalmente diverso dal metodo di esposizione. Il metodo della ricerca, spiega Schmidt, ha a che fare con un materiale preso dalla storia, dall’economia, dalla sociologia, dalla statistica etc., attraverso l’analisi dell’intelletto. Il metodo di esposizione invece deve dare unità concreta a questi dati isolati. L’esposizione [Darstellung] procede dall’essere immediato all’essenza mediata, che è il fondamento dell’essere. La realtà essenziale deve ‘apparire’ [erscheinen], ma l’essenza è distinta dalla sua manifestazione fenomenica. Anche se persino le categorie più astratte hanno una dimensione storica, il percorso logico è comunque diverso da – e per certi versi è persino opposto a– quello storico.
Questi punti sono approfonditi in Storia e struttura (Schmidt 1971): “Per Hegel, come per Marx, la realtà è processo: totalità ‘negativa’. Quest’ultima si presenta nell’hegelismo come sistema della ragione, vale a dire come ontologia chiusa rispetto alla quale la storia umana degrada a derivato, a mero caso di applicazione. Marx, invece, pone l’accento sull’irriducibilità e apertura del processo storico, che non si fa ingabbiare in una logica speculativa alla quale ogni essere obbedirebbe in eterno. La ‘negatività’ diviene qualcosa di limitato nel tempo e la ‘totalità’ si trasforma nell’insieme dei moderni rapporti di produzione” (p. 45). Vi è un primato cognitivo del momento logico su quello storico, senza la comprensione teorica del capitale non si saprebbe dove cercare i presupposti storici della sua nascita: ma ciò non fa delle categorie il fondamento esistenziale della realtà che esse mediano. Tale critica a Hegel non cancella il debito nei confronti dell’idea hegeliana di sistema. Il concreto non è ciò che sta di fronte all’intelletto umano, ma ‘unità del molteplice’, sapere che, pur avendo come base necessaria il metodo ‘analitico’, sfugge grazie alla dialettica alla dicotomia fattuale/mentale: di qui l’universale, la produzione sociale, come un universale-concreto. Il metodo del salire dall’astratto al concreto è però solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto concettualmente, non il suo processo di formazione. D’altra parte, Marx si confronta con un sistema rigorosamente deduttivo e non procede storiograficamente “perché la forma del capitale da lui sviluppata produce essa stessa le sue condizioni di esistenza” (p. 64, corsivo mio).
Schmidt insiste soprattutto sul ruolo gnoseologico della dialettica, mostrando la connessione interna di oggetti e concetti, ma apre anche a una sorta di legame ‘ontologico’ debole tra Hegel e Marx. Roberto Finelli (2004) chiarisce che l’ ‘apparenza’ [Erscheinung], nel momento in cui ‘espone’ [Darstellung] l’essenza, fondamentalmente la distorce. Il metodo de Il Capitale è quello del circolo del presupposto posto.[3] Incontriamo qui un secondo ruolo della dialettica, più forte di quello semplicemente metodologico: quello dell’attiva ‘dissimulazione’ dell’essenza interna da parte della apparenza esterna. Questo porsi del presupposto deve essere inteso in termini strettamente hegeliani: il capitale è infatti un Soggetto invisibile, in una sorta di perenne movimento in circolo. Il valore che valorizza se stesso è una totalità ‘chiusa’, dove il lavoro è ridotto a forza-lavoro. Nessun elemento sfugge al potere di questo Soggetto totalizzante. La realtà capitalistica è letta da Finelli come un mondo di un’astrazione meramente quantitativa e non-umana, che progressivamente universalizza se stessa e finisce per cancellare la dimensione della concretezza. La logica della dissimulazione propria di questo Soggetto onnicomprensivo ci impedisce di parlare propriamente di una logica della contraddizione.
Se la posizione di Schmidt sottolinea la coppia essenza/apparenza, quella di Finelli approda alla circolarità totalitaria del capitale. È possibile scorgere un altro ruolo della dialettica come ‘concretizzazione’: un movimento di esposizione ‘sistematica’ [Darstellung] che muove da categorie ‘semplici’ e astratte verso concetti più ‘complessi’ e concreti. In questa terza posizione sulla dialettica, ogni categoria va ridefinita a ogni stadio successivo del discorso teorico, e si incontrano non una ma molte ‘trasformazioni’. Incontriamo nuovamente un ‘circolo’, perché la comprensione di ciò che è più complesso e concreto deve retroagire sui concetti più semplici e astratti. Vi è peraltro la possibilità di leggere questa deduzione dialettica in un modo più forte, sfociando in una quarta posizione, dove la dialettica marxiana viene intesa come un movimento progressivo degli stessi concetti. La dialettica si colloca nello spazio tra Darstellung come organizzazione sistematica della conoscenza e Darstellung come generazione del capitale stesso in quanto soggetto (o piuttosto, come si dirà e come già si è alluso, del Capitale come Soggetto).
Marx contro Hegel
È in questo quadro che possiamo collocare il dibattito sul rapporto tra Marx e Hegel che si è svolto all’interno dell’ISMT[4]. Prima di affrontarne alcuni termini è però opportuno mettere le carte sul tavolo, e dichiarare apertamente ciò che il lettore avrà certamente già intuito. Se si ritiene che la dialettica sistematica in Marx abbia a che fare soltanto con l’esposizione concettuale delle categorie – se si aderisce, cioè, alla terza posizione ricordata più sopra – il metodo hegeliano può esser ritenuto compatibile con una sorta di metafisica ‘realista’: in questo caso, si deve contestare la lettura marxiana di Hegel come idealista estremo, per cui le categorie finirebbero con il ‘creare’ la stessa realtà[5] Se si ritiene al contrario che la dialettica sistematica in Marx abbia a che fare con il fatto che il capitale è in qualche modo davvero una realtà ‘ideale’ che si sostiene da sé, la lettura marxiana di Hegel come idealista estremo non sembra invece porre alcun problema. La questione è rilevante perché la maggior parte delle letture hegeliane di Marx fatte da marxisti vanno contro l’esplicita critica di Hegel da parte di Marx. Possiamo ricordare le tre critiche principali mosse da Marx a Hegel.
La prima è la critica del 1843 ai Lineamenti di filosofia del diritto, dove l’attacco a Hegel è per aver identificato essere e pensiero. Il regno empirico viene trasformato in un momento dell’Idea, e la ragione pretende di trasformare se stessa in soggetti reali, particolari e corporei. L’astrazione viene resa sostanza – ipostatizzazione, ovvero l’universale diventa un’entità che esiste di per sé. Allo stesso tempo abbiamo la riproduzione di una feuerbachiana inversione di soggetto e predicato: il concetto universale, che dovrebbe esprimere il predicato di un qualche soggetto, diviene lui stesso il soggetto, e il soggetto predicato. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx sostiene analogamente che Hegel, per prima cosa, ha identificato oggettivazione e estraneazione, tanto che che superare l’estraneazione vorrebbe dire superare l’oggettivazione. Sostiene poi anche che Hegel ha identificato oggettività e alienazione, dato che l’essere posto come oggettivo non può sfuggire all’alienazione: quest’ultima è una fase necessaria dell’auto-coscienza, che riconosce nell’oggetto nient’altro che un’alienazione-di-sé. Da un lato, Hegel attribuisce vera realtà soltanto all’Idea, dall’altro, vede nella realtà empirica nient’altro che un’incarnazione momentanea dell’Idea stessa. Si tratta di una critica che torna ancora ne Il Capitale. Ciò che è interessante è che Marx vede l’origine di questo rovesciamento così tipico (secondo la sua lettura) di Hegel nella realtà stessa: l’estraneazione degli individui nella società, e l’estraneazione dello Stato dalla società.
Una seconda critica è nell’Introduzione ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858. Hegel confonde l’ordine del sapere con l’ordine della realtà. Il ‘concretum’ come sostrato è sempre presupposto, ma è necessario prendere in considerazione il doppio movimento tra l’astratto e il concreto. Il modo di ricerca riguarda la transizione dal concreto della materialità sensibile, che viene appropriata analiticamente, alle forme logiche astratte, che devono essere esposte in modo sequenziale e sintetico. Marx è completamente d’accordo con Hegel sul bisogno di salire dall’astratto al concreto. Il sapere non è più una semplice descrizione: è un’esposizione [Darstellung] genetica, l’esibizione e comprensione della costituzione effettuale dell’intero. Il ‘concreto’ è sintesi di molte determinazioni, unità del molteplice: è un risultato. Hegel ‘salta’ però la prima metà di questo circolo epistemologico, dove il concreto è il punto di partenza nella realtà, cioè, nell’osservazione e nella ‘rappresentazione’ [Vorstellung].
In questo modo, sostiene Marx, Hegel “cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero, che si riassume e si approfondisce in se stesso, e si muove spontaneamente […] Per la coscienza – e la coscienza filosofica è così fatta, che per essa il pensiero pensante è l’uomo reale, e quindi il mondo pensato è, in quanto tale, la sola realtà – il movimento delle categorie si presenta [erscheint] quindi come l’effettivo atto di produzione.” (Marx 1857-58, pp. 27-28) Al contrario, “[i]l soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua autonomia fuori della mente. […] Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto.” (Marx 1857-58, p. 28).
La terza critica di Marx è nella “Postfazione” alla seconda edizione del 1873 del Primo Libro de Il Capitale. Marx definisce il proprio metodo dialettico come l’opposto di quello di Hegel, dal momento che per lui “l’ideale non è altro che il materiale trasferito e tradotto nella testa umana” (Marx MEOC XXXI, p. 21). Senz’altro, la dialettica “nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per sua essenza.” [Marx MEOC XXXI, p. 22]. Purtroppo in Hegel la dialettica sta sulla testa, ed è quindi necessario che venga capovolta, “per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico” [Marx MEOC XXXI, p. 22].
Alcune posizioni nel dibattito dell’ISMT
Vi è accordo tra tutti gli autori dell’ISMT sul fatto che Marx sia un ‘dialettico sistematico’, ovvero che proponga l’articolazione di categorie per concettualizzare un tutto concreto esistente. Per Roberto Fineschi, Geert Reuten e Tony Smith c’è un altro punto di accordo: le critiche di Marx contro Hegel sarebbero mal poste.[6]
Per Tony Smith (1990) la dialettica sistematica aiuta nella chiarificazione riflessiva delle categorie usate nelle scienze sociali empiriche, e ci permette di svelare il ‘feticismo’ capitalistico. Inoltre, dato che distingue tra ciò che è ‘necessario’ e ciò che è ‘contingente’, la dialettica sistematica fonda una politica rivoluzionaria perché punta verso la trasformazione delle categorie fondamentali. Marx non si è reso conto che la sua critica si appuntava esclusivamente sulla terminologia un po’ stravagante di Hegel e sul suo indulgere in un pensiero rappresentativo, quale è per Smith a volte quello del filosofo di Stoccarda (per cui Hegel “muddled things considerably by continually resorting to picture-thoughts [il riferimento qui è alla Vorstellung] within his own systematic philosophy” (p. 11). Sul metodo però non c’è un disaccordo di fondo tra i due autori.
Per comprenderlo “we have first to consider what a category is. It is a principle (a universal) for unifying a manifold of some sort or other (different individuals, or particulars). A category thus articulates a structure with two poles, a pole of unity and a pole of differences. In Hegelian language this sort of structure, captured in some category, can be described as a unity of identity in difference, or as a reconciliation of universal and individuals” (p. 5). La dialettica prende avvio da un’unità semplice, immediata e inadeguata, un’universalità ‘astratta’; segue un momento dove la differenza viene enfatizzata. La negazione dell’unità semplice si sviluppa facendo emergere una differenza reale. Questo porsi dialettico della differenza dà luogo ad un’unità-nella-differenza complesso che incorpora il momento della differenza, ed è dunque una negazione della negazione. Il movimento dialettico si muove attraverso un ‘porsi’ e ‘superarsi’ delle contraddizioni – che non sono nient’altro che la tensione tra ciò che una categoria è in modo inerente e ciò che essa è esplicitamente. La ‘verità’, il risultato così raggiunto, può essere considerata una categoria di unità semplice, dal punto di vista di una prospettiva successiva. È un nuovo punto di partenza determinato. Il movimento va così avanti con una deduzione interna, immanente, necessaria nel processo di concretizzazione. L’Hegel di Smith non nega perciò affatto l’indipendenza del processo reale, né la presenza nella realtà di un residuo irriducibile di contingenza. Il movimento delle categorie non corrisponde a una autogenerazione del reale, anche se le ‘transizioni’ di cui quel movimento è intessuto sono in effetti auto-agite – nel senso che il movimento concettuale viene giustificato dal contenuto oggettivo di ogni categoria. Lo Spirito Assoluto, e ancora prima l’Idea, non sono qui certamente un Soggetto metafisico: Marx aveva torto nella sua critica a Hegel.
Peraltro Marx adotta la stessa struttura nel suo metodo ‘genetico-strutturale, ‘storico-logico’. L’accento viene messo qui su strutturale: con il contenuto determinato in un modo ‘intrinseco’ e ‘oggettivo’ (solo) logicamente. Il Capitale è costruito architettonicamente su una logica sistematico-dialettica. La strategia di Smith sembra essere quella di non vedere nient’altro che Hegel nell’Introduzione del 1857-8 di Marx, e di individuare il punto di intersezione tra i due ne Il Capitale letto in corrispondenza all’hegeliana Logica dell’Essenza. Ci sono tre strutture ontologiche (formali) fondamentali nella Scienza della Logica di Hegel. L’Essere [Sein] è una ‘unità semplice’, che aggrega entità isolate e auto-sufficienti. L’Essenza [Wesen] – il ‘principio d’unità’ che le lega insieme – sussume queste entità; in effetti può anche ridurre diverse unità a mere apparenze, lasciando un rischio di frammentazione, e mantenendo la separazione tra i due poli. Il Concetto [Begriff] è invece una struttura logica dell’ ‘unità-nella-differenza’ che media in modo armonico i diversi individui e l’unità comune. Marx, secondo Smith, segue ilsecondo livello della Scienza della Logica, senza stabilire una corrispondenza ed una omologia troppo strette.
La merce, prosegue Smith, è lavoro astratto.[7] Il feticismo permea la merce – ‘feticismo’ significa che la socialità non può presentare se stessa come ciò che realmente è, una relazione all’interno della società, ma piuttosto appare soltanto come una relazione tra cose. La socialità non può che apparire in una forma alienata. Detta altrimenti: la logica della socialità è opposta alla logica (ugualmente valida, ma più superficiale) propria del valore/denaro. Lo sviluppo di questa linea di pensiero porta Smith ad affermare che il capitale è uno pseudo-soggetto, nient’altro che le potenzialità creative collettive del lavoro vivo. L’autovalorizzazione del capitale non è nient’altro che l’espropriazione di queste potenzialità.
L’approccio di Reuten ha qualche somiglianza con quello di Smith, e si basa su un’approfondita critica dell’empirismo. Nei Grundrisse Marx sperimenta l’uso della Logica del Concetto di Hegel (cioè, la Logica Soggettiva), ma abbandona questo tentativo ne Il Capitale, seguendo piuttosto la Logica dell’Essenza. Partendo da una caratterizzazione astratta della totalità Reuten e Williams (1989) indicano come il porre come fondamento quel punto di partenza si accompagni a una concretizzazione concettuale graduale della totalità. Fondare le condizioni di esistenza a livelli sempre più concreti richiederà il continuo superamento dell’opposizione dei momenti in nuovi momenti necessari e in nuovi concetti, ma in qualche punto vedrà anche l’introduzione di momenti contingenti. Quando l’esposizione ha ricostruito la totalità come un tutto interconnesso e ha compreso l’esistente come realtà effettuale, i fenomeni concreti verranno mostrati come manifestazione fenomenica delle determinazioni astratte che riproducono e allo stesso tempo convalidano il punto di partenza. Per Reuten le contraddizioni non sono ‘risolte’ al livello della necessità, nel capitale come soggetto (come per il Concetto di Hegel), ma solo temporaneamente, in momenti contingenti, che sono però pur sempre momenti dell’‘essenza’ del sistema.
Per Reuten e Smith, la forma del valore e le sue trasformazioni sono la ‘struttura’ dove i lavori separati e privati sono erogati e in un momento successivo resi sociali nello scambio. Entrambi gli autori ricostruiscono il capitalismo all’interno di una sorta di olismo macro-sociale, dove il tutto fonda e limita i comportamenti microeconomici individuali. La dialettica si riduce a fondazione filosofica, con un primato dell’epistemologia.
Fineschi (2011, ma si veda anche Fineschi 2001) ritiene che Marx abbia usato metodologicamente la Logica del Concetto, dove l’Essere e l’Essenza non sono nient’altro che il Concetto mentre è nel suo ‘sviluppo’. Ciò malgrado, come dirò, alcuni dei suoi giudizi sono vicini a quelli di Reuten e Smith. Fineschi vede ne Il Capitale un’articolazione di quattro livelli di astrazione. Dopo una sorta di primo livello base (circolazione semplice come ‘presupposto’), il secondo livello è la generalità/universalità, che mostra come il capitale ‘diviene’ nella produzione e nella circolazione. Nelle stesure ultime de Il Capitale Marx ha incluso nel capitale come totalità anche i ‘molti capitali’ e l’accumulazione. Il terzo livello è la particolarità, che ha che fare con l’uno/molti capitali nella concorrenza. I molti capitali vengono ora definiti come capitali particolari nella loro dinamica di auto-valorizzazione. Il quarto livello conclusivo è la singolarità. Qui incontriamo il capitale portatore di interesse, dove l’universalità del capitale esiste come un capitale particolare realmente esistente, ed è dunque singolare.
Un punto di convergenza con Reuten e Smith sta in ciò: che Fineschi limita il debito di Marx nei confronti di Hegel al solo livello metodologico. Lo ‘schizzo’ della struttura U-P-S che precede non può evidentemente rendere giustizia all’interpretazione di Fineschi. Condivido la tesi (sua e di altri) che la dialettica sistematica per Marx abbia a che vedere anche con lo sviluppo concettuale. L’argomentazione di Marx è ‘stratificata’ su due livelli distinti per Fineschi: la Logica I è ‘puramente’ logica, la Logica II è caratterizzata dall’inserimento di dimensioni storiche. Lo sviluppo reale pre-esiste, e ‘fissa’ il concetto empirico storicamente determinato che viene scelto come punto di partenza, e da cui il movimento dialettico dei concetti ‘si sviluppa’. Il punto di partenza non è dunque la forma valore (come in Arthur), né la dissociazione dei lavori (come in Reuten e Smith), ma la ‘merce’ come forma cellulare del capitale, caratterizzata da una duplicità o doppiezza interna di valore d’uso e valore. La Dastellungweise è qui, di nuovo, soltanto il modo di ‘esposizione’ di un contenuto (determinato), ovvero il processo dialettico interno dell’auto-sviluppo meramente logico delle categorie che lo riguardano. Grazie a questo metodo noi siamo in grado di vedere come il capitale ponga, e produca come proprio risultato, ciò che all’inizio era soltanto presupposto. Tale circolo del presupposto-posto, mi pare, non ha alcuna valenza ‘ontologica’, come credo sia in Finelli. Un altro punto di convergenza con Reuten e Smith ne discende immediatamente: Fineschi, come loro, non può non trovare erronea la lettura di Hegel proposta da Marx.
Incontriamo qualcosa di radicalmente diverso in Patrick Murray e Chris Arthur. Entrambi vedono chiaramente l’importanza dell’accusa di idealismo mossa da Marx a Hegel. Murray (1988, pp. 216-217, corsivo mio) sostiene nettamente che “if we examine Hegel’s characterization of the ‘concept’ … and compare it to Marx’s description of capital … it seems clear that the absolute, self-realizing logic of the Hegelian concept resembles the movement of capital”.[8] Marx ha condiviso con Hegel un approccio basato su una logica immanente nella teoria: ma Hegel pone la logica prima dell’esperienza, all’opposto di Marx. Hegel ha identificato i processi nel pensiero e i processi reali, laddove Marx ha insistito su un mondo oggettivo dall’esistenza indipendente. Oltretutto, le astrazioni di Hegel erano ‘generali’; quelle di Marx erano ‘determinate’. Ancora più importante: l’opposizione di essenza e apparenza non può essere mediata, come sostiene Hegel, ma deve essere sradicata (uprooted è il termine inglese impiegato da Murray), come gli replica Marx. Il ragionamento di Marx è inestricabilmente connesso con le dinamiche gemelle di ipostatizzazione e inversione: il che rimanda al Capitale, in quanto Soggetto ‘automatico’, in quanto Soggetto che racchiude e domina [übergreifende] l’intero processo, sostanza che si muove da sé e che si attiva da sé. Il valore è una sostanza ‘cosale’, che in quanto capitale si tramuta realmente in Soggetto. La logica del capitale (e non soltanto la logica de Il Capitale) è la logica di Hegel (in quanto logica dell’idealismo assoluto), a causa di un isomorfismo tra il ‘capitale-feticcio’ come totalità e lo ‘svolgersi’ dell’Idea. Qui ci troviamo, come è chiaro, ben oltre una lettura meramente metodologica della dialettica sistematica. Murray non manca inoltre di sottolineare, con forza, l’implicazione religiosa di questo discorso: la critica del carattere di feticcio del capitale e della reificazione si muove esplicitamente in parallelo alla critica dell’alienazione, del Cristianesimo e dello Stato che troviamo nel giovane Marx.[9]
Arthur (2002) insiste sulla tesi che il debito di Marx nei confronti di Hegel non è di carattere meramente epistemologico. Non si tratta semplicemente dell’adozione di una logica immanente della scienza, costruita sulla convinzione che l’esposizione [Darstellung] debba mostrare la necessità logica per cui la duplice natura della merce si esteriorizzi e dispieghi nell’economia politica capitalistica in forme sempre più complesse. C’è anche questo naturalmente. La teoria ha di fronte una totalità esistente, e se si limitasse ad analizzarne i momenti isolati la conoscenza che ne deriverebbe sarebbe limitata e distorta. Dunque, i momenti devono essere collocati nel tutto, con una progressione sistematica delle categorie che ci permetta (come in Smith) di apprendere domini-oggetti di complessità crescente, dato che la progressione stessa è guidata (come in Reuten) dalla considerazione che ogni categoria analizzata risulta, per così dire, deficitaria in termini di determinazione rispetto alla successiva. È precisamente questa ‘mancanza’ che va superata – il limite delle categorie ad ogni stadio della progressione concettuale – e che dà l’impulso a una ‘transizione’, a una determinazione successiva di categorie, in una sequenza di ‘arricchimento’ di ogni categoria e al tempo stesso di movimento verso il ‘concreto’. Tutto ciò, scrive Arthur, è particolarmente rilevante perché – come il riferimento allo scambio monetario universale che conduce all’equivalente universale e al denaro mostra molto chiaramente – il sistema capitalistico è – in parte – realmente intessuto di rapporti logici. Il capitale effettivamente è anche una realtà ideale.
C’è però un’altra metà della storia. Per Arthur Hegel è importante per Marx non nonostante, ma proprio a causa della sua ontologia idealistica: ‘capital is a very peculiar object, grounded in a process of real abstraction in exchange in much the same way as Hegel’s dissolution and reconstruction of reality is predicated on the abstractive power of thought. It is in this sense that it may be shown that there is a connection between Hegel’s “infinite” and Marx’s “capital”.’ (p. 8) Vi è un isomorfismo tra la Logica di Hegel e il Capitale. Qui il riferimento è, come in Fineschi, alla Logica del Concetto, ma in un senso molto più forte, al punto che per Arthur l’omologia del Capitale con l’Idea è esattamente la ragione per criticare la realtà del capitale come una realtà invertita nella quale astrazioni autoriproducentesi dominano gli esseri umani. Il punto da comprendere bene è che affinché la sostanza del valore si tramuti effettivamente nella spirale del Capitale – come valore che crea più valore, come denaro che si accresce in più denaro – è necessario che il valore/denaro come capitale cessi di essere una realtà meramente ideale ed entri nel regno ‘non-ideale’ della trasformazione dei valori d’uso, dunque nei ‘laboratori nascosti’ della produzione, sussumendo (non soltanto formalmente, ma anche realmente) il ‘lavoro’ quale sua viva ‘alterità interna’ (essendo la natura la sua ‘alterità esterna’). Il capitale è definito dalla sua opposizione al ‘lavoro’, categorialmente irriducibile al capitale stesso nella sua integralità, anche se il primo ha trovato certamente i modi per atomizzare il secondo, impedendone spesso la mobilitazione. Questo genere di ‘risoluzione’ della sua contraddizione interna di base, anche se temporanea e contingente (come direbbe Reuten), può caratterizzare un’intera epoca e un intero modo di produzione. Ciò nonostante, il capitale rimane ‘limitato’, e può sempre essere rovesciato: il lavoro rimane un contro-soggetto, virtualmente sempre presente, anche se empiricamente non è effettivo se non in modo parziale.
Come i miei scritti, a partire dalla fine degli anni Settanta, testimoniano, l’approccio che ho indipendentemente sviluppato è molto vicino a quello di Arthur,. La ragione è presto detta. Un’influenza chiave per me è stata Lucio Colletti, soprattutto quello tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, e in particolare per la sua innovativa (e, come dirò, rubiniana) lettura della teoria del valore, dalla sua introduzione a Bernstein agli ultimi due capitoli del suo Il marxismo e Hegel. Di quest’ultimo volume, in particolare, l’ultimo capitolo, “L’idea della società «cristiano-borghese»”, ha molti parallelismi con le argomentazioni successivamente sviluppate da Murray e Arthur. Ma prima di andare più a fondo in questo tema, vorrei sgombrare il campo da ciò che penso possa essere un possibile (falso) problema: il tema della natura dell’idealismo di Hegel, e ancora di più la questione se Marx sia stato o meno ingiusto nella sua critica al filosofo di Stoccarda. La mia opinione è simile a quella di Suchting (1997) in un suo articolo inedito sulla Scienza della logica di Hegel come logica della scienza. Hegel ha colto, meglio di ogni altro prima di lui e di molti dopo di lui, le caratteristiche fondamentali della ricerca scientifica moderna. Il suo metodo era nondimeno fondamentalmente idealista. Non sono però un conoscitore di Hegel, e potrei sbagliarmi. Per quanto tali questioni possano essere rilevanti in se stesse, esse sono irrilevanti per la problematica che sto trattando in questo lavoro. Quello che è importante per il mio filo di discorso è che la Scienza della Logica di Hegel fu essenziale per il Marx maturo proprio perché il suo idealismo riflette la natura ‘idealista’ e ‘totalitaria’ della circolarità capitalistica del capitale, in quanto denaro che genera (più) denaro. Per dirla in modo esplicito: anche se l’Hegel di Marx non fosse il ‘vero’ Hegel, è l’Hegel ‘falso’ che conta davvero per leggere Il Capitale. Allo stesso tempo la tesi di un’omologia stretta tra Hegel e Marx non può essere intesa in senso troppo rigido ed estremo. Più che fondarsi in una duplicazione formale della struttura U-P-S che riprodurrebbe una corrispondenza uno-a-uno tra i tre volume de Il Capitale e La Scienza della Logica, l’omologia sulla quale insisto nelle pagine che seguono è costruita (e dissolta!) nei primi cinque capitoli del Libro Primo, dove il Capitale come Soggetto è plasmato sull’Idea Assoluta come Soggetto.
Lucio Colletti: il paradosso del Capitale
Ricordiamo per sommi capi alcuni momenti della riflessione di Lucio Colletti su Marx e Hegel. L’idealismo assoluto di Hegel, per Colletti 1969a, equivale al Dio che diventa reale nel mondo, alla Sua presenza nelle istituzioni civili e politiche della modernità borghese, e queste stesse realtà storiche sono degli oggetti mistici. Per quanto strano ciò possa sembrare, scrive, è questo il punto dove l’opera di Marx e quella di Hegel coincidono al punto di sovrapporsi l’una all’altra. Così come le istituzioni del mondo borghese sono incarnazioni sensibili del sovrasensibile, o in altri termini esposizioni positive dell’Assoluto, così ne Il Capitale la ‘merce’ ha un carattere ‘mistico’ – è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici, per citare direttamente Marx. Queste espressioni non sono figure retoriche, sostiene Colletti, sono anzi talmente rilevanti che è difficile discernere l’autentico significato del pensiero di Marx senza di esse.
Marx vede nella realtà capitalistica un mondo rovesciato: “La differenza è solo che, mentre nel divenire sensibile del sovrasensibile Hegel vede l’attuarsi di Dio, Marx (il quale ovviamente ragiona ormai fuori dall’orizzonte cristiano) vede il farsi presente e reale di forze alienate e estraniate dall’umanità, a cominciare dal capitale e dallo Stato stessi (p. 423)” Il lavoro umano astratto è come l’uomo astratto della Cristianità. Il valore – unità sociale divenuta un oggetto – conduce al paradosso di un rapporto sociale come relazione che si pone per sé indipendentemente dagli individui a cui si dovrebbe riferire e per i quali dovrebbe essere una mediazione. È un rapporto sociale divenuto cosa che si impone agli individui come una divinità, anche se in realtà è il loro stesso potere sociale estraniato. L’estraneazione di questo rapporto, la sua reificazione, “questo suo darsi un’esistenza indipendente in un oggetto o valore d’uso (che figura appunto come ‘corpo’ del valore)” (p. 428) è al cuore dell’analisi di Marx del denaro, e del denaro-capitale.
Laddove la produzione viene svolta da lavoro privato individuale, quest’ultimo diventa sociale solo quando prende la forma del suo opposto, il lavoro universale astratto: “il cristiano e la merce sono fatti allo stesso modo: corrispondendo all’ ‘anima’ e al ‘corpo’ del primo, il ‘valore’ e ‘valore d’uso’ dell’altra.” (p. 429) La merce è un ‘valore d’uso’, una ‘cosa’, che nasconde in se stessa un’oggettività non-materiale, il ‘valore’: “come il cristiano, è unità del finito e dell’infinito, unità degli opposti, essere e non-essere insieme” (p. 429). È lo stesso Marx che sottolinea come la merce sia, e allo stesso tempo non sia, un valore d’uso. Dietro al valore di scambio relativo si cela un valore reale ‘assoluto’ o intrinseco, che esiste – scrive ancora Colletti – nelle cose stesse che sono messe in rapporto nello scambio – ovvero, abbiamo qui una ipostatizzazione del ‘valore’: “Marx, horribile dictu, accetta l’argomento che il ‘valore’ è un’entità metafisica, e solo si limita a osservare che un’entità scolastica è qui la cosa, cioè la merce stessa, e non il concetto con cui lui, Marx, ha descritto come la merce è fatta! […] Questa società delle merci e del capitale è, dunque, la metafisica, il feticismo, il ‘mondo mistico’: essa, ben prima che la Logica stessa di Hegel!” (p. 431).
Il mondo delle merci e del capitale è un mondo ‘mistico’, e lo è persino più di quello della Logica di Hegel: punto esclamativo. A questo singolare iper-hegelismo giunge l’anti-hegeliano Colletti: ineluttabile sbocco della sua nuova lettura della teoria del valore-lavoro iniziata nel 1968. Sappiamo che tra il 1974 e il 1976, dopo una fase problematizzante, il filosofo si ritrarrà terrorizzato da questa conclusione, fuggendo a gambe levate e sostanzialmente annullando il proprio pensare nella ripetizione ossessiva dello scongiuro secondo cui con la dialettica non si fa scienza (mentre, giuste le conclusioni precedenti, solo con la dialettica si dà conoscenza di questo mondo). Sappiamo inoltre che i critici di Colletti hanno anch’essi puramente e semplicemente rimosso questo episodio, che è invece di estremo interesse: e sulle prime il nostro autore, invece che trarne la conclusione della presenza di una scissione letale tra un Marx filosofo e un Marx scienziato, come farà dal 1974, si interroga sulla tensione positiva che può darsi nell’autore del Capitale tra economia politica e critica dell’economia politica, tra scienza e rivoluzione.
Una conferma spettacolare di quanto importante fosse questa linea di pensiero per Colletti è stata la pubblicazione postuma, a gennaio 2012, di alcune lezioni dei primi anni Settanta su Il Capitale, Libro Primo, dove questa lettura ‘hegeliana’ di Marx è molto evidente. Il titolo di queste lezioni è, non a caso, Il Paradosso del Capitale. La caratterizzazione della realtà del capitale come paradossale è un tema comune con Backhaus, e ci tornerò. Si veda, per esempio, alle pp. 72-73 (corsivo mio): “Qui il discorso di contenuto e il discorso di metodo si coprono interamente: pensate a quella celebre proposizione che è nel poscritto alla seconda edizione del Capitale: Hegel trasformò il pensiero in soggetto ‘indipendente’. Il pensiero, che è evidentemente sempre il pensiero dell’uomo, cioè una caratteristica, una prerogativa dell’ente umano, Hegel lo distacca dall’uomo e ne fa un soggetto a sé stante. Quella trasformazione del predicato in soggetto, quella sostantificazione dell’astratto, quell’alienazione o estraneazione è al centro sia della riflessione di metodo sia dell’analisi di contenuto del Capitale.” [è stato corretto un refuso] Se le merci sono delle entità metafisiche, osserva il filosofo romano, “non bisogna avere un concetto ingenuo e superficiale di metafisica, come se le metafisiche siano cose inesistenti.”
Il discorso di Colletti non potrebbe essere più chiaro. La ‘merce’ in quanto materializzazione di lavoro, cioè valore, ha un’esistenza immaginaria, puramente sociale. Con il capitale e con lo Stato, ‘rappresenta’ [Darstellung] un processo di ipostatizzazione nella realtà. Per capire ciò, si deve studiare tenendo Il Capitale nella mano destra e La Scienza della Logica in quella sinistra (o viceversa!). L’universale astratto, che dovrebbe essere una proprietà del concreto, diventa un’entità auto-sussistente e un soggetto attivo, mentre il concreto e il sensibile diventano soltanto una forma della manifestazione fenomenica dell’universale-astratto – il predicato del suo stesso predicato sostantificato. Nell’ultima pagina de Il marxismo e Hegel se ne trae la conclusione: “Questo rovesciamento, questo quid pro quo, questa Umkehrung, che, secondo Marx, presiede alla Logica di Hegel, presiede anche, e ben prima di essa, ai meccanismi ‘oggettivi’ di questa società, a cominciare già dal rapporto di ‘equivalenza’ e dallo scambio delle merci.” (p. 282). Per Colletti, insomma, la logica dialettica di Hegel non è nient’altro che ‘il metodo specifico dell’oggetto specifico’, e questo – si badi – non a dispetto ma in forza del suo idealismo assoluto. La critica filosofica a Hegel e la critica al capitale, ne Il Capitale così come nei Grundrisse, sono una cosa sola.
Pur con il suo fastidio per la Scuola di Francoforte, è lo stesso Colletti che introduce Il concetto di natura in Marx di Alfred Schmidt, allievo di Adorno e Horkheimer. E che lo cita positivamente quando il filosofo tedesco, nel suo lavoro giovanile, scrive che “[t]ra Kant e Hegel, Marx assume una posizione difficilmente definibile. La sua critica materialistica alla identità hegeliana di soggetto e oggetto lo riconduce a Kant … Anche se, mantenendo la tesi kantiana della non-identità di soggetto e oggetto, Marx ribadisce però la posizione postkantiana che non trascura la dimensione storica e vede soggetto e oggetto entrare in sintesi e relazioni mutevoli.” (in Schmidt1962, p. xi). E ancora, sempre Schmidt apprezzato da Colletti: “Marx, d’accordo con Hegel, respinge riflessioni gnoseologiche antecedenti all’indagine dei contenuti concreti del sapere, ma al tempo stesso, in quanto materialista, non può accettare la conseguenza che Hegel trae dal rifiuto della teoria della conoscenza: l’identità di soggetto e oggetto.” (p. xii) Come pure cita positivamente Helmut Reichelt (riprenderò questa sua citazione in conclusione), e manda sue allieve a studiare da Hans Georg Backhaus: e siamo di nuovo nell’orbita adorniana, visto che i due sono stati suoi allievi. Schmidt, Backhaus e Reichelt sono le figure chiave all’origine della Marx Neue-Lektüre, che dalla critica dialettica della società di Adorno discende, ma che rispetto al maestro prende maledettamente più sul serio la critica dell’economia politica.
In una intervista a “Rinascita” del 14 maggio 1971 su Marx, Hegel e la Scuola di Francoforte, Colletti ribadisce: “La logica di Hegel, con il suo scambio di soggetto e oggetto, riproduce la logica stessa del capitale, e la ipostatizzazione, le astrazioni indeterminate sono, prima ancora che astrazioni indeterminate di chi riflette (da un certo punto di vista) sulla realtà della società capitalistica, astrazioni presenti nella realtà capitalistica stessa […] il rapporto Hegel-Marx torna a proporsi in una forma più complessa , anche se questa forma, ripeto, non significa affatto che sia possibile ricondurre Marx entro il quadro della filosofia hegeliana” (in Cassano 1973, p. 296). E poche righe dopo aggiunge. “Per me non si è mai trattato di negare l’importanza del pensiero di Hegel. La mia polemica, anche quella attuale, non si è mai indirizzata a Hegel come tale: si è indirizzata piuttosto a un certo marxismo […] C’è una tradizione marxista, la tradizione che è andata sotto il nome di ‘materialismo dialettico’, che ha finito, in primo luogo, col distorcere il senso di tutta una serie di proposizioni hegeliane volgendole a un significato che era completamente estraneo all’intenzione di Hegel; e in secondo luogo, ha finito con l’eludere l’elemento profondo di novità che Marx ha rappresentato nei confronti di Hegel.” (p. 297). Dopo aver rilevato che “se il marxismo si libera di quel tanto di residuo naturalistico e positivistico che forse qua e là si è depositato anche in alcune parti del Capitale di Marx, ne risulta esaltata l’importanza del fattore coscienza – la coscienza di classe, intendo – ai fini della mobilitazione rivoluzionaria”, Colletti arriva addirittura a spendere qualche parola positiva persino sulla stessa Scuola di Francoforte, che per lo meno “ha avuto il merito di riproporre con forza l’accento sull’importanza dell’elemento soggettivo ai fini del maturarsi e risolversi del processo storico” (p. 301).
Hans-Georg Backhaus: le ‘forme impazzite’ e l’oggettività irrazionale del capitale
Ritengo che il giudizio di Colletti secondo cui la critica a Hegel e la critica al capitale sono una cosa sola sia in buona sostanza corretto, anche se il linguaggio rivela ingenuità e qualche imprecisione.[10] Hans-Georg Backhaus giunge a delle conclusioni molto simili nel suo articolo “Il ‘rivoluzionamento’ e la ‘critica’ dell’economia politica compiuti da Marx: la determinazione del loro oggetto come totalità di forme impazzite”.[11] Il regno delle Verrückte Formen (le forme ‘impazzite’, ma anche ‘spostate’, ‘deviate’, dove si allude non solo alla follia ma anche ad una sorta di dislocazione spaziale, e ad una inversione che è in qualche misura una perversione) è già lì, fin dall’inizio, al principio de Il Capitale, non compare solo nel Libro Terzo. La forma non ancora sviluppata del valore di scambio è già una mistificazione della realtà: ed in ogni caso, è l’apparenza delle cose così come sono (è una ‘manifestazione (fenomenica)’, una Erscheinung e non una parvenza, uno Schein – torneremo su questo più avanti nel capitolo). È perciò la realtà capitalistica stessa ad essere paradossale, non il linguaggio che la descrive.
Secondo Backhaus, Hegel è all’origine del ‘rivoluzionamento’ della teoria sulla merce/denaro/capitale da parte di Marx, proprio per la sua ‘esposizione’ (Darstellung) strutturata dialetticamente. Tuttavia Hegel è soltanto un primo passo, perché il filosofo di Stoccarda non fu in grado di ‘sviluppare’ il carattere duplice delle merci (che vide molto chiaramente in inediti ignoti a Marx) nel carattere duplice del lavoro. Questo carattere doppio del lavoro naturalmente era un punto chiave dell’ultimo capitolo di Marxismo e Hegel di Colletti, come altre citazioni avrebbero potuto mostrare. Ed era un tema già cruciale nell’Introduzione a Bernstein del 1968. La questione era stata anticipata e approfondita da Isaak Ilijč Rubin, al tempo del tutto sconosciuto in Occidente: ci torneremo tra poco. D’altra parte, prosegue Backhaus, Hegel riproduce a suo modo un limite dell’economia politica e dello stesso Ricardo: la cecità verso la ‘genesi’ del valore; e ciò benché il suo apparato categoriale fornisse tutti gli strumenti concettuali per adempiere questo compito.[12]
Le due idee fondamentali dello sviluppo dialettico di Marx nella teoria del valore sono molto semplici, per Backhaus (2009, pp. 456-457). Prima si trova una contraddizione nella merce stessa: quella di essere nello stesso tempo ‘valore d’uso’ e ‘valore’ – sensibile e soprasensibile. Secondo, si mostra che soltanto nel suo essere denaro la merce è davvero una merce. La vera domanda che dà la cifra della critica dell’economia politica marxiana nasce da qui: com’è che la cosa-valore (in quanto merce, denaro, capitale), il Fetisch, viene costituita da una base umana? Ovvero, com’è che una sostanza sociale e sovra-individuale quale è il valore, si sviluppa in una forma che presenta se stessa come qualcosa che va oltre e al di là degli esseri umani? Il rapporto tra sostanza e forma, o tra essenza e apparenza, deve essere pensato come una connessione interna necessaria, come una non-identità che è allo stesso tempo un’identità. L’essenza deve apparire (ancora una Erscheinung), ma questa apparenza è anche una distorsione: tutto appare rovesciato. Dal momento che nello scambio generale, le ‘cose’ si presentano in una connessione non-materiale, le merci nascondono un modo d’esistenza ‘fantasmatico’. Per Backhaus, così come per Colletti, questo oggetto peculiare deve essere analizzato con una scienza peculiare: una scienza il cui metodo è diverso da, e addirittura opposto a, quello normalmente usato nelle scienze naturali o nelle scienze dello spirito. Come già Colletti (2012, p. 76), anche Backhaus (2009, pp. 486-487) rimanda alla critica di Marx a Bailey: le ‘sottigliezze’ di Marx dipendono dalla struttura paradossale della cosa stessa. L’essenza deve manifestarsi fenomenicamente, ma questa manifestazione fenomenica non è l’essenza, dal momento che questa apparenza [Erscheinung] è un ‘rovesciamento’ e una ‘inversione’. Il fenomeno, o ‘forma’, è un velo materiale che distorce e che nasconde ciò che nello stesso tempo paradossalmente rivela.
Backhaus fa però un passo avanti importante rispetto a Colletti, come mostra bene un saggio a noi disponibile in inglese: “Between Philosophy and Science: Marxian Social Economy as Critical Theory” (Backhaus 1992). Per Marx – tanto per il Marx giovane che per il Marx maturo: Backhaus, come Colletti, è un ‘continuista’ in merito all’evoluzione del pensiero di Marx – la concezione secondo cui l’oggettività economica, l’oggettività di valore è una ‘seconda natura’, sovrasensibile e non ‘fatta dagli esseri umani’, è al tempo stesso una illusione, più propriamente una illusione oggettuale (gegenständlicher Schein). Si è detto che le forme economiche sono forme ‘impazzite’, ‘deviate’, ‘spostate’ – nel senso anche di uno spostamento dal loro luogo naturale. Si tratta di una trasposizione e di una proiezione del sensibile nel sovrasensibile. Se l’economia conosce solo il risultato di questo ‘impazzimento’ e ‘spostamento’, la ‘critica’ dell’economia ha il compito di esporre la genesi delle Verrückte Formen, la loro ‘origine umana’: disvelando in ciò che è immediato per gli esseri umani delle forme alienate da sradicare. È nella fusione dell’inversione soggetto-oggetto con il problema del concetto di capitale il filo rosso che unisce le problematiche del giovane Marx con quelle del Marx maturo. Di qui, per così dire automaticamente, il primato del qualititativo sul quantitativo nel discorso marxiano.
Seguendo Adorno, si deve comprendere che la teoria del valore in quanto denaro e in quanto capitale si colloca nella terra di nessuno tra filosofia e scienza empirica. Per Backhaus, soltanto il principio del valore-lavoro, e non quello del valore-utilità, è in grado di spiegare l’esistenza del valore come ‘oggettualizzazione’ dell’essere umano come ente ‘generico’ (un altro tema che potrebbe essere sviluppato con un riferimento a Colletti, e a una sua critica, in positivo). Gli esseri umani si trovano ‘di fronte’ le proprie forze generiche, come forze collettive, come totalità alienata che li domina. Un pensiero, questo, il cui sviluppo approda alla concezione del capitale sociale come totalità autonoma, come Soggetto totalitario e reale, ‘astratto’ e ‘indifferente’ agli individui: Capitale che ‘abbraccia’ e ‘domina’ nel suo automovimento e nella sua autonomia. Backhaus riconduce l’origine di questa riflessione a Feuerbach, e qualifica la trasformazione della dialettica di Hegel operata da Marx come una dialettica ‘economico-antropologica’.
Le ‘apparenze’ economiche vanno intese non come oggettivazioni dell’autocoscienza ma come oggettualizzazioni di un soggetto ‘terreno’, delle forze generiche dell’essere umano[13]. Ancora seguendo Adorno, occorre riprendere l’idea hegeliana che lo Spirito è sempre ‘soggettivo-oggettivo’, tenendo però conto del compito (ancora da svolgere) di articolare il punto dove si ferma Hegel, secondo cui il momento finale dell’unità soggetto-oggetto è il prodotto della reificazione dell’autocoscienza, con l’orizzonte aperto (ma non risolto) da Marx, secondo cui quell’unità è il prodotto delle forme sociali del lavoro degli esseri umani: forme che nel capitalismo (di nuovo Adorno) si cristallizzano in una ‘oggettività irrazionale’. Il valore è materiale, oggettivo, e al tempo stesso illusorio, soggettivo. Nello sviluppo di questo tema che gli è proprio e unico Marx rimane, a giudizio di Backhaus, allo stadio del ‘frammento’.
Il rapporto fondativo con Adorno della Neue Lektüre è stato rimarcato in anni a noi più vicini da Reichelt: “had not Adorno repeatedly put forward the idea of a ‘conceptual in reality itself’, of a real universal which can be traced back to the abstraction of exchange, without his questions about the constitution of the categories and their inner relation in political economy, and without his conception of an objective structure that has become autonomous, this text would have remained silent — just as it had been throughout the (then!) already one hundred years of discussion of Marx’s theory of value.” (Reichelt 2008, p. 11).
In una battuta: più che Das Wahre ist das Ganze, vale l’opposto: Das Ganze ist das Unwahre.
Isaak Ilijč Rubin: l’astrazione del lavoro come processo
La prospettiva di Colletti “è singolarmente vicina a quella avanzata quasi cinquant’anni prima da Rubin” osserva Silvano Tagliagambe (1978, p. 157). Lo stesso Backhaus confessa la vicinanza tra alcune sue posizioni e quelle dell’economista russo, letto però troppo tardi perché quest’ultimo potesse avere una influenza diretta sulla sua elaborazione.
Della sua opera più importante, Saggi sulla teoria del valore di Marx, uscita in prima edizione nel 1923, abbiamo una traduzione in italiano nel 1976 della terza edizione del 1928 (traduzione parziale: dall’inglese, 1973, non dall’originale russo).[14] Una quarta edizione, ignota in Occidente, è stata tradotta in giapponese,[15] ma non differisce significativamente dalla terza.[16] La versione disponibile in inglese (tradotta anche in francese 1977, e prima in tedesco 1973) è però amputata di una significativa introduzione, e di una appendice contenente le risposte ai critici. I considerevoli mutamenti apportati dalla terza edizione alla seconda del 1924, così come il contesto originale del dibattito attorno all’opera di Rubin, sono stati assenti dalla discussione seguita alla sua pubblicazione in altre lingue: anche se una spia delle questioni discusse è in un articolo del 1927 su “Lavoro astratto e valore nel sistema di Marx”, che fu in parte rifuso in capitoli della terza edizione, e che è stato tradotto in inglese nel 1978 (ne esiste una precedente traduzione in tedesco del 1975).
La posizione che Rubin contesta è quella che legge il lavoro astratto come spesa fisiologica di energia: è probabilmente per contrastare questa tesi, presente con forza nel dibattito sulla rivista “Pod znamenem marksizma” (“Sotto la bandiera del marxismo”), che Rubin pubblicò il suo libro, proponendo di contro un’interpretazione sociologica della teoria di Marx, e riconducendo la teoria del valore alla teoria del feticismo. In questa prospettiva il lavoro astratto è inteso come realtà ‘puramente’ sociale, definizione a cui i critici imputeranno che essa comporterebbe recidere del tutto i ponti con la dimensione materiale del processo di produzione e una collusione con la posizione ‘idealistica’ sociale, neokantiana, di cui Franz Petry fu esponente di rilievo.
Nel passaggio dalla prima alla seconda edizione Rubin aveva sostanzialmente proceduto per estensione, prolungando l’analisi qualitativa del lavoro astratto in una analisi quantitativa del lavoro socialmente necessario (trattando anche del lavoro qualificato, del lavoro produttivo e improduttivo, dei prezzi di produzione). Il lavoro socialmente necessario non era definibile in modo esclusivamente ‘tecnologico’, e nella sua fissazione si doveva tener conto della concorrenza come del rapporto del valore al bisogno sociale (alla domanda). Sarà proprio questa seconda edizione a scatenare la discussione, con reazioni particolarmente accese. Rubin reagisce agli attacchi ritornando sui nodi controversi, anche con profonde innovazioni categoriali: in particolare, modifica sostanzialmente i capitoli 12 (su contenuto e forma del valore), completamente riscritto, e 14 (lavoro astratto), notevolmente accresciuto e ripensato come approfondimento della propria posizione; e inoltre inserendo in appendice una lunga ‘risposta ai critici’, limitandosi agli interventi per lui più pertinenti (Shabus, Kon, Dashkovskii).
In questa temperie sta anche un saggio di Rubin del 1924, sempre in “Sotto la bandiera del marxismo”, dedicato a Rapporti di produzione e categorie materiali, che confluirà nel capitolo 3. È questo articolo che secondo Tagliagambe costituisce il punto di inizio della controversia, e la ragione è chiara. Per l’economista russo “la struttura logica dell’economia politica come scienza esprime la struttura sociale del capitalismo. È l’origine sociale delle categorie a costituire la ‘connessione interna’” (Tagliagambe 1978, p. 155): gli economisti volgari (ma qui, aggiungeremmo noi, la stessa economia politica classica) studiano soltanto la forma economica estraniata, oggettiva e reificata; ma la materializzazione dei rapporti di produzione “esprime il fatto che le cose svolgono un particolare ruolo sociale, quello di ‘intermediario’ o ‘supporto’ dei rapporti di produzione.” (ibid,). Una posizione del genere andava a opporsi, per così dire, naturalmente alla tesi che ‘riduceva’ il lavoro astratto a fisiologico, e i rapporti sociali a rapporti materiali. Era questa, per esempio, la posizione di A. Kon (in Lezioni di economia politica, parte prima: teoria del valore, teoria della moneta, teoria del plusvalore, Edizioni di stato, uscito all’inizio del 1928).
Nel suo libro Kon vedeva nell’astrazione del lavoro una generalizzazione mentale dai lavori concreti, un’astrazione nel pensiero che conduceva a un lavoro ‘generale’. In questo senso il lavoro astratto è una categoria ‘logica’, che poteva dar luogo direttamente a una misurazione (in termini energetici, o in altri da individuare) della spesa fisiologica di lavoro, risolvendo di conseguenza anche il problema della misurazione quantitativa della grandezza di valore. Una tesi analoga era stata sostenuta anche da A.A. Voznesenskii nel suo articolo su “Sotto la bandiera del marxismo” del dicembre 1925, Come comprendere la categoria di lavoro astratto. Rubin vedeva piuttosto all’opera un’astrazione reale specifica di una particolare epoca storica, e nella dimensione fisiologica un presupposto metastorico del lavoro astratto (come peraltro dichiarava apertamente sulla stessa rivista nel giugno del 1926 I. Dashowski in Lavoro astratto e categorie economiche). Il lavoro astratto che crea valore è, per Kon, a un tempo lavoro sociale (come sostenuto anche da S. Shabus in Problemi del lavoro sociale nel sistema economico – una critica dei Saggi sulla teoria del valore di Marx di I.I. Rubin volume anch’esso comparso all’inizio del 1929 per le Edizioni di stato: lavoro astratto e lavoro sociale, o lavoro economico, sono una categoria unica).
In questi autori, commenta Takenaga (2007), il lavoro astratto non è la sostanza del valore. L’uno e l’altra non sono storicamente specifici, legati essenzialmente allo scambio di merci, come è per Rubin, che replicherà sostenendo che per i suoi critici il lavoro non si duplica ma si triplica: lavoro concreto, lavoro astratto in quanto fisiologico, e lavoro sociale. Nella seconda edizione l’economista russo aveva rigettata frontalmente e come del tutto erronea la riconduzione del lavoro astratto alla dimensione fisiologica. Sulla base di un confronto tra il primo capitolo del Capitale (dove nei primi due paragrafi è indubitalmente presente la riconduzione della sostanza e grandezza di valore alla dimensione fisiologica, mentre è solo nel terzo paragrafo che compare la forma di valore), e Per la critica dell’economia politica (dove è invece assente il metodo della ‘riduzione’, dal valore di scambio al valore al lavoro, oggetto delle facili critiche di Böhm-Bawerk), Rubin scriveva nella seconda edizione: “non vi è dubbio che lo stesso Marx ha dato adito a malintesi, non distinguendo chiaramente e nettamente l’analisi del lavoro in quanto contenuto del valore da quella della sua forma, e in particolare dando al contenuto la denominazione di ‘valore’ in generale, il che è all’origine della contraddizione che appare tra le fasi di Marx: da una parte, il ‘valore’ in generale esiste logicamente come se fosse indipendente e anteriore alla ‘forma di valore’, dall’altra parte, la ‘forma di valore’ viene affermata come fondamentale, per così dire il carattere chiave della economia di scambio. Senza la ‘forma di valore’, il ‘valore’ si trasforma in semplice erogazione di lavoro, categoria ‘logica’” (Takenaga 2007, p. 8). Tra i malintesi dei ‘fisiologisti’, scrive Rubin nel 1924, sta proprio l’idea che il lavoro in quanto tale sia qualcosa di assoluto che si materializza nei prodotti prima e indipendentemente dallo scambio.
Le obiezioni dei critici hanno però il merito di mettere in rilievo il rischio, nel Rubin della seconda edizione, di impugnare la teoria della forma di valore (e poi della natura di ‘feticcio’ assunta dalla manifestazione fenomenica del valore) contro la dimensione essenziale del valore stesso. Inutile ricordare che a questo esito, paradossalmente più fedele al Rubin della seconda edizione che al Rubin della terza che fu effettivamente tradotta, è poi approdata quella che a torto viene identificata come la “scuola di Rubin”, almeno dagli anni Ottanta: tra questi, in particolare, alcuni seguaci di Backhaus, Michael Eldred, Marnie Hanlon, Lucia Kleiber, e Volkberth M. Roth). Da questo rischio Rubin si smarca, grazie anche a uno studio attento della critica di Marx a Bailey nelle Teorie sul plusvalore (critica che gioca un ruolo importante nella lettura di Marx che l’economista russo presenta nella propria Storia del pensiero economico pubblicata nel 1926 tra la seconda e la terza edizione, e su cui tornerà con uno studio dell’Istituto Marx-Engels di Mosca intitolatio appunto Marx e Bailey). Ciò è già evidente nel suo articolo del giugno 1927 su Lavoro astratto e valore nel sistema di Marx che – ci ricorda ancora Takenaga – costituisce il cantiere da cui, con revisioni e aggiustamenti, riprende l’80% del rinnovato capitolo 12.
Marx, per un verso, critica il nominalismo di Bailey, sostenendo che il valore non è identificabile al valore di scambio come si dà concretamente in ogni atto di scambio; critica però anche, per l’altro verso, il ‘sostanzialismo’ di Ricardo, che esaurisce il valore nel suo contenuto, o sostanza, restando cieco alla forma di valore, e dunque poi anche al denaro. Mentre l’economia politica segue un metodo ‘analitico’, muovendo dal valore di scambio al valore al lavoro come sua sostanza, ciò deve essere proseguito, come fa Marx, da una movenza ‘sintetica’ o ‘dialettica’, che va dal lavoro come punto di partenza al valore al valore di scambio: per far ciò la critica dell’economia politica si deve chiedere perché il lavoro si debba esprimere in quella forma, dunque anche quale è il lavoro che viene esibito da quella forma. Il valore è esposizione e espressione di una specifica forma sociale del lavoro. La forma di valore, distinta dal suo contenuto, come forma sociale del prodotto è una proprietà astratta della merce che non si è ancora materializzata in oggetti determinati, non ha ancora acquisito forma concreta. Lo farà nel valore di scambio come denaro, forma concreta e indipendente del valore.
Il capitolo 14, dedicato al lavoro astratto, fu il più contestato. Lì stanno i cambiamenti più sostanziosi: non tanto repliche ai critici, quanto avanzamento e al tempo stesso revisione della propria posizione, che aveva il limite di essere stata presentata in forma preliminare e poco approfondita nella seconda edizione. Nell’argomentazione originaria di Rubin, infatti, il lavoro astratto veniva presentato come lavoro ‘privato’ che il momento, per così dire puntuale, dello scambio avrebbe reso sociale. La replica degli avversari fu che in qualsiasi forma di ripartizione sociale del lavoro, e non solo in quella capitalistica, vi è bisogno di una ‘riduzione’ della forma di lavoro a unità comune (Dashovskii), e che il lavoro così organizzato è da ritenersi già sociale nel momento della produzione immediata.
Nella prefazione alla terza edizione Rubin dichiara di aver “tagliato via i passaggi che hanno dato ai miei critici motivo per attribuirmi punti di vista che non condivido affatto” (Takenaga 2007, p. 14). La mossa del cavallo di Rubin è di concedere ai critici che ogni in economia in cui vi è divisione sociale del lavoro non si può non procedere a un eguagliamento sociale del lavoro, ma che questo eguagliamento non va confuso con il lavoro astratto, che è una espressione storica particolare di eguagliamento. In una comunità socialista l’organismo devoluto al piano eguaglia i lavori individuali, ma tale eguagliamento è secondario e supplementare rispetto alla socializzazione e distribuzione del lavoro. In una economia mercantile è l’opposto, il lavoro non è immediatamente sociale, lo diventa solo attraverso l’eguagliamento via equiparazione dei prodotti del lavoro. In entrambi i casi vige il presupposto del lavoro fisiologicamente eguale, ma in un caso (comunità socialista) il lavoro è socialmente eguale direttamente nel processo produttivo grazie al piano, nell’altro (economia mercantile) diventa sociale in quanto eguale, con una equiparazione nella forma di lavoro astratto nello scambio di cose.
Evidentemente, si incontra qui l’altro nodo di controversia suscitato dal capitolo 14. La rimostranza dei critici era che Rubin avesse formulato una teoria del lavoro astratto come integralmente ‘creato’ nel mercato finale delle merci.[17] Di nuovo, la seconda edizione dava più di un sostegno a questa imputazione: “Solo nel momento in cui i prodotti del lavoro sono portati sul mercato e si confrontano con innumerevoli altri prodotti che compaiono sul mercato stesso per essere eguagliati l’uno con l’altro in certe proporzioni, i produttori mercantili sentono effettivamente e completamente l’azione del mercato (cioè l’attività lavorativa degli altri produttori), e corrispettivamente esercitano sugli altri l’azione uguale e contraria […] sino a che il produttore si occupa del suo lavoro concreto particolare, questo lavoro rappresenta un lavoro privato. Diviene sociale solamente nell’atto di scambio sul mercato, cioè sotto forma di eguagliamento di generi estremamente diversi di prodotto di lavoro, solamente sotto la forma di lavoro astratto … il lavoro astratto emerge solamente nell’atto reale dello scambio di mercato … Il lavoro astratto si produce soltanto nello scambio … Il lavoro astratto è creato nello scambio.” (Takenaga 2007, p. 14, alcuni corsivi aggiunti).
Nella prefazione alla terza edizione Rubin indica, tra ciò che non condivide e che gli viene invece attribuito, proprio “la predominanza dello scambio sulla produzione” e “la collocazione del lavoro astratto nella fase dello scambio” (Takenaga2007, p. 14). Qui più che di mossa del cavallo si può parlare di una riformulazione radicale che ammonta a una diversa, più convincente, teorizzazione del lavoro astratto. Rubin ridefinisce lo scambio (anche sotto lo stimolo, non riconosciuto, della critica di Shabus, almeno secondo Takenaga) in una duplice accezione, come fase particolare del circuito economico (che viene prima e dopo fasi di produzione in senso stretto) o come forma specifica della produzione di una società di mercato che racchiude in sé la totalità della produzione e dello scambio come fasi che si alternano e si susseguono: definisce insomma lo scambio come la forma sociale della riproduzione. In questa situazione, dice Rubin, i produttori ‘privati’ che devono vendere sul mercato sono obbligati a tener conto in anticipo, nella sfera della ‘rappresentazione’, nel momento stesso della produzione immediata dei concorrenti: devono cioè mettere i loro prodotti in relazione a quantità di valore (denaro) prima dello scambio in senso stretto, e dunque devono anche procedere ad un eguagliamento anticipato dei lavori concreti a lavoro astratto (alcuni autori come Reuten e Williams hanno definito qualcosa del genere come una social pre-commensuration del lavoro nella produzione immediata).
In questo nuovo modo di vedere le cose, il lavoro astratto è già presente in forma latente nella produzione immediata (anche se la riduzione dei lavori concreti a lavoro astratto è ‘provvisoria’ e ‘ideale’), in attesa di attualizzarsi sul mercato finale. Senza scambio finale non vi sarebbe lavoro astratto, ma il lavoro astratto è presente in potenza nei processi lavorativi capitalistici. L’astrazione del lavoro è dunque un processo, e il valore si attualizza nell’unità di produzione e circolazione.
Non mi è possibile entrare in questa sede negli aspetti quantitativi della posizione di Rubin, e dunque accennare alla sua analisi del lavoro socialmente necessario e del lavoro qualificato, chiarendo in che misura le variazioni del lavoro concreto del ‘lavoratore collettivo’ che produce merci (ove intervengono aspetti fisiologici, materiali e tecnologici) condizionino la misurazione in denaro dello stesso lavoro astratto. Né posso prolungare il discorso rilevando come la pubblicazione del libro di Rubin negli anni Settanta consentirebbe di collocarlo proficuamente nel dibattito di allora. È un discorso che ho svolto altrove: la visione processuale dell’astrazione del lavoro da parte di Rubin costituisce un deciso passo in avanti rispetto a Colletti, e al tempo stesso converge con gli sviluppi – altrettanto decisivi – della teorizzazione del filosofo romano che furono apportati dal Napoleoni ‘marxiano’ dei primi anni Settanta, a partire dal chiarimento che l’ipostatizzazione e inversione soggetto-predicato si riproducono nel capitalismo sul mercato del lavoro (forza-lavoro) e nella produzione immediata (lavoro vivo). Napoleoni mostra inoltre come in Marx la deduzione del lavoro astratto dallo scambio (mercantile) vada articolata con la deduzione del lavoro astratto dal capitale in quanto lavoro vivo prestato dal lavoratore salariato (il riferimento è ai Grundrisse). Napoleoni chiarisce ancora che nel lavoro astratto, come lavoro immediatamente privato e solo mediatamente sociale, è intrinseca una dimensione ‘concorrenziale’: i lavori privati che si scontrano sul mercato sono da intendersi come i ‘molti capitali’, e da qui discende tutta la teoria dell’extraplusvalore e dell’estrazione di plusvalore relativo. Di qui basterebbe un passo per comprendere come il lavoro astratto, che è ‘in divenire’ nella produzione immediata, una volta sottomesso alla sussunzione non solo formale ma anche reale del lavoro al capitale, diventa lui il Soggetto che dalla produzione si realizza nella circolazione; e come a questo stadio dello sviluppo storico-sociale, dove le dimensioni concrete vengono al lavoro dal capitale, ormai non solo il valore ‘conta’ come lavoro (astratto), ma esso è nient’altro che lavoro (astratto). L’astrazione reale si fa praticamente vera. Impossibile infine intervenire sul come questa prospettiva possa riconnettersi, tenuto conto degli scritti di Augusto Graziani, ad una rivendicazione della teoria del valore nella teoria macrosociale e monetaria dello sfruttamento.
Non posso però esimermi dal tirare le file del discorso su Rubin sulle due questioni su cui questo mio scritto interviene, entrambe al fondo politiche. La prima cosa da dire, e su cui insiste Tagliagambe, è che di questa diatriba poco si capirebbe se non la si collocasse nelle discussioni in URSS sulla pianificazione. La posizione antagonista a quella rubiniana è che dietro la teoria del valore vi sarebbe un contenuto valido per ogni società, fondato sulla tecnicità fisica e la materialità – il marxismo delle forze produttive, insomma. “Le forme sociali non vanno pertanto ridotte al livello della produzione materiale e fondate su di esso […] Funzioni e forme sociali, allora, non competono alla cosa in sé, considerata da un punto di vista astrattamente materiale, ma alla cosa in quanto parte di un determinato contesto sociale”.[18] (Tagliagambe 1978, 159-160) Ancora Tagliagambe che commenta Rubin: “impostazione materialistica non è necessariamente quella che si fonda su oggetti materiali, ma può essere anche quella che descrive correttamente i contenuti con cui ha a che fare, cioè riesce effettivamente a fornire una conoscenza del proprio oggetto d’analisi” (Tagliagambe 1978, p. 165); con la prima impostazione costretta di conseguenza a confondere funzioni tecniche delle cose con le loro funzioni sociali. La linea di Rubin aveva una conseguenza immediata: non esauriva il problema della trasformazione e modernizzazione strutturale col binomio macchina-apparato statale. Semmai, Rubin chiedeva alla programmazione “un quadro organico e chiaro del tessuto della società che consentisse di operare scelte ponderate, che fossero in sintonia con l’effettiva ‘richiesta’ sociale, degli obiettivi e delle finalità dello sviluppo delle forze produttive”, qualcosa che l’accelerazione staliniana semplicemente cancellò dal quadro.
In un contributo successivo alla terza edizione, non considerato da Takenaga (ma di cui vi sono larghi estratti in Tagliagambe) – Lo sviluppo dialettico delle categorie nel sistema economico di Marx, ancora in “Sotto la bandiera del marxismo”, febbraio1929 – la situazione è esposta con lucidità: “Una forma sociale scaturisce da un’altra più semplice sotto l’influenza del mutamento delle forze produttive materiali. Essa non sorge però in uno spazio vuoto né sorge immediatamente come semplice riflesso passivo dello stato determinato raggiunto dalle forze produttive, al di fuori di ogni legame con le forme sociali e rapporti di produzione tra gli uomini.” (Tagliagambe 1998, p. 172) A Bessonov, che gli rimprovera di dedurre una forma dall’altra come circolo vizioso e vede in ciò un esempio di pensiero scolastico, Rubin rimprovera un’impostazione non dialettica, e aggiunge: “Il mio critico dimentica che sotto ogni forma sociale si nascondono i rapporti di produzione di molti milioni di uomini” (Tagliagambe 1998, p. 172). “La natura specifica dell’economia mercantile capitalistica risiede nel fatto che i rapporti sociali tra persone non si stabiliscono solo con riferimento ma mediante le cose stesse. È ciò che dà ai rapporti di produzione tra persone una forma ‘materializzata’, ‘reificata’, e genera il feticismo della merce, la confusione tra aspetti tecnico-materiali e socio-economici del processo produttivo, confusione eliminata dal nuovo metodo sociologico di Marx … Tale metodo esige da noi che ad oggetto d’indagine, anziché cose ossificate, isolata l’una dall’altra, si assumano processi fluidi, dinamici, legati l’uno all’altro”. (Tagliagambe 1998, p. 173 e p. 176)
La seconda questione che volevo ricordare è già emersa sotterraneamente dalle parole di Rubin (e ulteriori citazioni potrebbero approfondire il punto) nelle recensioni precedenti, e cioè il rapporto Marx-Hegel. La polemica su Rubin si intreccia alla controversia in ambito filosofico tra ‘meccanicisti’ e ‘dialettici’, su cui ancora Tagliagambe è una miniera di citazioni. I dialettici, contro la posizione ‘riduzionistica’ per cui i fenomeni più complessi possono essere ridotti ai più semplici che ne costituiscono la base, si schierarono con Rubin. L’economista russo, preso nella tenaglia della grande svolta del 1929, pagò con il carcere e la vita la sua ‘eresia’. Su Marx tra Kant e Hegel era intervenuto Rubin nella terza edizione con parole che vale la pena di citare: “nella nostra considerazione metodologica il concetto di lavoro astratto precede direttamente quello di valore, e deve essere posto come base (contenuto e sostanza) del secondo. Non si deve dimenticare, a questo proposito, che sul problema del rapporto tra forma e contenuto Marx assume il punto di vista di Hegel contro quello di Kant. Quest’ultimo considerava la forma come qualcosa di estrinseco rispetto al contenuto, che aderisce dall’esterno ad esso. Per Hegel, al contrario, il contenuto non è un in sé a cui si aggiunga dal di fuori la forma; ma è piuttosto il contenuto stesso che nel corso del proprio sviluppo, si dà la forma già latente in esso. È questa la premessa essenziale, comune al metodo di Marx e di Hegel, e opposta a quello di Kant. Da questo punto di vista si deve dire che la forma di valore si sviluppa necessariamente dalla sua sostanza. È per questo che dobbiamo assumere il lavoro astratto, in tutte le proprietà sociali caratteristiche di una economia mercantile, come sostanza o contenuto del valore” (Tagliagambe 1998, pp. 94-95, corsivi miei)
Raggiungiamo qui di nuovo la problematica per cui, pur essendo il valore attualizzato nello scambio finale delle merci, il movimento marxiano va dalla produzione immediata alla circolazione sul mercato finale delle merci, dal contenuto (come forma ‘latente’) alla forma. Il che è evidentemente possibile solo se quel contenuto è, per così dire, previamente ‘conformato’ da una ante-validazione monetaria (come a me pare si dia con il finanziamento monetario della compravendita di forza-lavoro, sulla base di certe aspettative sull’andamento della produzione e del mercato), e si tiene conto del condizionamento che impone una pre-commensurabilità nella produzione, che anticipano la validazione finale sul mercato (il ciclo, o circuito monetario, parallelo alla sequenzialità del lavoro astratto). È il tema che riemergerà negli anni Settanta, ed è un tema anch’esso, a ben vedere, politico: perché la riscoperta della centralità del lavoro e della produzione come luogo ‘contestato’ fu imposta alla riflessione da ben reali lotte dentro i processi capitalistici del lavoro. Lotte che problematizzavano il rapporto tra forza-lavoro e lavoro vivo come era stato pensato dai vari marxismi, e che imponevano di ricondurre il problema della ‘costituzione’ della realtà cosale capitalistica alla natura conflittuale e potenzialmente antagonistica del ‘laboratorio segreto della produzione’. Ma di questo più avanti.
Marx ‘perso nella traduzione’
Possiediamo a questo punto la gran parte degli elementi che ci possono consentire di proporre un quadro, sia pure approssimativo, del procedere dialettico dell’argomentazione all’inizio de Il Capitale. Prima di procedere oltre devo però prima render conto al lettore di alcune convenzioni che adotterò riguardo alla traduzione di alcuni termini hegeliani che strutturano il discorso di Marx.[19]
Schein ha a che vedere con i fenomeni di superficie quando vengono considerati in se stessi come essenziali: in quanto tale si tratta spesso di una parvenza, illusoria e ‘volgare’. Hegel scrive nella Scienza della Logica: “L’essenza che proviene dall’essere par che gli stia di contro. Questo essere immediato è anzitutto l’inessenziale. Ma in secondo luogo esso è più che semplicemente inessenziale; è essere privo di essenza, è parvenza (Schein). In terzo luogo questa parvenza (Schein) non è un che di estrinseco, altro rispetto all’essenza, ma è la sua propria parvenza. Il parere dell’essenza (Scheinen des Wesens) in lei stessa è la riflessione (Hegel 1812, pp. 437-38)”. Riporto il commento di Suchting: “In the first main sub-division of the Doctrine of Essence it is the Essence that has ontological superiority, as it were. The surface is a Schein in the two-fold sense of the word in German: it is a reflection, but also a mere seeming. Indeed it is a mere seeming just because it is a mere reflection: insofar as it is taken to be a reality itself (as it is in the Doctrine of Being), but is in fact wholly a product of the Essence, it is only a semblance, a mere illusion of reality.” (1986, p. 38: corsivo mio). La traduzione opportuna per il verbo, scheinen, è ‘sembrare’.
Erscheinung ha a che vedere con questi stessi fenomeni di superficie per come ‘appaiono’ o ‘manifestano’ se stessi. È la manifestazione fenomenica necessaria dell’essenza, il modo attraverso cui quest’ultima non può che apparire a livello fenomenico; ma in Marx essa è allo stesso tempo una manifestazione spostata delle leggi essenziali, da cui la ‘deviazione’ delle Verrückte Formen. Qui la traduzione opportuna mi pare essere ‘apparenza’ o ‘manifestazione (fenomenica)’. Hegel scrive: “L’essenza deve apparire (erscheinen) […] in quanto è fondamento, si determina realmente, mediante la riflessione sua che toglie se stessa o rientra in sé. In quanto inoltre questa determinazione, o l’esser altro della relazione fondamentale, si toglie nella riflessione del fondamento e diventa esistenza, le determinazioni della forma hanno qui un elemento di sussistenza indipendente. La loro parvenza (Schein) si compie diventando apparenza o fenomeno (Erscheinung). […] Il fenomeno (Erscheinung) è quello che è la cosa in sé, cioè la sua verità. Questa esistenza soltanto posta, riflessa nell’esser altro, è però parimenti l’oltrepassar se stessa per entrare nell’infinità. Al mondo del fenomeno (Erscheinung) si contrappone il mondo riflesso in sé, il mondo che è in sé e per sé.” (Hegel 1812, pp. 537-538) Ancora una volta il commento di Suchting è utile: “The course of the argument through this first sub-division of the Doctrine of Essence … is, in brief, an exposition of the difficulties in the way of giving any account of Essence independently of its Schein. The culmination of the first sub-division is the category of ‘Matter and Form’. The world is now conceived of as fully manifest ‘matters’ partly constituted by their inter-linked ‘forms’. What was previously Schein now becomes the essential moment … Schein becomes Erscheinung – ‘Appearance’ – when it is grasped in the real network of its relations.” (Suchting 1986, pp. 38-39)[20]
L’ ‘essenza’ manifesta fenomenicamente se stessa in virtù di una ‘esposizione’, di una ‘presentazione’: una Darstellung. Questo termine è spesso tradotto con ‘rappresentazione’. Anche se in passato ho usato io stesso ‘rappresentazione’, ora preferisco ‘esposizione’ – proprio perché è meno un termine del linguaggio ordinario ed è più tecnico, aiutandoci a comprendere il tessuto dialettico del sistema di Marx. Rende anche più facile comprendere perché questa ‘presentazione’ non sia in ore-lavoro ma in denaro. La Darstellung è l’esposizione processuale del sistema che è necessaria dal punto di vista della ricostruzione logica del tutto. Se ciò che viene esposto, viene riconosciuto come risultato di un complesso processo di mediazione, allora è una ‘apparenza’, una ‘manifestazione fenomenica’; altrimenti è una ‘parvenza’, un’ ‘illusione’. È Vorstellung che corrisponde a rappresentazione, mentale o concettuale: è un’anticipazione ‘ideale’, il modo attraverso cui gli agenti percepiscono le forme capitalistiche. Interpreto Ausdrücken in un senso più forte di quanto normalmente venga fatto, ovvero come ‘esprimere’, inteso come un movimento che dall’interno (in quanto realtà ‘latente’ o ‘potenziale’) va verso l’esterno (la forma ‘oggettualizzata). È il processo ‘genetico’ che ‘costituisce’ la Darstellung.[21]
Come cercherò di sostenere tra poco, nella critica dell’economia politica marxiana, quale che sia l’interpretazione corretta di Hegel, la Darstellung non può essere ridotta esclusivamente “all’esposizione del sistema nella sua stringenza concettuale”, ovvero alla sua “autoesposizione rispecchiata nella mente del filosofo che fa scienza e che contempla la cosa stessa nel suo farsi” come invece scrive Fineschi (in Marx 1867, p. 1323).
Marx dopo Hegel: il ‘carattere di feticcio del capitale’ e la sua differenza dal ‘feticismo’
Ricostruiamo dunque la dialettica di valore, denaro e capitale. La ‘merce’ presenta se stessa [Darstellung] sin dall’inizio come un’entità duplice: è un ‘valore d’uso’, un prodotto con una qualche utilità, e ha un ‘valore di scambio’, una relazione quantitativa con altre merci. Sembra che la nozione di un valore ‘intrinseco’ o ‘assoluto’ sia quindi una contradictio in adjecto, ma questa è appunto una mera illusione [Schein]. Dietro questa prima definizione di ‘valore di scambio’ dobbiamo scoprire il ‘valore’: la vera ‘duplicità’ è infatti tra valore d’uso e valore. Questa duplicità all’interno della merce che è un risultato del processo di produzione, corrisponde a una duplicità nel lavoro che l’ha prodotta. Anche il dispendio di forza-lavoro – o il lavoro vivo eseguito dai lavoratori – può essere visto come doppio: come lavoro ‘concreto’, perché produce merci in quanto valori d’uso; e nello stesso tempo come lavoro ‘astratto’, perché le produce come valori. Si noti che i valori d’uso e i lavori concreti non sono omogenei, e dunque sono incommensurabili. Il valore, al contrario, è una gelatina [Gallerte] di lavoro ‘puro e semplice’, un cristallo esito di un ‘congelamento’[22]: un ‘ammontare’ (una dimensione quantitativa, dapprima non definita come ‘somma’ specifica) omogeneo, che in quanto tale è commensurabile. Il riferimento a un processo di congelamento dà l’idea che il lavoro oggettualizzato [gegenständlich][23] rimandi alla dimensione dinamica del lavoro vivo come fluido.
Quest’idea del valore come congelamento ‘oggettualizzato’ del lavoro vivo degli esseri umani nel suo lato ‘astratto’ – valore come sostanza la cui grandezza può essere misurata in unità di tempo (secondo una qualche media sociale, cioè in tempo di lavoro socialmente necessario) – è, va detto, molto problematica. Per questo Marx inizia a ragionare sulla forma del valore a partire dal terzo capoverso del primo paragrafo del primo capitolo. Qual è il problema? ‘Valore’, nel modo in cui è stato concepito fino a ora, è soltanto un ‘fantasma’. Si deve ancora spiegare come quest’entità puramente sociale – il ‘valore’ quale è definito nei paragrafi 1 e 2 – acquisisca un’esistenza materiale; e un’esistenza persino prima dello scambio finale sul mercato delle merci, almeno secondo Marx. A questo punto del ragionamento, prima dello scambio, abbiamo di fronte soltanto lavori concreti ‘incorporati’ in valori d’uso definiti, gli uni e gli altri incommensurabili. Né i lavori concreti né i valori d’uso possono essere sommati gli uni con gli altri. Marx mostra che alla duplicità concettuale all’interno della merce (valore d’uso/valore) deve corrispondere un ‘raddoppiamento’ effettivo e pratico nella realtà (merce/denaro). L’analisi di Marx delle forme prese dal valore (le Erscheinungsformen) ricostruisce la logica della costellazione in cui i lavori di tutte le merci vengono esposti da una merce ‘esclusa’ che mette in scena il ruolo dell’equivalente universale – il processo della Darstellung, insomma. Quando questo ruolo diventa abituale per, e fissato in, una merce per via necessariamente (anche) politica, l’equivalente universale è denaro.
Vediamo come la Forma denaro, che origina dalla forma dell’equivalente universale (Forma C), ‘supera’ la forma semplice (o singolare) del valore (Forma A) e la forma totale (o dispiegata) del valore (Forma B). Per il tramite dell’equivalente universale le merci ‘esprimono’ ora il loro valore in una forma semplice, ovvero, in una merce singola, come avveniva con il polo della forma di equivalente nella Forma A, ma in una forma non più casuale. Di conseguenza, di contro a tutte le altre merci, il lavoro concreto che produce l’oro come denaro espone il lavoro astratto che è contenuto in tutte le altre merci. La forma dell’equivalente nella Forma C è però unitaria e in comune, è cioè la stessa per tutte le merci, grazie al rovesciamento della forma relativa dispiegata di valore propria della Forma B. Di conseguenza nella Forma C abbiamo la posizione dell’eguaglianza qualitativa attraverso la singola merce ‘esclusa’, come nella Forma A, e possiamo determinare la grandezza quantitativa del valore del denaro, come nella Forma B, ma attraverso la comparazione universale di questa merce ‘esclusa’ con il mondo delle merci. “Le merci adesso espongono il proprio valore 1) in maniera semplice, perché in una merce unica e 2) in maniera unitaria, perché nella stessa merce. La loro forma di valore è semplice e in comune, dunque è universale” (Marx MEOC XXXI, p.76). Questo non è altro che un sillogismo hegeliano fattosi effettuale
Il ‘denaro come merce’ è prodotto di lavoro: Marx assume che sia l’oro. Una volta che una merce definita è stata isolata come equivalente universale, il ‘fantasma’ si è dimostrato in grado di prendere possesso di un corpo. L’intonazione gotica non è retorica, un vezzo stilistico. Il denaro è al contrario, letteralmente, un ‘valore incorporato’ [verkörperter Wert] nel valore d’uso dell’oro. Si noti che in generale, il lavoro è ‘incorporato’ nelle merci soltanto in quanto lavoro concreto, non in quanto lavoro astratto – a dispetto di quasi tutte le attuali traduzioni in ogni lingua che usano ‘incorporazione’ con troppa disinvoltura (Cantimori addirittura traduce verkörperter Wert con lavoro incorporato: è una svista, ma significativa). Per quanto riguarda il lavoro astratto, Marx scrive che si tratta piuttosto di lavoro ‘contenuto’ [enthalten] nelle merci. Dal momento che il denaro in quanto merce è valore incorporato, il lavoro astratto contenuto nelle merci scambiate contro denaro si espone in lavoro concreto incorporato nell’oro. In altri termini, l’ ‘esposizione’ [Darstellung] del lavoro astratto delle merci richiede l’ ‘incorporazione’ [Verkörperung] del lavoro concreto nell’oro come denaro. Il ‘valore di scambio’ si è a questo punto sviluppato in una seconda definizione. Non è soltanto il rapporto di scambio tra due merci qualunque ma piuttosto la quantità di ognuna di esse che viene scambiata per una certa quantità di denaro.
Si noti bene ciò che il denaro è per Marx. Non è soltanto l’equivalente universale che valida ex post il lavoro astratto che è ‘immediatamente privato’ e solo ‘mediatamente sociale’ (vermittelte gesellschaftliche Arbeit). Il denaro è anche e soprattutto l’ ‘incarnazione individuale’ [Inkarnation] del valore che viene dal lavoro sociale – anche qui il riferimento, questa volta non gotico ma cristiano, e più specificamente cattolico (perché per Marx abbiamo a che fare con una vera e propria transustanziazione) non è affatto retorico. Il lavoro che produce oro in quanto denaro è l’unico lavoro privato che è, allo stesso tempo, lavoro immediatamente sociale. In questi primi capitoli, quando Marx parla di unmittelbare gesellschaftliche Arbeit [appunto, lavoro immediatamente sociale] si riferisce sempre esclusivamente al lavoro concreto che produce il denaro come merce e che espone il lavoro astratto che produce le merci che vengono vendute sul mercato. Il lavoro astratto invece è un gesellschaftliche Arbeit [lavoro sociale] solo in quanto ‘mediato’ nello scambio di cose,[24] attraverso quella ‘reificazione’ che è sempre connessa al ‘carattere di feticcio’ [Fetischcharakter] del denaro (e poi del capitale). Marx (MEOC, XXXI, pp. 165-66) scrive:
A questi ultimi, perciò, le relazioni sociali dei loro lavori privati si manifestano fenomenicamente [erscheinen] come ciò che esse sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali di persone nei loro lavori stessi, bensì come rapporti cosali [sachliche] di persone e rapporti sociali di cose [Sache].
Il carattere di feticcio – la natura ‘oggettuale’, cosale e alienata della realtà sociale capitalistica – ha a che fare con un Erscheinung. Quello che è ingannevole, una parvenza o Schein, è attribuire proprietà sociali alle cose come se fossero loro attributi naturali: questo è ciò che Marx chiama propriamente Fetischismus, feticismo. Tale attribuzione non è però falsa se le cose vengono considerate all’interno del rapporto sociale di capitale, qui invece le proprietà sociali ‘attaccate’ alle cose si rivelano drammaticamente effettive nel loro ‘potere’ sugli esseri umani.[25]
A questo punto, nell’esposizione di Marx, la gelatina di valore si è tramutata in oro come denaro sul mercato. Il denaro è una crisalide. Si noti anche che il lavoro speso dai produttori individuali, quindi la ‘socialità’ del loro tempo di lavoro nella produzione non può essere postulata. Marx insiste che il denaro sia una forma impazzita, spostata, o deviata, attraverso cui la socialità viene determinata nello scambio universale (si rammenti che lo scambio diviene universale solo col capitale). La circolazione dissimula e rovescia, espone e esprime. Come conseguenza il lavoro totale [gemeinsame Arbeit], che deve essere considerato innanzitutto come l’insieme dei lavori individuali concreti, non può essere assunto come sociale senza che sia preso in considerazione questo processo monetario, questa ‘deviazione’.
Attraverso questa ‘equivalenza’ [Gleich-seitzung] dei lavori astratti che producono merci con il lavoro concreto che produce il denaro come cosa Marx ha posto – per il momento solo qualitativamente – la possibilità di tradurre le grandezze monetarie in grandezze di lavoro. Questa Aequivalenz viene sancita dallo scambio nel mercato. Marx, in ogni caso, insiste sempre che la commensurabilità non va dal denaro alla merce, ma semmai nella direzione opposta. L’esposizione del valore delle merci nel valore d’uso del denaro come merce è un movimento dall’interno all’esterno: è un’espressione del contenuto nella forma (il verbo tedesco è ausdrücken). L’unità di produzione e circolazione è costituita da un movimento che va dalla produzione allo scambio sul mercato finale delle merci.
Le merci non diventano commensurabili tramite il denaro perché sono già commensurabili in anticipo, come gelatina di lavoro vivo umano in astratto, dato che queste oggettualizzazioni di lavoro vivo sono grandezze di denaro ‘ideale’, anticipate dagli agenti – un processo che riguarda la Vorstellung. È importante comprendere che in questa equivalenza tra merci (il plurale è essenziale) e denaro, che corrisponde sostanzialmente a un’equalizzazione, il denaro (l’equivalente universale) è passivo, sono le merci ad essere attive. Questo è il motivo per cui Marx definisce la ‘materializzazione’ in oro del valore delle merci una Materiatur, un termine inusuale nello stesso tedesco a lui contemporaneo, per significare che il materiale che rappresenta il valore deve possedere qualche caratteristica particolare che lo rende atto a esprimere adeguatamente il, e a essere una ‘forma della manifestazione fenomenica’ del, valore.[26] Per Marx, l’oro come denaro mondiale è proprio questo: un Wertkörper, un “corpo di valore” che è allo stesso tempo una materiatura universalmente riconosciuta di ricchezza astratta.
La posizione di Marx qui mi sembra essere stata compresa lucidamente dal secondo Rubin: è il contenuto stesso che fa nascere la forma, così che nel mercato finale delle merci abbiamo a che fare con una attualizzazione, un ‘venire ad essere’ di qualcosa che è latente nella produzione. Ciò è naturalmente possibile soltanto perché nella produzione la materia è già stata manipolata in modo tale da farne un ‘contenuto’ adatto affinché la ‘forma’ del valore gli dia la sua impronta. Il riferimento – come ho mostrato nei miei lavori precedenti, e ricordato in precedenza – richiede un’ante-validazione monetaria attraverso il finanziamento alla produzione e una pre–commensurazione all’interno del processo di lavoro capitalistico: l’una e l’altra in un universo di autentica incertezza, irriducibile al rischio.
Si tratta di una sequenza logica fragile. La giustificazione che dà Marx della sua prospettiva è che la ‘circolazione di merci’ universale dev’essere sempre pensata come intrinsecamente monetaria. Warenaustausch e Zirkulation per lui hanno senso soltanto in un’economia monetaria di produzione com’è il capitalismo. Lo ‘scambio’ non può essere concepito come uno ‘scambio di prodotti’ simile al baratto (cioè, come un unmittelbare Produkten-austausch).[27] Le merci entrano sempre nel mercato con un prezzo che gli sta ‘appiccicato’: il loro nome-denaro. Grazie alla forma-prezzo assunta dal valore, si presume che le merci siano trasformate in una certa quantità di (oro come) denaro già prima dello scambio effettivo. Il prezzo della merce come quantità di denaro ‘ideale’ è una ‘rappresentazione mentale’ (una Vorstellung) – qualcosa di anticipato e nominale – dell’oro come denaro ‘reale’. Di conseguenza è sempre possibile tradurre questa misura ‘esterna’ della grandezza di valore di ogni merce in termini di denaro – secondo le aspettative dei produttori sulle variabili nominali, prima dello scambio – in una misura immanente in quantità di tempo di lavoro.
Vediamo di capire come Marx determina il ‘valore del denaro’, cioè l’inverso dell’ ‘espressione in denaro del tempo di lavoro [socialmente necessario]’. Secondo Marx, la determinazione quantitativa del valore del denaro è fissata nel punto di produzione dell’oro, quando l’oro è immesso per la prima volta nel circuito monetario. L’oro viene scambiato in prima battuta come semplice merce contro tutte le altre merci. Questo scambio non è monetario in senso stretto. Il tempo di lavoro (privato) richiesto per produrre l’oro è reso eguale alla quantità di lavori (privati) che producono le altri merci con cui l’oro è scambiato, così che la stessa quantità di tempo di lavoro è congelata nell’uno e negli altri. Qui abbiamo ancora a che fare – Marx è chiaro a riguardo – con un baratto non-mediato (il tedesco qui è preciso: unmittelbarem Tauschhandel). Non è ancora la ‘circolazione’, circolazione di merci, che è sempre mediata dal denaro.
Soltanto dopo che è entrata nel mercato in questo modo, come ‘prodotto immediato di lavoro’, alla fonte della sua produzione (per essere scambiata con altri prodotti di lavoro di uguale valore), l’oro funziona da denaro.[28] L’oro come denaro entra nella ‘circolazione’ propriamente detta, cioè, nello scambio monetario universale delle merci. Da questo momento il suo valore è sempre già dato. In questa prospettiva teorica, la connessione tra valore e lavoro è data attraverso il denaro come merce. Questo può ora avvenire secondo una sequenza (logica). Il valore prima dello scambio è già denaro ideale con un contenuto di lavoro dato: è una grandezza determinata di lavoro contenuto. Questa ‘sostanza’ è attualizzata nella circolazione quando il denaro ‘ideale’ diventa denaro reale. Con l’esposizione [Darstellung] del valore delle merci da parte del denaro non soltanto il lavoro concreto che produce oro come denaro conta come (l’unico) lavoro immediatamente sociale, ma assistiamo anche a un movimento che dall’interno va verso l’esterno.
All’interno dello scambio nel mercato finale delle merci il lavoro ‘oggettualizzato’ è astratto perché, quando sono esposti in forma di valore, i prodotti dell’attività del lavoro umano manifestano se stessi come se fossero una realtà ‘indipendente’ ed ‘estranea’, separata dalla loro origine nel lavoro vivo. Più che di ‘alienazione’ si deve parlare di ‘reificazione’ e ‘feticismo’. Reificazione, perché le relazioni sociali necessariamente prendono l’apparenza [Erscheinung] materiale di uno scambio tra cose – il che rimanda, evidentemente, al carattere di feticcio. Feticismo, perché i prodotti del lavoro hanno la parvenza [Schein] di essere provvisti di proprietà sociali, come se queste fossero conferite loro per natura.[29] Queste caratteristiche, e questa distinzione tra ‘carattere di feticcio’ e ‘feticismo’, riappariranno ancor più chiaramente in altri due momenti del circuito capitalistico.[30] Nel mercato del lavoro, gli esseri umani diventano ‘personificazioni’ della merce che vendono, capacità lavorativa o lavoro ‘potenziale’: la forza-lavoro è la merce di cui i lavoratori sono una mera appendice. All’interno della produzione, lo stesso lavoro vivo, o lavoro ‘in divenire’ – organizzato e modellato dal capitale come ‘valore-in-processo’, e inserito in un sistema organizzativo e tecnologico ben preciso, dedito alla creazione di valori d’uso, e specificamente disegnato per permettere l’estrazione di plusvalore – è il vero Soggetto Astratto di cui i lavoratori concreti che lo mettono in atto sono solo dei predicati.
Ne Il Capitale e nel Capitolo sesto inedito tutto ciò lo si vede nel modo più chiaro, nel discorso di Marx sulla ‘produttività del capitale’ (corsivi di Marx; sottolineature e grassetti miei; la traduzione è stata leggermente modificata in un punto):
Poiché il lavoro vivo – all’interno del processo di produzione – è già incorporato (einverleibt) nel capitale, tutte le forze produttive sociali del lavoro si espongono come forze produttive [del capitale], come proprietà inerenti al capitale, proprio come nel denaro il carattere universale del lavoro si manifestava [erschien], nella misura in cui costituiva valore, come proprietà di una cosa.” (Marx MEOC XXXI, p. 1006)
Il rapporto diventa però più complicato e parventemente [scheinbar] più misterioso, in quanto, con lo sviluppo del modo di produzione specificamente capitalistico, queste cose – questi prodotti del lavoro, sia come valori d’uso che come valori di scambio – non solo si levano in piedi di fronte al lavoratore e vi compaiono come “capitale”, ma si espongono alla forma sociale del lavoro come forme di sviluppo del capitale e, di conseguenza, le forze produttive del lavoro sociale così sviluppate si espongono come forze produttive del capitale. Come tali forze sociali esse sono, di fronte al lavoro, “capitalizzate” (Marx MEOC XXXI, p. 1009)
“le forme sociali del loro lavoro – sia soggettivamente sia oggettivamente, ovvero la forma del lavoro sociale loro proprio – sono rapporti costituiti in modo del tutto indipendente dai singoli lavoratori; sussunti sotto il capitale, i lavoratori diventano elementi di questi costrutti [Bildungen] sociali, che tuttavia non appartengono loro. Tali costrutti compaiono di fronte ai singoli lavoratori come figure [Gestalten] del capitale stesso, come combinazioni che appartengono ad esso – in maniera distinta dalla loro capacità di lavorare presa singolarmente –, che da esso sorgono e che in esso sono incorporate [einverleibte]. E ciò assume una forma tanto più reale, quanto più, da un lato, la loro stessa capacità di lavorare viene modificata da queste forme, al punto che, nella sua autonomia – quindi al di fuori di questo contesto capitalistico – essa diviene impotente, la sua autonoma capacità di produzione viene spezzata; e quanto più, dall’altro, con lo sviluppo del macchinario, le condizioni di lavoro si manifestano [Erscheinen] anche tecnologicamente come dominanti il lavoro e, al contempo, lo sostituiscono, lo reprimono, lo rendono superfluo nelle sue forme autonome. Nell’ambito di un tale processo – in cui i caratteri sociali del loro lavoro compaiono di fronte a loro, per così dire, capitalizzati, così come nel macchinario, per esempio, i prodotti visibili del lavoro si manifestano [Erscheinen] come dominatori del lavoro –, succede naturalmente la stessa cosa con le forze della natura e con la scienza – il prodotto dello sviluppo storico universale nella sua quintessenza astratta –; esse compaiono di fronte ai singoli lavoratori come potenze del capitale. Esse si separano, di fatto, dalla qualifica e dalla conoscenza del singolo lavoratore e – per quanto considerate alla loro fonte siano di nuovo prodotto del lavoro – si manifestano, dovunque entrino nel processo lavorativo, come incorporate [einverleibte] nel capitale. Il capitalista che impiega una macchina non ha bisogno di capirla (vedi Ure[189]). Ma nella macchina la scienza realizzata si manifesta (erscheint), di fronte ai lavoratori, come capitale. E, di fatto, tutti questi impieghi – fondati sul lavoro sociale – della scienza, della forza della natura e dei prodotti del lavoro in grandi masse si manifestano (erscheint) di fronte al lavoro soltanto come mezzi di sfruttamento del lavoro, come mezzi per appropriarsi di surplus-lavoro e, di conseguenza, come forze che appartengono al capitale. Naturalmente, il capitale impiega tutti questi mezzi solo per sfruttare il lavoro, ma per sfruttarlo, deve impiegarli nella produzione. E così lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro e le condizioni di questi sviluppi si manifestano (erscheint) come azione del capitale, nei confronti della quale non è solo il singolo lavoratore che si rapporta passivamente, ma sono esse che hanno luogo in opposizione a lui.” (Marx MEOC XXXI, pp. 1010-1011)
È chiaro che tutto il discorso di Marx non si basa sulla parvenza [Schein] ma sulla manifestazione fenomenica [Erscheinung] del capitale nell’esposizione [Darstellung]. Questo punto di vista può essere criticato solo se guardiamo questa realtà ‘paradossale’ dal punto di vista della sua fonte: il lavoro vivo che viene dallo ‘sfruttamento’ (dall’uso, o consumo) dei lavoratori come portatori vivi di forza-lavoro. Questo è il discorso (critico e rivoluzionario) sulla costituzione del capitale come Feticcio ‘automatico’ diventato Soggetto.
Un’altra nota riguardo alla traduzione è qui necessaria. Quando ne Il Capitale Libro 1 Marx usa Arbeit, lavoro, intende sempre lebendige Arbeit, lavoro ‘in movimento’. Quando il lavoro viene ad essere infine oggettualizzato nel valore della merce – quando cessa di essere un fluido e viene congelato nella gelatina – si è trasformato in lavoro ormai morto. Se guardiamo alla produzione e circolazione capitalistica da quest’ultimo punto di vista, dal reificato, rimaniamo inevitabilmente intrappolati in uno scenario ricardiano, muto rispetto al processo di reificazione – come è vero oggi, non solo per tutti i neoclassici e neoricardiani, ma anche praticamente per tutti i marxisti.
Marx oltre Hegel: la ‘costituzione’ della relazione di capitale
Per essere effettivamente auto-fondato, il valore deve essere prodotto dal valore. Il lavoro morto non può però produrre più lavoro morto. È necessario che il capitale nella produzione ‘internalizzi’ l’attività che può trasformare meno lavoro morto in più lavoro morto: il lavoro vivo degli esseri umani. Questo accade solo quando i lavoratori come portatori viventi di forza-lavoro, e quindi come lavoro vivo potenziale, diventano una merce (speciale) comprata e venduta sul mercato (del lavoro). Abbiamo già detto che le merci, in quanto valori, sono una ‘oggettualità’ fantasmatica. Nessuno sa come trovare questo valore, fino a che esso non assuma forma autonoma e separata dalle stessi merci: il denaro. È soltanto quando l’opposizione all’interno della merce è diventata uno sdoppiamento nella realtà – quando il valore in quanto contenuto viene duplicato dal valore in quanto forma – che le categorie ontologiche di Hegel divengono effettuali, e il ‘valore che genera valore’ diventa omologo all’Idea Assoluta. Il fantasma del valore non soltanto deve diventare una crisalide in quanto denaro: questo denaro-crisalide, che ‘espone’ il valore, deve anche essere capace di tramutarsi in farfalla – in ‘ valore auto-valorizzantesi’. Su scala sistemica ciò può avvenire soltanto se dietro la farfalla ‘idealistica’ si cela la ‘materialità’ del capitale come vampiro. Come scrive limpidamente Marx, il capitale non è nient’altro che un “mostro animato che inizia a ‘lavorare’ come se avesse amor in corpo”.[31] Sarebbe appropriato descrivere questa realtà mostruosa usando quella che oggi è un’espressione in voga, cioè definendo l’economia capitalistica come un’ economia zombie.[32]
‘Lavoro’ è categoria molto complessa – una debolezza perfino dei migliori teorici marxiani è il fatto di utilizzare questo termine in modo non qualificato.[33] ‘Lavoro’ deve essere articolato in tutta la sua ricchezza. Grazie alla compravendita sul mercato del lavoro, ‘forza lavoro’ e ‘lavoro vivo’ sono diventati realmente, effettualmente, la forza lavoro del capitale e il lavoro vivo del capitale (qualcosa che non deve essere scambiato per mera parvenza). Allo stesso tempo la forza lavoro non può che essere ‘appiccicata’ ai lavoratori come esseri umani, in relazione sociale tra di loro nella produzione immediata. I lavoratori vengono inclusi nel capitale (lavoro morto) come l’ ‘altro’ interno (lavoro vivo) – per prendere a prestito una felice espressione di Chris Arthur – senza che questa ‘alterità’ possa mai essere cancellata del tutto. Questa seconda ‘incorporazione’ è molto diversa rispetto a quella che abbiamo incontrato in precedenza, quando il valore nella merce ci si era rivelato un fantasma che, per esistere ‘materialisticamente’ e non ‘metafisicamente’, doveva ‘prendere possesso’ di un valore d’uso, e quindi del corpo del ‘denaro come merce’ – è una vera e propria transustanziazione.[34] Il verbo che Marx impiega a proposito della seconda incorporazione non è perciò verkörpern ma (come nei passi che ho appena citato) ein-verleiben: il riferimento è all’inclusione dei lavoratori (come portatori viventi di forza-lavoro, e quindi come agenti che devono erogare lavoro umano vivo come attività) dentro il corpo del capitale (ovvero all’interno della la configurazione capitalistica dei valori d’uso, della ‘materia’, nei processi di lavoro, così che la struttura tecnologica e organizzativa del processo lavorativo diventi ‘contenuto’ adeguato per la riuscita valorizzazione del capitale monetario). Prima avevamo a che vedere con una ‘possessione’ e una ‘incarnazione’, e infine con il vampiro – un rimando, se si vuole, a Castle of Otranto di Horace Walpole e una anticipazione del Dracula di Bram Stoker. Ora, con una internalizzazione nel corpo ‘meccanico’ del capitale – un rimando, se si vuole, al Frankenstein di Mary Shelley.[35]
Il Capitale di Marx come valore auto-valorizzantesi conferma la sua omologia con l’Idea Assoluta di Hegel. Tuttavia la sua natura di morto vivente dipende da una condizione sociale. Il Capitale deve vincere la lotta di classe nel ‘terreno contestato’ della produzione: come un vampiro deve ‘succhiare’ la vita dai lavoratori per poter tornare in vita come zombie. I lavoratori, d’altra parte, possono resistere alla loro incorporazione quale momento interno del capitale: una barriera od ostacolo ‘sormontabile’ [Schranke] può diventare un ‘limite’ insormontabile [Grenze], il conflitto può mutarsi in antagonismo. Il punto chiave è che non è possibile ottenere lavoro se non ‘estraendolo’ dalla forza lavoro: non è possibile usare la forza lavoro senza ‘consumare’ il corpo dei lavoratori, come portatori viventi di forza-lavoro. Il Capitale produce soltanto grazie a questo ‘consumo’ molto particolare, che individua una ‘contraddizione’ molto particolare – qualcosa che i proponenti della peanut theory of value, secondo cui il profitto può derivare da input diversi dal lavoro, hanno ridicolmente frainteso. In ciò sta, a mio parere, il fondamento ultimo della teoria del valore lavoro, ciò che rende legittimo ricondurre l’intero neo valore che è stato aggiunto nel periodo a nient’altro che erogazione di lavoro vivo da parte di esseri umani, portatori viventi della forza-lavoro.
Insomma: il ‘lavoro’, anche se è senza dubbio lavoro del capitale, allo stesso tempo non è tale fino in fondo. Non può che rimanere, in un senso basilare, un lavoro dei lavoratori. Se non ci sono esseri umani, non c’è nessun portatore vivente di forza lavoro. Non può esserci dunque nessun nuovo valore aggiunto nel periodo, e di conseguenza nessun plus-valore. E se non c’è plusvalore, non c’è neppure capitale. La contraddizione ‘interna’ alla merce, tra valore e valore d’uso, conduce necessariamente, passando per denaro e forza-lavoro, a una contraddizione di classe ‘esterna’ ed irriducibile tra il capitale complessivo e un lavoro vivo potenzialmente contro-produttivo (ancora Chris Arthur).[36] Quello che rende la contraddizione fondamentale, e in ultima istanza inconciliabile, non è un conflitto distributivo, ma il fatto che tanto la natura stessa del lavoro così come la sua organizzazione sono imposte ai lavoratori ‘dall’esterno’. Come scrive in modo convincente Massimiliano Tomba, il consumo dei corpi (e delle menti!) dei lavoratori, la loro ‘spremitura’, non ha nessun risarcimento possibile.
È inevitabile concludere che là dove Marx si congiunge con Hegel, lì la sua distanza da Hegel è al suo punto massimo. Quando l’ontologia hegeliana sembra riuscire completamente a farsi materiale nella realtà del capitale, si chiarisce che essa dipende in maniera cruciale da una condizione sociale, dal successo del capitale nello ‘sfruttare’ e nel ‘comandare’ lavoro. Anche se il ‘lavoro’ è incorporato nel capitale, il capitale non può che continuare a dipendere da quest’ultimo. La ‘circolarità’ del Capitale – il circolo ontologico del presupposto-posto – possiede come suo segreto inconscio il processo ‘lineare’ da cui origina, il vampiresco ‘succhiare’ lavoro vivo in eccesso rispetto al lavoro necessario per riprodurre i lavoratori. Come ha scritto felicemente Raffaele Sbardella (1998): il Capitale è l’Astrazione in Movimento. È questa una totalità dove le relazioni sociali antagonistiche tra capitale e lavoro (sul mercato del lavoro e nel processo di lavoro capitalistico), prima delle relazioni tra produttori capitalistici sul mercato finale, sono al centro. È senza dubbio vero che questa totalità viene ridefinita ad ogni diverso livello dell’argomentazione de Il Capitale. Ma, assunta data la domanda effettiva,[37] l’analisi macromonetaria di classe dell’estrazione di lavoro vivo e la sua ripartizione tra la classe capitalistica e la classe lavoratrice rimangono inalterate. È questa che non può che essere l’invariante delle molte trasformazioni che si susseguono nell’esposizione dialettica de Il Capitale. Invariante, epperò dipendente dall’esito ‘concreto’ della lotta di classe nel processo di produzione immediato.
La totalità del capitale può darsi esclusivamente in funzione di un rapporto sociale di produzione specifico, e quella totalità non può mai essere data per scontata, come se si riproducesse meccanicamente. È il potenziale antagonismo costitutivo di questo rapporto sociale di produzione che ‘apre’ la totalità del capitale, e in un certo senso la ‘rompe’.
Conclusioni
Prima di fornire qualche ulteriore evidenza testuale a quanto ho appena sostenuto, mi si consenta di concludere la mia argomentazione chiedendomi per quale motivo il dibattito è stato dominato da un discorso tutto centrato sulla circolarità del capitale, che ciò avvenisse in chiave hegeliana (circolo del presupposto-posto) o in chiave ricardiana/neoricardiana (produzione di merci a mezzo di merci), o ancora keynesiana/postkeynesiana (produzione di denaro a mezzo di denaro). Perché è stato lasciato da parte il Marx ‘gotico’ e si è oscurato il fondamento del capitale come totalità nella sua ‘costituzione’ di rapporto sociale di produzione, cioè nell’antagonismo di classe (nella lotta di entrambe le classi) riguardo all’estrazione di lavoro vivo? La linearità dello sfruttamento capitalistico non nega, evidentemente, né il circolo del presupposto-posto, né la produzione di merci a mezzo di merci, né la produzione di denaro a mezzo di denaro. Non nega il capitale come processo circolare. Fa però comprendere ciò che dal loro punto di vista è quanto meno opaco: che la produttività del capitale non è nient’altro che sfruttamento in un senso molto più fondamentale di quanto venga usualmente compreso. E impedisce di acquietarsi nella visione di un lavoro (s)oggetto meramente passivo: lo sfruttamento è estrazione di tutto il lavoro vivo da portatatori viventi di forza-lavoro, ‘liberi’ soggetti (con la minuscola) di una potenziale contro-produttività. È questa realtà sociale unica che sta dietro la circostanza che il lavoro diretto (l’oggettualizzazione di lavoro vivo) eccede il lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro.
Quello che è sicuro, quasi 150 anni dopo la prima edizione del primo libro de Il Capitale, è che ‘tradurre’ Marx in Ricardo ha fatto perdere l’essenziale dialettica sistematica hegeliana che invece è di vitale importanza per la critica dell’economia politica. È altrettanto chiaro che nessuna lettura hegeliana è però capace di cancellare da un sedicente marxismo ortodosso la presenza di un discorso analiticamente ricardiano, che rimane esterno a quella fondazione filosofica. È interessante notare che entrambi i discorsi (uno che viene da Hegel, l’altro che viene da Ricardo) rimangono intrappolati all’interno dell’universo del Capitale come Feticcio, e non riescono mai a mettere a tema la costituzione di quel feticcio. L’uno e l’altro confondono il lavoro ‘diretto’ (il lavoro presente, ormai morto nel prodotto) e il lavoro ‘vivo’ (l’attività che si oggettualizza in quel lavoro diretto). L’uno e l’altro perdono la ‘fluidità’ e l’ ‘antagonismo’ che sono presenti in modo cruciale nei capitoli erroneamente degradati a ‘storici’ (e che prendono quasi due terzi del Primo Libro de Il Capitale!).
Mi si lasci avanzare un’ipotesi, prendendo ancora una volta spunto da Wal Suchting. Nell’articolo ancora inedito su Hegel che ho già citato (Suchting 1997), Suchting propone una lettura della Scienza della Logica basata sulla teoria e l’interpretazione dei sogni di Freud. Il mio suggerimento può essere espresso lungo linee analoghe. Freud distingue: (i) il ‘contenuto manifesto’ di un sogno così come viene riportato da chi sogna, che può sembrare assai bizzarro e strano; (ii) il ‘contenuto latente’ nell’inconscio, che è inaccettabile per il sistema Io/Super-Io; (iii) la ‘censura’, che viene operata da quel sistema; (iv) il ‘lavoro onirico’, che trasforma il contenuto inaccettabile in un contenuto accettabile. A mio parere, il contenuto manifesto di molta della critica dell’economia politica di Marx è la presentazione secondo una dialettica sistematica hegeliana che corrisponde all’esposizione del Capitale come Feticcio e come Soggetto. È il lato della Darstellung nella critica dell’economia politica di Marx. Il contenuto latente è la genesi del Capitale come Feticcio, quindi il discorso sul valore come ‘fantasma’, sul denaro come ‘crisalide’, sul capitale come ‘farfalla’ e ‘vampiro’ insieme, che conducono a vedere nel processo di lavoro capitalistico un ‘mostro animato’. È, nella critica dell’economia politica di Marx, il lato della Konstitution, della costituzione. Il sistema Io/Super-Io di Marx è Ricardo: Marx, il teorico della classe operaia, era convinto che avrebbe dovuto/potuto superare il più rigoroso teorico borghese sul terreno della scienza, della scienza come ‘analisi’. Da qui, la censura ricardiana. Il risultato della censura è particolarmente evidente nel Libro Primo, con il lavoro onirico che sfocia nella rimozione delle parti logico-teoretiche dove la totalità non può che essere ‘aperta’ facendo entrare il conflitto, l’antagonismo, le lotte sociali e politiche (e anche una sorta di histoire raisonnée). La conseguenza è che queste parti sono state come messe da parte, in capitoli che possono sembrare, e non sono, meramente storici.[38]
Se rimaniamo all’interno di questa suggestione freudiana[39], l’interpretazione deve, per prima cosa, scoprire il contenuto latente nascosto tramite le ‘associazioni libere’ e, poi, deve ricostruire quali erano i principi che governavano il lavoro onirico. Lascio il secondo compito al lettore. Riguardo al primo invece, una lettura di tre lunghe citazioni di Marx è un buon inizio. Darà anche un po’ di carne alla lettura di Das Kapital portata avanti in queste pagine. I corsivi sono miei; per una ulteriore messa in evidenza ho talvolta aggiunto una sottolineatura; e per non far mancare niente, e per chiarire l’essenzialità del passaggio, a volte c’è persino un grassetto …
La prima citazione è dal capitolo 4 de Il Capitale, Libro Primo. Marx presenta il movimento del presupposto-posto come ontologia del Capitale in quanto Soggetto automatico :
Le forme autonome, le forme di denaro che il valore delle merci assume nella circolazione semplice, solo mediano lo scambio di merci e scompaiono nel risultato finale del movimento. Nella circolazione D–M–D entrambe, merce e denaro, funzionano invece solo come diversi modi d’esistenza del valore stesso, il denaro come suo modo d’esistenza universale, la merce come suo modo di esistenza particolare, per così dire solo come mascherata (verkleidete). Il valore passa costantemente da una forma all’altra senza perdersi in questo movimento e così si trasforma in un Soggetto automatico [ein automatisches Subjekt] Se si fissano le forme fenomeniche [Erscheinungsformen] particolari che il valore che si valorizza assume di volta in volta nel ciclo della propria vita, si ottengono gli enunciati: capitale è denaro, capitale è merce. Di fatto, però, il valore diviene qui il Soggetto di un processo [In der Tat wird der Wert hier das Subjekt eines Prozesses] in cui, sotto il costante ricambio delle forme di denaro e merce, esso modifica la propria stessa grandezza, quale plusvalore respinge sé da sé quale valore originario, valorizza se stesso. Poiché il movimento, in cui aggiunge plusvalore, è il movimento suo proprio, la sua valorizzazione è dunque autovalorizzazione. Ha ricevuto la qualità occulta di porre valore in quanto è esso valore. Figlia bambini sani o, almeno, depone uova d’oro.” (Marx MEOC XXXI, pp. 170-1, traduzione modificata in un punto)
Come il Soggetto che riconduce ad unità [übergreifende Subjekt] un tale processo in cui esso ora assume ora dismette la forma di denaro e la forma di merce, ma che in questo cambiamento si conserva e si amplia, il valore ha bisogno soprattutto di una forma autonoma attraverso la quale venga constatata la sua identità con se stesso. E questa forma la possiede solo nel denaro. È esso a costituire quindi il punto di partenza ed il punto finale di ogni processo di valorizzazione. Era 100 sterline, adesso è 110, ecc. Ma il denaro stesso vale qui solo come una forma del valore perché esso ne ha due. Se non assume forma di merce il denaro non diviene capitale. Qui, dunque, il denaro non compare polemicamente di fronte alla merce come nella tesaurizzazione. Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto cenciose possano apparire o per quanto fetide possano essere, sono in Fede e Verità denaro, ebrei circoncisi nell’intimo, e per di più mezzi miracolosi per fare dal denaro più denaro. (Marx MEOC XXXI, p. 171)
“Se nella circolazione semplice, di fronte al loro valore d’uso, il valore delle merci ottiene al massimo grado forma autonoma di denaro, qui esso si espone repentinamente come una sostanza in processo, automoventesi, per la quale merce e denaro sono entrambi mere forme. Ma c’è di più. Invece di esporre rapporti di merci, esso entra, per così dire, in rapporto privato con se stesso. Esso distingue sé, in quanto valore originario, da sé in quanto plusvalore, come Dio Padre si distingue da sé come Figlio di Dio ed entrambi hanno la stessa età e costituiscono di fatto una sola persona.” (Marx MEOC XXXI, p. 171, traduzione modificata in un punto)
Un punto richiede un approfondimento particolare, il significato di übergreifende. In inglese viene tradotto come ‘fattore attivo’ (Moore e Aveling), ‘dominante’ (Fowkes), ‘comune a tutte le forme particolari’ (Ehrbar). Fineschi lo rende con ‘che riconduce all’unità’. Alla presentazione della nuova traduzione del primo libro de Il Capitale da parte di Fineschi, Giorgio Cesarale scriveva (corsivi miei): “[l]a costituzione logica del concetto di capitale riproduce in larga parte la struttura del concetto hegeliano: entrambi sono, infatti, concetti universali che raggiungono un autoriferimento a sé solo assorbendo e incorporando la loro alterità. Entrambi sono concetti, cioè, la cui universalità non è astratta, ma racchiude al suo interno momenti differenti. La totalità del concetto in Hegel e del concetto di capitale in Marx può essere pensata solo come la differenza in sé stessa, differente dai differenti e dunque come identità con sé. Si potrebbe dire che è proprio la figura dello Übergreifen, del comprendere/sopravanzare ad accomunare il concetto di capitale marxiano al concetto hegeliano. La struttura dell’Übergreifen dice che qualcosa è in quanto si manifesta nel suo contrario. In Hegel il concetto è un universale che si manifesta tuttavia nel suo opposto, nel particolare, così come in Marx il capitale è, in quanto si manifesta nel suo opposto, nel lavoro.” (Cesarale 2003, corsivi miei)
Queste traduzioni e note concettuali, benché del tutto corrette, credo colgano soltanto un lato del significato della parola. A mio parere, Marx ha adoperato questo termine con un accento doppio. Il primo era, come in Hegel, quello dell’overgrasp, un comprendere che è un sopravanzare, potremmo dire una ‘sovra-comprensione’. A overgrasp, un neologismo in inglese (come lo è sovracomprendere in italiano), ricorrono in effetti i traduttori in inglese della prima parte dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (Hegel 1830). Si coglie così l’aspetto del processo di Aufhebung per cui la comprensione speculativa comprende e sopravanza l’opposizione dei momenti nel loro stadio dialettico, producendo qualcosa di nuovo nel momento in cui include l’opposto. Come l’universalità ‘sovra-comprende’ i particolari e gli individuali, allo stesso modo attraverso cui il pensiero ‘sovra-comprende’ ciò che è altro dal pensiero, così il Subjekt che si sviluppa in un Geist include l’oggettività e la soggettività nella sua comprensione, e la sopravanza. Il termine mi pare alluda anche a un sopravanzare come ‘sovrastare’ o ‘prevalere’, avvicinandosi a ‘dominare’. L’ambiguità che ne consegue illustra bene, mi pare, le intenzioni di Marx nell’usare übergreifen.
Il lettore attento avrà riconosciuto i temi che abbiamo già trovato in Colletti e Backhaus, e che ho cercato di sviluppare secondo una mia prospettiva. Un altro acuto interprete di questa problematica marxiana è Helmut Reichelt. Nel suo libro del 1970 quest’autore sottolineava come formulazioni quali quelle appena citate confermino che Marx, piuttosto che ‘civettare’ con Hegel, fu in verità obbligato a impiegare una argomentazione strutturata dialetticamente per una costrizione ‘oggettiva’: “nel IV capitolo egli descrive il valore ed il suo movimento in quanto capitale, come il ‘Soggetto automatico’ e il ‘Soggetto prepotente’ di un processo in cui il valore modifica la sua stessa grandezza al continuo mutare della forma-denaro e della forma-merce […] esiste una identità strutturale del concetto marxiano di Capitale e del concetto hegeliano di Spirito. […] Hegel costruisce in base a questa totale inversione [Verkehrung] [ovvero, dilatando il Concetto ad Assoluto] una filosofia che mostra sorprendenti parallelismi con il sistema marxiano e che in parte costitusce immediatamente per Marx un modello metodico. Hegel anticipa sul piano filosofico ciò che Marx decifra come il segreto della società borghese: l’inversione di una realtà derivata in un Primo [Ersten]. […] L’idealismo hegeliano, per il quale gli uomini obbediscono ad un Concetto dispotico è sostanzialmente il più adeguato a questo mondo invertito (dieser verkehrten Welt) di quanto non lo sia una qualsiasi teoria nominalistica che vuole accettare l’Universale (das Allgemeine) come qualcosa di soggettivamente concettuale (subjektiv-begrifliches). Esso è la società borghese come ontologia […] Sotto questo aspetto il concetto di esposizione (Darstellung) assunto da Hegel si manifesta così in una nuova luce”.[40]
E ancora: “Anche se non lo dice così chiaramente, possiamo tuttavia supporre che per metodo dialettico Marx non intendesse un metodo di valore sovratemporale ma piuttosto un metodo che è tanto cattivo o tanto buono quanto la società a cui corrisponde. Esso è valido soltanto dove un universale si impone a spese dell’individuale. In quanto dialettica idealistica esso è lo sdoppiamento filosofico della inversione reale (die philosophisce Verdopplung der realen Verkehrung); in quanto dialettica materialistica è il metodo della revoca (Method auf Widerruf) che dovrà scomparire insieme con le sue proprie condizioni di esistenza” (le citazioni sono prese da Reichelt 1970, p. 92, p. 94, p. 97-98: i corsivi sono miei, sono state inserite delle maiuscole)”.[41]
La seconda citazione che presento viene da Il Capitale, Libro Primo, capitolo 5, e ci dà l’idea di dove venga al capitale la misteriosa abilità occulta di aggiungere valore a se stesso:
“Il capitalista paga per es. il valore giornaliero della forza-lavoro. Il suo uso, come quello di ogni altra merce per es. di un cavallo che ara per una giornata, gli appartiene dunque per la giornata. Al compratore della merce appartiene l’uso della merce e, dando il proprio lavoro, il possessore della forza-lavoro dà di fatto solo il valore d’uso da lui venduto. Il valore d’uso della sua forza-lavoro, dunque il suo uso, il lavoro, è appartenuto al capitalista dall’attimo in cui è entrato nella sua officina. Grazie alla compera della forza-lavoro il capitalista ha incorporato [einverleibt] il lavoro stesso come vivo fermento nei morti elementi costitutivi del prodotto che parimenti gli appartengono. Dal suo punto di vista, il processo lavorativo è solo consumo della merce forza-lavoro da lui comprata che egli tuttavia può solo consumare in quanto le aggiunge i mezzi di produzione. Il processo lavorativo è un processo fra cose che il capitalista ha comprato, fra cose che gli appartengono. Il prodotto di questo processo gli appartiene, perciò, proprio allo stesso modo in cui gli appartiene il prodotto del processo di fermentazione che avviene nella sua cantina.” (Marx MEOC XXXI, p. 205).
“In quanto il capitalista trasforma denaro in merci che servono da costituenti materiali di un nuovo prodotto, ossia da fattori del processo lavorativo, in quanto egli incorpora forza-lavoro vivente [lebendige Arbeitskraft einverleibt] nella loro morta oggettualità, egli trasforma valore – lavoro passato, oggettualizzato, morto – in capitale, valore che si valorizza, mostro animato che inizia a ‘lavorare’ ‘come se avesse amor in corpo.” (Marx MEOC XXXI p. 214 (traduzione modificata in un punto)
Vediamo chiaramente la tensione tra i due lati della medaglia – una tensione che viene di solito smorzata dalla traduzione, in questo caso anche di Fineschi, che traduce come ‘lavoro vivo’ (l’attività di attualizzazione della forza-lavoro) quello che nell’originale è forza-lavoro vivente (i lavoratori, cioè, che sono portatori della forza-lavoro, e che compiono davvero, loro, quell’attività). Una verità è che il ‘lavoro’ dei lavoratori è ormai del capitale. Ma c’è un’altra verità, ed è che il ‘lavoro’ non può che essere lavoro degli stessi lavoratori. Il riferimento al lievito ‘vivo’ e al ‘consumo’ dei lavoratori, e l’insistenza sulla ‘forza-lavoro vivente’ che è ‘incorporata’, ‘inclusa’ nel mostro animato, evidenzia che vi è una contraddizione di classe irrisolta, ‘aperta’, nascosta nel Feticcio che si fa Soggetto e si pretende Automatico. La ‘censura’ ricardiana rischia di ridurre la forza-lavoro a una merce come ogni altra, facendo del lavoro vivo una specie di ‘esito’ automatico per il capitale una volta che abbia comperato la forza-lavoro; ed è una censura che va nello stesso senso della lettura hegeliana di Marx (questo è molto chiaro in Lukàcs, Storia e coscienza di classe). Si tratta di una mossa rischiosa: riduce Il Capitale a marxismo della forza-lavoro, e la lotta di classe a uno sparo nel buio.
Seguendo Colletti 1969b, il saggio “Marxismo: scienza o rivoluzione?”, con qualche torsione di significato, possiamo dire che il punto di vista del ‘padrone’ – secondo cui è il capitale a essere produttivo – non è soltanto un punto di vista soggettivo. Corrisponde a come stanno le cose realmente: almeno fino a quando i lavoratori sono un ingranaggio nel meccanismo, e dunque fino a quando la forza-lavoro viene convertita senza problemi in lavoro vivo. Ma il punto di vista scientifico e rivoluzionario di Marx è che è possibile provare che quella ‘verità’ borghese è nondimeno falsa, socialmente e politicamente. Lo si può fare solo se si parte da un punto di vista che esprime un’altra realtà: quella secondo cui il capitale è il prodotto del lavoro vivo, che a sua volta non è nient’altro che l’attività dei portatori viventi di forza lavoro. Il punto di vista che mette in rilievo la potenziale contro-produttività dei lavoratori, e riesce dunque a fondare la teoria del valore-lavoro. Abbiamo insomma a che vedere con due ontologie antagonistiche.
In questo modo di vedere, contro tutti i marxismi, va rivendicata una ispirazione marxiana in cui l’interpretazione e ricostruzione de Il Capitale non può essere separata da un discorso, teorico e politico, secondo il quale le visioni circolari (hegeliane e ricardiane) del capitale vanno falsificate in pratica. Per riprendere, a mio modo, una felice espressione di Massimiliano Tomba: la contraddizione tra capitale e ‘lavoro’ nel processo di ‘costituzione’ “sta alla dialettica così come la miccia sta alla dinamite”.[42] (Tomba 2010, p. 221)
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[1] Lo studio di Marx richiede una lettura della sua opera che faccia sempre un raffronto con l’originale tedesco e la traduzione in altre lingue. Questo è quello che ho fatto con il mio gruppo di lettura de Il Capitale che ho tenuto a Bergamo a partire dal gennaio 2005. È soprattutto alla discussione di questo gruppo che devo essere grato. In un altro senso le mie tesi vanno indietro nel tempo e si richiamano al mio primo incontro con Marx, alla fine degli anni Sessanta e agli anni Settanta, quando molta della letteratura secondaria più importante (Backhaus, Iljenkov, Krahl, Reichelt, Rosdolsky, Rubin, Schmidt, Tuchscherer, Vygodskiy, Zéleny, e molti altri) era disponibile in italiano o in inglese. In quel tempo il riferimento marxiano alle categorie hegeliane veniva sottolineato molto bene da C. Pennavaja nelle sue note di traduzione alla pubblicazione in italiano del primo capitolo e dell’appendice alla prima edizione del Primo Libro de Il Capitale) e da F. Coppellotti (nella sua traduzione di Reichelt 1970). Già allora erano noti i limiti delle traduzioni disponibili in italiano: un lavoro che poi è stato continuato e approfondito da R. Fineschi che ha appena pubblicato un’importante e rigorosa nuova traduzione de Il Capitale nella nostra lingua, di cui mi avvarrò largamente. Il mio riferimento (eretico!) a Colletti, Napoleoni e Rubin è talmente ovvio che non merita di essere sottolineato. I miei altri debiti intellettuali sono troppo numerosi per essere menzionati senza far torto a qualcuno. Mi limito perciò a ringraziare per le discussioni e gli scambi avuti negli anni: C. Arthur, G. Ceserale, C. Corradi, H. Ehrbar, R. Finelli, R. Fineschi, M. Heinrich, P. Murray, T. Redolfi Riva, G. Reuten, T. Smith, W.A. Suchting, M. Tomba. Un grazie particolare a Pietro Bianchi e Tommaso Redolfi Riva che mi hanno aiutato a mettere a punto questa versione, a partire da un contributo in inglese (Bellofiore 2013) a cui ho apportato numerose modifiche e integrazioni.
[2] Nella tassonomia che segue, le varie posizioni non sono sempre mutuamente esclusive: talora è questione di accentuazione di un elemento sull’altro. Più avanti in questo articolo metterò in discussione alcune ambiguità ed errori nelle traduzioni (soprattutto in inglese) di alcune categorie di base di Marx (derivate da Hegel). In questi primi paragrafi, mi limiterò a inserire tra parentesi il termine tedesco per quei nomi o verbi che sono più da tenere in considerazione per la discussione nei paragrafi conclusivi dell’articolo, cercando di impiegare il più possibile la terminologia degli autori che discuterò, quand’anche la reputassi inadeguata alla luce delle considerazioni successive.
[3] Ho sentito usare questa formula in italiano da Finelli stesso, credo nei primissimi anni Ottanta, a un incontro sindacale: lo sguardo degli astanti si perse nel nulla, io vi trovavo invece un punto importante, anzi essenziale, per la migliore comprensione di Marx. L’interpretazione di Finelli mi ha influenzato molto, in particolare il suo libro del 1987: così tanto che abbiamo persino firmato un articolo insieme in inglese (Bellofiore-Finelli 1998: lo stesso filo di discorso lo si ritrova in Bellofiore 1996), anche se non sono convinto che Finelli ne condivida integralmente i passaggi al di là di alcune formulazioni del primo paragrafo (questo mio contributo sta infatti in stretta relazione di continuità oltre che di integrazione con il testo congiunto che risale in realtà al 1994). In quel primo scritto in inglese per rendere la formula che personalmente appresi da Finelli (anche se certo il tema non era ignoto alla discussione italiana tra hegeliani e marxisti, come mi fece notare Fineschi) impiegammo l’espressione the circle of presupposition-posit. Più avanti gli ho preferito positing the presupposition. Come il lettore di questo articolo vedrà, se pazienterà nella lettura, da un lato insisto sull’importanza cruciale di questo metodo, dall’altro mostro però il suo retroterra idealistico, e affermo che per sfuggirne, il metodo del presupposto posto va articolato con quella che definisco la problematica della costituzione (un punto che è di fatto già presente nel contributo co-firmato da Finelli). Per un articolo in inglese rappresentativo della posizione più recente di questo autore si veda Finelli 2007. Sono in larga parte d’accordo con la critica che gli rivolge Arthur 2007. In verità, se il metodo del presupposto posto viene collocato sulla sfondo della problematica della costituzione, esso viene, per così dire, sradicato e rovesciato, al punto che la ripresa di Hegel da parte di Marx si trasforma in verità in una radicale critica del secondo al primo.
[4] Una antologia di testi dalle pubblicazioni ISMT per il lettore italiano è Bellofiore-Fineschi 2008. Per una più generale introduzione critica al dibattito dell’ISMT si veda Redolfi Riva 2013a. Di questo autore, sui temi di questo mio scritto ma limitatamente al solo dibattito italiano, si veda Redolfi Riva 2013b.
[5] Si veda la critica di Smith a Rosenthal: “Hegel’s ‘idealism’ consists simply of the claim that thought can grasp the ‘objective and intrinsic’ content of its object. There is an ontological assertion here: the object has a ‘real nature,’ that is, an intelligibility distinct from how it appears in ordinary and immediate experience. And there is an epistemological assertion: our thought is in principle capable of apprehending this real nature.” (Smith 2002, p. 225)
[6] Come dirò in seguito, Murray è progressivamente giunto vicino a questa posizione.
[7] Smith definisce il lavoro astratto come lavoro che ha dato prova di essere socialmente necessario. A mio parere, il lavoro astratto è piuttosto un lavoro che deve ancora provare di essere stato speso nell’ammontare socialmente necessario.
[8] Qualche pagina dopo Murray aggiunge: “Just as Marx rejects as illusory the presupposed independence from sensuous actuality that he finds in Hegel’s philosophical logic, so, too, does Marx denude the concept of capital of its seeming independence from natural objects and living human labor.” (p. 219) Questo è un tema su cui tornerò alla fine di questo articolo, affrontando la problematica della ‘costituzione’.
[9] Nel suo libro Murray aveva comunque sollevato alcune riserve sulla critica di Marx a Hegel: tali qualificazioni erano confinate però nelle note. P. es, nella nota 5, alle pp. 248-49, Murray mette in discussione l’ipotesi di Marx che la logica di Hegel sia una costruzione a priori sovrapposta all’empiria. Simile presa di distanza anche nella nota 20 a p. 239. Nella nota 19 a p. 239, commentando l’accusa di Marx a Hegel di applicare una logica prestabilita negli scritti di filosofia del diritto, Murray scrive: “Whether or not a closer study of Hegel could defuse Marx’s criticisms is, I believe, still an open question.” Col tempo i dubbi di Murray sulla interpretazione di Hegel fornita da Marx paiono essersi accresciuti.
[10] Lo potrà giudicare il lettore stesso comparando l’interpretazione che daremo di questi snodi alla fine di questo saggio. Il limite maggiore di Colletti tuttavia è un altro, a mio parere: il fatto che egli si accontenti di fermarsi alla dialettica di valore e forma-valore, assumendo (correttamente) che le sue conclusioni verrebbero confermate nel momento in cui la dialettica si occupasse esplicitamente del capitale, ma senza mostrarlo davvero. Cercherò di fornire un abbozzo di questa conferma nell’ultima parte di questo capitolo. Cercherò anche di chiarire come la dialettica marxiana porti a comprendere il Capitale come un Feticcio Automatico che è anche un Soggetto a un tempo onnicomprensivo e dominante; ma al tempo stesso porti a criticarlo attraverso l’indagine genetica della sua ‘costituzione’.
[11] Con Tommaso Redolfi Riva ho curato la traduzione in italiano di una selezione dei più importanti articoli di Backhaus – dagli anni Sessanta fino alla metà degli anni Novanta. Vi sono inclusi l’articolo seminale su La dialettica della forma di valore e i Materialien zur Rekonstruktion der Marxschen Werttheorie in quattro parti– le ultime due puntate sono le più importanti, in qualche misura appassionanti. Sapevo sin dalla metà degli anni Ottanta da Emilio Agazzi delle sue traduzioni, ma pensavo fossero ormai irreperibili: Redolfi Riva è invece riuscito a scovarle, e ha puntualmente verificato e aggiornato le traduzioni. Farò riferimento essenzialmente agli ultimi due articoli inclusi nel nostro volume. La nostra selezione include anche un articolo che non è nell’edizione tedesca e di cui l’originale è andato disperso.
[12] Come preannunciato, affronterò questo tema nell’ultima parte di questo lavoro.
[13] In altri scritti ho mostrato come questa tesi può essere mantenuta solo se si chiarisce che la ‘genericità’ dell’essere umano è un risultato della storia, e che essa si dà in forma contraddittoria nel capitalismo: non vi è più alcun riferimento ad una astorica Gattungwesen, con cui è effettivamente compromesso il discorso di Feuerbach, e con lui del giovane Marx. Qui i Grundrisse svolgono il ruolo di cerniera di una lettura a ritroso dal Capitale ai Manoscritti economico-filosofici del 1844. Mi pare che possa forse essere così inteso lo stesso Backhaus quando dice che il terminus ad quem di questo discorso è il capitale: “only in this way the ‘positive moments of the Hegelian dialectics’ [ovvero il programma di distruzione delle determinazioni alienate del mondo materiale] can be saved”. Lo sviluppo concettuale del valore è concepito da Marx come nient’altro che una teleologia negativa.
[14] Le informazioni che seguono e alcune citazioni sono tratte da Tagliagambe (1978) e da Susumu Takenaga (2007).
[15] “Un exemplaire de cette édition a été récemment tout à fait par hazard découvert dans la bibiothèque de l’Institut des sciences économiques auprès de l’Université de Hitotsubashi à Tokyo. Cet exemplaire se trouvait parmi les livres que Prof. Ichiro Nakayama, disciple de Schumpeter à l’époque où il était encore en Europe, avait collectionnés en Europe avant ou pendant la 2ème guerre mondiale et qu’il avait dédiés à la bibliothèque de l’université dont il était professeur.” (p. 6). L’edizione giapponese della quarta edizione è a cura di Susumu Takenaga.
[16] Se non per una breve premessa e per l’aggiunta all’appendice contenuta nella terza di un saggio di risposta alle critiche di Bessonow.
[17] Un appunto, questo, che è stato rivolto anche a Lucio Colletti, per la sua idea, comune a Rubin, che l’astrazione reale del lavoro si svolge quotidiniamente nello scambio: è una critica a mio parere ingiustificata. La critica è appropriata per il marxismo della forma valore nella sua formulazione estrema, come si ritrova in Michael Eldred e i suoi coautori, la c.d. scuola di Konstanz-Sydney: autori che non a caso hanno abbandonato la teoria del valore-lavoro.
[18] Anticipando quanto diremo più avanti, mi pare che al di là della aperta distinzione terminologica che manca, sia ciò nondimeno acutamente percepita da Rubin la distinzione tra ‘carattere di feticcio’ e ‘feticismo’ di cui dirò più avanti. Lo stesso si potrebbe dimostrare, testi alla mano, a proposito di Colletti.
[19] Come già anticipato, nella rassegna delle varie interpretazioni di Marx e Hegel che abbiamo presentato sinora ho preferito mantenere le convenzioni di traduzione scelte dagli autori analizzati (o dalle traduzioni che ho potuto consultare quando non avessi accesso agli originali). Allo stesso tempo, per permettere al lettore interessato di gettare un ponte tra la parte di rassegna e quella più personale di questo articolo ho spesso inserito tra parentesi l’equivalente tedesco dei vari nomi o verbi impiegati. In questo paragrafo devo molto ai contributi di Pennavaja e Coppellotti degli anni Settanta a cui ho fatto riferimento, ma anche in modo decisivo al rigoroso lavoro filologico condotto da ultimo da Roberto Fineschi. Gran parte di ciò che dirò, lo confesso, è patrimonio comune tra i filosofi. Non lo è, sfortunatamente, tra gli studiosi di Marx in generale, e tra gli economisti in particolare. Si potrebbe perfino formulare una legge per cui più un autore tende verso l’ortodossia ed è disposto a dedicarsi a battaglie esegetiche, meno legge Marx anche in originale. Utili glossari o commentari che entrano nelle questioni relative alla traduzione che tratto qui sono: Inwood 1992, Ehrbar 2010, Heinrich 2008; e appunto Fineschi 2012. Si vedano anche, in Hegel 1830, il Glossario ma anche l’ “Introduction: Translating Hegel’s Logic” di Geraets e Harris e “Some minority comments on terminology” di Suchting.
[20] Si vedano anche le osservazioni di Ehrbar 2010 su Schein e Erscheinung: “In Hegel’s logic, Schein is the immediate being which may or may not reveal the essence (which is the truth of the being). It is often translated as ‘show’. There is also the other concept of Erscheinung which is an immediate being that has evolved to the point where it does reveal the essence. Most of the time when Marx uses Schein or scheinen he means a show which is not Erscheinung or erscheinen because otherwise he would have used the words Erscheinung or erscheinen themselves.” È dunque giustificato tradurre con ‘sembrare’ invece che ‘apparire’ o ‘manifestare’ (fenomenicamente), laddove Marx invece usa questo termine per situazioni dove l’essere immediato non rivela la sua essenza o la travisa. Un altro libro utile che fornisce ulteriore materiale in difesa della distinzione tra Schein e Erscheinung è Meaney (2003). Una prova di quanto sia problematico non tenere in considerazione la distinzione fondamentale tra Schein e Erscheinung viene data da una domanda posta a chi scrive da un membro dell’ISMT, Fred Moseley, che intende ‘apparenza’ sempre e comunque come ‘falsa’ apparenza. Moseley mi chiese come interpretatassi un passo di Marx del capitolo 2 de Il Capitale, Libro Terzo, che secondo lui faceva chiarezza sul fatto che: “Marx ha mostrato che l’apparenza è falsa, ma i capitalisti ci credono lo stesso” (e-mail del 17 settembre 2011). Riporto il passaggio in questione, mantenendo la traduzione inglese impiegata da Moseley, aggiungendo tra parentesi il tedesco nei punti rilevanti:
“In point of fact, profit is the form of appearance [die Erscheinungform] of surplus-value, and the latter can be sifted out from the former only by analysis. In surplus-value, this relationship is laid bare. In the relationship between capital and profit, i.e. between capital and surplus-value as it appears [erscheint] on the one hand as an excess over the cost price of the commodity realized in the circulation process and on the other hand as an excess determined more precisely by its relationship to the total capital, capital appears [erscheint] as a relationship to itself, a relationship in which it is distinguished, as an original sum of value, from another new value that it posits. It appears [il tedesco qui non fa riferimento né a scheinen né a erscheinen] to consciousness as if capital creates this new value in the course of its movement through the production and circulation processes. But how this happens is now mystified, and appears [scheint] to derive from hidden qualities that are inherent in capital itself “. (Marx 1994, p. 139)
Come il tedesco tra parentesi mette in chiaro, la questione è molto più complicata, e dobbiamo arrivare a conclusioni molto più sfumate di quelle di Moseley. Marx sta dicendo che, dato che per come avviene la generazione di plusvalore, essa dà luogo ad una realtà mistificata, si generalizza la falsa idea che l’auto-valorizzazione del valore abbia a che vedere con qualità nascoste del capitale stesso, una ‘parvenza’ (questo è ciò che in seguito chiameremo ‘feticismo’). Ma la relazione del capitale con se stesso, quel modo alla Hegel per cui il saggio di profitto appare come un eccesso che il capitale produce oltre e in aggiunta al proprio valore – questa è per Marx una ‘apparenza’, una forma necessaria di manifestazione. Non è ‘falsa’, nè è una parvenza. È al contrario come l’essenza deve manifestare se stessa in quanto fenomeno (questo ha a che vedere con ciò che in seguito chiamerò il ‘carattere di feticcio’ del Capitale come Soggetto, distinguendolo dal ‘feticismo’). È un Erscheinung, non un Schein. La mancanza di distinzione di Moseley è rappresentativa della confusione che si trova negli economisti marxisti che non vogliono approfondire i seri problemi di traduzione che affliggono Il Capitale in inglese, e che ripongono eccessiva fiducia nelle traduzioni dal Capitale in lingua inglese. È naturalmente vero che, a una considerazione più profonda, l’apparenza si rivelerà essa stessa ‘falsa’: ma per chiarirne le ragioni si richiede precisamente il discorso sulla ‘costituzione’ che ricostruirò più avanti in questo scritto, così come anche richiede l’interpretazione/ricostruzione dell’approccio di Marx in termini macrosociali e macromonetari così come l’ho esposto (ancora in polemica con Moseley) in Bellofiore 2004.
[21] Una traduzione diversa ma a mio parere assolutamente accettabile è quella di impiegare ‘presentazione’ per Erscheinung, anche se in questo caso il termine non dovrebbe essere usato per Darstellung. L’aspetto positivo di questa scelta è la possibilità di evitare ‘apparenza’ per Erscheinung (come in effetti fa rigorosamente Fineschi), dato che è ambiguo e che viene spesso letto come falso o illusorio da parte di molti interpreti (si veda sopra, Moseley). L’ho evitato perché renderebbe talora la lettura molto faticosa. Mi si consenta di aggiungere a margine che la traduzione perfetta non esiste, e che la sua ricerca è una chimera. Alcune sfumature in una lingua non possono essere colte in un’altra lingua (tra l’altro, a me pare che sia Marx sia Hegel a volte giochino con il significato quotidiano delle categorie più astratte). Inoltre, alcune categorie sono state, per così dire, ‘messe a fuoco’ storicamente: siamo infatti noi che interroghiamo il testo con nuove domande, e possono chiarirsi nuovi significati. C’è anche un inevitabile elemento di arbitriarietà nelle scelte di traduttore. La cosa importante è mantenere coerenza nella resa dei vari termini, e l’esplicitazione del loro significato concettuale in una premessa o postfazine alla traduzione, evitando la tipica usanza delle traduzioni anglo-sassoni di impiegare parole diverse per la traduzione della medesima categoria in tedesco, a seconda di quello che si suppone essere il significato del termine nel contesto del singolo passaggio (magari, spesso, con ragione). Questo è il motivo per cui le traduzioni di Marx in inglese, anche le migliori, a volte assomigliano a un sofisticato esercizio di fantascienza. Questo è il motivo per cui le traduzioni francesi, spagnole o italiane sono decisamente migliori, anche qualora afflitte da seri problemi: i loro errori sono ricorrenti. Non c’è bisogno di ripetere quanto sia scandaloso che Marx non venga tradotto, come è normale per i grandi pensatori del passato, con il testo originale a fronte.
[22] L’impiego del termine Gallerte andrebbe approfondito. Come rileva Keston Sutherland (s.d.): “Gallerte is now, and was when Marx used it, the name not of a process like freezing or coagulating, but of a specific commodity […] Marx’s intention is not simply to educate his readers but also to disgust them […] The sixth volume of the popular encyclopaedia Meyers Konversations-Lexicon, published in Leipzig in 1888, provides the following entry. Gallerte (also Gállert, old German galrat, middle Latin galatina, Italian gelatina), the semisolid, tremulous mass gained from cooling a concentrated glue solution. All animal substances that yield glue when boiled can be used in the production of Gallerte, that is to say, meat, bone, connective tissue, isinglass, stag horns etc.”. Anche in questo caso è vero che “Marx does not simply use the word Gallerte as literary flavouring to his theory […] On the contrary, it changes the meaning of other passages in the text.” Il limite di Sutherland è che egli sembra porsi soltanto dal punto di vista del consumo di merci, e non dei portatori viventi della forza-lavoro.
[23] “‘Objektiv’ allude al carattere oggettivo, che non dipende dal soggetto, di un processo. ‘Oggettuale’ e derivati sono invece assai frequenti, in particolar modo nei primi capitoli: il termine indica letteralmente ‘lo stare di fronte’ della cosa. Il verbo vergegenständlichen, usato spesso in relazione all’azione del lavorare, significa ‘rendersi oggettuale’, ‘farsi oggetto’ che sta di fronte” (Fineschi in Marx MEOC XXXI, p. 1329)
[24] Questi termini non dovrebbero essere confusi col lavoro ‘socializzato’ [vergesellschaftete Arbeit], che qui non trattiamo (né nelle formazioni non capitalistiche, né nella ‘fabbrica’ capitalistica), o col lavoro ‘totale’ [gemeinsame Arbeit], di cui si fa un cenno nel testo.
[25] Hans Ehrbar ha colto questo punto molto bene nella sua traduzione/ commento a Il Capitale on-line: “Usually, Fetischcharakter der Ware is translated as ‘commodity fetishism’. However, a more accurate translation would be ‘fetish-like character of the commodity’. Marx distinguishes between ‘fetishism’, which is a false “story” guiding practical activity, and ‘fetish-like character’, which is a property in fact possessed by social relations. Commodities have a fetish-like character, while members of capitalist society often display fetishism (systematized in ‘bourgeois economics’)’ (Ehrbar 2010, corsivo mio) I suggerimenti di Ehrbar sono stati approfonditi in un articolo molto interessante di Guido Schulz (2011): “The term ‘fetish character’ describes the regulating social power that objectified value relations gain under capitalism. It is a social power achieved by virtue of a process of autonomisation of reified social relations. Accordingly, the false belief that social properties ascribed to fetish bearing things are natural and inherent to these represents a fetish-induced illusion (my emphasis). Marx designates this illusion as ‘fetishism’.”
[26] Devo questa interpretazione del termine a Frieder Otto Wolf, in una conversazione orale.
[27] Contrariamente alle note critiche di Aglietta-Orléan e di Benetti-Cartelier, la teoria del valore di Marx non si basa affatto su una qualche hypothèse de nomenclature, come sarebbe per Walras o Sraffa. Al contrario, Marx appartiene a buon diritto a quella che Schumpeter ha chiamato analisi monetaria: l’approccio dove la moneta (in Marx, il denaro: l’importante distinzione marxiana tra denaro e moneta, cancellata nella lingua inglese, non può essere trattata in questo mio testo nelle sue implicazioni) viene introdotta subito, e fa parte delle fondamenta dell’edificio teorico. La differentia specifica di Marx è che la sua ‘teoria monetaria del valore lavoro’ è l’unica teoria del valore dentro l’ ‘analisi monetaria’(anche se ci sono stati, e ci sono, dei tentativi che vanno in quella direzione, in Keynes e poi in alcuni post-Keynesiani). È un grande merito di Backhaus (2009) l’aver sottolineato in modo convincente che la teoria del valore-lavoro di Marx è, innanzitutto, una critica di tutte le teorie del valore nel capitalismo a lui precedenti in quanto non-monetarie. Questa critica è valida anche per la teoria economica successiva (da cui i limiti, non soltanto degli economisti neo-classici, ma anche di quelli neo-ricardiani). Detto questo, Backhaus – anche se all’interno di una sana attitudine di recupero di Marx contro Marx – non sembra rendersi conto a sufficienza della debolezza consistente nella dipendenza di Marx da una teoria del ‘denaro merce’, e per ragioni che sono intrinseche alla propria teoria del valore-lavoro (che non riguardano cioè affatto i tecnicismi della teoria monetaria, né sono riconducibili del tutto al contesto storico nel quale scriveva). In effetti, Backhaus non fa alcun commento sulla discutibile argomentazione marxiana che si basa sul baratto per poter determinare il valore del denaro e assumerlo come un dato (a questo punto, come dico nel testo, le merci hanno appiccicata loro già nel prezzo ideale una ‘somma’ quantitativamente definita di denaro, dunque oro, dunque tempo di lavoro rappresentato in oro/denaro). Anche se il discorso marxiano può essere difeso al livello della circolazione semplice, non è più accettabile (se non forse come ipotesi provvisoria) quando si passa alla produzione e circolazione capitalistica. Su questo rimando alla mia introduzione in Backhaus 2009.
[28] Si noti che Marx non scrive ‘merce’ ma prodotto immediato di lavoro.
[29] Benché oro e argento non siano per natura denaro, il denaro è per natura oro e argento, scrive Marx (Marx MEOC XXXI, p. 102), citando se stesso da Per la critica dell’economia politica. Il punto rimanda in modo palese alla distinzione tra feticismo e carattere di feticcio. Ma è legato anche al significato speciale che Marx dà all’aggettivo natürwuchsig, l’ ‘oggettualità’ cosale che appare ‘naturale-spontanea’, anche se è piuttosto il risultato di un’attività umana.
[30] Schulz 2011 giustamente osserva: “the central features of the fetish character of the commodity and fetishism reappear in other forms of bourgeois production, namely money and capital. These features do even appear in greater clarity in money and capital than they do in the simple commodity.”
[31] Il passo è citato nella sua interezza nel paragrafo conclusivo.
[32] “‘Capital is dead labour which, vampire-like, lives only by sucking living labour, and lives the more, the more labour it sucks.’ Marx’s analogy unravels the vampire metaphor. As everyone knows, the vampire is dead and yet not dead: he is an Un-Dead, a ‘dead’ person who yet manages to live thanks to the blood he sucks from the living. Their strength becomes his strength. The stronger the vampire becomes, the weaker the living become: ‘the capitalist gets rich, not, like the miser, in proportion to his personal labour and restricted consumption, but at the same rate as he squeezes out labour-power from others, and compels the worker to renounce all the enjoyments of life.’ Like capital, Dracula is impelled towards a continuous growth, an unlimited expansion of his domain: accumulation is inherent in his nature”. (Moretti 1982, p. 73)
[33] Va da sé che capita anche a chi scrive di scivolare talora nel medesimo errore!
[34] “Per esercitare praticamente l’azione di un valore di scambio, la merce deve spogliarsi del proprio corpo naturale, trasformarsi da oro solo rappresentato in oro effettuale, benché questa transustanziazione le possa risultare più ‘amara’ di quanto sia al ‘concetto’ hegeliano il passaggio dalla necessità alla libertà” [Marx MEOC XXXI, p. 116). Visto che Marx contesta la legge di Say, questo miracolo (che comporta il passare per la merce da denaro ideale a denaro reale) è necessario, ma la sua riuscita è casuale.
[35] Dracula (unlike Vlad the Impaler, the historical Dracula, and all other vampires before him) does not like spilling blood: he needs blood. He sucks just as much as is necessary and never wastes a drop. His ultimate aim is not to destroy the lives of others according to whim, to waste them, but to use them. Dracula, in other words, is a saver, an ascetic, an upholder of the Protestant ethic. And in fact he has no body—or rather, he has no shadow. His body admittedly exists, but it is ‘incorporeal’—‘sensibly supersensible’ as Marx wrote of the commodity, ‘impossible as a physical fact’, as Mary Shelley defines the monster in the first lines of her preface. In fact it is impossible, ‘physically’, to estrange a man from himself, to de-humanize him. But alienated labour, as a social relation, makes it possible. So too there really exists a social product which has no body, which has exchange-value but no use-value. This product, we know, is money.” (Moretti 1982, p. 73)
[36] Sul punto si veda quanto dico in Bellofiore 1996, in una ripresa che è anche una critica di Lucio Colletti. La tesi di Marx è che il capitale può essere prodotto e riprodotto in quanto sussiste una separazione reale interna al lavoro salariato. Esso è, a un tempo, capacità lavorativa acquistata dal capitale variabile, e lavoro vivo che dà luogo all’intero neovalore prodotto. In questo senso è vero, con Colletti , che il lavoro (salariato) è per Marx, insieme, parte del capitale (se si guarda alla quota del lavoro morto che riproduce la forza-lavoro, al capitale variabile), e tutto il capitale (se si guarda al lavoro vivo che dà origine al neovalore, e perciò al nuovo capitale). A quella separazione reale non corrisponde tuttavia, come ha creduto Colletti, alcuna contraddizione dialettica, per cui la medesima categoria, il lavoro, avrebbe come predicato due determinazioni logicamente esclusive (A, non-A), l’essere a un tempo il tutto e la parte, violandosi così il principio di non contraddizione. L’espressione ‘lavoro’ infatti riveste due significati differenti quando, da un lato, è inteso come quota parte del capitale, e, dall’altro lato, è inteso come l’origine dell’intero capitale. Nel primo caso, si tratta del lavoro come forza-lavoro; nel secondo caso, del lavoro come attività. Lungi dall’essere identificabili, le due accezioni denotano dati di fatto distinti, entrambi positivi, esistenti e reali fuori dal pensiero. Dati di fatto talmente distinti, si può aggiungere, da intervenire addirittura in luoghi diversi, e in fasi successive, del ciclo del capitale. La forza-lavoro viene ceduta nel mercato del lavoro, e trova il corrispettivo reale della sua retribuzione nel mercato delle merci; il lavoro vivo valorizza nel processo di lavoro capitalistico. È vero, d’altra parte, che in quanto la capacità lavorativa e la prestazione effettiva di lavoro non possono essere disgiunti dal loro legame con la figura del lavoratore in carne e ossa , portatore vivente della forza-lavoro – in quanto dunque il lavoro in atto realizza la ‘potenza’ della forza-lavoro, a sua volta inseparabile dal lavoratore – si può ben dire che quelle due determinazioni realmente separate siano ‘unite’ da un ‘nesso interno’. In questo senso è lecito parlare di ‘contraddizione reale’. Se il lavoratore, contro il ‘giusto’ diritto del capitale di consumare a suo piacimento il valore d’uso che ha acquistato, fa valere la circostanza che il lavoro è il suo lavoro – che l’avvenuta vendita di ‘lavoro’ (ma in realtà, più precisamente, di forza-lavoro) sul mercato del lavoro non significa, per così dire automaticamente, prestazione di lavoro nella quantità e qualità adeguata – la contraddizione ‘esplode’. La separazione reale cui fa riferimento Marx, non può mai compiersi fino in fondo: rimane sempre allo stato tendenziale. È su questa dinamica ‘contraddittoria’ – della spinta all’estrazione del massimo possibile di lavoro vivo dalla forza-lavoro da parte del capitale, per un verso; e della resistenza, conflittuale o antagonistica da parte del lavoro come classe, per l’altro verso – che Marx eleva la compatta architettura dei tre libri del Capitale.
[37] La categoria di Marx nel capitolo 10 de Il Capitale, Libro 3, è in verità definita come la ‘domanda ordinaria’.
[38] Il mio punto di vista è che il processo deduttivo, interno alle determinazioni del concetto di merce o di capitale, è costretto a un certo punto ad uscire da se stesso e a ricorrere ad un qualcosa che sta fuori da esso, ma che tale ‘apertura’ della totalità, tale rimando alla storia e ad una dimensione ‘empirica’ (e in ultima natura politica), sono imposti per così dire dalla stessa strutturazione logica della argomentazione, come anche dalla stessa natura dell’oggetto di conoscenza. Ciò avviene senz’altro nei casi del passaggio dall’equivalente universale al denaro. Ma poi anche con riferimento alle due merci speciali (la forza-lavoro, la giornata lavorativa, il capitale portatore di interesse, e così via). E deve essere, secondo me, esteso alla deteminazione politica della stessa domanda ordinaria (effettiva). Qualcosa del genere mi pare sia stato sostenuto, per la sola deduzione della merce e del denaro, da Cesare Luporini (1974, pp. 241-243) in “Marx secondo Marx”, e affermato da lui, giustamente, come essenziale alla dimensione della ‘criticità’ de Il Capitale. Ovviamente questo apre, e non chiude, la questione della articolazione delle due dimensioni.
[39] Suchting 1997 suggerisce anche, in modo del tutto appropriato, un’analogia bachtiniana, secondo cui gli enunciati devono essere compresi come spezzoni di un ‘dialogo’ tra diverse ‘voci’, in un contesto definito. È chiaro che gli interlocutori impliciti principali del ‘dialogo’ marxiano erano soprattutto Hegel e Ricardo. Gli interpreti hanno il compito di ricostruire quel dialogo. È evidente che dall’una e dall’altra prospettiva – quella freudiana e quella bachtiniana – ogni battaglia condotta con la mera esegesi testuale, o con un approccio esclusivamente filologico, che pretenda di ricondurci a un Marx incorrotto, e che si reputi indipendente dal ruolo attivo del lettore, è del tutto futile e inconcludente.
[40] Moishe Postone (2011, p. 8), anche lui dopo aver citato dal quarto capitolo, scrive qualcosa di analogo: “Marx explicitly characterizes capital as the self-moving substance that is Subject. In so doing, he implicitly suggests that a historical Subject in the Hegelian sense does indeed exist in capitalism” (p. 8, corsivi miei). E ancora: “the social relations that characterize capitalism are of a very peculiar sort – they possess the attributes that Hegel accords the Geist […] Marx’s Subject is like Hegel’s: it is abstract and cannot be identified with any social actors; moreover, it unfolds temporally independent of will.’ (p. 9). Sfortunatamente, il punto di vista più generale di Postone nei suoi lavori, di grande utilità, è però viziato dal fatto di dare poco rilievo agli aspetti monetari del sistema marxiano, come anche dalla sua cecità rispetto al processo fondamentale di ‘costituzione’ del capitale nei processi capitalisti di lavoro come luoghi ‘contestati’. Di conseguenza, la critica di Postone allo standpoint of labour è convincente solo a metà, perché perde la dimensione dentro e contro essenziale per una fondazione materialistica della critica del produttivismo,e che consente un rapporto positivo con il pensiero verde sulla questione della natura e con il pensiero femminista sulla questione di genere.
[41] Smith (1993) cita Backhaus, Reichelt, e Schmidt, come tre interpreti che hanno messo in evidenza il rapporto tra la teoria del valore marxiana e la dialettica hegeliana. Sfortunatamente, il filosofo statunitense non conduce un confronto dettagliato (e nemmeno superficiale, se è per questo) con questi autori. Non sembra nemmeno trovare molto di interessante in Colletti come interprete del rapporto tra Marx e Hegel. Nel corso degli anni ho imparato molto da Smith, ma la sua lettura del capitale come pseudo-soggetto – un concetto che, lo confesso, non trovo particolarmente illuminante – mi fa rammaricare che non abbia preso seriamente questo filone interpretativo.
[42] Leggo nel medesimo senso una frase all’apparenza opposta di Alfred Schmidt: “La specificità del metodo del Marx maturo […] consiste nella verifica, ottenuta per via logica, della forza esplosiva della dialettica storica.” (Schmidt 1971, p. 82)