Italo Testa
Abstract: In this paper I will show that Aristotle’s notion of philía is relevant to social and political philosophy, inasmuch as it contains an analysis of the fundamental forms of interaction that institute the social bond – a reading that I will contrast with current interpretations of philía which focus on the theory of moral virtue and on the relation between philía and love. I will then try to show that the Hegelian notion of “recognition” can be understood as a modern reconstruction of philía as a theory of social agency. In particular, the Hegelian notion of “Gesinnung” (disposition) will be shown to be the main conceptual tool through which Hegel rethinks the attitudes to social interaction that are constitutive of the objective sphere of spirit, which Aristotle analyzed in terms of philía.
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In questo intervento cercherò anzitutto di mostrare in che senso la dottrina della philía è rilevante per la teoria sociale e il discorso politico, e come tale è presupposta dalle analisi che Aristotele compie in particolare nel primo libro della Politica.
La tesi principale che cercherò di difendere a tal proposito è la seguente: la teoria della philía – in particolare la teoria della philía sviluppata nei libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea – è rilevante per la politica, e in una certa misura svolge rispetto ad essa un ruolo fondativo, nella misura in cui essa contiene l’eidetica aristotelica dell’agire sociale, vale a dire un’analisi delle forme fondamentali di azione che istituiscono il legame sociale. Naturalmente nella concezione aristotelica vi è molto altro e non intendo con questo esaurirne la portata; tuttavia isolare e ricostruire questo aspetto della philía credo possa essere un’impresa interessante. In tal senso la mia indagine sulla philía riguarda principalmente il significato che essa può ricoprire per la teoria sociale e per la teoria dell’agency – una lettura che tenterò di contrapporre ad altri modelli di ricezione contemporanea, che sono invece centrati sulla teoria della virtù morale e quindi sul nesso tra philía e amore.
La ricostruzione della teoria aristotelica della philía sarà operata all’interno di un tragitto che conduce da Aristotele a Hegel. Il percorso da Aristotele a Hegel che intendo seguire è bidirezionale. Da un lato intendo valorizzare l’eredità in senso lato aristotelica presente in alcune concezioni hegeliane. Per altro verso il mio intervento è condotto in una prospettiva hegeliana, dal momento che mi chiederò in che misura alcuni concetti di Hegel – in particolare la nozione di «riconoscimento» – possono aiutarci ad esplicitare e a ricostruire la teoria aristotelica della philía.
A questo scopo tenterò una ricostruzione razionale della philía, volta a stabilire una sorta di equilibrio riflessivo tra la dottrina aristotelica della philía e la concezione hegeliana del riconoscimento.
La philía compare solo occasionalmente all’interno dei libri della Politica, mentre è invece nell’Etica a Nicomaco, nell’Etica a Eudemo, nella Retorica e nei Magna moralia (opera, quest’ultima, di controversa attribuzione) che Aristotele sviluppa nel modo più articolato questa nozione.
In primo luogo va ricordato che la philía di cui parla Aristotele è un fenomeno più ampio di ciò che noi chiamiamo “amicizia”: quest’ultima è piuttosto un caso particolare del campo fenomenico abbracciato dalla philía. Il fatto che nelle lingue moderne non sembri esistere un termine unico che abbracci l’intero campo fenomenico della philía aristotelica ha portato a differenti proposte di traduzione, che vanno dall’equivoco “amicizia”, a “amore”. Ma nessuno di questi termini è credo effettivamente adeguato, perché coglie solo un aspetto di un fenomeno che invece si dice in molti modi.
La gamma di fenomeni abbracciata dalla philía è infatti molto ampia, e riguarda un insieme di atteggiamenti e affezioni riscontrabili tra individui della stessa specie, anche nel caso di altre specie animali1, e che investono ad esempio genitori e prole, fratelli, maschi e femmine, giovani e adulti, amici, amanti, partner economici, concittadini e via dicendo: tra gli esempi che Aristotele cita vi sono cura genitoriale, sentimento filiale, amicizia, fraternità, amore, solidarietà, cameratismo.
In generale ciò che tali fenomeni hanno in comune è il fatto di essere interazioni tra esseri viventi – animali della stessa specie – non necessariamente umani, anche se Aristotele per i suoi scopi si concentra particolarmente su quest’ultimo caso2. Non si tratta inoltre di interazioni neutre, bensì di interazioni mediate da affezioni, attraverso le quali, vale a dire, i partner dell’interazione stringono un legame sensibile, emotivamente colorato.
Rispetto a tali fenomeni, la teoria della philía si concentra sulla prospettiva dell’agente individuale – che è qui sempre un attore sociale – analizzando specificamente il tipo di capacità d’azione di cui esso deve poter disporre per poter interagire con altri agenti.
Da questo punto di vista la philía è concepita come una disposizione affettiva necessaria alla vita.
Essa è anzitutto una disposizione (hexis), vale a dire un’attitudine a produrre ripetutamente comportamenti di un certo tipo. I comportamenti così prodotti sono appunto quelle forme di interazione accompagnate da affezioni che sono necessarie affinché si costituisca il legame sociale. La philía è così una capacità d’azione richiesta per poter partecipare ad una forma di vita organizzata socialmente.
E’ proprio in questa accezione che in Aristotele la questione della necessità per la vita della philía si connette strategicamente alla dottrina della natura politica dell’animale umano. L’azione politica, infatti, è qualcosa che, in quanto agenti che deliberano, valuteremmo come componente imprescindibile della fioritura della nostra forma di vita sociale: essa è come tale costitutiva della natura umana per come noi la comprendiamo. Ma per poter far parte di una polis, per poter partecipare ad una forma sociale di vita organizzata politicamente, occorre essere capaci d’agire socialmente, vale a dire di interagire in modo tale da stabilire relazioni di un certo tipo. L’agire sociale qui richiesto deve essere tale da poter stabilire relazioni di comunanza, di koinonía – la capacità di agire come membro di una comunità. Infatti, la polis altro non è che una comunità di comunità: sicché la capacità d’azione che ci dispone a stabilire relazioni di comunanza è presupposta dall’antropologia dello zoon politikon. Il richiamo nell’Etica alla dottrina dello zoon politikon, in tal senso, non ha valore meramente esemplificativo – non si tratta cioè semplicemente di fornire con la philía un esempio a conferma della natura politica dell’uomo. Piuttosto, attraverso l’analisi della philía Aristotele porta in luce la struttura fondamentale della tipologia di azione che è richiesta per poter essere animali sociali. Infatti, il koinonein, la forma di azione sociale attraverso la quale stabiliamo relazioni di comunanza, è coestensivo con il philein: ««l’amicizia consiste in una comunanza»3.
In tal senso l’analisi della philía fornita nel libro ottavo dell’Etica Nicomachea ricopre un ruolo centrale nell’antropologia aristotelica, in quanto è appunto la dottrina della philía ad esplicitare la struttura della capacità d’azione che consente all’uomo di stabilire relazioni di koinonía, vale a dire legami sociali.
Ma come analizza Aristotele la struttura della philía in quanto agency, agenzialità sociale?
Si tratta di una disposizione che ha una componente naturale4 – si appoggia sulle funzioni della nostra prima natura animale di cui siamo dotati sin dall’infanzia – ma che nello stesso tempo deve essere sviluppata attraverso l’educazione – in un processo che implica la deliberazione e la scelta5 – e quindi consolidata nella forma di un’abitudine d’azione secondo naturale.
In secondo luogo la philía è caratterizzata come disposizione accompagnata da affezioni. La philía non è in tal senso un’affezione – che altrimenti avrebbe carattere solo passivo – ma è piuttosto una capacità d’azione accompagnata da affezione, una capacità d’agire stringendo legami sensibili.
Il terzo requisito fondamentale della philía è quello di essere una disposizione affettiva reciproca 6; l’interazione deve essere cioè accompagnata non solo dall’anticipazione della reazione dell’altro agente, ma anche dalla disposizione a ricambiare le affezioni che gli altri manifestano verso di noi: essa è affezione scambievole, una disposizione al contraccambio7.
Se allora torniamo all’idea che il philein sia coestensivo al koinonein, si vedrà come l’analisi della philía in quanto hexis, intesa quale disposizione all’azione, faccia emergere la struttura sentimentale e insieme di reciprocità del legame sociale.
A scanso di equivoci, non sto con ciò affermando che la teoria della philía contenga tutta la teoria aristotelica dell’azione – per certi versi l’analisi intra-soggettiva della struttura dell’azione individuale che Aristotele sviluppa nel resoconto dell’azione poietica e pratica è qui presupposta8, come risulta dal fatto che l’analisi della disposizione di philía presuppone la concezione della deliberazione e della scelta sviluppata nel libro VI. La teoria della philía contiene invece l’ermeneutica aristotelica del carattere sociale dell’azione, della struttura inter-soggettiva entro la quale la struttura intra-soggettiva della scelta e della deliberazione è effettivamente reale.
La teoria della philía non si limita però ad esplicitare la struttura generale della disposizione che sta alla base della nostra agency sociale. Infatti, Aristotele ci presenta nei capitoli 2 e 3 del libro VIII dell’Etica Nicomachea anche una tipologia delle diverse forme di philía. Tale tipologia è ricavata da un’analisi della struttura motivazionale che coordina l’interazione di philía. E in tal senso l’analisi delle diverse forme della disposizione di philía include un’analisi delle diverse forme di azione sociale.
Il criterio di ripartizione tra le diverse forme di philía è dato dal tipo di connotazione che presenta l’affezione verso l’altro con cui interagiamo. L’altro con cui interagiamo può presentarsi come utile (to chresimon), come piacevole (to hedu), o come buono (to agathon). L’altro può soddisfare i nostri interessi, procurarci piacere, essere di per sé dotato di valore. Di qui si possono distinguere tre motivazioni all’interazione: motivazione utilitaristica, motivazione edonistica, motivazione morale disinteressata. Mentre nei primi due casi il partner dell’interazione vale in funzione di qualcosa d’altro, come bene strumentale – l’utile o il piacere che ci procura – nel terzo caso l’altro vale in quanto tale, lo apprezziamo incondizionatamente, per il suo valore intrinseco.
Non posso qui soffermarmi sul dettaglio della tipizzazione aristotelica dell’azione sociale. E’ importante però sottolineare che l’analisi aristotelica ha sia una componente descrittiva sia una componente normativa. Dal punto di vista descrittivo essa abbraccia, come abbiamo già ricordato, una seria molto vasta di interazioni, che vanno dalle forme di agire interessato di tipo economico, alle interazioni sessuali e affettive basate sul piacere, sino alle interazioni solidali tra compagni e cittadini o alle azioni motivate moralmente in senso stretto. Dal punto di vista descrittivo tutte queste sono forme di philía a pieno titolo.
Nello stesso tempo l’analisi aristotelica ha anche una dimensione normativa, nella misura in cui Aristotele individua nella terza forma, e in particolare in determinate occorrenze di essa – l’amicizia morale tra uomini virtuosi tra loro simili e uguali – la forma eccellente di philía, in quanto essa soddisfa il requisiti della perfezione/compiutezza, come di ciò che è scelto di per sé e non in vista di altro.
L’amicizia perfetta, invece, è amicizia degli uomini buoni e simili per virtù: costoro, infatti, vogliono il bene l’uno dell’altro, in modo simile, in quanto sono buoni, ed essi sono buoni per se stessi9.
Troppo spesso però questa definizione normativa della philía finisce per oscurare la dimensione descrittiva, sino al punto che effettivamente la questione della philía viene ridotta a quella dell’amicizia morale, identificata come vera propria forma di philía, rispetto alla quale le forme motivate dal piacere e dall’utile sarebbero solo impropriamente caratterizzabili come occorrenze della philía. Un’interpretazione, quest’ultima, che a mio avviso non tiene nel dovuto conto che, in base alla concezione aristotelica della normatività, il fatto che alcune forme di philía siano più compiute di altre non significa che quelle meno compiute non siano forme effettive di philía.
Queste strategie interpretative sembrano dettate anche dall’esigenza di risolvere la contraddizione apparente tra il fatto che Aristotele nell’Etica Nicomachea descrive tre forme di philía, mentre nella Retorica presenta invece una definizione della philía come benevolenza disinteressata che sembra riguardare soltanto la terza forma, quella più compiuta. Nella Retorica, infatti, Aristotele scrive:
«Definiamo il philein il desiderare (boulesthai) per qualcuno ciò che si ritiene un bene, per lui e non per se stessi (ekeinou eneka alla me autou), ed esser pronti a realizzarlo, per quanto possibile10».
Un modo per risolvere la tensione consiste nell’assumere che quello definito nella Retorica sia il focal meaning – come si esprimeva Gregory Vlastos11 – della philía aristotelica, finendo o per non prendere seriamente in considerazione che anche che le due forme motivate dall’utile e dal piacere rientrano nel novero della philía, oppure per reinterpretare le tre altre forme alla luce della definizione della Retorica. Così fa ad esempio Martha Nussbaum, la quale introduce a tal scopo una distinzione ad hoc tra base, oggetto e fine dell’amicizia12, e finisce per sostenere, credo in modo estremamente problematico, che l’oggetto dell’amicizia è, come sostenuto già da John Cooper13, sempre l’altro in quanto apprezzato di per sé anche nel caso delle forme di amicizia che hanno come base il piacere o l’utile (se così fosse, tutte e tre le forme della philía potrebbero infine soddisfare la definizione della Retorica).
Non a caso gli interpreti che assumono quale core meaning della philía la benevolenza disinteressata, optano per una traduzione di philía con “love”, “amore”14. Un’accezione troppo ristretta, a mio avviso, anzitutto perché ricopre solo un ambito dei fenomeni di philía che Aristotele individua. In secondo luogo perché, intendendo infine l’amore quale benevolenza disinteressata – volere il bene dell’altro in quanto tale, dell’altro in quanto fine in sé, persona – si finisce per considerare la philía soltanto sotto il profilo dell’amicizia morale. Ma soprattutto, dalla nostra lettura dovrebbe risultare che riducendo la philía alla questione della benevolenza disinteressata, si perde di vista una parte importante dell’analisi aristotelica, non cogliendo che essa offre anche un resoconto dell’azione sociale, che come tale deve poter abbracciare forme di interazione che costituiscono legame sociale pur senza essere motivate dalla benevolenza disinteressata o dall’apprezzamento intrinseco.
Naturalmente l’agire sociale, nella concezione aristotelica – proprio in quanto esso consiste in disposizioni d’azione che devono essere sviluppate tramite l’educazione e divenire abituali – non si dà nel vuoto: esso è sempre embedded in un contesto di costumi, in un ethos: e questa è una delle ragioni per cui la concezione aristotelica dell’agency sociale è sviluppata nei libri dell’Etica. Ed è proprio per questo che la teoria della philía fa da cerniera tra i libri sulla politica e i libri sull’etica, nella misura in cui mette a tema la struttura sociale della disposizione ad agire che è comune sia all’azione politica sia all’azione etica.
Se quanto ho cercato di argomentare ha una qualche plausibilità, allora la teoria aristotelica della philía non si lascia ridurre ad una parte della teoria aristotelica della virtù etiche, sia che la philía sia intesa come una applicazione della virtù – una virtù specifica, l’amicizia, accanto ad altre virtù – sia nel senso, che vediamo per esempio prevalere in autori quali Cooper15 – di intendere la philía/amore quale corona e tramite delle virtù, più alta esemplificazione della virtù etiche in cui queste trovano il loro compimento, nella misura in cui, come sostiene anche Nussbaum, uno non può esercitare e scegliere una virtù come fine in se stesso se non sceglie assieme il bene dell’altro come parte costitutiva di tale fine16. Se nel primo caso si arriva a mio avviso ad una definizione troppo ristretta della philía, che sacrifica l’estensione descrittiva della concezione aristotelica, nel secondo caso si addiviene ad una concezione troppo alta, che finisce per perdere di vista la gradazione dell’analisi aristotelica.
Solo se si è in grado di rendere compatibili la dimensione descrittiva e la dimensione normativa, si può quindi dar conto del ruolo che la nozione di philía gioca anche nel quadro della analisi aristotelica della costituzione delle diverse forme di comunità che stanno alla base della polis. Infatti, se si assume che philía sia solo quella perfetta tra gli uomini virtuosi – la quale soddisfa in massimo grado i requisiti costitutivi della somiglianza e della uguaglianza –, allora la dottrina della philía dovrà parere assente all’inizio della Politica, dove famiglia, villaggio e polis sono analizzate quali insieme di relazioni di koinonia – motivate dall’utile, dal piacere o dal bene – che includono anche relazioni tra diseguali – maschio/femmina, genitore/figlio, padrone/schiavo. Invece, secondo Aristotele, per ciascuna delle tre forme di philía individuate, i partner possono stare o in una relazione di uguaglianza – rispetto alle capacità fondamentali e al valore morale – o in una relazione di superiorità, dove cioè l’uno comanda sull’altro17.
. Quest’ultima può ancora essere qualificata come relazione di philía, purché soddisfi il requisito della somiglianza e dell’uguaglianza almeno in senso proporzionale – da questo punto di vista problematico è solo il rapporto con lo schiavo. In tal senso le relazioni di philía includono anche interazioni reciproche asimmetriche che implicano rapporti di autorità.
Per questo la dottrina della philía – in quanto analisi della disposizione che istituisce i nessi comunitari e con ciò il legame sociale – può essere letta come una analisi della struttura intersoggettiva di quelle relazioni costitutive della comunità sociale e politica – relazioni reciproche che possono essere sia tra uguali sia tra disuguali, sia simmetriche sia asimmetriche – che Aristotele espone all’inizio del primo libro della Politica. Per altro verso la dimensione normativa della teoria della philía gioca un ruolo per la giustificazione della legittimità dell’autorità sociale dei superiori sugli inferiori, e quindi dell’autorità politica, la quale è appunto quel tipo di autorità reciproca esercitata tra coloro che possono realizzare in massimo grado i requisiti di similitudine e uguaglianza incarnati nella forma compiuta di philía.
Anche in questo senso va letta l’affermazione di Aristotele per cui sembra, poi, che sia l’amicizia a tenere insieme la città, ed i legislatori si preoccupano più di lei che della giustizia: infatti, la concordia sembra essere qualcosa di simile alla giustizia, ed è questo che essi hanno soprattutto di mira, ed è la discordia, in quanto è una specie di inimicizia, che essi soprattutto cercano di scacciare. Quando si è amici, non c’è bisogno di giustizia, mentre quando si è giusti c’è ancora bisogno di amicizia e il più alto livello della giustizia si ritiene consista in un atteggiamento di amicizia18.
Naturalmente qui emergono altri aspetti più complessi della dimensione politica della philía, che dovrò tralasciare, in particolare il nesso tra philía e teoria della giustizia, e quindi tra philía e concordia politica: aspetti che tuttavia credo non possano essere compresi fino in fondo nella loro rilevanza se si prescinde dall’analisi della disposizione di philía come costitutiva del legame sociale. La philía, dunque, tiene insieme la città non solo in direzione top-down, come concordia politica in cui si realizzi la forma compiuta e più perfetta di philía – la quale include in sé la giustizia – ma anche in direzione bottom-up, nella misura in cui è la disposizione fondamentale che costituisce il legame sociale.
Verrò ora al passaggio che conduce da Aristotele a Hegel. In che senso la prospettiva hegeliana ci può aiutare ad articolare il contenuto della dottrina della philía?
Innanzitutto, credo, perché Hegel porta in luce esplicitamente la struttura riconoscitiva dell’interazione di philía già implicita nella analisi aristotelica.
Ciò emerge innanzitutto nei diversi in cui Hegel tratta dell’amicizia e dell’amore. Robert R. Williams ha posto particolare attenzione a questo aspetto, nel contesto di un’interpretazione che, muovendo dalla traduzione di philía con «love», tende tuttavia ad identificare amore e amicizia19. Così ad esempio nella Fenomenologia dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio20, nella parte della sezione sull’autocoscienza in cui analizza la dinamica dell’Anerkennung (riconoscimento), Hegel si sofferma sulla «autocoscienza universale», intesa quale «sapere affermativo di se stesso entro l’altro Sé», vale a dire una forma di rapporto a sé che si costituisce tramite il processo del riconoscimento reciproco e che ha una struttura riconoscitiva. A tale proposito, nella Anmerkung al § 436 dell’Enciclopedia, Hegel scrive:
«Questo riflesso universale dell’autocoscienza – il Concetto che, nella sua oggettività, si sa come soggettività identica a sé e, perciò, universale – è la forma di consapevolezza intorno alla sostanza di ciascuna spiritualità essenziale: la famiglia, la patria, lo Stato, come pure di ogni virtù, dell’amore, dell’amicizia, del valore militare, dell’onore, della fama»21.
In senso analogo, nell’aggiunta al paragrafo 7 dell’introduzione ai Lineamenti di Filosofia del diritto, l’opera in cui espone la sua teoria della costituzione della comunità sociale e politica, Hegel indica l’amicizia e l’amore quali esempi di disposizioni affettive costitutive della sfera sociale del Geist. Così Hegel scrive:
«Ma questa libertà l’abbiamo già nella forma del sentimento, ad esempio nell’amicizia e nell’amore. Qui non si è unilaterali dentro di sé, bensì ci si limita di buon grado in relazione a un che d’altro, ma si sa sé in questa limitazione siccome se stessi. Nella determinatezza l’uomo non deve sentire sé determinato, bensì mentre si ha la considerazione di ciò che è altro in quanto altro, si ha in ciò per la prima volta il proprio sentimento di sé».
Hegel vede così nelle diverse istanze della philía delle esemplificazioni di una medesima struttura riconoscitiva. Egli in ultima analisi ci fa vedere che le interazioni di philía possono essere analizzate come interazioni riconoscitive, quali esempi di relazioni di riconoscimento reciproco.
Questo focus riconoscitivo sulla philía credo ci permetta in primo luogo di mettere in giusta evidenza due aspetti dell’analisi aristotelica della philía.
In primo luogo, come ha sottolineato Paul Ricoeur, va posta in luce la scoperta aristotelica della mutualità o reciprocità come aspetto costitutivo della philía22 – ove vorrei far notare che tale mutualità o reciprocità non è necessariamente simmetrica. Un aspetto che riemerge con forza nella concezione hegeliana del riconoscimento reciproco – una reciprocità che per Hegel si dà anche laddove la relazione riconoscitiva non sia relazione simmetrica tra uguali.
In secondo luogo va messa in evidenza la presenza nell’analisi aristotelica della philía della struttura del raddoppiamento, ciò che Hegel chiamerà Verdopplung – e che è un elemento chiave del’analisi della costituzione riconoscitiva dell’autocoscienza nella Fenomenologia, ove il momento della duplicazione, e del rispecchiamento nell’altro, è visto come momento necessario perché si possa istituire un rapporto cosciente a sé.
E’ questo un aspetto che emerge a ben vedere con forza anche in Aristotele, il quale nell’Etica Nicomachea, ma anche nell’Etica a Eudemo e nei Magna moralia, torna più volte sulla questione dell’amico quale “altro sé”: «l’amico, infatti, è un altro se stesso (allos autos)»23. Non solo Aristotele mostra come nell’amore e nell’amicizia si manifesti la struttura di un rispecchiamento reciproco: egli sostiene pure che entrambi i partner si riconoscono nell’altro come in un’immagine di sé24. Nei Magna moralia Aristotele esprime inoltre esplicitamente l’idea per cui il sapere di sé e l’autocoscienza non si costituiscono indipendentemente dal rapporto di rispecchiamento reciproco25. Un’idea che il capitolo sull’autocoscienza della Fenomenologia riarticolerà fondamentalmente nel contesto di una analisi del processo del riconoscimento.
Se questa ricostruzione, che naturalmente andrebbe motivata nel dettaglio, avesse una sua plausibilità, allora essa ci consentirebbe per converso di leggere la concezione hegeliana del riconoscimento in una nuova luce, come una articolazione moderna della concezione aristotelica della philía. Non è forse un caso che nell’interpretazione della teoria hegeliana dell’Anerkennung si sia presentato un problema analogo a quello che interessa l’interpretazione della philía aristotelica. Da un lato, infatti, Hegel nella Fenomenologia analizza eminentemente relazioni riconoscitive reciproche asimmetriche tra disuguali – la dialettica servo padrone ad esempio; dall’altro egli parla del “concetto puro” del riconoscimento quale forma di relazione reciproca tra uguali. Di qui la tentazione per molti di ridurre il riconoscimento ad uno solo dei due lati, enfatizzando la dimensione asimmetrica – è il caso di Alexandre Kojève e della sua lettura della storia come lotta per il riconoscimento26 –, oppure enfatizzando la nozione normativa di riconoscimento reciproco – il “concetto puro” del riconoscimento – e finendo così per ridurre la teoria dell’Anerkennung a una dottrina normativa dell’uguaglianza morale. Nel suo senso più generale, invece, la concezione hegeliana del riconoscimento è una analisi della microstruttura delle relazioni costitutive del vivere sociale, e quindi, dal punto di vista dell’individuo, delle disposizioni di cui esso deve essere dotato per poter interagire con altri individui e quindi organizzare e costituire un mondo sociale. Ed è per questo che le disposizioni riconoscitive possono generare sia interazioni reciproche asimmetriche, in prevalenza, sia relazioni reciproche asimmetriche, in determinati ambiti che Hegel, nel corso del suo itinerario, ha sempre più ristretto.
L’amore e l’amicizia elettiva, come si diceva, sono solo due casi particolari, e distinti, della struttura più generale del riconoscimento27. In tal senso non si può dire, come sostiene invece Williams, che Hegel generalizzi la concezione aristotelica della philía, dato che, come si era visto, anche in Aristotele l’amore e l’amicizia elettiva non coincidono con la disposizione di philía. Occorre inoltre anche dire che rilevanti per la ricezione hegeliana della philía non sono soltanto i passi in egli cui tratta dell’amicizia e dell’amore: passi in cui amore e amicizia sono trattate in quanto virtù particolari. Tanto più che, come si è argomentato, la philía aristotelica non coincide con i fenomeni dell’amore e dell’amicizia28. Da un lato, come si è visto, è nella teoria del riconoscimento, per come è esposta non solo nella Fenomenologia ma per come è presente anche nelle altre opere maggiori, che Hegel sviluppa un livello dell’analisi astratta della microstruttura delle disposizioni di philía. D’altro lato dovremmo attenderci, se prendiamo in particolare considerazione i Lineamenti di Filosofia del diritto quale opera che delinea la concezione hegeliana della comunità sociale, di trovare anche altri corrispondenti funzionali della philía.
In particolare, questa è la mia tesi finale, è nella concezione della Gesinnung – della predisposizione – che Hegel riprende a livello specificamente politico la questione della philía. Gli individui, per poter partecipare alla vita etica – all’eticità in quanto insieme di sfere istituzionalizzate di interazione, o in altri termini come insieme di abiti o costumi stabilizzati d’interazione – devono infatti per Hegel essere dotati di disposizioni interiori, le quali peraltro si sviluppano a loro volta attraverso il processo di formazione che ci inizia a divenire attori di una Sittlichkeit.
In tal senso, nel § 515 dell’Enciclopedia, Hegel scrive:
«La predisposizione degli individui è il sapere della sostanza e dell’identità di tutti i loro interessi con il tutto; e la fiducia – la vera, etica predisposizione – consiste in ciò, che gli altri singoli si sappiamo reciprocamente e siano reali solo in questa identità».
Ma le Gesinnungen sono in ultima analisi per Hegel disposizioni affettive accompagnate da fiducia, e in questo senso disposizioni sociali: un qualche livello di fiducia è, come nel caso di ogni tipo di relazione di philía – da quella economica a quella morale – richiesta perché si possa partecipare ad una forma di vita sociale.
In conclusione prendiamo in considerazione alcune possibili obiezioni che potrebbero essere avanzate nei confronti di questa strategia interpretativa. E’ senz’altro vero che per Hegel il principio moderno della soggettività pone un discrimine netto tra lo stato antico e quello moderno – nella misura in cui ad avviso di Hegel la concezione antica, e dunque anche quella di Aristotele – che a mio avviso qui è bistrattato – non era in grado i riconoscere appieno il ruolo della soggettività nelle sue diverse espressioni. E ‘ vero pure che per Hegel un ulteriore discrimine è costituito dalla centralità nella vita moderna statale dell’interesse individuale e dell’interazione economica motivata egoisticamente – altro elemento che non trovava un riconoscimento a livello politico sociale nel modello aristotelico, che non attribuiva alcun ruolo proprio alla società civile in senso hegeliano. Tuttavia mi sembra che entrambe queste osservazioni non possano essere utilizzate a favore della tesi – sostenuta ad esempio da Alfredo Ferrarin – per cui in Hegel la philía non potrebbe stare alla radice della vita statale, come invece accadeva in Aristotele29. Da un lato si è visto come la philía includa tra i suoi ambiti l’interazione motivata dall’utile e dunque anche l’interazione economica. Sicché non è di per sé la teoria della philía a segnare la distanza di Hegel rispetto ad Aristotele, ma piuttosto una determinata valutazione dell’attività economica che dipende da fattori esterni. D’altro lato si può mostrare che le Gesinnungen, come radici soggettive dell’eticità, svolgono un ruolo funzionale analogo alla philía: esse sono forme concrete di philía, stabilizzate entro un determinato contesto sociale e storico.
Infine, un’altra possibile obiezione alla lettura della philía in termini di riconoscimento – e quindi delle Gesinnungen quali disposizioni riconoscitive concrete – può essere ricavata da quanto afferma Williams quando sostiene che il riconoscimento in Hegel è concepito dialetticamente, come qualcosa che si produce, e si generalizza e universalizza, passando attraverso la negatività del conflitto e del dominio, mentre invece la philía in Aristotele riguarderebbe relazioni isonomiche tra uguali in potenza – gli amici virtuosi30. Si è però visto che la philía aristotelica, almeno se si assume la lettura che ne ho data, non va identificata con l’amore o l’amicizia elettiva tra eguali, e non esclude i fenomeni di negatività, di asimmetria. In tal senso ad essere particolaristica non è tanto la concezione generale della philía – come sostiene Williams – ma piuttosto la concezione normativa della philía compiuta – limitata ad una ristretta cerchia di maschi ateniesi, e immediatamente armonica. E’ invece vero, infine, che Aristotele manca l’idea dell’universalizzazione progressiva del riconoscimento attraverso il conflitto dialettico – egli non sembra riconoscere alcun ruolo progressivo alla negatività come motore di universalizzazione. Ma questa è un’altra storia.
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- Etica Nicomachea, VIII, 1, 1155a 16 sgg; trad. a cura di C. Mazzarelli, Milano, Rusconi, 1993. ↩
- Aristotele esclude che possa essere qualificato come philía un atteggiamento verso cose inanimate, poiché queste ultime non possono “ricambiare l’affezione”, non possono reagire reciprocamente ai comportamenti altrui: cfr. Et. Nich. 1155b 27 sgg. ↩
- Et. Nich. 1159b 32. ↩
- Et. Nich. 1149b 9. ↩
- Et. Nich. 1157b 30-31. ↩
- Et. Nich. 1155b 28. ↩
- Ibid. ↩
- Per un’analisi della teoria dell’azione di Aristotele qui sviluppata cfr. L. Ruggiu, Razionalità e agire. Razionalità della prassi e prassi della verità, in La scienza ricercata. Economia politica e filosofia. Studi su Aristotele e Marx, SIT, Treviso, 1979, p. 15 sgg. ↩
- Et. Nich. 1156b 7-10. ↩
- Reth, 1380b 35-1381 a1; cfr. Eth. Nich. 1166a 2-5. ↩
- G. Vlastos, The Individual as an Object of Love in Plato, in Id., Platonic Studies, Princeton University Press, New York, 1981, pp. 4-34, part. p. 5. Per una rassegna e un’analisi ragionata della questione del focal meaning nella definizione dell’amicizia, dei problemi che essa pone, e delle varie soluzioni in merito, cfr. C. Natali, L’amicizia secondo Aristotele, «Bollettino della Società Filosofica Italiana», 195, 2008, pp. 13-28, part. pp. 22-24. ↩
- Cfr. Martha Nussbaum, The Fragility of Goodness, Cambridge University Press, Cambridge, 1986, p. 355 e n. ↩
- Cfr. John M.Cooper, Aristotle’s Concept of Friendship, in A.O. Rorty (ed.), Essays on Aristotle’s Ethics, University of California Press, Berkeley, 1980, 301-340. ↩
- Cfr. Ad esempio G. Vlastos, The Individual as an Object of Love in Plato, cit; M. Nussbaum, The Fragility of Goodness, cit.; H. Ikäheimo, Globalising Love. On the Nature and Scope of Love as a Form of Recognition, «Res Publica», 18, 2012, pp. 11-24. ↩
- Cfr. John M.Cooper, Aristotle’s Concept of Friendship, cit. In una prospettiva differente, sulla philía quale «sintesi e tramite delle virtù», cfr. A. Illuminati, De amicitia, in M.P. Fimiani (a cura di), Philia, La Città del Sole, Napoli, 2001, pp. 51-62. ↩
- Cfr. Martha Nussbaum, The Fragility of Goodness, cit., pp. 343, 352. ↩
- Et. Nich., 1162a 34-36 ↩
- Et. Nich., 1155a 23 sgg. ↩
- R.R. Williams, Aristotle and Hegel on Recognition and Friendship, in M. Seymour (ed.), The Plural States of Recognition. Citizenship and Identity, Palgrave Mcmillan, London, 2010, pp. 20-36. ↩
- Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano, 2007. ↩
- Su ciò cfr. anche l’aggiunta al § 369. ↩
- Cfr. Paul Ricoeur, Soi-meme comme un autre, Seuil, Paris, 1990, pp. 214-215. Su questo aspetto cfr. R.R. Williams, Aristotle and Hegel on Recognition and Friendship, cit. ↩
- Et. Nich., 1166a32. ↩
- Cfr. Et. Nich., 1161b 28-35. Cfr. Et. Eud. 1245a 29-30; Et. Eud. 1245a 34-36. ↩
- Cfr. Magna Moralia 1213a 13-26. ↩
- Cfr. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la Phénoménologie de l’esprit, professées de 1933 à 1939 à l’École des Hautes Études, réunies et publiées par Raymond Queneau, Gallimard, Paris, 1947. ↩
- Nella Vorrede ai Lineamenti di filosofia del diritto, Hegel, polemizzando con Fries, attacca aspramente le posizioni che pongono l’amicizia (Freundschaft) intesa in senso sentimentale e morale quale fondamento del vincolo politico-sociale (cfr. Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano, 2006, p. 51). L’amicizia intesa in tal senso, come si è visto, è per Hegel una virtù particolare al pari dell’amore – e in tal senso un’istanza specifica di relazione riconoscitiva. La critica a Fries, dunque, non investe la nozione di philía nel suo senso ampio aristotelico, ma semmai la tendenza moderna a leggere la philia in termini esclusivamente morali, lasciando cadere il suo nucleo di teoria sociale, che Hegel invece riprende, come vedremo, nei termini della sua concezione riconoscitiva delle Gesinnungen. ↩
- In un articolo recente H. Ikäheimo, seguendo la linea interpretativa di Vlastos, ma con alcune importanti correzioni, sostiene che: 1) l’amore, inteso come cura incondizionata per la felicità, il benessere dell’altro, sarebbe il focal meaning della philía aristotelica; 2) anche per Hegel la cura incondizionata sarebbe l’atteggiamento interpersonale costitutivo dell’amore; 3) Hegel concepirebbe quindi l’amore così inteso come una specie del genere degli atteggiamenti riconoscitivi (laddove il genere del riconoscimento includerebbe quindi altre specie di atteggiamenti interpersonali, quali ad esempio il rispetto, la stima). A mio avviso questo tipo di interpretazione (cfr. H. Ikäheimo, Globalising Love, cit.) chiarisce aspetti importanti del fenomeno dell’amore incondizionato e della analisi aristotelica ed hegeliana che Williams non differenziava sufficientemente. Questo tipo di interpretazione non può tuttavia esaurire la questione della philía nella sua intera portata teorica, giacché in ultima analisi riguarda soltanto la forma compiuta della philía tra virtuosi, e non può così rendere conto dell’intero spettro delle interazioni di philía identificate da Aristotele (non a caso per l’autore le interazioni basate sul piacere e sull’utile sarebbero qualificate da Aristotele come philía solo per analogia e senza una vera ragione (ivi, p. 15, n12). Secondo l’analisi che propongo, invece, la teoria aristotelica della philía si colloca ad un livello più generale, che riguarda l’intera estensione dell’interazione sociale, abbracciando diverse specie di tale genere. E in tal senso la teoria hegeliana del riconoscimento, che come tale non abbraccia solo le forme positive e compiute ma anche le forme negative di relazione riconoscitiva, è una ripresa e riformulazione della teoria della philía proprio a questo livello generale (il che non esclude che l’amore incondizionato possa essere compreso come una delle diverse specie del genere del riconoscimento). ↩
- Cfr. A. Ferrarin, Hegel and Aristotle, Cambridge University Press, Cambridge, 2001, pp. 347-355. Sulla funzione prevalentemente metodologica della ripresa di motivi aristotelici nella filosofia dello spirito hegeliana, con un interessante valorizzazione anche di motivi protomaterialistici, si veda invece E. Renault, Aristote dans la philosophie hégélienne de l’Esprit, «Kairos», 16, 2000, pp. 187-206. ↩
- Cfr. R.R. Williams, Aristotle and Hegel on Recognition and Friendship, cit. ↩