Giovanni Campailla
Pubblicato in Italia nel giugno 2012 dalla Bollati Boringhieri con la traduzione di Fabrizio Grillenzoni, Cittadinanza è un’importante riflessione su questa categoria chiave della filosofia politica, che Étienne Balibar compie interrogandosi sulle esclusioni dalla cittadinanza che fanno da sfondo alla crisi attuale del neoliberismo e sulle nuove cittadinanze che premono sulla scena globale.
Esaminandone la genealogia, Balibar comincia dal significato che i greci antichi conferivano al termine politeía: cioè, la distribuzione delle funzioni amministrative e di governo ai membri di una comunità aventi tutti uguale potere deliberativo in quanto titolari del diritto di cittadinanza. È noto come una simile coincidenza di società civile e Stato, poi irrevocabilmente sciolta dal pensiero moderno, venisse mantenuta solo attraverso dure esclusioni e limitazioni. Ma è proprio per tale motivo che essa costituisce il punto di partenza per qualsiasi analisi relativa alla complessa istituzione della “sovranità del popolo”. Riferendosi infatti a Jacques Rancière, l’autore osserva come la fondazione di ogni comunità proceda necessariamente per una ripartizione degli spazi decisionali che relega una parte di se stessa allo statuto di «senza-parte»; parte – in altre parole – simultaneamente interna (perché la sua esistenza legittima la posizione di dominio di un’altra determinata parte sociale) ed esterna (perché esclusa dalle deliberazioni) alla polis.
«Questo», dice Balibar, «è il prezzo da pagare per la realizzazione del consenso invece del conflitto»: ossia, di una società unitaria e compatta in cui non emerga la divisione che al suo interno pur sempre permane. È per questa via, in effetti, che il Settecento e l’Ottocento identificano la cittadinanza con la nazionalità, lasciando allo Stato il compito di organizzare una separazione netta tra chi possiede la capacità di comandare e rappresentare la volontà popolare, e una massa incompetente per occuparsi degli affari pubblici.
Tuttavia, in questa stessa epoca, tale posizione si scontra con il suo polo diametralmente opposto, l’insurrezione, la quale, riutilizzando il medesimo presupposto che le Dichiarazioni borghesi al contempo ammettono e negano, l’egalibertà, fa apparire l’altro volto della cittadinanza. Ovvero, che la cittadinanza, per esistere, non può non essere sociale.
Sono questi due aspetti, secondo Balibar, a determinare lo Stato novecentesco, che egli definisce «nazional-sociale» poiché caratterizzato, a suo parere, dal compromesso tra le classi subalterne e quelle dominanti. È chiaro quanto questo compromesso abbia moderato e relegato in un futuro lontano il sogno d’emancipazione ottocentesco. Però, benché non lo si noti mai abbastanza, quel compromesso conservava la potenza ineliminabile del popolo, e la sua capacità di orientare, se non le agende di governo, perlomeno un processo di democratizzazione della società.
La rivoluzione tatcheriana e reaganiana degli anni Ottanta, invece, ha rotto il compromesso, spostando definitivamente il campo di intervento politico dalle questioni relative al lavoro (alle quali rimangono legate simbolicamente le rivendicazioni dei diritti) a quelle di tipo riproduttivo – la famiglia, la cultura, i servizi pubblici; e generando quei fenomeni di «assoggettamento» o di «servitù volontaria» che hanno dominato gli studi del pensiero critico dell’ultimo Novecento. È così che inizia, come sostiene Balibar confrontandosi con l’analisi di Wendy Brown, la «de-democratizzazione» di quei paesi occidentali che fino a pochi anni fa pretendevano di “portare la democrazia” in Medio Oriente e che, ciononostante, favorivano (e favoriscono) al proprio interno una massiccia elitizzazione delle pratiche deliberative.
La questione, a ben vedere, è tutt’altro che semplice e Balibar ci offre al riguardo un importante spunto di riflessione. Secondo Balibar non c’è cittadinanza senza democrazia, anche se a venire meno negli ultimi trent’anni sarebbe stato proprio questo nesso fondamentale. Infatti, per il filosofo francese, che su questo punto segue le analisi di Miguel Abensour, di Chantal Mouffe e di Jacques Rancière, la democrazia non si riduce al regime parlamentare o alla razionalità comunicativa, rappresentando piuttosto un equilibrio instabile tra l’istituzione e il conflitto, che, confondendo gli spazi prestabiliti, riconfigura gli assetti e i soggetti della cittadinanza. Questa è la ragione della polemica che egli ingaggia con Rawls e Habermas. L’idea, professata da questi ultimi e da tutto il pluralismo liberale, della necessità di mettere delle regole argomentative al conflitto affinché si risolva in azioni propositive, ha affiancato e rafforzato ulteriormente la trasformazione delle contraddizioni sociali nel consenso verso l’ordine dominante: la discussione regolata tra le parti, nel momento in cui eccede le convenzioni fissate, elimina gli elementi che la costituiscono e non permette l’emergere delle nuove cittadinanze.
È una prospettiva feconda e coraggiosa quella di Balibar, tanto da riuscire in effetti a far luce sullo stato della democrazia nei nostri paesi occidentali. Non serve a nulla blaterare su una maggiore partecipazione popolare oppure lamentarsi dell’indifferenza dei lavoratori o degli studenti di oggi rispetto a quelli di ieri, se poi si accetta come un mantra che il dibattito politico debba inserirsi nell’ordine costituzionale e contenersi nelle norme del politically correct. Un ordine unitario qualsiasi, in quanto tale, non può far altro che stabilire continuamente nuove frontiere della cittadinanza. È questa la lezione della polis greca: restringere lo spazio della cittadinanza per conferire ad ognuno dei suoi partecipanti un peso uguale agli altri. Tuttavia, è del tutto evidente come un simile restringimento, in un mondo sempre più allargato qual è quello odierno, vada incontro, più che in epoca antica, a nuove esclusioni sotto la forma non solo di divisioni di classe, ma anche e soprattutto di razzismo. La realtà con cui bisogna fare i conti è pur sempre la divisione o partizione sociale: è per questo che non bisogna cedere alle lusinghe del consenso e bisogna, al contrario, rilanciare il conflitto.
Tale sembra essere la tesi proposta dall’autore, il quale parla di «democratizzazione della democrazia», facendo proprio il motto di Bernstein «lo scopo finale è nulla, il movimento è tutto» ed enunciando che l’unica via d’uscita da un potere tanto oppressivo da chiudere lo spazio a qualsiasi politica d’emancipazione, sia l’emergere di «atti di cittadinanza» capaci di riaffermare quei diritti universali della modernità che durante gli ultimi decenni sono stati ridotti a macerie.
Il punto essenziale del discorso di Balibar è però il seguente. Egli si accorge che parlare di cittadinanza e a fortiori farne una genealogia non serve soltanto a ripercorrere l’annosa diatriba tra consenso e conflitto, o a chiarire il significato del termine democrazia. Serve anche a valutare gli orizzonti della cittadinanza nell’epoca della globalizzazione e dei social network. Quale cittadinanza prospettare allora per l’Europa? Balibar non ci dà una risposta risolutiva a questa questione. E forse il merito del suo libro, interrogandosi sulle aporie della cittadinanza attuale, è paradossalmente proprio quello di suscitare queste domande e di non dare affatto una risposta prescrittiva che dica una volta per tutte quale sia la strategia giusta da seguire. Egli fa ciò che dovrebbe fare un intellettuale: polemizza, esamina, rivede le vecchie categorie politiche, suscita problemi che vengono messi in secondo piano da altri, senza imporre alcun paradigma unico di lotta e lasciando alle pratiche di affermazione della cittadinanza la capacità di ridefinirne il concetto. Ma questo atteggiamento è probabilmente anche rivelatore di qualcosa di più profondo: le istituzioni europee non sembrano affatto poter recepire le nuove cittadinanze conflittuali, anzi pare si indirizzino verso direzioni totalmente opposte. Tuttavia, malgrado ciò, un ripiegamento sulla dimensione nazionale non può che essere disastroso, e quindi è urgente, oggi più che mai, ripartire da una nuova ipotesi costituente, che per il filosofo francese è possibile riformulare tornando al presupposto dell’egalibertà.