Il riconoscimento hegeliano, la Teoria critica e le scienze sociali

Jean-Philippe Deranty

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Ad oggi la maniera più coerente di coniugare il modello filosofico del riconoscimento con i programmi di ricerca elaborati nelle scienze sociali è fare riferimento al lavoro di Axel Honneth. Ciò che Honneth ha tentato di sviluppare attraverso i suoi scritti degli ultimi vent’anni, pur mantenendosi sempre all’interno della tradizione della Teoria critica tedesca, è precisamente un connubio di riflessione filosofica e indagini empiriche condotte nell’ambito delle scienze sociali.

Secondo il modello canonico della Teoria critica, sviluppato, com’è noto, da Max Horkheimer negli scritti programmatici degli anni Trenta (Horkheimer, 2002), il rapporto tra i due contesti doveva essere concepito come un rapporto di mutuo consolidamento: la filosofia avrebbe dovuto essere di supporto alla critica nel riformulare le asserzioni positivistiche e metafisicamente fondate proprie delle scienze sociali; le scienze sociali, a loro volta, sarebbero state indispensabili per una critica autentica dello status quo, dal momento che la filosofia, da parte sua, avrebbe abbandonato da tempo il compito di rendere conto della realtà.

Tale reciprocità epistemologica sarebbe stata accresciuta da una reciprocità di ordine pratico: la spinta all’emancipazione reperibile nella realtà della vita sociale avrebbe condizionato e informato la riflessione teorica; mentre la riflessione teorica avrebbe aiutato a reindirizzare e chiarificare i processi concreti di emancipazione, in particolare rispetto ai fini e ai mezzi normativi. Alla base di queste due forme di interdipendenza risiedeva la convinzione che la filosofia, al pari di ogni altra impresa scientifica, non potesse più essere concepita come separata dalla realtà sociale, ovvero l’idea che essa  sia parte integrante della realtà che studia e perciò per un verso sia influenzata da quella stessa realtà e per un altro verso la condizioni.

Nonostante le ripetute perplessità di Honneth sulla difficoltà di continuare il progetto iniziale della Teoria critica, la sua teoria del riconoscimento tenta di seguirne i principali fondamenti metodologici, ispirandosi all’idea della duplice reciprocità, epistemologica e pratica, tra lavoro concettuale e conoscenza empirica, così come suggerito nel programma originale. Da un lato, Honneth fa un uso importante degli studi fondamentali in sociologia e psicologia per caratterizzare i suoi concetti chiave di teoria sociale[1] e per corroborare le sue diagnosi di critica sociale (Honneth, 1994, 2004; Hartmann and Honneth, 2006). Dall’altro, nel corso degli ultimi anni presso l’Institut für Sozialforschung di Francoforte sono stati sviluppati molti progetti di ricerca su larga scala che adottano il vocabolario concettuale del riconoscimento[2].

Oggi, tuttavia, il legame evidente che sussiste tra la grammatica concettuale e normativa del riconoscimento e le ricerche concrete condotte all’interno delle scienze sociali è stato messo in discussione da un filone importante della Hegel Forschung (Pippin, 1988; Pinkard, 1994) che contesta la validità dell’interpretazione di Hegel fornita da Honneth. Queste influenti letture “non metafisiche” di Hegel rigettano la presunta torsione antropologica e psicologica arbitrariamente prodotta dall’interpretazione del riconoscimento hegeliano fornita da Honneth. Non solo una simile interpretazione sarebbe antitetica rispetto alle intenzioni di Hegel – ciò sostengono alcuni studiosi – ma potrebbe perfino precipitare la teoria sociale e la teoria politica in un’impasse. Per questi interpreti è chiaro che la filosofia pratica di Hegel fornisce l’alternativa più originale e più attraente del liberalismo e dell’utilitarismo, le due impostazioni teoriche dominanti nella teoria sociale politica mainstream. Di conseguenza, dal loro punto di vista, fraintendere lo spirito della filosofia pratica di Hegel significa, in larga misura, non comprendere il punto di vista più adeguato nell’ambito della teoria sociale e della teoria politica.

Ciò non significa che tali autori difendano l’intero impianto hegeliano in ogni suo assunto, ma dai loro testi appare evidente che tutto l’impegno esegetico condotto sugli scritti di Hegel è giustificato dalla convinzione che la sua sofisticata e complessa concezione della normatività sia senza eguali nel panorama della filosofia sociale e politica contemporanea. La combinazione di impegno esegetico e analisi sistematica che ne deriva costituisce perciò la base da cui elaborare la critica delle altre posizioni, in particolare quelle degli esponenti della Teoria critica, e del tipo di hegelismo che si incontra nell’ambito di quest’ultima[3].

In questo contributo, contro le critiche provenienti dai commentatori “non metafisici” di Hegel, vorrei argomentare a favore dell’interpretazione honnethiana del riconoscimento hegeliano, e dell’introduzione, da parte di Honneth, della Teoria critica nell’ambito delle indagini concrete sviluppate nelle scienze sociali. Considererò principalmente gli scritti di R. Pippin, e soprattutto il suo libro del 2008, Hegel’s Practical Philosophy, dal momento che Pippin è l’autore che finora si è confrontato nella maniera più esplicita con l’operazione condotta da Honneth su Hegel e la sua teoria del riconoscimento (si veda in particolare Pippin 2000)[4].

Il mio argomento è che il progetto critico di Honneth non è soltanto interessante e valido di per sé, e cioè in base ai criteri vigenti per simili progetti (in quanto, ad esempio, sintesi di lavoro teorico e ricerca empirica), ma lo è anche dal punto di vista degli studi hegeliani. Sosterrò che la teoria del riconoscimento non deve essere troppo apologetica rispetto al suo uso di Hegel, e che vi sono sufficienti risorse nel testo hegeliano stesso per garantire il tipo di lettura che Honneth propone, la quale costituisce il fondamento della teoria critica del riconoscimento. Questo significa anche, d’altra parte, che a un certo livello, nonostante la complessità e il carattere stimolante, la lettura non metafisica di Pippin rende ragione solo parzialmente dell’importanza che la filosofia hegeliana assume oggi per la ricerca sociale.

Dopo aver riassunto le principali obiezioni di Pippin a Honneth, e i suoi suggerimenti su come leggere Hegel (§ 1 e 2), solleverò un interrogativo su che cosa ciò comporti per l’applicazione alle scienze sociali (§ 3). Sosterrò che questa prospettiva è particolarmente adatta a evidenziare i problemi che nascono dalla fiducia di Pippin nella sua interpretazione hegeliana della società e della politica moderna: è una convinzione eccessivamente astratta (§ 4), e inoltre il costruttivismo e lo storicismo radicali che la caratterizzano, nonostante l’autore affermi il contrario, rischiano di produrre un’attitudine ingiustificatamente conservatrice (§ 5).

Se invece, come Hegel, si è interessati soprattutto all’attualizzazione della libertà, ovvero alla questione dell’emancipazione, allora una spiegazione puramente filosofica dell’azione individuale e delle istituzioni sociali non è sufficiente. Quel che occorre è una combinazione di teoretico ed empirico che somigli inspiegabilmente al paradigma della Teoria critica. Alla fine sosterrò che i promotori di questo paradigma siano stati validi interpreti di Hegel tanto quanto gli attuali. Il che significa che si possono trovare in Hegel stesso gli strumenti metodologici necessari a fondare il progetto della Teoria Critica, e che Honneth, in quanto erede di tale progetto, si inscrive perfettamente all’interno di questa traiettoria (§ 6 e 7).

1. Il costruttivismo radicale di Pippin

Per cogliere meglio quel che è in gioco nelle obiezioni di Pippin alla teoria critica del riconoscimento di Honneth è importante tenere presente il filo conduttore della sua lettura della teoria della libertà in Hegel. Pippin ritiene che Honneth fraintenda la teoria hegeliana della libertà e di conseguenza elabori una piattaforma fuorviante a partire dalla quale indagare la società moderna, il contesto vero e proprio in cui la libertà si realizza.

L’interpretazione che Pippin fornisce della teoria hegeliana della libertà è caratterizzata da tre elementi principali collegati tra loro, che producono una versione radicale di costruttivismo filosofico. Questi elementi sono: un forte antinaturalismo, l’ististuzionalismo e lo storicismo.

Pippin connota la libertà hegeliana in senso espressivista, in un modo che tuttavia è in disaccordo con altre precedenti letture espressiviste. In base alla sua interpretazione, la libertà implica condizioni “tali per cui le mie azioni e i miei progetti potrebbero essere, e potrebbero essere esperiti da me, come le mie azioni e i miei progetti, che accadono d’un tratto in una maniera che riflette ed esprime la mia agentività” (Pippin, 2008, p. 36).

Ci sono diverse possibili piste filosofiche per interpretare questa definizione della libertà. Per Pippin, l’originalità del punto di vista hegeliano si riduce a una prospettiva costruttivista radicale: il concetto illustrato in numerosi riferimenti ai passaggi corrispondenti del testo hegeliano secondo cui “lo spirito fa se stesso” o “lo spirito è opera di se stesso”. Gli esseri umani possono riconoscersi nelle azioni che intraprendono nel mondo perché in qualche modo loro stessi hanno creato le condizioni che consentono di significare tali azioni, hanno costruito, cioè, il mondo umano in cui le azioni accadono e acquistano senso. Le tre caratteristiche-chiave menzionate poco sopra spiegano più specificamente come intendere questa affermazione.

Per prima cosa si tratta di un’affermazione antinaturalista, nella misura in cui fa leva su una separazione radicale tra le dinamiche naturali e quelle spirituali (geistig). Quel che distingue lo spirito dalla natura è il fatto che solo il primo può essere “per sé”, ovvero può essere non solo ciò che è, ma essere ciò che è come risultato della rapporto con sé. Questo rapporto con sé implica sempre qualche forma di negatività. In effetti, questo è l’elemento dominante dello spirito hegeliano: la sua capacità di negare delle determinatezze date immediatamente, sia soggettive che oggettive e di riappropriarsene “per sé”. Pippin insiste che l’antinaturalismo riferito alla spiegazione della libertà non deve essere interpretato come un dualismo ontologico. Infatti, sono proprio gli esseri naturali (esseri umani incarnati e socializzati) che dispiegano la capacità di essere “spirituali”. Da un punto di vista hegeliano, però, questa lettura è estremamente fuorviante sul piano categoriale, perché intende rendere conto delle realtà spirituali in modo causale e naturalistico. Già ai livelli più immediati dell’esperienza umana (al livello delle sensazioni e degli affetti) compaiono diverse qualità che appartengono alle affezioni umane, alle forme di autoriflessività e ai circuiti tra i poli soggettivi e quelli oggettivi, che le distinguono radicalmente da quelle di altri animali, per quanto vi possano essere alcune sovrapposizioni. Questo anti-naturalismo significa che, nel rendere conto della libertà, non dovremmo intendere la libertà come realizzazione di capacità o come sviluppo di una data natura. Piuttosto la libertà deriva dall’abilità del mondo umano di distaccarsi progressivamente dalle costrizioni naturali, dalle forme di immediatezza e di determinatezza, per costruire gradualmente per sé le proprie distinte dimensioni normative. La comprensione della libertà quale pratica di obbedienza alle leggi che ci si è dati da soli, quale autodeterminazione e autolegislazione, è stata dapprima elaborata sul piano politico da Rousseau e poi estesa e approfondita da Kant in senso trascendentale. Hegel è il successore diretto di entrambi da un certo punto di vista. Inoltre Hegel rimane pienamente sulla scia di Kant quando, come quest’ultimo, sostiene – così procede la lettura di Pippin – che tale autodeterminazione è autodeterminazione razionale: le leggi che gli esseri umani si danno quando agiscono liberamente (nella società, in politica, ma anche al livello dell’azione individuale) sono leggi di cui si può dar conto razionalmente. Essere in grado di gestire le proprie azioni e vedere le ragioni che motivano le proprie azioni sono sinonimi in questo senso. La posizione di Hegel tuttavia si precisa in tutta la sua autonomia nel momento in cui egli fornisce alla concezione della libertà come autodeterminazione delle radicali prospettive sociali, storiche e istituzionali. In primo luogo la teoria autolegislativa della libertà è radicalemnte sociale poiché Hegel, com’è ben noto, rigetta l’assunto di Kant secondo cui ciascun individuo razionale può, da solo, ricorrendo al solo uso della sua ragion pratica, determinare il contenuto dei giudizi pratici. All’opposto il significato pratico di ogni azione è determinato dal ricorso alle concrete norme e ai concreti valori della comunità sociale esistente, l’eticità (Sittlichkeit). Il richiamo alla razionalità impedisce a questo assunto di tramutarsi direttamente in un’affermazione di stampo conservatore o relativista: io continuo a obbedire soltanto alla mia ragione quando sostengo le regole della comunità, nella misura in cui tali regole sono razionali. La razionalità delle regole sociali perciò è duplice: sono regole che posso riconoscere da solo come razionali, ma sono anche oggettivamente razionali. La condivisione della razionalità tra il momento soggettivo (individuale) e il momento oggettivo (sociale) assicura sia l’autonomia sia la dimensione non-relativistica di una libertà socialmente dipendente.

L’impianto è anche radicalmente storicista perché Hegel insiste sulle trasformazioni di questi universi normativi. Qui si colloca una seconda accezione di negatività, che questa volta non coincide con la rimozione di determinatezze immediate né con l’atteggiamento di “dare loro una lezione”, ma con la famosa dialettica hegeliana.

I modi in cui gli individui socializzati collettivamente articolano le ragioni che regolano le loro modalità di azione e interazione sono esposte costantemente alla pressione della giustificazione razionale. Essi sono strutturalmente sottoposti a processi di raffinamento normativo. Le concrete esemplificazioni di tali momenti di crisi e risoluzione normativa sono ben descritti nella Fenomenologia dello Spirito, attraverso lo studio analitico fenomenologico delle forme di vita e delle figure che subiscono il processo del “negativo”.

Infine, la concezione hegeliana della libertà come autolegislazione razionale è radicalmente istituzionalista poiché le ragioni che governano l’azione e l’interazione sono esemplificate da diversi generi di regole, che dipendono dai vari tipi di requisiti funzionali degli individui e della vita sociale a cui queste regole pertengono. Tuttavia, oltre alle considerazioni funzionali, per noi l’elemento fondamentale è il fatto che le diverse istituzioni sociali stabiliscono diversi tipi di ragioni normative, le quali definiscono le modalità razionali di agire, e di conseguenza diversi modi per gli individui di “sentirsi a casa propria” mentre agiscono nel mondo seguendo queste regole.  L’immagine che viene fuori da questa interpretazione è davvero una versione radicale di costruttivismo: “non vi è più nient’altro che ‘valga come norma razionale’ oltre al fatto di essere considerati come un singolo individuo, che è tale come singolo in una data società, dal momento che la sua autorità appare come determinante rispetto a ciò che accade, prevalendo sul resto e su tutto ciò che si lega alla sfera pubblica, ecc. […] Senza un possibile riferimento aristotelico alla realizzazione delle capacità naturali al fine di stabilire quando si agisce in modi praticamente razionali (ovvero realizzando il potenziale naturale di ciascuno in quanto animale razionale)  e senza un appello al criterio formale dell’autodeterminazione genuinamente razionale, questo finisce per essere il solo criterio rimasto: un individuo diventa agente quando  viene riconosciuto in quanto agente e viene trattato in quanto agente” (Pippin, 2008, pp. 198-199).

Questa concezione “autoreggente” dello spirito (lo spirito inteso non come sostanza, ma come il risultato immanente della circolazione delle ragioni) comporta una teoria altrettanto autoreggente della giustificazione razionale/normativa: una forma sociale è giustificata razionalmente  solo quando viene stabilita come norma seguendo il gioco linguistico del “chiedere e dare ragioni”, così come avviene in un dato contesto storico e sociale. Né l’appello alla natura (come in Aristotele) né l’appello a nessun criterio formale (come in Kant) può fornire una simile giustificazione. Gli scambi delle giustificazioni essendo circolari sono quindi “autofondantivi”. I loro risultati finali costituiscono le risorse normative istituite in un dato universo sociale.

2. Le obiezioni alla teoria del riconoscimento di Honneth

È sulla base di questa interpretazione costruttivista radicale che Pippin respinge la teoria del riconoscimento di Honneth  esposta in particolare ne la Lotta per il riconoscimento. Pippin concorda con Honneth sul fatto che il valore incontestabile della filosofia di Hegel risieda nell’aver dimostrato che “un soggetto non può essere libero da solo”, e che “i soggetti non possono essere liberi a meno che non siano riconosciuti da altri in un certo modo” (Pippin, 2008, p. 186). Pippin però ritiene anche che Honneth fraintenda le implicazioni che derivano da queste premesse, con conseguenze importanti per la teoria e le scienze politiche e sociali.

Per prima cosa, dal punto di vista del costruttivismo radicale di Pippin, l’argomentazione genetica di Honneth non coglie affatto il modello autoreggente dello spirito. Honneth, notoriamente, interpreta le sfere del riconoscimento come le condizioni genetiche e strutturali dell’autorealizzazione. La sua idea di base è un argomento che somiglia ai ragionamenti trascendentali: affinché si sviluppi una qualsiasi identità pratica o si costruisca una minima integrità del sé, e data la costitutiva dipendenza intersoggettiva degli esseri umani, le condizioni fondamentali della soggettività possono essere individuate studiando gli aspetti essenziali di un’identità pratica funzionante nella sua dipendenza genetica da altri rapporti. Per illustrare tali strutture Hegel, nei luoghi in cui tematizza l’intersoggettività all’interno dei frammenti jenesi sullo spirito, fornisce un modello tripartito, corroborato in seguito dalla psicologia sociale e genetica. Per Pippin questo modo di procedere è semplicemente una forma di neo-aristotelismo, che argomenta sulla base di una presunta potenzialità dell’uomo (la predisposizione all’autonomia) la cui realizzazione richiederebbe il verificarsi di determinate condizioni sociali. Questo quadro neo-aristotelico sarebbe smentito da tutte le caratteristiche principali del costruttivismo radicale di Hegel. Implicitamente esso si richiama a una sorta di specificità della natura umana. Ma naturalizzare lo spirito hegeliano (che secondo Pippin viene invece implementato e realizzato dal riconoscimento) significa perdere di vista l’aspetto cruciale del riconoscimento: è un tentativo di fondarlo su una qualche essenza, laddove invece lo spirito e la struttura di riconoscimento presupposta ad esso, consistono soltanto nel circolo della mutua giustificazione razionale, che a sua volta crea le condizioni per l’istituzione di tutte le norme.

La lettura genetica e psicologica del riconoscimento “naturalizza” anche le categorie di agente, soggetto e identità pratica, destoricizzandole. Al contrario lo storicismo radicale proprio del modello hegeliano della libertà suggerisce che tali categorie rappresentino delle acquisizioni storiche e non dei concetti fissati metafisicamente. Le difficoltà di Honneth nel determinare esattamente lo status metafisico e epistemologico delle sue nozioni fondamentali (l’agente autorealizzatosi è una figura antropologica o il prodotto storico della modernità?)  sarebbero una conseguenza di ciò (Zurn, 2000). Con questa obiezione storicista possiamo capire in che senso Pippin pensi di rifarsi allo spirito della tradizione della Sinistra hegeliana (Pippin, 2008, pp. 58-61). Ma ironia della sorte si tratta della stessa tradizione a cui Honneth intende richiamarsi avvalendosi di nuovi strumenti metodologici (Honneth, 1988; Honneth, 1995b).

La lettura neo-aristotelica fallisce anche nell’intento di caratterizzare opportunamente la precisa normatività del riconoscimento hegeliano. Quest’ultimo non ha niente a che vedere con il benessere psicologico inteso come bene sociale, la cui carenza aiuterebbe a definire determinate patologie sociali. Il riconoscimento è normativo non in senso psicologico, ma in senso razionale e istituzionale: precisamente, in quanto processo che istituisce le norme attraverso lo scambio di ragioni giustificatorie. Hegel potrebbe certo aver considerato le implicazioni psicologiche causate dalla presenza o dalla mancanza di riconoscimento, ma non è questo il nocciolo della sua teoria (Pippin, 2008, p. 183). L’elemento cruciale del riconoscimento è la libertà, definita non psicologicamente come benessere, ma normativamente come autolegislazione collettiva costituita razionalmente.

In un tale dibattito, la questione esegetica che riguarda la presunta frattura intercorsa nell’opera di Hegel tra il periodo intersoggettivista iniziale e il lavoro maturo “monologico” assume una valenza sistematica[5]. Il riconoscimento per Pippin è perfettamente compiuto nell’opera dello Hegel maturo, sebbene venga raramente menzionato in quanto tale. Il riconoscimento inteso come la struttura chiave dello spirito, è presupposto ogniqualvolta si parli di spirito. Tanto negli scritti giovanili, quanto nella riflessione matura di Hegel, il riconoscimento non incarna un ideale etico: designa semplicemente la struttura essenziale dello spirito quale potere autocostituentesi di creare (e potenzialmente trasformare) la cornice normativa entro cui si dispiega la vita umana.

Infine, l’approccio aristotelico adottato da Honneth è fuorviante poiché porta a una applicazione inconsistente del concetto di riconoscimento nella teoria politica. Honneth, infatti, arriva ad affermare che dal momento che ci sono condizioni della libertà individuale, le pratiche comunicative che realizzano il riconoscimento possono essere materia di diritti e di rivendicazioni. Ciò sarebbe incoerente a livello di teoria politica e anche a livello logico: “un’eticità comune non può essere concepita come l’oggetto di una richiesta di diritti o di una rivendicazione generale se quell’eticità equivale a una necessaria pre-condizione del significato determinante e della forza vincolante di una tale rivendicazione” (Pippin, 2008, pp. 256-258). Ancora una volta la natura autoreggente della teoria hegeliana della libertà è completamente agli antipodi della teoria honnethiana della giustizia.

Non c’è infatti nessuna condizione di umanità che sia indipendente dalla storia (vale a dire non c’è nessun diritto naturale): dal momento che le rivendicazioni normative dipendono dall’esistenza della società storica in cui tali rivendicazioni sono possibili, la società medesima non può essere oggetto di una rivendicazione di diritto. Vorrebbe dire mettere il carro davanti ai buoi o adottare un punto di vista normativo esterno completamente in disaccordo con l’impianto rigidamente immanentista di Hegel, sostenere, come fa Honneth, che la trascendenza entro l’immanenza sociale può essere ottenuta facendo appello alle caratteristiche della soggettività umana. In altre parole il vero spirito dell’hegelismo di sinistra non risiederebbe nella fondazione naturalistica della normatività, come avviene nella ripresa honnethiana del riconoscimento in chiave psicologica, ma in una fondazione autenticamente storicista.

3. Le scienze sociali in una cornice hegeliana

Rispetto agli scopi di una teoria critica fondata sulla filosofia hegeliana le domande che sorgono sono le seguenti: che cosa comporta per le scienze sociali una lettura del riconoscimento hegeliano radicalmente storicista e costruttivista? Che cosa significa per l’indagine empirica nell’ambito delle scienze sociali l’applicazione di un tale modello di riconoscimento? Riflettere sul rapporto tra un’ontologia sociale fondata filosoficamente à la Pippin, da un lato, e le indagini empiriche delle realtà sociali, dall’altro, costituisce una pista eccellente, come proverò a dimostrare, per evidenziare i problemi causati dalle letture “non-metafisiche” di Hegel. La questione stessa del rapporto tra questi due poli, d’altra parte, permette di comprendere meglio la forza della posizione di Honneth. Prima però dovremmo definire più precisamente a quale tipo di indagine empirica nell’ambito delle scienze sociali stiamo facendo riferimento qui. E possiamo farlo identificando le questioni implicate nello sviluppo di una conoscienza scientifica della realtà sociale adeguata alla visione hegeliana della società quale spirito oggettivo, ovvero libertà realizzata nel e per mezzo del contesto sociale.

Nelle introduzioni ai suoi testi sistematici, così come in numerosi passaggi della Scienza della Logica e della Filosofia della natura, Hegel ha svolto considerazioni rilevanti circa il rapporto tra le scienze empiriche e filosofiche. Queste osservazioni rappresentano una vera e propria epistemologia critica, collegando i risultati delle scienze speciali, e in particolare la loro capacità di individuare delle regolarità con valore di leggi dietro la massa caotica degli input sensoriali, con la loro riorganizzazione critico-sistematica attraverso la logica speculativa (Hegel, 1991a, pp. 31-37).

Tuttavia, nel caso delle realtà spirituali (ovvero sociali e culturali) questa epistemologia critica viene complicata dal fatto che gli oggetti studiati, così come i soggetti che li studiano, sono essi stessi capaci di autoriflessione e autocritica. Anche se alcune scienze sociali come l’economia politica stabiliscono leggi simili alle leggi di natura nel mondo non spirituale, le prime differiscono dalle seconde perchè gli oggetti sociali che obbediscono a queste leggi prendono attivamente e riflessivamente parte al loro comportamento conforme alle leggi.  I problemi epistemologici che sorgono rispetto alla realtà sociale perciò sono radicalmente diversi da quelli che riguardano la realtà naturale. In quest’ultimo caso l’ostacolo epistemologico principale è la contingenza, il fatto che la natura sia il regno dell’infinità casualità e del comportamento non concettuale.  Ciò fa sì che le leggi di natura siano difficili da ricavare e mai completamente adeguate ai fenomeni. La natura produce mostri, esemplari unici, fenomeni aberranti; le sue caratteristiche empiriche esibiscono tratti di infinita casualità. In natura come Hegel ripete costantemente, il concetto “è perduto”; siamo nel regno della massima “assenza di ordine” [Ordnungslosigkeit] (Hegel, 1970, pp. 3-13; vedi pure Mabille, 1999). Tuttavia l’osservazione e le procedure sperimentali possono essere sviluppate per controllare il livello delle aberrazioni della natura e la sua casualità, e per estrarre progressivamente le strutture concettuali che sostengono il dispiegamento della realtà naturale in maniera universale e definitiva. Anche nella realtà sociale la contingenza porta con sé problemi epistemologici. Qui però la contingenza è d’altro ordine, anzi ci sono due tipi di contingenza da prendere in considerazione. La prima contingenza ha a che fare con il fatto che le istituzioni umane rimangono sempre in un rapporto relativamente esterno con i corrispondenti contesti naturali e materiali. Questa distanza crea una strutturale mancanza di adeguatezza tra concetto e realtà, poiché la materia e la natura tendono sempre a ostacolare il compimento delle realtà spirituali (geistige) a tutti i livelli, dalle azioni individuali alle varie forme dell’azione sociale.[6]

C’è poi un secondo tipo di contingenza, che dipende dal fatto che questo universo presuppone le leggi della libertà. Ciò significa che gli agenti implicati nelle strutture sociali e nelle realtà istituzionali non sono soltanto agiti passivamente da esse, ma contribuiscono attivamente e riflessivamente a rendere effettuali queste strutture e, secondo i casi, le trasformano. Questo secondo tipo di contingenza denota semplicemente il fatto che le istituzioni, ad esempio nella società moderna,  sono implementate diversamente nei diversi paesi in base alle tradizioni storiche e culturali di questi ultimi.

Lo scopo delle indagini condotte nell’ambito delle scienze sociali che si ispirano alla cornice hegeliana dovrebbe essere quello di documentare e analizzare questi due tipi di discrepanze tra concetto e realtà che derivano dai due tipi di contingenza che abbiamo illustrato. Per prima cosa le ricerche nelle scienze sociali possiedono una semplice dimensione ermeneutica collegata al secondo tipo di contingenza. Esse studiano le trasformazioni che intercorrono nelle implementazioni delle strutture sociali, le quali dipendono dalle diverse tradizioni storiche e culturali, in rapporto significativo con gli aspetti materiali dei vari contesti.[7]

In secondo luogo la mancanza di adeguatezza tra concetto e realtà indica che nel regno dello spirito oggettivo la libertà non è ancora effettuale. La questione più importante nello spirito oggettivo è proprio quella della realizzazione della libertà. Le scienze sociali giocano un ruolo di rilievo anche a questo livello, poiché aiutano a rilevare i numerosi ostacoli empirici che impediscono al nucleo razionale delle istituzioni sociali di pervenire alla loro completa realizzazione (Wirklichkeit). Spesso nelle analisi dello stesso Hegel questo compito è intimamente legato al primo compito ermeneutico, nella misura in cui alcuni elementi fondamentali delle tradizioni di un  certo paese possono aiutare a spiegare le aberrazioni principali della sua vita istituzionale[8]. Vi sono però questioni specifiche, separate da quelle ermeneutiche, che sorgono in relazione al problema di realizzare la libertà.  Vale la pena menzionarne due. In primo luogo i problemi di realizzazione della libertà possono essere diversi in funzione delle diverse sfere istituzionali considerate. Infatti le irrazionalità del sistema legale, le rappresentazioni inadeguate della vita familiare, la tecniche autocontraddittorie di regolamentazione del sistema economico, le procedure politiche disfunzionali condizionano la realizzazione della libertà in modi distinti. In secondo luogo, il contributo più utile da parte delle scienza sociali deve consistere nel documentare i conflitti etici e politici tra i gruppi sociali, che sorgono in merito all’interpretazione e all’implementazione delle logiche sociali fondamentali. Il problema della realizzazione della libertà è in modo più specifico e più rilevante la questione dell’emancipazione.

 

4. Formalismo, tautologia e astrazione

Se le indagini condotte nel campo delle scienze sociali utili a una definizione hegeliana dello Spirito sono quelle sopra menzionate, si sollevano immediatamente due problemi legati all’interpretazione di Pippin.

Il primo concerne il suo alto livello di astrazione. L’interpretazione di Pippin è certamente accettabile, specie nella misura in cui presenta il sistema di Hegel come modello filosofico ragionevolmente utile alla comprensione della contemporaneità. Ma, dal punto di vista di un programma di ricerca che comprende gli elementi di cui abbiamo prima discusso, rischia di essere fin troppo astratto per porsi al fianco delle indagini concrete delle scienze sociali. Per quanto riguarda le specifiche istituzioni, il punto nodale del ragionamento di Pippin è che si tratti di costruzioni storiche, sviluppate in un andirivieni tra norme e agenti sociali, che definiscono in anticipo cosa sia un “buon padre” o un “buon cittadino”. Di conseguenza, una ricostruzione storica ed ermeneutica di tali categorie è sempre possibile, al fine di comprendere cosa comportino per ciascuna specifica società. Il problema di questa impostazione è che resta a un livello tale di astrazione che ci restituisce semplicemente una linea-guida tautologica per l’indagine scientifico-sociale. Ossia consegna agli scienziati sociali l’idea che la comprensione del fatto che una particolare società si leghi a una qualsivoglia istituzione coincide col fatto stesso che la società è legata all’istituzione. Ma, dal punto di vista di come Hegel ricostruisce le strutture normative di istituzioni diverse, per esempio quelle della società moderna nella sua Filosofia del diritto, le indicazioni tautologiche appena considerate sono del tutto insufficienti. Si dovrebbe dir qualcosa, in ogni caso, sul sostegno funzionale dell’istituzione, al fine di evidenziare al meglio la sua specifica struttura normativa. Il genere di “ragioni” addotte per considerarsi un buon padre si poggiano su argomentazioni del tutto differenti da quelle che riguardano il considerarsi un buon cittadino. Il ricorso di Hegel a differenti sillogismi per rendere conto delle istituzioni della società moderna mira precisamente ad articolare sia la loro specificità individuale sia i loro legami, in termini non solo normativi ma funzionali.

L’iper-astrazione dell’ontologia sociale di Pippin diventa palese se la mettiamo a confronto con una scuola sociologica che pare aver adottato come punto di partenza metodologico prossimo a Pippin stesso. Com’è stato accennato, il trattamento riservato da Pippin alla realtà istituzionale può sortire un’ovvia estensione sociologica e culturale-teoretica. Si possono studiare i modi concreti in cui una comunità costruisce le proprie istituzioni in specifici termini morali e culturali. E ciò significa ricostruire i significati morali e le rappresentazioni culturali attivati in diverse sfere di una data sociale. Tali grammatiche morali e culturali costituiscono categorie normative specifiche dell’identità soggettiva e, allo stesso modo, forme condivise di interazione. Un modello d’inchiesta socioculturale di questo tipo è molto vicino al modello sviluppato in Francia nelle ultime due decadi e che ha preso il nome di “teoria della convenzione”, seguendo le critiche alla “sociologia critica” di Bourdieu (Boltanski e Thévenot, 2006; Boltanski e Chiapello, 2007; Eymard-Duvernay, 2006). Sulla linea di quest’indagine sociologica ed economica, la premessa metodologica è che lo scienziato sociale necessiti di prendere in considerazione i modi in cui gli agenti sociali co-costruiscono la realtà sociale attraverso la ricostruzione e trasformazione di significati morali e culturali, così come la molteplicità e l’irriducibilità dei ruoli sociali che essi giocano. In particolare, al posto di una sociologia critica, che cerca di disvelare le strutture di dominazione, questo modello di inchiesta ha come obiettivo dell’agenda sociologica una “sociologia della critica”, ossia una ricostruzione delle fonti morali e culturali attivate dagli agenti sociali nello loro interazioni sociali, specie nelle situazioni di conflitto. Tale modello sociologico ha sviluppato argomenti molto dettagliati e sofisticati intorno a ognuno dei diversi giochi linguistici impiegati delle società moderne per destreggiarsi nelle complessità delle vita sociale. Tuttavia, mancando di un’analisi empiricamente informata, la descrizione di Pippin della realtà istituzionale appare dannosamente astratta e staccata dalle risorse concettuali provenienti da questo livello di astrazione.

Certamente, si può obiettare che una critica di tal fatta è ingiusta nel momento in cui accusa la filosofia di non riuscire a compenetrarsi col lavoro sociologico e che confonde i livelli di indagine. Ma, in tal senso, l’obiezione dovrebbe allora postulare una stretta separazione tra la filosofia e le scienze empiriche che Hegel rigettava con forza, come abbiamo già avuto modo di dire. La teoria hegeliana dello Spirito oggettivo non è solo basata su una teoria generale dello Spirito, ma ha a che vede con quelli che potremmo definire come concetti di mezzo, che appunto mediano tra la logica speculativa e le scienze empiriche della società. Questi concetti mediani (la persona della legge astratta, il soggetto dell’azione morale, il membro familiare, l’agente economico, il membro della corporazione, il cittadino) sono tolti da Hegel dai discorsi costituiti (la legge romana, la filosofia morale di Kant, l’economia politica scozzese, le teorie politiche di Rousseau e Fichte, e via dicendo). Essi definiscono specifiche categorie soggettive, modi di interazione sociale e, in modo più cruciale, richiamano forme specifiche di “indeterminatezza”, che negativamente si indirizzano al loro legame funzionale con altre categorie. L’immagine del sociale che da essi emerge e i potenziali campi di indagine che si aprono per la ricerca empirica sono estremamente più ricchi e diversi rispetto a ciò che l’insistenza sulla capacità anticipativa dello spirito evoca.

5. Quale normatività di lotta?

 

La prima obiezione ha a che vedere con la dimensione ermeneutica.  La seconda, con quella critica, e rappresenta il problema più serio dell’interpretazione promossa da Pippin.

Secondo la lettura di Hegel formulata da quest’ultimo, ogni richiesta sollevata da un soggetto proponente è sempre espressa attraverso il gioco linguistico particolare dettati da un’istituzione esistente. Non ci sono possibilità normative esterne da quelle in cui tali richieste emergono. Le rivendicazioni finalizzate a una giustificazione razionale presuppongono un concetto di ragione che è sempre relativo a una particolare istituzione, capace di offrire una razionalità preordinante e di selezionare cosa davvero conta. La questione che viene a sollevarsi pressoché nell’immediato è quella del relativismo. Pippin sostiene che il relativismo storico viene evitato grazie al legame che Hegel intrattiene con la nozione di progresso normativo: ciò che si ritiene razionalmente accettabile, e che fornisce il sostegno basilare normativo per definire i comportamenti e le interazioni soggettivi, è progressivamente migliorato con il ricorso ai requisiti restrittivi e giustificativi implicati nella logica della domanda e dell’offerta (Pippin, 2008, p. 201). Vedremo a breve che l’apparente sostegno di Pippin a questa soluzione contiene alcune difficoltà. Prima di ciò, comunque, emerge un altro aspetto problematico del forte istituzionalismo di Pippin, ossia l’opinabile struttura critica della sua teoria hegeliana delle istituzioni. Se le strutture istituzionali predetermina sempre il contenuto e gli scopi di tutte le richieste normative, allora la possibilità che una nuova norma possa spazzar via quelle già esistenti sembra essere esclusa. Il costruttivismo radicale, attraverso una definizione tautologica della normatività sociale (richieste sociali e significati sono ciò che una data società istituisce), potrebbe condurre a una forma arbitraria di conservatorismo.

Pippin possiede tre argomentazioni per fugare quest’obiezione. La prima è basata sulla storia dei tentativi falliti di realizzare o completare modelli di giustificazione normativa così come rappresentati nella Fenomenologia dello Spirito. Secondo la lettura di Pippin, il libro di Hegel mostra il lato critico della teoria della normatività di ispirazione costruttivista/istituzionalista: “si agisce liberamente quando si agisce sulla base di una richiesta di titolarità (una norma), ma una richiesta di tal fatta può essere contestata o può fallire” (Pippin, 2008, p. 201). All’obiezione di un potenziale conservatorismo insito nelle sue argomentazioni, Pippin può replicare che il modello hegeliano che egli sembra abbracciare di fatto pone il conflitto e la lotta al centro della teoria sociale, dal momento che questi ultimi rappresentano il nucleo di ogni scambio normativo di ragioni. L’importante metafora di Brandom del “segnare i punti” [score-keeping] sembra catturare gran parte dello spirito dell’interpretazione di Pippin ed evidenzia il nucleo antagonistico del suo istituzionalismo. L’insistenza sul giustificazionismo razionale di qualsiasi richiesta normativa indebolisce ogni ricordo a un’autorità che non sia basata sulla ragione (Pippin, 2008, p. 260).

Legato al conflitto tra le pratiche di considerazione delle ragioni sociali è la prospettiva storico-progressiva propria dell’interpretazione di Pippin. La lotta tra le diverse pratiche conduce all’inaugurazione di contraddizioni interne e limitazioni, oltre che – a causa dell’impossibilità di sfuggire al meccanismo della giustificazione razionale (l’impossibilità di rifugiarsi in un punto di partenza no risolto una volta che una posizione normativa è stata rivelata) – allo sviluppo di nuovi e normativamente più definiti giochi linguistici.

In terzo luogo, Pippin evidenzia inoltre che le diverse logiche normative in gioco nella vita sociale consegnano una visione complessa di quest’ultima, ma in nessun modo intaccano la definizione radicalmente istituzionalistica di ragione, e anzi la rafforzano. Di conseguenza, si può allestire una richiesta normativa contro un’altra già esistente solo sulla base di un gioco linguistico che è in qualche modo garantito socialmente e sostenuto a livello istituzionale (per esempio, mettere in discussione una legge sulla base di una morale stabilita oppure sulla base di valori familiari o politici) (Pippin, 2008, p. 265).

A dispetto di queste tre risposte, del resto, ci si può ancora chiedere se la lettura fortemente istituzionalista di Pippin non corra il rischio di conservatorismo sociale e politico. Esiste una versione sia forte che leggera di questa critica.

La versione leggera è indirizzata verso l’ottimismo razionalistico che emerge dalla ricostruzione di Pippin. Il conflitto sociale che la lettura costruttivistica di quest’ultimo vede come motore della vita sociale è di una specie ben definita: non è un conflitto di interessi, neppure un conflitto che riguarda l’accesso a posizioni di potere, ma solo un conflitto di ragioni, di interpretazioni normative. Questa visione del conflitto sociale mette da parte un possibile scadimento conservatorista sulla base dell’argomentazione seguente: le cattive istituzioni, che dipendono da cattive ragioni, non possono opporsi alla richiesta di una giustificazione dei loro comportamenti; e perciò le ragioni (come portavoce delle norme buone, delle buone pratiche e delle buone istituzioni che ne promuovono la piena reciprocità) alla fine trionfano sempre. Tale processo di miglioramento costante delle norme attraverso l’accantonamento di posizioni indifendibili dal punto di vista normativo costituisce la logica interna della vita sociale (moderna)[9]. Visto dal punto di vista della realtà storica, l’ovvio problema che viene sollevato da questa risposta si lega alla chiusa del finale. Quanta sofferenza deve realizzarsi prima che le cattive istituzioni decadano? Quanto tempo ci vuole affinché le cattive ragioni appaiano come tali? E a che punto della storia il teorico della società riesce a riconoscere che ciò che ha ritenuto giusto per lungo tempo si è invece rivelato profondamente sbagliato? A quali gruppi sociali il teorico della società affida la lotta normativa dopo aver scoperto che la ragione su cui aveva fatto affidamento ha condotto a un vicolo cieco? E a quali criteri costui può far riferimento? Ovvero, e più seriamente: ha senso, a conti fatti, per l’istituzionalismo parlare di ragioni che possono rivelarsi sbagliate? Se una ragione normativa non è mai ciò che una società definisce come tale, non è forse ogni ragione data, in ogni caso e in ogni tempo, cattiva rispetto a ciò che viene dopo? L’acume critico di una teoria sociale radicalmente storicista e istituzionalista non promette bene rispetto alle risposte da offrire a questi interrogativi.

Una versione più criticamente incisiva si rivolge a un altro aspetto dell’ottimismo razionalistico, ossia all’idea che l’accesso ai giochi linguistici che pertengono la domanda e l’offerta di ragioni sociali è aperta a chiunque e in ogni occasione. Una letteratura ricca e di impronta politico-teoretica afferma che il dominio è il vero nucleo della vita sociale (Bourdieu, 2000; Rancière, 1998; sul legame tra Rancière e il riconoscimento, vedi Deranthy, 2003). Il dominio cerca di giustificare sempre se stesso, di rappresentarsi in tinte normative attraverso argomentazioni moralistiche e riferimenti culturali. Da questo punto di vista, è vero che la vita sociale ha un ineliminabile sostegno normativo, non si sostanzia in una pura relazione di potere. Ma tale sostegno normativo, di estensione più o meno larga, riflette e aiuta a consolidare il potere di alcuni gruppi su altri. Perciò, il conflitto sociale risulta sempre asimmetrico, negoziato tra gruppi che dispongono delle norme dominanti, concepite quali buone e istituite come tali (in particolare, dall’essere capaci di difendere e rafforzare loro stessi), e gruppi che non sono riconosciuti, le cui preoccupazioni e le cui voci non sono sentite come rilevanti e significative. Secondo questa prospettiva, il compito primario delle scienze sociali dovrebbe essere quello di scoperchiare le strutture di dominio, le fonti normative e culturali messe in opera dalle classi legiferanti per giustificare il proprio potere, e i contro-discorsi sviluppati dalle classi dominate, al fine di rivelarne le potenzialità per una più equa vita sociale.

6. Filosofia e scienze sociali da una prospettiva di Teoria critica

Il programma della Teoria critica si sviluppa proprio a partire da questo obiettivo. Il nome di questo programma indica che l’intento non è semplicemente quello di descrivere la realtà sociale, ma che quest’ultima è colta nella prospettiva dell’emancipazione, dal momento che la libertà non è stata ancora ottenuta e occorre rimuovere tutti quegli ostacoli che, in un particolare contesto sociale, impediscono di conseguirla. L’elemento critico della Teoria critica consiste, prima di tutto, nella critica di questi ostacoli, colta dal punto di vista sociale, cioè dalla prospettiva dell’impatto che le strutture sociali hanno sui fattori soggettivi (che producono ostacoli di tipo psicologico), oggettivi (la struttura materiale, e nella fattispecie l’infrastruttura economica), così pure su quell’elemento in cui entrambi i fattori convergono, la cultura. Ma l’elemento critico possiede pure una dimensione epistemologica, che è fondamentalmente di ascendenza hegeliana (seppure materialista, ossia di origine marxiana). L’incrollabile attaccamento della Teoria critica alla filosofia, finalizzato a una teoria critica della società moderna, deriva dal già citato rapporto di fiducia che Hegel intratteneva con le scienze empiriche. Il riferimento a quest’ultime appare necessario: la filosofia non è in grado di estrarre da sola la sottostruttura concettuale delle differenti sfere – complesse e apparentemente caotiche – della realtà sociale. Ma le scienze empiriche sono incapaci, da par loro, di elaborare una teoria della realtà colta nella sua totalità, di cogliere i limiti della propria concettualità alla luce dell’interezza della realtà sociale, di riflettere sul ruolo che esse giocano nella riproduzione della realtà di cui sono parte e, infine, di fare i conti col proprio ruolo potenzialmente confermativo. La funzione della filosofia è quella di ricostruire il contenuto concettuale delle scienze empiriche, di porre in risalto i loro limiti logici, connettere i loro risultati particolari all’intera struttura sociale e, come esito di tutto ciò, di evidenziare la loro tensione giustificativa. Quest’impostazione fu mantenuta da autori di rilievo come Adorno e Marcuse (Adorno, 1969; Marcuse, 1968).

Questo brevissimo rimando alle intenzioni teoretiche della Teoria critica, e a ciò che la parola “critica” incorpora, ha lo scopo di esemplificare l’utilizzo teoretico di Hegel ai fini di un’indagine socioscientifica, che è molto più rilevante delle tante altre interpretazioni contemporanee e non-metafisiche. Che invece l’elemento critico sia il vero assente di quest’ultime, la Teoria critica sta lì a dimostrarlo con l’oggetto d’analisi delle proprie indagini empiriche (gli ostacoli soggettivi e oggettivi all’emancipazione) e con le modalità della sua riflessione filosofica (in che modo legare i diversi risultati empirici gli uni agli altri; in che modo le scienze empiriche giocano un ruolo nella riproduzione dell’ordine sociale).

 

7. La teoria del riconoscimento come struttura post-hegeliana per le indagini delle scienze sociali

Contro tale impostazione e in risposta al rigetto di Pippin della lettura hegeliana di Honneth, possiamo ora delineare gli elementi di una difesa della teoria del riconoscimento di quest’ultimo.

L’intenzione principale di questa teoria è quella di proseguire nel programma della Teoria critica. Il concetto di riconoscimento ha un immediato carico negativo e critico: ha lo scopo di delineare i diversi modi in cui alcuni gruppi, in un determinato contesto sociale, sperimentano l’ingiustizia, e, in circostanze che lo permettono, si ribellano ad essa. Il titolo e il sottotitolo del libro più importante di Honneth indica questo proposito esplicitamente: il riconoscimento è prima di tutto un concetto normativo, che articola il nucleo morale delle “lotte” contro l’ingiustizia, e per questo motivo riconsegna “la grammatica morale dei conflitti sociali”. La questione del dominio è centrale nello sviluppo della teoria del riconoscimento di Honneth (vedi in particolare Honneth, 1991). Dietro l’interesse per la problematica del riconoscimento si colloca la convinzione honnethiana che il modello comunicativo di Habermas cade nella trappola razionalistica di cui abbiamo parlato. Vale a dire che quest’ultimo assume, in modo troppo semplicistico, l’idea che ogni richiesta normativa possa trovare una risposta di egual misura nella sfera pubblica. Il modello del riconoscimento, al contrario, distingue vigorosamente l’esperienza morale di una richiesta normativa inevasa e l’articolazione esplicita di quest’ultima nella sfera pubblica (Honneth, 1995c; Honnet, 2000; Honneth, 2007a). Grazie a questa distinzione, la teoria del riconoscimento può legarsi direttamente a quegli studi empirici che, in contesti specifici, cercano di documentare i fattori sociali, culturali e politici che intervengono sui gruppi sociali prima di una loro richiesta d’ascolto.

La dimensione ermeneutica è allo stesso modo ben presente nel modello di Honneth. Il suo concetto, declinato a livello formale, di “vita etica” indica che le strutture di riconoscimento, costruite attraverso la riflessione filosofica e normativa, hanno bisogno d’essere dimostrate riferendosi alle inchieste empiriche in campo sociologico, storico e culturale (Honneth, 1995a, pp. 171-180).

Allo stesso modo, l’eccessiva astrazione e la tautologia non infestano il modello honnethiano, come invece accade nelle letture costruttivistiche di Hegel. Il riconoscimento è, prima di tutto, un concetto generale che ha l’obiettivo di articolare il sostegno normativo dell’ordine sociale. Il concetto realizza questa sua funzione nella misura in cui risponde alla questione delle “presupposizioni normative” della vita sociale. In riferimento a questo particolare obiettivo, il riconoscimento può giocare un ruolo di integrazione teoretica assolutamente utile alla riflessione filosofica. E nello stesso riconsegna la necessità di quei “concetti di fascia media” che servono ad articolare il teoretico e l’empirico. Il riconoscimento assolve questa funzione nel momento in cui riesce ad accordare i tre assi normativi (Honneth, 1995; Fraser e Honneth, 2003, pp. 135-159). Honneth concorda con Pippin nel pensare che molte tensioni attive nel campo sociale (ma non tutte) vengono fuori dalla “forza” che le diverse istituzioni normative esercitano sui soggetti (Honneth, 2007a). Ma la differenza ovvia tra i due modelli consiste nel fatto che quello di Honneth offre più precise indicazioni sul contenuto di queste tensioni. A tal proposito, possiamo notare che una risposta storicistica, che vorrebbe magari affermare l’impossibilità di delineare un contenuto normativo delle diverse istituzioni, considerata la loro relatività storica, fallirebbe se prendesse troppo sul serio la dichiarazione di Hegel, formulata nella Filosofia del diritto, di aver identificato le necessità funzionale delle istituzioni moderne. Lo storicismo radicale di Hegel si ferma nel punto in cui la sua analisi si imbatte proprio nelle istituzioni della modernità. Pippi, si potrebbe obiettare, la pensa allo stesso modo[10]. Ma, invece di provare a differenziare gli aspetti delle diverse sfere istituzionali della società moderna, la sua lettura resta a un livello troppo generico, enfatizzando solo la relazione tra le dimensioni storiche e normative nella giustificazione hegeliana della razionalità della società moderna. Al contrario, l’obiettivo primario di Honneth è quello di delineare le grammatiche normative peculiari che sostengono le istituzioni moderne. In modo sorprendente, nel far ciò, finisce per evidenziare i ruoli giocati dalle logiche del riconoscimento in alcune istituzioni-chiave: nella famiglia, nel sistema giuridico e specialmente nel mercato (Fraser/Honneth, 2003, pp. 248-256; Deranthy, 2010).

Per concludere, sembra che la teoria del riconoscimento di Honneth sia capace di offrire una guida più efficace alle inchieste sociali e scientifiche condotte in uno spirito hegeliano: vale a dire, inchieste che cercano di documentare ostacoli culturali, sociologici e psicosociali all’attuazione della libertà personale e collettiva. In visto di un progetto che articoli tali differenti dimensioni, la teoria honnethiana del riconoscimento sembra evitare la leggerezza di un approccio hegeliano non-metafisico come quello di Pippin, vale a dire il rischio dell’astrazione, della tautologia, la mancanza di acume critico e di ottimismo razionalistico.

Certamente, è possibile che il modello filosofico di Honneth abbia meriti dal punto di vista delle inchieste sociali, ma che nello stesso tempo abbia perso il suo legame con Hegel. La critica di Pippin del modello del riconoscimento finisce per essere allo stesso tempo un’appropriazione indebita di Hegel e un’errata tipologia di precondizioni filosofiche per una futura teoria sociale e politica. Si potrebbe difendere il modello di Honneth da queste critiche scindendo la questione della fruizione socioscientifica d’esso da quello della fedeltà a Hegel. Contro una strategia di tal fatta, ho cercato di mostrare che la teoria del riconoscimento di Honneth si presenta come una serie di linee-guida filosofiche da utilizzare per le scienze sociali, specialmente se l’obiettivo è quello di guardare al modo in cui Hegel affronta le questioni politiche e sociali. Ci sono tanti modi di guardare a Hegel. Le letture non-metafisiche sono interessate in primo grado a offrire versioni accettabili e inusitate dello sviluppo filosofico di Hegel, in riferimento alle tesi che riguardano l’autodeterminazione della ragione e le capacità di autorealizzazione. Si potrebbe affermare, del resto, che solo in via del tutto essenziale Hegel ha concepito le sue dettagliate analisi dei modi in cui le capacità di autodeterminazione vengono esercitate, soprattutto come risultato degli ostacoli incontrati sul tragitto verso la libertà. Il modello di Honneth, d’altro canto, se non restituisce una versione generale della definizione dello spirito come autodeterminazione, certamente rende giustizia all’altro capo della filosofia politica e sociale di Hegel.

Traduzione di Jamila Mascat (§1-3) e Marco Gatto (§4-7)


Riferimenti bibliografici

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[1] Dal lato “oggettivo” della sua teoria sociale, i riferimenti chiave, oltre a Hegel, sono la teoria giovanile di Durkheim della “divisione del lavoro sociale” e la sociologia storica di E.P. Thompson. Dal lato “soggettivo”, la teoria della socializzazione di Honneth è evidentemente in debito con la psicologia sociale di Mead e la letteratura più recente in materia di psicologia genetica e comparativa (Winnicott, Hobson, Tomasello).

[2] Nel 2001 un programma onnicomprensivo dedicato ai “Paradossi della modernizzazione capitalistica” abbracciava cinque specifici programmi di ricerca su “Trasformazioni dell’integrazione normativa”, “Razionalizzazione capitalistica del lavoro”, “Mutamenti nelle strutture familiari”, “L’industria culturale e i media elettronici” e “Trasformazioni dello stato democratico”.

[3] Questa modalità di coniugare analisi esegetica e comprensione sistematica per servirsene con intenti  polemici all’interno dei dibattiti contemporanei è bene illustrata dalla lettura critica di Habermas formulata da Pippin e in particolare dell’interpretazione habermasiana di Hegel  (Pippin, 1997).

[4] Si veda anche il contributo di Terry Pinkard a questo stesso volume.

[5] La divisone tra un giovane Hegel intersoggettivista e uno Hegel maturo monologico è un assunto esegetico fondamentale sostenuto da numerosi eminenti studiosi hegeliani (Theunissen e Habermas, in particolare) nel milieu filosofico tedesco degli anni Settanta, in cui matura la teoria del riconoscimento di Honneth. Tale assunto è presupposto all’elaborazione delle iniziali letture di Hegel da parte di Honneth (si veda Deranty, 2009, pp. 206-215).

[6] Il più evidente aspetto della contingenza reperibile nella vita sociale fa riferimento all’organizzazione economica, che può arbitrariamente trascinare nella povertà larghe fasce della popolazione, senza alcun rimedio reale in vista (Hegel, 1991b, pp. 264-266). Un altro vivido passaggio fa riferimento all’organizzazione dello Stato: “Lo Stato non è un’opera d’arte; esso esiste nel mondo, e quindi nella sfera dell’arbitrarietà, della contingenza e dell’errore, e le cattive azioni possono sfigurarlo in tanti modi” (Hegel, 1991b, p. 279; see also Mabille, 1999, pp. 131-147).

[7] Si veda ad esempio il legame che Hegel stabilisce tra la geografia e lo spirito di una nazione (Hegel, 1991b, p. 391).  Nel corso delle lezioni berlinesi, e in particolare nelle Lezioni sulla filosofia della storia Hegel ha fatto uso fondamentale di tutti i documenti storici e culturali disponibili per ricostruire e distinguere le diverse tradizioni presenti nelle vite sociali, economiche e politiche di determinate epoche e società, facendo sempre riferimento agli ambienti naturali e materiali.

[8] Si veda ad esempio quando Hegel analizza la corruzione del sistema politico inglese  (Hegel, 1999, pp. 234-270).

[9] Nei rari passaggi in cui Pippin sposta la sua attenzione dal piano esegetico a quello programmatico, diventa chiaro che concorda con una visione questa visione della modernità e pensa il suo specifico contributo nei termini di una difesa di tale visione. Ovvero, diventa chiaro che la grande energia esegetica spesa per difendere il “razionalismo etico” di Hegel rappresenta un modo indiretto, ma potente, di realizzare quel programma filosofico (vedi in part. Pippin, 1997, pp. 23-25; 2008, pp. 273-281).

[10] Soprattutto nei capitoli 9 e 10 di Hegel’s Practical Philosophy.

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