Emanuele Profumi
(abstract. Axel Honneth’s theses on human recognition have become the centre of the philosophical debate on this argument by the time, but, beyond some criticism of his critical theoretical framework, no one has ever truly brought them all up for discussion. That results even more surprising when one relates Honneth’s notion of recognition to a political dimension. Starting from the inner limits of the German philosopher’s theoretical structure, in particular from his interpretation of Mead’s social philosophy and Marx’s political philosophy, the aim of the present paper is to highlight the fundamental factors which keep his theoretical perspective from considering political reality and speaking about some recognition suitable to the political sphere. In the light of these problems the recognition concept itself is to be necessarily reviewed. Regarding recognition as an anthropological tie- from Mauss’s work onwards-constitutes the first attempt to elaborate a philosophical proposal able to avoid the serious problems Honneth’s idea of recognition can’t solve).
Tra le riflessioni più interessanti degli ultimi decenni che affrontano in modo complesso e rilevante il legame tra solidarietà ed autonomia in una prospettiva che apre la riflessione ad orizzonti fertili per pensare, va di certo considerato il lavoro di Axel Honneth Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto1. Grazie ad una teoria in cui il riconoscimento è inteso come primo motore del progresso umano, questo filosofo riesce a legare la realtà storica dell’eguaglianza e dell’autonomia individuale moderne con la solidarietà di base che tiene insieme la società.
Sopratutto per chi indaga le condizioni della creazione politica2 e ritiene che il riconoscimento sia uno degli ambiti privilegiati di tale ricerca, il suo lavoro merita di essere preso seriamente in considerazione: come si evince anche da questo testo l’intreccio tra riconoscimento e autonomia umana costituisce un legame storico-antropologico dal quale è difficile fare astrazione per cogliere la realtà e la possibilità dell’emancipazione umana. Ad un primo sguardo sulle sue tesi, però, sorprende la mancanza di una riflessione sul ruolo specifico che la politica ha giocato nel progresso moderno e sulla realtà del riconoscimento umano in politica. In questo saggio mi propongo di dimostrare come questo deficit imponga una revisione profonda della concezione del riconoscimento alla base della teoria honnettiana.
Un contesto problematico
La tesi di Honneth è che l’autonomia individuale dipenda dalla capacità di sviluppare un’auto-relazione completa con sé mediata dall’esperienza del riconoscimento sociale: per formare la propria identità nelle società moderne e capitaliste i soggetti dipendono da tre sfere di riconoscimento sociale sostenute dai principi legati ai modelli relazionali dell’amore, dell’eguale trattamento giuridico e della stima sociale. In altre parole, la formazione dell’identità individuale avviene attraverso stadi di internalizzazione del riconoscimento socialmente standardizzati sulla base di modelli di generalizzazione della relazione solidale dei partner dell’interazione. Riconoscere qualcuno nelle relazioni intersoggettive significa attestarne il valore, il merito e la dignità, ovvero intessere un legame fatto di stima, rispetto e riconoscenza. Ciò vuol dire che la vera natura del riconoscimento umano è morale e che perciò l’incontro con l’altro è immediatamente il sorgere di una relazione paritaria di obbligo reciproco sulla base di una mutua necessità di rispetto dell’integrità psichica. Di conseguenza le relazioni sociali sono attraversate da continue aspettative di riconoscimento, ovvero da richieste implicite (o esplicite) di rispetto della propria autonomia e individuazione, che fanno della società una fragile struttura di progressive relazioni di riconoscimento istituzionalizzate storicamente sulla base delle lotte che si agiscono per rivendicare il rispetto del riconoscimento e contrastare l’ingiustizia che nega queste aspettative. Il processo della vita sociale è ancorato ad un imperativo, ad un obbligo normativo, che costringe gli individui alla progressiva estensione del contenuto del riconoscimento reciproco facendo della storia dell’umanità un percorso costante di amplificazione dei rapporti di reciproco riconoscimento. Sono i sentimenti morali, che nascono dalle esperienze legate alla lesione delle profonde aspettative di riconoscimento, a costituire il motore della storia, la forza che permette o inibisce il progresso umano e lo sviluppo globale della società. Tale sviluppo, dato storicamente, costituisce l’impalcatura dell’eticità sociale. Il che impone, a chi volesse analizzare la società e le lotte che vi si svolgono, di considerare tale moralità sulla base dell’eticità, o meglio, di un’eticità puramente formale. Per Honneth, che si vuole filosofo della teoria critica, il compito di questa teoria e della filosofia va rielaborato: deve divenire l’impegno teorico di individuare l’idea di giustizia e il progresso morale, che, nel suo caso, viene considerato motore del conflitto sociale sulla base del surplus di validità normativa che ogni principio di validità che regge le sfere dell’interazione sociale si porta con sé, sul duplice terreno dell’individualizzazione personale e dell’inclusione sociale. La richiesta di riconoscimento sociale, quindi, possiede sempre tale surplus, causa, sempre da individuare, dell’incremento della qualità dell’integrazione sociale. La teoria critica honnettiana assume così la fisionomia di un lavoro d’indagine sulle richieste normativamente fondate, le uniche che contribuiscono all’espansione delle relazioni sociali di riconoscimento, considerate il frutto della lotta contro la violenza fisica, la privazione dei diritti e l’umiliazione nelle società liberal-capitaliste.
Dalla tesi appena sintetizzata emerge con irruenza prima di tutto il portato ontologico (contemporaneamente antropologico e storico)3: per Honneth la forma delle aspettative di riconoscimento è una costante antropologica che va oltre la tripartizione che prende nelle società moderne e contemporanee occidentali, poiché anche se le aspettative di riconoscimento devono la loro direzione specifica e il loro orientamento a quanto stabilisce nel tempo ogni società, vanno pensate come il carattere proprio della socialità. Ciò significa che noi tutti, in ogni società, dipendiamo dall’esigenza elementare di reciproco riconoscimento e, contemporaneamente, che le relazioni intersoggettive sono le condizioni necessarie per realizzare la libertà individuale. Se il riconoscimento fosse qualcosa di meramente storico dovremmo considerarlo non come frutto etico di un’esigenza morale sempre presente, ma specifica novità impostasi con le società capitaliste moderne. Quello che appare subito chiaro è, inoltre, che l’integrazione sociale avviene stabilendo relazioni di riconoscimento, ed è perciò immediatamente normativa: si basa, cioè, su certi vincoli normativi che possono essere rintracciati, per esempio, negli ideali o nelle prospettive condivise di valore morale (oltre ad avere bisogno di istituzionalizzare i principi di riconoscimento che rendono comprensibili le forme dell’interazione e le aspettative che le segnano). Più semplicemente, l’integrazione sociale altro non è che l’inclusione degli individui in relazioni di riconoscimento che permettono loro di sviluppare la propria personalità e di essere liberi nell’azione.
Ci si può domandare perché Honneth non abbia mai chiaramente tematizzato questa duplice natura ontologica.
Inoltre, la distinzione tra l’esigenza elementare di reciproco riconoscimento e la sua natura principalmente morale, che permette lo sviluppo dell’individualità, non avrebbe senso all’interno del quadro honnettiano: anche solo sulla base della semplice sintesi sopra riportata è possibile sostenere che il livello ontologico-antropologico e quello morale-etico presenti nelle sue tesi sono talmente intrecciati da risultare sovrapposti.
Tale sovrapposizione potrebbe essere la ragione di fondo che impedisce al filosofo critico di inserire la dimensione della politica, nella duplice dimensione antropologica e storica, all’interno del proprio impianto teorico. Infatti, all’interno del suo impianto concettuale, non si dà alcuna reale comprensione della realtà politica, dimensione altra dal sentimento morale e dalla natura etica del sociale. Per il nostro la politica non ha un proprio portato antropologico, o, per dirla diversamente, il politico non ha nessuna autonomia rispetto al tessuto normativo del riconoscimento umano: per ricavare il suo ruolo specifico dalle tesi honnettiane dobbiamo riferirci alla costruzione ideale delle tre sfere che strutturano il medium del riconoscimento nelle nostre società. In particolare è nella sfera del diritto che troviamo implicitamente il ruolo che le viene assegnato dal nostro filosofo, visto che né la sfera dell’amore né quella della stima sociale hanno un legame diretto con il politico (benché quest’ultima sia una sfera sociale). Honneth ritiene che il diritto poggi sull’assunto del rispetto generalizzato della capacità di intendere e di volere di tutti i membri della collettività alla quale si riferisce. Per lui le lotte sociali moderne hanno esteso le pretese giuridiche individuali e, sopratutto, hanno imposto al sistema giuridico tale estensione sul terreno delle diseguaglianze economiche (che il nostro considera pre-politiche). Questo processo ha dato vita a due nuove classi di diritti soggettivi: innanzitutto, per poter agire come persona morale capace di intendere e di volere, è stata riconosciuta la necessità per il singolo di essere dotato dell’opportunità giuridicamente garantita di partecipare al processo di formazione della volontà pubblica (nelle nostre società al singolo non basta più la protezione giuridica da intrusioni nella sua sfera di libertà); in secondo luogo è stato stabilito che di tale opportunità può fare uso effettivo solo se, contemporaneamente, gli viene garantito un certo standard di condizioni di vita. In questo schema la politica sembrerebbe corrispondere allo strumento grazie al quale siamo in grado di estendere i diritti, ma solo sulla base dell’accettazione della bontà morale delle lotte sociali per il riconoscimento giuridico. Tale visione (a dir poco) riduttiva del politico e della politica viene confermata anche da quanto Honneth dice esplicitamente riferendosi al suo contenuto pratico: “(…) l’opposizione collettiva, che deriva dall’interpretazione in termini di critica sociale dei sentimenti di misconoscimento condivisi da un intero gruppo, non è soltanto un mezzo pratico per rivendicare modelli in futuro più estesi. Come possono dimostrare, accanto alle fonti letterarie e di storia sociale, anche le riflessioni filosofiche, l’inserimento nelle azioni politiche ha per i soggetti coinvolti anche la diretta funzione di strapparli dalla situazione paralizzante di uno svilimento subito passivamente, aiutandoli, corrispondentemente, a realizzare un nuovo, positivo rapporto con se stessi. (…). Pertanto, l’inserimento individuale nella lotta politica restituisce una parte del perduto rispetto di sé al singolo, che può dimostrare pubblicamente proprio le qualità il cui misconoscimento viene percepito come un’offesa” 4. Insomma, non solo per spiegare la logica dei movimenti collettivi che nascono come opposizione politica non dobbiamo tematizzare la realtà politica in quanto tale, perché le lotte sociali in generale vanno spiegate in base alla dinamica delle esperienze sociali e al legame tra l’esperienza del misconoscimento e la sfera affettiva dell’opposizione sociale e delle rivolte collettive, ma la politica riveste esclusivamente una funzione morale di spazio dove registrare l’ampliamento o la restrizione dei diritti in funzione emancipativa e individuale (di liberazione dal misconoscimento individuale), senza avere una propria natura o altre finalità collettive.
In questo modo Honneth non solo impone alla realtà politica storica e antropologica il letto di Procuste concettuale, visto che, per esempio, non prende in considerazione il politico come dimensione propria di ogni società né i movimenti politici rivoluzionari che hanno modificato la struttura sociale moderna (come la rivoluzione francese), ma impedisce di cogliere la presenza del riconoscimento in questo ambito del dominio umano. Un tentativo di apportare degli “emendamenti” all’impianto honnettiano, per renderlo capace di dare conto adeguatamente della realtà politica, è stato fatto dai filosofi francesi Deranty e Renault. La bontà della loro critica non è quella di permettere finalmente una comprensione della politica sulla base della teoria del riconoscimento honnettiano, ma quella di mostrare i limiti intrinseci che impediscono di parlare di riconoscimento in politica a partire da questa teoria.
Operando una duplice critica, questi filosofi riformulano la tesi dell’etica del riconoscimento con l’intento esplicito di dimostrarne la valenza politica: la normatività immanente nelle richieste di riconoscimento non è solo etica ma ha principalmente una natura politica, poiché interroga i contesti istituzionali (che hanno una dimensione sociale e non intersoggettiva) e contiene il potenziale implicito per un progetto universalistico di comunità [5. Jean-Philippe Deranty e Emmanuel Renault, Politicizing Honneth’s Ethics of Recognition, in Thesis Eleven 2007; 88; pp. 92-111. http://the.sagepub.com/cgi/content/abstract/88/1/92.]. La teoria del riconoscimento renderebbe esplicita la normatività politica (da intendere non solo come rigetto di un ordine delle cose dato ma anche come progetto di una società più onesta) e permetterebbe di descrivere cos’è politico nella formazione dell’identità (ovvero come la socializzazione guidi i comportamenti non solo verso la riproduzione sociale ma anche verso la sua trasformazione)5. Deranty e Renault parlano, non a caso e a ragione, di sottovalutazione del politico nella teoria del filosofo tedesco, dovuta all’uso di un concetto espressivo di riconoscimento che renderebbe le richieste individuali indipendenti dalle istituzioni, affermando implicitamente che si può analizzare la soggettivazione al di fuori del tessuto istituzionale, ricavando di conseguenza una piena descrizione del contenuto normativo delle interazioni indipendentemente dalle loro condizioni materiali. Allo stesso tempo imputano ad Honneth il limite di aver radicato la filosofia sociale nella psicologia morale 6. Al contrario, e senza fare ricorso a tale disciplina, secondo loro è possibile rendere conto della socializzazione come un processo attraverso cui gli individui, da una parte, si adattano alle istituzioni sociali (si appropriano di nuove identità nelle istituzioni), e, dall’altra, vi dissentono (cercano di conformare le istituzioni alle richieste che emergono dal processo di unificazione della propria identità). Se, da un lato, il valore dell’identità è confermato dal riconoscimento degli altri, dall’altro, l’individuo come soggetto cerca di unificare i differenti elementi della sua identità entrando in conflitto con l’istituzione sociale. Questo processo per i due filosofi è in grado di chiarire che la lotta per il riconoscimento è in realtà un processo di negoziazione con le istituzioni, in cui non solo l’individuo si adatta alla disciplina che esse impongono al progetto di sé ma dove la forza soggettiva legata al bisogno dei singoli di unificare i diversi aspetti della propria personalità in un tutto coerente li spinge anche inevitabilmente al conflitto. Infine, tale processo sarebbe strutturalmente aperto e dialettico.
Questa tesi permette loro di desumere che nella lotta per il riconoscimento gli individui non vogliono tanto che venga loro riconosciuta la propria identità positiva, quanto che sia sempre loro disponibile quella negativa (radicata nella libertà di porre l’identità in quanto tale). “Il riconoscimento è inoltre politico in due sensi interrelati tra loro: primo, in quanto esprime la grammatica del conflitto politico, e, in secondo luogo, in quanto sostiene il potenziale politico integrando la dimensione dell’identità soggettiva. (…). L’identità personale, definita come integrità e autonomia, è strutturalmente politica perché coinvolge un progetto universale di sé. Il progetto puntella una critica della società esistente e un progetto di una comunità” 7. Insomma, l’identità personale è una costruzione politica, e solo se la teoria del riconoscimento saprà capire che la base dell’etica del riconoscimento è il tessuto normativo su cui si sviluppa l’azione politica potrà prendere in considerazione realmente i tre diversi aspetti della politica (il rifiuto di peculiari situazioni sociali, lo sviluppo delle lotte dei gruppi sociali, la tendenza a costruire una società più egualitaria).
Nonostante la radicale riformulazione della teoria del riconoscimento appena sintetizzata, il deficit honnettiano nei confronti della realtà politica non viene chiarito sino in fondo: con l’inserimento della dimensione delle istituzioni nello sviluppo del riconoscimento la critica alla natura intersoggettiva del processo descritto da Honneth è esplicita, ma non viene assunta sino in fondo. Facendo entrare nel discorso la dimensione sociale delle istituzioni i due francesi dimostrano che per comprendere la realtà politica bisogna abbandonare l’impianto intersoggettivo della teoria alla quale si riferiscono. Come mai, però, non arrivano a questa semplice conclusione? Probabilmente perché altrimenti avrebbero dovuto rimettere in discussione radicalmente tutta la teoria a cui ancora fanno riferimento, e, con essa, anche l’idea stessa del riconoscimento umano su cui si erge.
Ma i due francesi colgono anche un secondo aspetto nevralgico e potenzialmente esplosivo per la tesi sull’etica del riconoscimento, ancora una volta senza chiarirlo né problematizzarlo: se la lotta per il riconoscimento è veicolata dalla forza soggettiva e dialettica di unificazione dell’identità personale, perché non rendere conto del processo che porta a questa unificazione? Perché non interrogarsi sull’istanza che lo muove? Ancora una volta è probabile che ciò avvenga perché farlo avrebbe comportato l’onere di pensare ad una certa autonomia del singolo nel processo sociale del riconoscimento, portando ad un conseguente abbandono dell’approccio intersoggettivo in cui il riconoscimento è sostanzialmente frutto dell’azione altrui: ognuno dipende dal riconoscimento altrui, anche se il vantaggio è l’accresciuta relazione positiva con se stessi.
In sostanza il limite di Deranty e Renault è quello di non aver voluto assumere la radicale e diretta conseguenza delle obiezioni nate dal tentativo di comprensione allargata del processo del riconoscimento umano: il loro lavoro dimostra che cercare di comprendere il riconoscimento nella sfera politica significa fare saltare alla radice l’approccio honnetthiano di estendere i presupposti intersoggettivi dell’integrità personale a tutto il campo delle attività umane e della realtà sociale attraverso l’individuazione di tre modelli normativamente indipendenti dove la natura intersoggettiva degli esseri umani è espressa in maniera generalizzabile. Per Honneth, infatti, le condizioni intersoggettive dell’integrità personale sono i presupposti che, complessivamente, rendono possibile l’autorealizzazione individuale, visto che i soggetti possono giungere a una relazione pratica con sé solo se imparano a concepirsi dalla prospettiva normativa dei loro partner nell’interazione (i loro interlocutori sociali). Ma questo impedisce di pensare la natura collettiva, sociale e contestuale del politico e della politica, così come la soggettività umana come sfera legata al processo di individuazione del singolo “(…): i diversi modelli di riconoscimento, che in Hegel erano stati distinti l’uno dall’altro, possono essere intesi come le condizioni intersoggettive che permettono ai soggetti umani di giungere di volta in volta a nuove forme di una relazione positiva con se stessi. Il nesso che sussiste tra l’esperienza del riconoscimento e il rapporto con sé risulta dalla struttura intersoggettiva dell’identità personale: gli individui si costituiscono come persone solo apprendendo a rapportarsi a se stessi dalla prospettiva di un altro che li approva o li incoraggia, come esseri positivamente caratterizzati da determinate qualità e capacità. (…). Pertanto, la libertà dell’autorealizzazione dipende da presupposti che non sono a disposizione del singolo, poiché egli riesce ad acquistarli solo con l’aiuto del suo partner nell’interazione. I diversi modelli di riconoscimento rappresentano condizioni intersoggettive a cui dobbiamo necessariamente riferirci se vogliamo descrivere le strutture generali di una vita riuscita”8.
Le questioni della contestualità sociale e dell’istanza individuale nel processo di costruzione della propria identità sollevati dai filosofi francesi ci impongono di rispondere alla domanda che vi soggiace: esiste un riconoscimento in politica? Ciò che mi accingo a fare in questa sede è dimostrare come gli stessi limiti radicati nella tesi di Honneth possono essere dei punti di partenza fertili per rispondervi, cercando di sciogliere i due nodi problematici individuati grazie a Renault e Deranty. Problemi che vanno risolti non solo per arrivare ad una comprensione della realtà del riconoscimento nel fenomeno politico ma anche ad un approfondimento dell’analisi del legame tra autonomia e solidarietà.
Poiché nel suo lavoro sul riconoscimento il filosofo tedesco riproduce l’approccio esegetico critico alla base della sua tesi di dottorato sulla ricostruzione della storia e dell’evoluzione della teoria critica, e anche quando deve affrontare il problema dell’esperienza della giustizia sostiene che il compito critico si risolva sostanzialmente in una pre-comprensione teorica9, il metodo che seguirò in questa sede sarà principalmente quello della critica concettuale ad alcune importanti tesi specifiche di Honneth, approdando a una riflessione che si confronta col lavoro sociologico, antropologico e politico. Nell’avanzare la critica muoverò principalmente da un duplice confronto esegetico tra le interpretazioni che Honneth dà dell’opera e del pensiero di Herbert Mead e di Karl Marx, e quanto dagli scritti di questi pensatori della società si può chiaramente desumere. Nel farlo tratterò indirettamente alcune questioni problematiche e rilevanti cui la proposta di Honneth non si può sottrarre: è proprio vero che nella società capitalista la normatività sociale si è legata alle tre sfere individuate e che sia (ancora) sostanzialmente legata al processo di moralità sociale, oppure siamo in presenza di un’altra tendenza sociale-storica e di un’altra espressione della normatività sociale? Siamo sicuri che l’integrazione sociale avvenga principalmente stabilendo delle relazioni di riconoscimento, oppure dobbiamo allargare la comprensione del fenomeno per coglierlo veramente? E’ possibile riconoscere l’identità di una persona, oppure il riconoscimento si riferisce ad altro?
Il nodo società-individuo
L’interpretazione data dal filosofo tedesco del volume Sé, Mente e Natura dello psicologo comportamentista Herbert Mead non rende giustizia al contenuto del testo. Per sviluppare la propria ricostruzione esegetica, Honneth usa principalmente tale lavoro10, dal quale ricava il senso dei termini imprescindibili per la sua comprensione della società, sottolineando come essi corrispondano ad una attualizzazione post-metafisica e ad un approfondimento in senso naturalistico dell’idea di riconoscimento del giovane Hegel: altro generalizzato, Sé come legame di Io e Me, Play e Game, gesto vocale. Ciò che della sua ricostruzione non regge al confronto con il testo in esame può essere riassunto in una duplice erronea tesi interpretativa. Honneth ritiene infatti che: 1) per Mead i soggetti umani devono la loro identità all’esperienza di un riconoscimento intersoggettivo, 2) la sua psicologia sociale cerca di fare della lotta per il riconoscimento il punto di riferimento di una costruzione teorica volta a spiegare lo sviluppo morale della società 11.
Mead avrebbe incentrato i suoi studi sui problemi di fondazione della psicologia sviluppando una concezione intersoggettivistica dell’autocoscienza umana, per cui un soggetto può acquisire consapevolezza di sé solo nella misura in cui impara a percepire il proprio agire dalla prospettiva di una seconda persona, rappresentata simbolicamente 12. Secondo Honneth, Mead indicherebbe il meccanismo psichico che fa dipendere lo sviluppo dell’autocoscienza dall’esistenza di un secondo soggetto, perché senza l’esperienza di un partner nell’interazione che reagisce agli stimoli del soggetto questi non sarebbe in grado di agire su se stesso, affermando così direttamente la preminenza della percezione dell’altro sullo sviluppo dell’autocoscienza del singolo. Ciò si evincerebbe dal rapporto tra Io e Me (istanze costitutive del Sé) interno all’individuo e al suo legame diretto con la dimensione normativa del contesto sociale in cui vive, interiorizzata come altro generalizzato: la volontà comunitaria verrebbe incorporata attraverso delle norme intersoggettivamente riconosciute dalla società in cui si svolge l’esistenza del singolo. Tale processo sarebbe spiegato da Mead attraverso la distinzione tra play e game, funzionale alla comprensione dello sviluppo del Sé nel bambino. Se nel play il bambino si trova ad imitare il comportamento di un partner concreto, nel game sono i modelli comportamentali generalizzati di un intero gruppo a dover essere assunti nella sua condotta. Honneth stesso precisa che nella fase del game l’interiorizzazione assume il carattere di istanza di controllo proprio alle attese normative portate dai modelli comportamentali 13. In base a tale interpretazione Honneth può ricavare il concetto di riconoscimento come rapporto intersoggettivo: “Se apprendendo le norme d’azione sociali dell’“altro generalizzato” il soggetto perviene all’identità di membro socialmente accettato della propria comunità, allora è sensato impiegare per questo rapporto intersoggettivo il concetto di riconoscimento: nella misura in cui l’adolescente riconosce i suoi partner nell’interazione attraverso l’interiorizzazione dei loro orientamenti normativi, può sapersi riconosciuto come membro del proprio contesto di cooperazione sociale” 14. In altre parole, la comune assunzione della prospettiva normativa permette ai partner dell’interazione di sapere quali sono i doveri e i diritti che reciprocamente devono rispettare e possono rivendicare, sapendo che saranno reciprocamente obbligati ad accoglierli. Honneth dice che per Mead tale dinamica non solo è possibile solo grazie all’uso del gesto vocale, che permette di influire allo stesso tempo su di sé e sull’altro durante la comunicazione, ma sopratutto è segnata da una dialettica interna tra il Me e l’Io che impone al riconoscimento intersoggettivo un movimento conflittuale da intendere come il motore dello sviluppo morale della società. L’autorelazione pratica tra il Me, istanza psichica dove si sedimentano le norme sociali mediante cui un soggetto controlla il proprio comportamento in conformità alle aspettative comuni, e l’Io, istanza psichica in cui si raccolgono tutti gli impulsi interiori che trovano espressione nelle reazioni involontarie alle sollecitazioni sociali, esprimerebbe una tensione permanente tra la volontà generale interiorizzata e le esigenze di individuazione. Ciò per Mead porterebbe l’individuo a confliggere con il proprio mondo sociale, avanzando implicitamente la richiesta di nuove forme di riconoscimento sociale. “Poiché sotto la pressione del loro Io i soggetti sono indotti a sottrarsi di continuo alle norme incorporate nell’“altro generalizzato”, sottostanno in certo senso alla necessità psichica di impegnarsi per l’estensione del rapporto di riconoscimento giuridico. La prassi sociale che deriva dallo sforzo congiunto per questo “arricchimento della società” è ciò che nella psicologia sociale di Mead può corrispondere alla lotta per il riconoscimento” 15.
Coerentemente con questa interpretazione, Honneth muove alcune critiche alla teoria meadiana che in questo contesto non verranno affrontate 16. Rilevante, invece, è una considerazione che il filosofo fa in merito al processo etico che porta il soggetto a sviluppare le capacità e le qualità socialmente condivise nate dal riconoscimento dei partner dell’interazione, sempre sulla base della sua ricostruzione esegetica: “Per poter arrivare a un Me capace di produrre questa rassicurazione etica, ogni soggetto deve imparare a generalizzare i valori condivisi da tutti i suoi partner nell’interazione fino al punto di ottenere una rappresentazione astratta dei fini collettivi dalla sua comunità; infatti solo entro l’orizzonte di questi valori può concepirsi come una persona che si distingue da tutte le altre fornendo un contributo riconosciuto come unico al processo della vita sociale” 17. Come si può facilmente ricavare da questa osservazione, ricostruendo il percorso meadiano lo stesso Honneth non può sottovalutare la dimensione collettiva del processo di costruzione dell’identità. Realtà che in Mead ha una rilevanza tutt’altro che marginale, ma che Honneth non può, o non vuole, ricostruire adeguatamente nell’economia del proprio discorso perché altrimenti si troverebbe costretto a riconoscere il valore decisivo che ha per lo psicologo comportamentista nordamericano, facendo venire meno la tesi di un riconoscimento fondamentalmente intersoggettivo. Una volta entrati nel ragionamento meadiano, infatti, ci rendiamo subito conto che il processo sociale di riconoscimento necessario per la costruzione del Sé non è solo e principalmente intersoggettivo, ma presenta un versante sociale generale, collettivo, e un versante squisitamente individuale che impongono di considerare l’interazione tra partner all’interno di un modello sociale in cui la relazione di fondo che la segna non è intersoggettiva, ma piuttosto quella tra l’individuo e la società nel suo complesso.
Ciò risulta chiaro se si analizzano i presupposti del complesso concettuale meadiano.
In ogni sfera dell’umana interazione, che sia quella del linguaggio, e in particolare del gesto vocale (o dei gesti significativi o simboli), della mente (fenomeno sociale in cui gli individui sono in grado di impossessarsi di diverse possibilità di risposta in base agli stimoli sociali) così come del pensiero (necessario per far sorgere il Sé), siamo in presenza di meccanismi di reciproco aggiustamento all’ambiente sociale grazie alla possibilità che il sistema nervoso centrale, come base universale dell’umana esperienza, ci permette di sviluppare. Per questo Mead ritiene che l’organizzazione del Sé sia costituita dai diversi atteggiamenti che l’individuo è in grado di assumere nei confronti del proprio ambiente sociale e non semplicemente il frutto della comunicazione intersoggettiva 18.
Nel caso del linguaggio, per esempio, i gesti vocali permettono l’assunzione del ruolo altrui facendo partecipare l’individuo allo stesso processo comunicativo che viene espresso dall’altra persona, così da permettergli di controllare la propria azione rispetto a questa partecipazione. Detto in altri termini: attraverso il linguaggio l’individuo comprende ciò che dice e influisce non solo sull’altro ma anche su di sé solo perché il meccanismo del significato (il suo essere partecipabile e la sua comunicabilità) è oggettivo, e il simbolo ha un’universalità dello stesso genere per ogni persona che si trova nella stessa situazione. Solo in questo modo l’individuo può assumere il ruolo dell’altro. In questo ambito Mead parla di ruolo sociale e non di Sé, di identità personale, perché vuole sottolineare il carattere collettivo del processo. Tanto è vero che quando si riferisce al simbolo precisa che “è sempre implicito ad un universo di discorso inteso come il contesto o il campo entro cui i gesti significativi (o simboli) trovano di fatto il loro significato”. L’universo di discorso è il sistema dei significati sociali, comuni. “Questo universo di discorso è costituito da un gruppo di individui che coadiuvano e partecipano a un comune processo sociale d’esperienza e di comportamento nel cui ambito tali gesti o simboli hanno gli stessi significati o significati comuni per tutti i membri di quel gruppo, sia che gli individui li esprimano o li indirizzino ad altri individui, sia che gli individui rispondano ad essi esplicitamente in quanto espressi o a loro indirizzati da altri individui” 19. Anche nel processo di formazione della mente l’individuo assume l’atteggiamento del processo sociale del linguaggio come parte di un’elaborata reazione al complesso di possibilità sociali che il contesto di esperienza rende percepibili.
Ma è sopratutto l’idea di pensiero che Mead forgia a rendere esplicito come la relazione tra il collettivo e l’individuale sia costitutiva del processo sociale, permettendoci di relativizzare l’importanza esclusiva che Honneth ha attribuito al processo intersoggettivo di riconoscimento riferendosi a Mead. Per lo psicologo nordamericano il pensiero è un meccanismo generale necessario per fare emergere l’autocoscienza e il Sé. Esso ha la seguente struttura : emerge quando 1) suscitiamo in noi con i gesti (vocali) le stesse risposte che suscitiamo nelle altre persone e assumiamo i loro atteggiamenti nella nostra condotta personale; 2) attraverso il linguaggio si reagisce su di sé negli stessi termini in cui si reagisce sugli altri; 3) quando nell’altra persona viene suscitata una risposta e questa diviene uno stimolo per il controllo della condotta dell’individuo, che assume nella propria esperienza il significato dell’atto dell’altra persona 20. In sostanza, il pensiero è una conversazione interiorizzata e implicita che l’individuo ha con se stesso in cui si interiorizzano i gesti che teniamo con gli altri individui nel processo sociale. Come tale è un processo universale e impersonale grazie al quale siamo in grado di cristallizzare gli atteggiamenti particolari che assumiamo durante l’interazione intersoggettiva diffusa (non solo quella con un unico atteggiamento o punto di vista), che Mead chiama altro generalizzato 21. Il pensiero ci permette di cogliere la dimensione sociale, generale, della comunità o del gruppo sociale organizzato, e, circolarmente, questa, assunta come altro generalizzato verso se stessi, deve essere presupposta dal pensare come universo del discorso (sistema di significati comuni e contestuali senza il quale il pensiero non si svilupperebbe)22.“(…); l’individuo deve quindi, attraverso la generalizzazione di questi atteggiamenti individuali tipici di quella società organizzata o di quel gruppo sociale considerato come un tutto organico, agire nei confronti delle diverse attività sociali che di volta in volta il gruppo sociale intraprende, o nei confronti delle varie fasi di maggior respiro del generale processo sociale che costituiscono la sua vita e delle quali suddette sono manifestazioni specifiche”. Ecco perché Mead, quando affronta la formazione dell’identità, può affermare che “ciò che porta alla formazione del “Sé” organizzato è l’organizzazione degli atteggiamenti comuni al gruppo. Una persona possiede una personalità perché fa parte di una comunità, perché assume nella sua condotta le istituzioni di quella comunità. (…). La struttura quindi sulla quale si crea un “Sé” consiste in questa risposta comune a tutti, poiché l’individuo deve essere membro di una comunità per costituire un “Sé”.” 23. Ciò significa che l’individuo possiede un Sé non solo perché è in grado di assumere il ruolo dell’altro o di riconoscere il proprio Sé grazie all’altro, ma anche perché elabora i diversi “Sé” del gruppo sociale, che possono essere assunti solo con una riflessione individuale che coglie i diversi “Sé”, e gli altri stimoli sociali (come le istituzioni), come un insieme in cui vivere e fare esperienza (l’altro generalizzato).
Per chiarire questo punto decisivo è necessario comprendere le idee meadiane di Me e di Io.
Mead non pensa solo che la condizione indispensabile allo sviluppo del Sé sia quella di assumere gli atteggiamenti del gruppo sociale organizzato al quale appartiene nei confronti dell’attività sociale organizzata o del complesso di quelle attività nelle quali il gruppo come tale è impegnato 24, ma in effetti, come sostiene Honneth, anche che la cooperazione umana, da cui dipende in grande misura la cooperazione sociale tra gli individui, deriva dall’assunzione degli atteggiamenti sociali attraverso la relazione intersoggettiva. “L’intero processo dipende da una identificazione del proprio “Sé” con l’altro, e questo non può aver luogo fra forme viventi in cui non vi sia la capacità di mettere il proprio “Sé” al posto dell’altro attraverso la comunicazione tramite il sistema di gesti che costituisce il linguaggio. (…). Non possiamo capire noi stessi se non in quanto riconosciamo l’altro nel suo rapporto con noi. E’ in quanto assume l’atteggiamento dell’altro che l’individuo è in grado di capire se stesso come un “Sé”.”. Come già accennato nel caso della comunicazione linguistica, solo l’assunzione dell’altro permette che l’individuo sia in grado di esercitare la sua risposta e controllare la propria e l’altrui condotta. L’analisi del testo di Mead non lascia alcun dubbio: “il principio che io ho indicato come basilare per l’organizzazione sociale umana è quello della comunicazione implicante la partecipazione all’altro. Ciò richiede l’operazione dell’altro nel “Sé”, l’identificazione dell’altro con il “Sé”, raggiungimento della coscienza del “Sé” attraverso l’altro” 25. L’individuo raggiunge davvero se stesso e la sua coscienza nell’identificazione di Sé con l’altro: l’interazione tra partner comunicativi è necessaria per costruire la propria identità e per averne coscienza. Il Sé, per manifestarsi, ha bisogno che il singolo faccia esperienza dell’altro (non può essere semplicemente fornita da se stesso), assumendo il suo atteggiamento come parte essenziale del proprio comportamento. Ciò che Honneth però non è riuscito a vedere, o non ha voluto prendere in considerazione, è che tale processo viene identificato per Mead solo con una delle due istanze che costituiscono il Sé e l’identità personale, ovvero con il Me: “Il Sé che può affermare se stesso nella comunità è quel Sé che è riconosciuto nella comunità in quanto esso riconosce gli altri. Questa è la fase del “Sé” a cui ho fatto riferimento come a quella del Me” 26. E’ questa istanza che permette l’assunzione dell’atteggiamento degli altri e che risponde ai loro atteggiamenti organizzati. Il proprio Me è, non a caso, l’unico aspetto del “Sé” di cui siamo consapevoli. Il lavoro del Me è però caratterizzato da due fasi, di cui Honneth non parla visto che sembra prendere in considerazione solo la prima: 1) il “Sé” dell’individuo è costituito solo dall’organizzazione dei particolari atteggiamenti tipici degli altri individui verso di lui, e tra loro, negli specifici atti sociali ai quali egli partecipa insieme ad essi; 2) questo stesso “Sé” viene costituito non solo dai particolari atteggiamenti individuali legati alla relazione intersoggettiva, ma anche dall’organizzazione degli atteggiamenti sociali dell’altro generalizzato, o del gruppo sociale nella sua totalità al quale appartiene l’individuo 27. Il Sé, come struttura sociale che sorge nell’esperienza collettiva, è, quindi, allo stesso tempo il risultato delle relazioni che l’individuo ha con il processo dell’esperienza nella sua totalità e con gli altri individui all’interno di esso. La coscienza del Sé si sviluppa contemporaneamente in base alle particolari opinioni degli altri individui dello stesso gruppo sociale e attraverso l’opinione generale che si ha del gruppo sociale, interiorizzato come totalità alla quale si appartiene. Tuttavia per Mead, non solo il “Sé” è la creazione del processo umano come totalità 28, a dispetto di quanto Honneth non dice, ma è anche il frutto del lavoro di un’altra istanza fondamentale, l’Io, che reagisce agli atteggiamenti degli altri e della comunità, assunti con il “Me” durante la propria esperienza quotidiana. Mead introduce l’Io per rendere conto della risposta che l’individuo dà all’atteggiamento sociale organizzato di volta in volta, determinandone il cambiamento e producendo novità sociale. L’individuo, perciò, non si adatta solamente al contesto sociale, ma muta gli atteggiamenti degli altri e il contesto sociale grazie al proprio contributo personale. “(…), l’”Io” in questo caso è un progetto di organizzazione, un progetto che egli propone alla comunità così come si riflette in lui stesso. Egli cambia se stesso, naturalmente, per il fatto che propone questo progetto alla comunità e lo fa diventare un problema politico. Una nuova situazione sociale si realizza così come risultato del progetto che egli presenta” 29. Questa istanza si regge su una capacità essenziale che per Mead costituisce la condizione centrale del processo sociale che chiama mente: la riflessività. E’ solo grazie a questa capacità che siamo in grado di recuperare la nostra esperienza passata attraverso l’Io. La riflessività è necessaria anche al Me, perché permette all’individuo di divenire capace di adeguarsi consapevolmente al processo sociale, e non solo di modificarlo, rendendo possibile l’assunzione dell’atteggiamento degli altri nei propri confronti e trasferendo il processo sociale nel suo insieme all’interno della propria esperienza. L’ Io e la riflessività permettono a Mead di considerare l’identità come progettuale 30. Mentre la dialettica tra Io e Me gli permette di affermare che il Sé sorge attraverso un’attività cooperativa, e che il suo aspetto sociale è caratterizzato dal sentimento di cooperazione ed eguaglianza con gli altri membri del gruppo, sottolineando così l’asocialità del conflitto, inteso esclusivamente come ostilità nei confronti degli altri 31. “Il carattere riflessivo della coscienza del “Sé” pone in grado l’individuo di contemplare se stesso come un complesso, la sua capacità di assumere gli atteggiamenti sociali degli altri individui ed anche dell’altro generalizzato nei confronti di sé, all’interno della data società organizzata di cui egli è un membro, rende possibile da parte sua la riflessione di se stesso come un tutto oggettivo, all’interno della sua propria sfera di esperienza; e così egli può coscientemente integrare e unificare i vari aspetti del suo “Sé”, per formare una personalità singola, coerente, unitaria e organizzata” 32.
Da quanto detto risulteranno chiari i punti su cui l’interpretazione di Honneth non tiene: 1) il ruolo che gioca la relazione intersoggettiva di riconoscimento all’interno di un’economia del discorso tutta incentrata a sottolineare la relazione individuo-società: il riconoscimento non è semplicemente il frutto di una relazione intersoggettiva, ma anche dell’elaborazione del contesto sociale d’esperienza, della relazione con la società nella sua totalità così come della relazione riflessiva con se stessi. 2) la teoria di Mead non fa della lotta per il riconoscimento il punto di riferimento di una costruzione teorica volta a spiegare lo sviluppo morale della società, perché il riconoscimento è solo uno degli aspetti della costruzione del Sé (il Me) e, sopratutto, perché costituisce l’aspetto adattativo e non quello trasformativo e/o conflittuale nella costruzione del Sé e della realtà sociale. L’aspetto trasformativo (l’Io), in ogni caso, non trasforma la società attraverso un conflitto, perché la conflittualità viene intesa come agente disgregativo, espressione dell’asocialità. Honneth sembra ridurre l’attività del Me alla volontà generale interiorizzata e dare all’Io la funzione di esprimere le continue esigenze di individuazione a partire dall’assunzione normativa implicita al riconoscimento dell’altro come necessario allo sviluppo del Sé, ma, come ho dimostrato, ciò non si può ricavare dall’impianto concettuale meadiano, perché le istanze di individuazione e la volontà generalizzata sono entrambe “funzioni” del Me. L’Io è un’istanza progettuale che porta al cambiamento di Sé e della realtà sociale, ovvero a modificare le condizioni e le relazioni di riconoscimento date collettivamente e assunte singolarmente. Perciò è lecito affermare che la forzatura honnettiana sia figlia di un duplice misconoscimento: dalle tesi di Mead vengono eliminate, da un lato, l’importanza della dimensione antropologica del sociale e, dall’altro, l’istanza riflessiva e progettuale del soggetto. Solo in questo modo è possibile ricavare dal suo discorso una lotta per il riconoscimento giustificata intersoggettivamente su basi naturalistiche.
Sottraendo l’attenzione da entrambi gli aspetti, Honneth inibisce qualsiasi riflessione in grado di comprendere il fenomeno del riconoscimento umano in politica, la cui esistenza non viene negata ma subordinata, come detto, al processo morale, orientando la propria fondazione teoretica sul terreno privilegiato dell’etica. Così facendo egli non è in grado di affrontare con la necessaria chiarezza la relazione tra il livello etico del riconoscimento e quello politico, a differenza di quanto fanno altri due filosofi a lui vicini, sia per l’impianto intersoggettivo della propria idea di riconoscimento sia per la centralità che il linguaggio assume per il suo sviluppo: Taylor e Habermas, infatti, ingaggiano una disputa filosofica di carattere politico sulle possibilità e i problemi del multiculturalismo confrontando differenti visioni del riconoscimento in politica.
Il primo considera l’identità come una realtà plasmata contemporaneamente dal bisogno umano di riconoscimento e dal misconoscimento di sé da parte degli altri, sulla base delle relazioni dialogiche e individuando esplicitamente nella sfera pubblica il luogo della politica dell’eguale riconoscimento in grado di tutelare le identità collettive e dialogiche dalla negazione dell’identità. Per Taylor questa politica dovrà superare la rigidità del liberalismo procedurale dei diritti, inospitale verso la differenza e sospettoso verso i fini collettivi (oltre ad essere l’espressione di un certo insieme di culture, e perciò incompatibile con l’obiettivo del multiculturalismo). Il multiculturalismo è il vero volto della politica del riconoscimento, perciò dovrebbe affondare le proprie radici nel postulato dell’eguale rispetto di tutte le culture umane, della loro reciproca traduzione e del legame tra orizzonti normativi diversi. Solo così, per Taylor, riusciremo a concepire un nuovo universalismo capace di estendere la politica della dignità attraverso l’incontro dialogico 33. Allo stesso modo Habermas, rifiutando la critica tayloriana all’universalismo dei diritti del liberalismo e rilanciando un liberalismo dei diritti in grado di armonizzare la parificazione giuridica con l’eguale riconoscimento di gruppi culturali definiti, afferma che è il sistema democratico a poter sostenere la politica del riconoscimento 34. Per Habermas i titolari dei diritti individuali hanno un’identità intersoggettivamente concepita e, quindi, è nello spazio del diritto che vengono sanciti i rapporti di riconoscimento che la società democratica multiculturale potrà assumere una volta sviluppata una sfera pubblica efficiente e dotata di strutture comunicative non manipolate 35.
Pur condividendo con questi due filosofi molti presupposti teoretici ed epistemologici, l’incapacità di Honneth di arrivare a delineare il fenomeno politico del riconoscimento potrebbe essere la diretta conseguenza dell’occultamento del nodo problematico individuo-società che sia Habermas che Taylor declinano, ognuno a suo modo, sulla base del rapporto tra solidarietà e autonomia, come, da un’altra prospettiva, aveva fatto anche Mead. Non a caso, tale nodo riveste un’importanza enorme in una parte della sociologia contemporanea che si è occupata della realtà del riconoscimento, dove non solo si afferma l’esistenza di tale fenomeno in politica, ma vengono sottolineati ora l’aspetto collettivo dell’identità (Pizzorno, Berger e Luckmann, Goffman) ora quello riflessivo e individuale (Crespi), al contrario di quanto l’impianto intersoggettivo honnettiano permetta di fare. Tra l’altro, come è stato ricostruito 36, se assumiamo uno sguardo d’insieme sul lavoro che questa disciplina ha sviluppato sul terreno del riconoscimento, è possibile evidenziare una tipologia di quattro diversi meccanismi di riconoscimento, ognuno dei quali non fa altro che articolare in modo peculiare il duplice processo di identificazione costituito dal “riconoscimento sociale” e dall’individuazione del singolo. Ovvero, per arrivare a comprendere il processo di riconoscimento, la tradizione sociologica ha affrontato in diversi modi il nodo società-individuo declinandolo sia sul versante personale sia su quello collettivo: con il “riconoscimento sociale” il soggetto si connette ad insiemi collettivi che lo trascendono, mentre con l’individuazione esso si “autoriconosce” (si connette con se stesso). In somma, in entrambi i casi una buona parte della sociologia contemporanea ha relativizzato il portato intersoggettivo del processo di riconoscimento. Anche chi, come Alessandro Pizzorno, ha dato una centralità al riconoscimento per la spiegazione del fenomeno sociale, intendendolo come interazione, non condivide l’approccio essenzialmente intersoggettivo di Honneth: per il sociologo la relazione di riconoscimento è l’unità che fonda la socialità, la sua condizione di possibilità in quanto unico mezzo per arrivare ad un’identità duratura, e, quindi, benché l’individualità e la socialità siano il frutto del riconoscimento per lui questo si configura essenzialmente come ordine istituzionale. Con il suo modello antipsicologico e antifreudiano, Pizzorno vuole contrastare allo stesso tempo le teorie neoutilitarie e la teoria della scelta razionale, sottolineando l’intricato reticolo degli aspetti dell’identità, intesa come ruolo sociale, di gruppo, e non solo o principalmente come fatto biografico 37: il riconoscimento riflette l’entrata in scena dell’attore sociale, è una reciproca attribuzione di identità sia a livello individuale sia a livello collettivo. Il sociologo cerca di conciliare l’approccio individualista di Weber e quello olista di Durkheim 38 ponendosi sulla stessa linea di ricerca che attribuisce ad Habermas, anche se, ovviamente, facendo a meno dell’impianto linguistico-comunicativo. In Pizzorno ritroviamo la lotta per il riconoscimento come lotta per il significato, perché le attribuzioni di identità sono arbitrarie e vengono elaborate dall’osservatore 39. Ciò significa che il riconoscimento è un processo incerto e l’identità una realtà costruita socialmente. La relativizzazione dell’approccio intersoggettivo avviene anche se prendiamo in considerazione un approccio opposto e antitetico a quello di Pizzorno: la sociologia di Franco Crespi, per restare in ambito italiano, si presenta come una vera sociologia libertaria dove si afferma che l’individuo non può, in ultima istanza, essere subordinato al sociale se non sotto dei regimi autoritari e lesivi della libertà del singolo. La libertà espressa ontologicamente nel rapporto individuo-società 40 trova la propria dimensione nello sviluppo dell’identità personale attraverso il riconoscimento reciproco sancito socialmente. Tuttavia l’integrità dell’essere umano, dipende, anche per Crespi, dall’approvazione degli altri, ovvero dai rapporti di riconoscimento reciproco offerti dal mondo sociale e dalla rilevanza che essi hanno nello strutturare o meno il potere politico. “L’ndispensabilità dell’altro, il fatto che la mia autorealizzazione non può avvenire senza l’autorealizzazione dell’altro, sostituendo la logica mors tua vita mea con il principio vita tua vita mea, fonda la mia responsabilità nei confronti dell’altro e della sua autenticità, così come la responsabilità verso me stesso fonda la ricerca della mia autenticità” 41. Come in Mead, anche in Crespi troviamo il binomio riflessività dell’Io-costruzione sociale e politica, questa volta, più che per il primo, legato ad una chiara prospettiva progettuale che non sacrifica la relazione dell’individuo con la propria temporalità (passato e futuro) all’importanza del reciproco riconoscimento per lo sviluppo delle identità individuali e collettive.
La logica del riconoscimento
Grazie al confronto con Marx, che al filosofo critico serve per ricostruire una linea sociologica e filosofica a cui ancorare la propria proposta, siamo in grado di comprendere, invece, la logica honnettiana della moralità che soggiace al riconoscimento. Allo stesso tempo siamo in grado di individuare altri nuclei problematici irrisolti per la teoria del riconoscimento in questione. Entrambi i chiarimenti sono necessari per individuare le basi ontologiche-antropologiche che impongono ad Honneth di ignorare la comprensione del fenomeno del riconoscimento in politica.
Per capire il trattamento riservato a Marx è lecito partire dalla critica di fondo che gli viene mossa: “in nessun luogo Marx è riuscito a stabilire una connessione sistematica tra i due modelli del conflitto che così si fronteggiano nella sua opera matura, vale a dire l’approccio utilitaristico degli scritti di teoria economica e quello espressivistico degli studi storici: la tesi di fondo attinente a conflitti d’interesse economicamente condizionati convive senza mediazioni con la riconduzione relativistica di tutti i conflitti a contrapposte finalità di autorealizzazione” 42. Come è accaduto in modo ogni volta peculiare a Sorel e Sartre dopo di lui, per Honneth Marx non può assumere fino in fondo che la lotta di classe è un conflitto moralmente motivato, né è in grado di far emergere chiaramente che si sorregge su rapporti di riconoscimento e, perciò, in ultima istanza, sarebbe incapace di legare le finalità normative interne alla sua prospettiva filosofica al processo sociale della lotta di classe. Honneth spiega questo presunto limite interno alla filosofia marxiana tracciando sinteticamente il percorso teorico che impedirebbe al filosofo comunista di conciliare un’interpretazione morale dei conflitti sociali con una loro lettura utilitarista (che segnerà anche il successivo movimento marxista) 43, intese implicitamente come visioni inconciliabili. Il primo Marx di Honneth individuerebbe le condizioni del riconoscimento reciproco nella moralità propria del lavoro, sulla base di un’idea estetizzante-produttivisita dell’attività lavorativa (il lavoro viene inteso contemporaneamente come fattore produttivo ed espressivo), avanzando così una ristretta prospettiva morale incapace di localizzare adeguatamente l’alienazione perché non la situa nel tessuto relazionale del riconoscimento intersoggettivo. In questo Marx il riconoscimento verrebbe mediato dal lavoro, che è la condizione decisiva sia per la valorizzazione simmetrica e reciproca, sia per lo sviluppo dell’autocoscienza individuale: attraverso il lavoro vengono attribuite determinate capacità e viene riconosciuta nell’interazione la possibilità dei bisogni di un concreto partner. Quindi il conflitto di classe sarebbe una lotta per il riconoscimento perché si oppone al capitalismo che distrugge le relazioni di riconoscimento quando, alienando il lavoratore dai mezzi di produzione, impedisce il controllo delle sue attività e la cooperazione tra partner 44. Tale debolezza teorica presterebbe il fianco all’idea che il conflitto sociale possa essere mosso dai motivi utilitaristici della concorrenza tra interessi, e, dopo aver abbandonato l’approccio antropologico per spiegare lo sviluppo storico, a partire dalla Critica dell’economia politica, in Marx questa prospettiva morale cederebbe il posto ad un modello utilitaristico del conflitto sociale che fa della lotta di classe un conflitto per l’autoaffermazione economica 45. In questo momento l’autorealizzazione individuale per Marx non implicherebbe più automaticamente il riferimento riconoscitivo ad altri soggetti, come avviene quando parla di alienazione del lavoro. In altre parole, il Marx teorico dell’economia non parla più della possibilità di acquisire un lavoro autodeterminato in cui i soggetti si attestino reciprocamente come membri della stessa specie in quanto portatori di bisogni comuni. Il filosofo assumerebbe una prospettiva che non radica più la lotta di classe ad una filosofia della storia legata al modello hegeliano del riconoscimento 46. Honneth affianca a questo Marx quello che affronta il compito dell’analisi storico-politica, che, presumibilmente, va dal Manifesto del partito comunista alla Critica del programma di Gotha e che forgia un modello alternativo per la spiegazione del conflitto di classe. Il filosofo critico chiama tale modello espressivo: in questo momento per Marx il rapporto conflittuale dipende da convinzioni assiologiche che si riflettono nelle forme di vita culturalmente tramandate dove si fronteggiano attori collettivi orientati verso differenti valori che assicurano la loro identità 47.
Il conflitto che Honneth individua tra il modello utilitaristico, in cui non v’è più traccia della moralità propria al riconoscimento, e il modello espressivo, in cui ritrovare in controluce le istanze morali dei lavori giovanili, non regge se prendiamo gli scritti che, seguendo la partizione honnettiana, possiamo considerare “di cerniera” tra il Marx delle Tesi su Feuerbach, tutto rivolto all’emancipazione umana, e quello de Il Capitale, ormai convinto sostenitore di una scienza della modernità capitalista di cui tracciare analiticamente le leggi. Inoltre Honneth ritiene che in Marx si possano individuare le condizioni per un riconoscimento reciproco, benché esso non sia ancorato ad una dinamica intersoggettiva poiché limitato dall’idea dell’oggettività del lavoro e della produzione. Tuttavia, sempre prendendo in considerazione il “periodo cerniera”, è possibile dimostrare che nella sua ricostruzione, come nel caso di Mead, egli misconosca l’importanza del rapporto individuo-società/collettività. Ciò risulta, in ultima analisi, ancora più sorprendente perché tale rapporto costituisce il cuore dell’idea di riconoscimento che possiamo desumere da questi lavori marxiani.
Prendendo in considerazione quanto il filosofo moderno scrive nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 sul lavoro estraniato siamo in grado, per esempio, di chiarire come in Marx l’emancipazione umana avvenga attraverso una peculiare dinamica interna alla relazione individuo-specie presente nel lavoro: “proprio soltanto nella trasformazione del mondo oggettivo l’uomo si mostra quindi realmente come un essere appartenente ad una specie. (…). L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie, in quanto egli si raddoppia, non soltanto come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da esso creato. Perciò il lavoro estraniato strappando all’uomo l’oggetto della sua produzione, gli strappa la sua vita di essere appartenente ad una specie (…). In generale, la proposizione che all’uomo è reso estraneo il suo essere in quanto appartenente a una specie, significa che un uomo è reso estraneo all’altro uomo, e altresì che ciascuno di essi è reso estraneo all’essere dell’uomo” 48. Nella peculiare divisione del lavoro e con la proprietà privata, la società capitalista rende estranea all’essere umano la propria condizione naturale (l’essenza umana), ovvero la dimensione sociale dell’esistenza resa evidente con il lavoro, che solo il comunismo sarà in grado di superare prendendo l’attività sociale per quello che è, ovvero attività immediatamente comune 49. Con la fine della proprietà privata l’individuo si riapproprierà del suo essere sociale, e, quindi, della totalità delle manifestazioni vitali che fanno di lui un essere totale 50: “abbiamo visto che l’uomo non si perde nel suo oggetto soltanto quando questo diventa per lui o un oggetto umano o un uomo oggettivo. Il che è possibile soltanto qualora l’oggetto diventi per lui un oggetto sociale ed egli stesso diventi per se stesso un essere sociale, allo stesso modo che la società diventa per lui un essere in questo oggetto. (…). L’uomo ricco è ad un tempo l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la sua propria realizzazione esiste come necessità interna, come bisogno” 51. Attraverso la liberazione del lavoro, che significa possibilità concreta di controllare il proprio lavoro e il suo prodotto oltre che di avere la libertà di lavorare, l’essere umano si riscopre come l’essere sociale e universale quale è: è difficile pensare che Honneth si riferisse ad un’altra idea di riconoscimento, e ostico comprendere perché non vi sia traccia della relazione individuo-società nella sua ricostruzione. Di sicuro ciò gli ha impedito di cogliere il momento in cui Marx teorizza un’emancipazione che conserva allo stesso tempo l’istanza utilitaria e l’istanza morale, ovvero l’elaborazione del materialismo storico presente nell’Ideologia tedesca. Questo testo è la base dei successivi lavori di teoria economica 52 anche se conserva, allo stesso tempo, l’attenzione al problema dell’alienazione del periodo precedente 53. Qui Marx sostiene che il conflitto sociale rivoluzionario che porterà al comunismo non vada pensato semplicemente come affermazione di interessi di parte, o come l’espressione di una forma di vita che conserva un orientamento al valore differente dalla classe dominante, ma, principalmente, come un conflitto che abolirà le condizioni di esistenza di tutta la società istituita per costituirne una nuova dove l’interesse comune e generale possa prevalere e gli individui siano riconosciuti come tali 54. In altre parole, l’interesse generale è portato dalla storia universale come emancipazione dalla estraniazione del lavoro per ogni singolo individuo, che si riapproprierà di sé entrando in relazione con l’interesse generale: “nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (…). Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista (…) e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale (…).” 55. Insomma, l’istanza utilitaria e quella morale sono talmente sovrapposte da risultare un’unica prassi storica di emancipazione individuale e collettiva.
A questo punto una domanda è ineludibile: perché Honneth ha ignorato il legame profondo che l’istanza del riconoscimento e quella dell’interesse hanno in Marx? A ben vedere la distinzione tra logica del riconoscimento e logica utilitaria sembra più il portato di un presupposto interno allo sguardo del filosofo critico che quanto avvenga nella teorizzazione marxiana. Per rispondere a questa domanda, risulta decisivo chiarire che tipo di logica morale soggiace al riconoscimento honnettiano.
In Honneth la moralità del riconoscimento può essere guardata da due prospettive: da un lato si esprime attraverso la costituzione dell’identità personale come autorelazione riconoscitiva sostenuta dall’individualizzazione singolare e dall’inclusione sociale (entrambe sviluppate intersoggettivamente), dall’altro si esprime come valorizzazione dell’autonomia individuale 56. La sua logica di base è quella della liberazione dei potenziali della soggettività attraverso delle aspettative di riconoscimento che tutti i soggetti hanno nei confronti dell’interazione sociale intesa in ogni suo aspetto: il ruolo dei rapporti di riconoscimento veicolati dai sentimenti morali sono le condizioni dell’autorealizzazione umana 57. Tale base socio-ontologica-antropologica viene integrata con una lettura della modernità capitalista e con l’idea che la realizzazione morale avvenga solo eticamente, ovvero all’interno di una peculiare organizzazione sociale e storica: “l’interesse fondamentale nel riconoscimento sociale è sempre modellato sostantivamente dai principi normativi determinati dalle strutture elementari del mutuo riconoscimento all’interno di una formazione sociale data. Da questo segue la conclusione che, per il momento, dovremo orientare un’etica politica o una moralità sociale sui tre principi di riconoscimento che, all’interno delle nostre società regolano quali aspettative legittime di riconoscimento possano esserci fra membri della società. Quindi, solo i tre principi dell’amore, dell’eguaglianza e del merito determinano assieme quello che dovrebbe ora essere interpretato dall’idea di giustizia sociale” 58. Questi tre principi, generalmente indicati da Honneth come amore-diritto-solidarietà, sono tre diverse forme o elementi strutturali del riconoscimento della società moderna che garantiscono le condizioni della libertà interna ed esterna, poiché l’autonomia individuale e il carattere egualitario la segnano in profondità, come hanno sostenuto anche Mead e Hegel 59. Ma la relazione tra autonomia-eguaglianza e riconoscimento è circolare: “per godere della propria autonomia, i soggetti individuali hanno diritto, in un certo qual modo, a essere riconosciuti in riferimento ai loro bisogni, alla loro eguaglianza giuridica o ai loro contributi sociali, a seconda del tipo di relazione sociale in discussione” 60. Anche se apparentemente si potrebbe credere che per Honneth il legame tra autonomia e riconoscimento sia fondativo, dal suo lavoro si può desumere che ciò si dà pienamente solo per la società moderna. Il filosofo critico specifica che a livello antropologico, infatti, dobbiamo parlare di un’eticità del riconoscimento che non assume un carattere sostanziale ma che, al contrario, deve giocare il ruolo esclusivo di condizione di possibilità formale per il dispiegarsi dell’autonomia individuale 61. Nonostante questa rassicurante distinzione, dal suo discorso emerge con evidenza che il livello antropologico del riconoscimento (morale ed etico) sia già attraversato dalla finalità dell’autonomia individuale 62, sancendo così una commistione discutibile tra riconoscimento e vita buona 63 che ci consegna una realtà intrinsecamente positiva del processo di riconoscimento 64 e che assume tutta la sua forza nella modernità (dove è palese che le relazioni intersoggettive siano la condizione dell’autonomia individuale). Ma siamo davvero sicuri che il riconoscimento, come dimensione antropologica, sia immediatamente carico di una valenza positiva e legato all’autonomia umana? Non si sta in questo caso facendo l’errore di estendere al fenomeno del riconoscimento la forma che assume nella modernità? Inoltre, questo presupposto non inficia l’analisi della modernità e la concezione del conflitto sociale, restituendoci una società capitalista sostanzialmente positiva e una visione irenica dei conflitti sociali? Questi interrogativi ci spingono a indagare ancora la logica morale, per comprendere il tipo di idealità che la innerva, e arrivare a chiarire il possibile motivo di tale positività interna, così da sciogliere anche l’enigma del misconoscimento del legame tra riconoscimento e interesse in Marx.
Come abbiamo visto, se ci soffermiamo sul livello antropologico, il riconoscimento intersoggettivo è un’esigenza generale profondamente radicata che si regge sulle aspettative reciproche di rispetto della soggettività 65. Il conflitto che nasce sulla base delle offese di queste aspettative può essere allora inteso come un’istanza mossa da una pretesa di accettazione di sé rivendicata all’altro e spostata nel futuro sulla base della violazione della norma di riconoscimento data per sancita e ritenuta violata. Perciò il motivo del conflitto è la violazione di aspettative ritenute valide e necessarie per rispettare la propria individualità, considerate acquisite normativamente dalla realtà sociale e mosse dalla necessità dell’individuazione psichica 66. Il riconoscimento, quindi, viene rivendicato per il nostro futuro ed è stato dato per scontato nel nostro passato: lo si pretende sulla base di un’aspettativa, cercando di rendere reale il mancato rispetto della soggettività e, di conseguenza, stimolandone la sua possibile nascita tramite una pretesa morale. La lotta per il riconoscimento si regge, in sostanza, su una doppia ipotesi morale: il riconoscimento è la norma di base dell’interazione sociale e dell’individuazione personale e, se violato, va ristabilito in futuro presupponendolo come norma da anticipare nel presente sotto forma di richiesta vincolante. Ciò diventa evidente nel conflitto sociale dove i torti subiti derivano dall’interpretazione in termini di critica sociale dei sentimenti di misconoscimento condivisi da un intero gruppo. “Il significato assunto dalle particolari lotte che si svolgono di volta in volta si commisura perciò al contributo positivo o negativo che esse sono riuscite a dare alla realizzazione di forme non distorte di riconoscimento. Questo criterio non può essere ricavato indipendentemente dall’anticipazione ipotetica di una situazione comunicativa nella quale appaiono realizzate le condizioni intersoggettive dell’integrità personale” 67. E’ su questa base che Honneth può affermare che il processo di formazione morale ha un suo carattere idealistico: il potenziale normativo del riconoscimento reciproco s’è dispiegato lungo una successione idealizzata di lotte 68. Dunque, il riconoscimento è, e non può che essere, autotelico: non ha altro fine che la sua realizzazione. Perciò il conflitto che fa nascere viene interpretato da Honneth come il motore dell’evoluzione sociale e del progresso morale. Benché in Lotta per il riconoscimento egli stesso affermi che non tutti i contrasti sono intesi in base al medesimo modello di una lotta per il riconoscimento e che non tutte le forme di opposizione possono essere ridotte alla lesione di pretese morali, in quello stesso testo la sua tesi principale si appoggia ai lavori di Thompson e Moore ed è quella che nel tempo verrà assunta senza incertezza: i conflitti collettivi nascono da una privazione del riconoscimento sociale69. In questo testo il filosofo critico ritiene ancora che esistano due modelli di conflitto che debbano integrarsi, quello utilitaristico e quello del riconoscimento 70. Lungi dallo spiegare successivamente il modo in cui questi due modelli si integrano reciprocamente, Honneth affermerà nel tempo il primato del primo sul secondo, sopratutto, e in modo esplicito, nel confronto critico con la filosofa Nancy Fraser: i diversi conflitti sociali, da quelli che rivendicano richieste di tipo economico a quelli legati alla difesa della diversità culturale, sono tutti espressione del conflitto per il riconoscimento. Honneth, in altre parole, rivendica una purezza al conflitto per il riconoscimento, considerato originario rispetto agli altri e mai intaccato da finalità o motivi legati all’interesse o al potere, oppure, nel caso si esca fuori dal quadro normativo, dal dominio o dalla violenza. Tale purezza normativa si nutre di una logica analoga a quella usata da Habermas nel tracciare la distinzione tra agire orientato all’intesa e agire orientato al successo, dove il primo costituisce un agire comunicativo unicamente mosso dalla finalità cooperativa mettendo completamente in opera le potenzialità di intesa del linguaggio e costituendo una delle due logiche, quella pratico-normativa, che informano l’evoluzione sociale (Teoria dell’agire comunicativo). Anche per Habermas si tratta di evidenziare la purezza comunicativa interna all’agire orientato all’intesa, benché per lui la normatività non sia un presupposto sociale ma l’esito del processo argomentativo. In entrambi i filosofi la purezza normativa permette un duplice movimento: spiegare la realtà sociale e criticarla. La differenza è che Habermas ne fa uno strumento della ricostruzione teorico-critica, mentre Honneth la desume criticamente come determinante presupposto antropologico per la società (la nostra in particolare) 71.
A ben vedere è proprio questa logica normativa il motivo che sta alla base del disaccordo tra Honneth e Fraser: la purezza normativa del riconoscimento porterà il primo a sussumere l’autonomia umana sotto le condizioni del riconoscimento, mentre la seconda costruisce una proposta critica in cui non solo si ribalta tale rapporto, perché si individua nella parità partecipativa, chiara espressione dell’autonomia umana 72, il nucleo normativo che ci permette di valutare l’ingiustizia sociale, ma si assume tale parità in diverse manifestazioni di ordine sociale (la forma economica e quella culturale). Ciò significa che il nucleo normativo della Fraser non rivendica una purezza normativa e si ricava da due distinte forme del conflitto sociale, le lotte per la redistribuzione e quelle per il riconoscimento: la politica dell’eguaglianza e la politica della differenza sono conflitti di natura diversa in cui l’esigenza di parità partecipativa si esprime in modo differente. Come per Marx, anche per la Fraser, quindi, non c’è né ci può essere una distinzione sostanziale tra l’emancipazione e l’interesse, il riconoscimento e la redistribuzione 73: la parità partecipativa prende contemporaneamente la forma di una lotta contro la gerarchia di status e di una lotta contro la diseguaglianza di classe. Inoltre, sostenuta da questa convinzione, la Fraser individua altri due nuclei problematici e irrisolti della teoria del riconoscimento honnettiano, rispettivamente sul piano sociale-storico e su quello del singolo individuo. In primo luogo, infatti,la filosofa sottolinea a ragione come Honneth postuli un primato dell’integrazione morale che lo costringe a considerare il capitalismo esclusivamente dal punto di vista del riconoscimento 74. Il che risulta alquanto discutibile anche senza seguire le argomentazioni della Fraser: che il motore dell’evoluzione della società capitalista sia la moralità interna al riconoscimento umano sembra scontrarsi con le trasformazioni della società contemporanea, basti pensare alle analisi che, da prospettive diverse, importanti pensatori come Castoriadis, Bauman e Illich 75 hanno svolto circa l’evoluzione “recente” delle nostre società. In secondo luogo la Fraser ricorda a Honneth una questione abissale: prendendo distanza dalla concezione che colloca il riconoscimento al livello dell’identità completa della persona che rivendica il rispetto di sé, la filosofa nordamericana si limita a individuare il riconoscimento nell’eguaglianza di status, spostando così la questione su un piano empirico e sociale e sottraendola dall’oscurità a cui sembra votata 76. In effetti, il riconoscimento dell’identità appare cosa assai dubbia, anche se legato alla logica dell’aspettativa morale. Infatti, sarebbe complicato rispondere a alcune domande mantenendo l’idea che il riconoscimento è relativo all’identità come fa Honneth: siamo sicuri che il riconoscimento ci permette sempre di superare l’ignoranza che abbiamo di noi stessi 77? e se le aspettative di riconoscimento fossero diverse da quelle legate all’essere allo stesso tempo soggetto autonomo e individuato? Chi ci permette di escludere dalla costruzione dell’identità la ricerca della sofferenza o la volontà di annichilimento? Se parliamo di aspettative di riconoscimento, e non di riconoscimento dell’identità, perché allora non intendere il riconoscimento del Sé come riconoscimento della propria volontà come fa Nietzsche? E, prendendo sempre spunto da Nietzsche, cosa ci legittima a escludere dalla costruzione dell’identità e dal conflitto sociale l’offesa, la violenza, lo sfruttamento e l’annientamento, o di interpretarlo esclusivamente come oblio del riconoscimento?
Insomma, dopo aver constatato un deficit significativo del riconoscimento in ambito politico a causa del misconoscimento della realtà collettiva e di quella individuale all’interno del suo paradigma intersoggettivo, e aver individuato sia nella purezza normativa, base del primato del riconoscimento per la spiegazione del processo conflittuale sociale e del progresso morale (che informerebbero la politica), sia nel doppio vincolo antropologico che lega il riconoscimento ad un’istanza di autonomia umana, i presupposti di tale impostazione, diventa urgente una nuova comprensione del fenomeno del riconoscimento umano che ci permetta di evitare di compiere gli stessi errori d’analisi. Per farlo bisogna individuare altri presupposti per il riconoscimento. Perciò, per concludere, affronterò il problema antropologico e politico che resta di nuovo sul tappeto, abbozzando una proposta in grado di fare tesoro dei problemi individuati e di evidenziare una creazione politica dove si evinca chiaramente la dinamica peculiare del riconoscimento.
Da un’altra antropologia del riconoscimento, il riconoscimento politico.
Quale fenomeno umano può, allo stesso tempo, rendere conto del riconoscimento ed evitare di incappare tanto nella purezza normativa quanto nel doppio vincolo originario tra autonomia e riconoscimento? E’ possibile un riconoscimento che non sia immediatamente espressione dell’autonomia umana e che s’intrecci ad altre finalità che non siano quelle del riconoscimento stesso? Se vogliamo evitare d’incappare in entrambi i presupposti è necessario cercare di restituire il fenomeno ad un orizzonte più ampio, estendibile all’intera storia umana. Tutto ciò è possibile? Dai lavori dell’antropologia e della filosofia contemporanea sembrerebbe di si. La relazione che si instaura con la realtà antropologica del dono, infatti, è in grado di evitare i problemi irrisolti dell’approccio honnettiano: il dono si configura come il frutto di uno scambio non fondato sulla dinamica intersoggettiva, benché non la prescinda, in grado di veicolare un sistema di riconoscimento collettivo.
Come chiarisce giustamente Ricoeur, nello scambio di doni i partner sociali fanno esperienza di un riconoscimento reale, attraversato da una tensione generata dai conflitti potenziali che si sviluppa tra la generosità e l’obbligo che ne segna la natura interna 78. Inoltre, grazie al Saggio sul dono di Marcel Mauss siamo in grado di cogliere il dono per quello che è, ovvero principalmente un’affermazione del legame sociale. “Da queste osservazioni su alcuni popoli melanesiani e polinesiani scaturisce già una immagine ben ferma del regime del dono. La vita materiale e morale, lo scambio, vi operano sotto una forma disinteressata e obbligatoria nello stesso tempo. L’obbligazione, di cui si tratta, si esprime, inoltre in modo mitico, immaginario, e se si vuole, simbolico e collettivo: essa assume l’aspetto dell’interesse, legato alle cose oggetto di scambio, le quali non sono mai completamente svincolate dagli individui che le scambiano; la comunione e la colleganza che esse stabiliscono sono relativamente indissolubili. In realtà, questo simbolo della vita sociale -il permanere della influenza delle cose scambiate – non fa che esprimere, abbastanza direttamente, il modo in cui i sottogruppi di queste società frammentate, di tipo arcaico, sono costantemente connessi reciprocamente e sentono di doversi tutto. (…). In Melanesia e in Polinesia, i doni circolano, come abbiamo visto, accompagnati dalla certezza che saranno ricambiati, con la “garanzia” insita nella cosa donata, che è, essa stessa, questa “garanzia”. Ma, in tutte le società possibili, la natura peculiare del dono è proprio quella di obbligare nel tempo. Per definizione, un pasto in comune, una distribuzione di kawa, un talismano che si porta via non possono essere ricambiati immediatamente. Per eseguire ogni controprestazione è necessario il “tempo”. (…). Le osservazioni che precedono possono essere estese alle nostre società. Una parte considerevole della nostra morale e della nostra stessa vita staziona tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e, insieme, della libertà” 79. Il donare come impegno di reciprocità e il dono come riconoscimento della relazione viene riconosciuto da più parti 80. La sua conflittualità interna potrebbe essere l’espressione della tensione propria alla relazione come tale: la libertà e l’obbligo del dono, la sua forma allo stesso tempo disinteressata e obbligatoria che impone un obbligo da onorare nel tempo, e quindi il legame, esprimono in realtà la tensione tra riconoscimento e arbitrarietà del legame. O meglio, la tensione tra il riconoscimento del legame come obbligatorio in quanto tale e riconoscimento dell’arbitrarietà del legame specifico. Il dono, come forma di riconoscimento di fondo della nostra esperienza sociale non comporta, inoltre, a differenza di quanto sancisce Honneth, una moralità positiva, ma può prendere due strade ben distinte: da una parte innescare una reciprocità negativa del debito sociale che dà vita al circolo vizioso della vendetta in cui la relazione si fonda sulla violenza e su uno sguardo sempre rivolto al passato, dall’altra una reciprocità positiva del debito in cui il dono instaura una relazione di fiducia come un circolo virtuoso dello scambio. Se Mauss chiarisce bene questa doppia natura del dono parlando del potlach, è Mark Anspach che sottolinea la logica distinta tra un dono vero e proprio, che anticipa la reciprocità, e la differente logica del debito che si può trovare nella vendetta 81. Lo stesso Anspach parla di imperativo paradossale del dono, o di sua oscillazione senza fine, per ricordare il duplice carattere di obbligo e libertà che lo fa vivere. “La definizione stessa del dono implica la libertà di risposta; lo scambio positivo potrebbe benissimo non aver luogo. Eppure sappiamo che i doni circolano. Il problema è spiegare perché circolano. E il problema si complica, sopratutto nel caso dello scambio diretto, per il fatto che qualsiasi spiegazione determinista univoca minaccia di rimettere in discussione la definizione iniziale. Se si tratta di un dono, com’è possibile che colui che ha ricevuto sia obbligato a renderlo? E se colui che ha ricevuto è obbligato a renderlo, come può trattarsi di un dono?” 82.
La prima conclusione sulla natura del riconoscimento è che la realtà antropologica del dono, inteso come sistema di scambio spontaneo e diffuso in tutte le società, va intesa come riconoscimento della socialità che si instaura attraverso un complesso sistema di istituzioni e pratiche sociali, grazie all’azione del donare, veicolo di costruzione di un legame nel presente per il futuro. La socialità riconosciuta, così intesa, conserva in sé il duplice aspetto di necessità e arbitrarietà che abbiamo appena ricordato e diventa il primo contenuto di qualsiasi relazione umana e del sistema delle relazioni e delle istituzioni che costituisce qualsiasi società.
Alla logica della dipendenza non totale dal legame, ricavata dallo studio antropologico contemporaneo, si deve affiancare una domanda decisiva: la stessa logica è rintracciabile a livello individuale, nella costruzione dell’identità personale? Se viene meno l’impianto intersoggettivo e normativo del mutuo riconoscimento del Sé, come possiamo comprendere il fenomeno dell’obbligo e della libertà nel legame sul piano della costruzione dell’identità? Ancora una volta, e in maniera più cogente di prima, è Ricoeur che ci permette di ricavare la libera interdipendenza, in cui l’individuo può scegliere il proprio legame, come espressione del riconoscimento umano. Il filosofo francese sostiene che l’identità sia in se stessa il frutto della dialettica tra innovazione e sedimentazione soggiacente al processo d’identificazione e che, grazie al fatto che la letteratura sia un vasto laboratorio per le esperienze del pensiero, sia possibile ricavare il modello ideale di una identità narrativa per rendere bene il fenomeno umano in cui si integra nel tempo la permanenza e la discontinuità 83. Avvicinandosi alle tesi sulla progettualità dell’individuo di Mc Intyre e Sartre, il filosofo francese ritiene che l’identità si divida in Ipse e in Idem, costituendosi come identità dinamica, composta dalla dialettica tra le identificazioni successive come continuità del medesimo e dalla singolarità personale e imprevedibile che ogni volta emerge. Nell’identità dinamica di Ricoeur la possibilità di identificare sempre e di nuovo se stessi passa per una dialettica che deve prevedere la capacità di accettare la nuova posizione assunta nel tempo, la nuova identità emersa. In questo caso c’è un obbligo implicito all’individuazione di Sé, che è necessario per costituirsi come identità, e una libertà legata alla trasformazione che rende questo costituirsi ogni volta nuovo. Il legame con se stessi, con quello che siamo e siamo stati, è ogni volta diverso perché fondamentalmente temporale 84. Inteso in questo modo, il processo di costituzione dell’individualità non può fare a meno di riconoscersi continuamente in ciò che resta e in ciò che cambia di Sé, come avviene se assumiamo l’antropologia del dono a livello sociale.
Il riconoscimento a cui perveniamo in filigrana è in sostanza l’accettazione di una nuova posizione (prima non considerata) da parte di Sé e dell’altro (sia nella sua dimensione intersoggettiva sia in quella sociale). In altre parole, la realtà del dono e la costruzione temporale dell’identità ci consegnano una tesi di fondo diversa da quella di Honneth: il riconoscimento non è altro che l’accettazione del sociale-storico che ci pervade.
Davanti al riconoscimento così inteso è possibile capire che la sovrapposizione con l’autonomia umana, intesa come capacità di darsi le proprie regole e finalità, interna al processo costitutivo di Sé, non può che essere il portato di un’evoluzione sociale-storica successiva rispetto alla realtà antropologica del riconoscimento. Honneth la trasforma in una regola morale che diventa la finalità stessa del riconoscimento, mentre invece, come appena chiarito, essa è il portato dell’accettazione del legame come socialità e come individuazione, a prescindere dalla positività di quanto si sta riconoscendo. Riportando il discorso sul livello dell’aspettativa di riconoscimento che segnerebbe il conflitto, possiamo dire che nel caso del riconoscimento come accettazione del sociale-storico l’aspettativa non sarebbe sull’identità come data (considerata come determinata) né sulla normatività necessaria per lo sviluppo di Sé, ma sarebbe un’aspettativa propria al nuovo legame che si sta proponendo, per Sé e per gli altri. Come fosse una richiesta esplicita d’accettazione, di una dipendenza non totale: prima di una vera e propria realizzazione di Sé e dell’aiuto che si può dare per fare che gli altri si realizzino, il riconoscimento umano permette la libera interdipendenza, un legame senza dipendenza totale.
Da questa prospettiva il legame tra solidarietà e autonomia deve essere compreso come secondo, successivo, ma non può fare a meno della realtà del riconoscimento umano.
Questa realtà, benché distinta dall’autonomia umana, rappresenta una virtualità imprescindibile per il suo sviluppo e possiamo intravederla anche a livello politico in alcune forme di organizzazione sociale democratica. Se guardiamo al riconoscimento dal punto di vista della creazione umana, inoltre, risulterà scontato considerare il fatto che tale pratica prende una forma umana peculiare ogni volta che si cerca di valorizzare coerentemente la sua realtà antropologica sul piano politico. Il passaggio dal livello antropologico a quello politico (ma anche a quello etico), non necessario, è il frutto di una scelta da chiarire in altra sede. Tuttavia, siamo in grado di indicare almeno una forma sociale-storica contemporanea in cui tale passaggio è avvenuto in maniera quasi esemplare: il bilancio partecipativo di Porto Alegre (Op) si presenta esplicitamente come una pratica politica da cui ricavare una forma generale e generalizzabile di riconoscimento in politica.
Nata come il frutto di condizioni sociali-storiche e politiche particolarmente favorevoli 85, la democrazia partecipata di Porto Alegre ha integrato il bilancio partecipativo come momento fondamentale del sistema politico, realizzando un modello misto di cogestione della sfera pubblica che vede integrarsi forme del politico diverse: la componente repubblicana dello stato di diritto si integra con la “rappresentanza” partitica (Stato liberal-democratico), la delega popolare e la democrazia assembleare (Op). Il processo di integrazione è, in altre parole, uno strumento di democratizzazione del potere repubblicano, ancora intriso di forme oligarchiche e autocratiche del potere 86, attraverso l’istituzione di pratiche di partecipazione al potere, diffuse e allargate alla popolazione nel suo complesso. In sostanza l’Op è costituito da un ciclo di assemblee popolari (di tipo municipali e tematiche), dal consiglio dell’Op, da riunioni da parte del governo e da assemblee della camera dei rappresentanti che si sviluppano nell’arco di tutto l’anno 87. Tramite le assemblee e il consiglio dell’Op, la partecipazione civica sceglie le priorità del bilancio, gerarchizza le opere e i servizi decisi collettivamente, stabilisce le direttrici per le politiche settoriali della città tramite dei delegati (rappresentanti veri e propri in proporzione di uno a dieci). Il consiglio, costituito da 32 consiglieri regionali e 10 consiglieri di tipo tematico, si riunisce settimanalmente. Il potere governativo presta allo stesso tempo informazioni tecniche per aiutare la discussione delle assemblee e presenta delle proposte di opere e servizi, tramite i coordinatori regionali del bilancio partecipativo, gli assessori della pianificazione, dei Forums, e gli assessori comunitari. Governo, assemblee e organi dei delegati decidono quindi il bilancio pubblico e il piano delle opere. Da parte sua la camera comunale dei rappresentanti valuta il processo di legge del governo della città, propone emendamenti, elabora la redazione finale della legge di bilancio, senza poterne aumentare la spesa 88.
La sovranità popolare che tale sistema politico instaura si regge su un circolo virtuoso in atto formato da un’istanza del potere pubblico aperta alla partecipazione di tutti e dall’autotrasformazione consapevole del processo: il percorso di decisione economica assume un metodo di autolegislazione esplicita e annuale delle norme che regolano l’intero ciclo 89. Se quest’ultimo aspetto è segno di una chiara tendenza all’autonomia politica, il primo, che fa dell’interesse comune il frutto della partecipazione di tutti, è, invece, il versante solidale del sistema. “La partecipazione diretta del cittadino nella definizione delle priorità, nell’elaborazione del bilancio, del piano degli investimenti e servizi, e della gestione pubblica permeati e articolati dalla solidarietà, ha reso possibile la costruzione di una pianificazione effettivamente partecipativa. (…). Questa coscienza non è frutto di un procedimento premeditato e dogmatico, condotto da una élite in modo diretto o attraverso i media, ma è invece originario della scoperta della forza della prassi collettiva da parte dei cittadini comuni, dove la solidarietà è il filo conduttore attraverso il quale la coscienza sociale è partorita da ogni cittadino nel tempo” 90. Dietro questa solidarietà si cela la sostanza del riconoscimento politico: nell’istituzionalizzazione politica della partecipazione paritaria di tutti alla decisione dell’interesse comune si assumono i due versanti del riconoscimento umano, ovvero il riconoscimento della socialità (che abbiamo visto nel sistema del dono) diventa norma di accettazione dell’apertura del processo alla partecipazione di tutti, ovvero della componente temporale che permette il cambiamento.
Insomma, qual’è la fisionomia del riconoscimento politico?
Grazie all’esperienza di Porto Alegre è possibile concludere che il riconoscimento in politica non è riconoscimento della propria identità collettiva, ma l’accettazione dell’eguale potere collettivo di ognuno, o meglio e più in generale, l’accesso alla partecipazione al potere. Grazie a quest’esperienza ci troviamo di fronte ad una forma del riconoscimento in politica interna alla prassi di libera eguaglianza della compartecipazione a quanto è comune, ricavabile esclusivamente dalle forme democratiche che hanno istituzionalizzato il principio del potere di tutti come fondamento della legittimità e della cittadinanza politica. Tale forma di riconoscimento, infine, sembra prestarsi ad una generalizzazione visto che in passato il riconoscimento dell’eguale potere in politica s’è incarnato anche in alcune pratiche di sorteggio e di rotazione dei ruoli di potere collettivo che hanno segnato diversi contesti sociali-storici (da Atene del V secolo alle Repubbliche italiane), come ha recentemente ricordato con lucidità Yves Sintomer 91. Perciò il riconoscimento in politica va considerato non solo come un’istanza centrale all’interno del processo di emancipazione dall’alienazione del carattere sociale-storico dell’istituzione, ma sopratutto la base imprescindibile della progettualità collettiva che, con Castoriadis, Arendt e Capitini, chiamiamo autonomia sociale.
NOTE
- Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002. Di seguito prenderò in considerazione anche le risposte che Honneth da alle obiezioni della filosofa politica nordamericana Nancy Fraser in Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, Meltemi, Roma 2007. ↩
- Emanuele Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis, Mimesis edizioni, Milano 2010, pp. 164-69. ↩
- La tesi ontologica viene con più forza evidenziata in diversi passaggi, e complessivamente, nel lavoro Axel Honneth, Reificazione. Uno studio in chiave di teoriaa del riconoscimento, Meltemi editore, Roma 2007. ↩
- Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, pp. 192-3. ↩
- Ibid, p. 104. ↩
- Ibid, pp. 99-104. ↩
- Ibid, pp. 104/108. ↩
- Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, pp. 202-3. ↩
- L’approccio generale emerge chiaramente quando Honneth affronta la realtà del diritto, intesa esplicitamente come analisi concettuale correlata da riferimenti empirici. Per il resto si veda Axel Honneth, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, Dedalo Edizioni, Bari 2002 e Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, op. cit., p. 154. ↩
- Si veda quanto Honneth afferma esplicitamente nella nota 2 del quarto capitolo: Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, p. 221. Delle 24 pagine dedicate all’opera di Mead, 17 (pp. 96-113) si riferiscono direttamente a Sé, Mente e Natura, mentre le restanti risentono chiaramente della centralità che esso assume in Mead. ↩
- Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, pp. 89. ↩
- Ibid., p. 94. ↩
- “(…): come con il passaggio al game il bambino acquista la capacità di orientare il proprio comportamento a una regola tratta dalla sintesi delle prospettive di tutti i compagni di gioco, così il processo di socializzazione si compie in generale nella forma di un’interiorizzazione di norme di condotta derivanti dalla generalizzazione delle aspettative di comportamento di tutti i membri della società. Imparando a generalizzare le attese normative di un numero sempre maggiore di partner nell’interazione fino ad arrivare alla rappresentazione di norme sociali d’azione, un soggetto acquista la capacità astratta di partecipare alle interazioni normativamente regolate del suo ambiente”. Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, p. 97. ↩
- Ibid, p. 98. ↩
- Ibid, p. 105. ↩
- Ibid, pp. 109-113. ↩
- Ibid., p. 108. ↩
- George H. Mead, Mente sé e società. Dal punto di vista di uno psicologo comportamentista., Ed. Giunti, Firenze 1966, p. 111. ↩
- Ibid, p. 110. ↩
- Ibid, pp. 74 e 96. ↩
- Ibid, p. 110. ↩
- Ibid, p. 172. Il processo è chiaramente frutto della relazione società-individuo: “E’ sotto la forma dell’ “altro generalizzato” che il processo sociale influenza il comportamento degli individui in esso implicati e che a loro volta lo sviluppano; in altre parole, è sotto questa forma che la comunità esercita il suo controllo sulla condotta dei singoli membri; perciò è in questo modo che il processo sociale o la comunità si inseriscono come fattore determinante nel modo di pensare dell’individuo. Nel pensiero astratto l’individuo assume l’atteggiamento dell’”altro generalizzato” nei propri confronti, trascurando l’espressione di esso in altri particolari individui.”. Ibid, pp. 171-2. ↩
- Ibid, pp. 170-1 e 177. In diverse occasioni Mead esprime chiaramente questa idea: “Ciascun “Sé” individuale, all’interno di una data società o comunità sociale, riflette nella sua struttura organizzata l’intero modello relativo di comportamento sociale, che quella società, o comunità, rivela o sta sviluppando, e le sue strutture organizzate e costituite da questo modello (…).” . Ibid. p.212. ↩
- “(…) gli individui compresi nel generale processo sociale, del quale le istituzioni sociali sono manifestazioni organizzate, possono sviluppare o acquisire dei “Sé”, o personalità del tutto mature, solo in tanto in quanto ciascuno di essi individui riflette o accoglie, nella sua esperienza individuale, questi atteggiamenti sociali organizzati e quelle attività di cui le istituzioni sociali sono l’espressione o che le istituzioni sociali rappresentano. (…). In altre parole il generale modello di comportamento sociale o di gruppo, che è riflesso nei rispettivi atteggiamenti organizzati (…) dell’individuo implicato, ha sempre una relazione più ampia per quegli individui (…), vale a dire, una relazione che lo trascende, con un più ampio ambiente sociale o contesto di rapporti sociali che lo implicano, e dei quali esso è solo una parte più o meno limitata”. Ibid, pp. 265 e 274 (si veda anche la nota 15). ↩
- Ibid, pp. 298-9, 205-6, 257. ↩
- Ibid, p. 207. ↩
- Ibid, pp. 173-4.“Così il “Sé” approda al suo completo sviluppo attraverso il processo di organizzazione di questi singoli atteggiamenti sociali e di gruppo organizzati, in tal modo riflettendo al livello individuale il generale modello sistematico di comportamento sociale o di gruppo nel quale esso e tutti gli altri sono implicati (…).”. Ibid, p. 174. ↩
- Ibid, p. 212. ↩
- Ibid, p. 200. ↩
- Ibid, p. 214. ↩
- Ibid, pp. 297 e 300. ↩
- Ibid, p. 304 (nota 19). ↩
- Jürgen Habermas e Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 9-62. Scrive a p. 17:“Questo aspetto cruciale della vita umana è il suo carattere fondamentalmente dialogico. Noi diventiamo degli agenti umani pienamente sviluppati, capaci di comprendere noi stessi e quindi di definire la nostra identità, attraverso l’acquisizione di un ricco linguaggio espressivo umano. Qui, per i miei scopi, prenderò il termine linguaggio in un senso ampio, che non copre soltanto le parole che pronunciamo ma anche altri modi di espressione coi quali definiamo noi stessi, ivi compresi i “linguaggi” dell’arte, della gestualità, dell’amore e via dicendo.” ↩
- Ibid, p. 70. Per una sintesi della posizione habermasiana si vedano pp. 73 e 93. ↩
- “In tal caso, realizzando diritti soggettivi eguali, il processo democratico può anche estendersi alla tutela di pari diritti di coesistenza per i differenti gruppi etnici e per le loro sfere culturali. A tal fine non occorrono fondazioni speciali o principi alternativi. Infatti, da un punto di vista normativo, l’integrità della singola persona non può essere garantita se non sono anche tutelati quei contesti di vita intersoggettivamente condivisi in cui la persona (socializzandosi) ha formato la sua identità.”. Ibid, pp. 87-8. ↩
- Loredana Sciolla, Riconoscimento e teoria dell’identità, in Identità, riconoscimento, scambio. Saggi in onore di Alessandro Pizzorno, Ed. Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 5-29. I quattro tipi proposti sono: l’interiorizzazione (assorbimento psicologico dei valori presenti nella società), lo specchio (in cui il riconoscimento sociale risulta da un meccanismo basato sulla reciprocità nell’apprendimento dei ruoli sociali), la conversione (in cui la reciprocità si attua nel rapporto linguistico), l’attribuzione (in cui il riconoscimento della persona è essenzialmente il frutto della posizione sociale nella quale essa viene ad essere collocata). ↩
- Come si evince anche dall’uso di maschera che Pizzorno propone sino ad oggi.“D: Qui stai richiamando quello che dici in un inedito cui fanno riferimento Della Porta, Greco e Szackolczai (2000, p. XVI) ovvero l’identità come storia di riconoscimenti ricevuti dal soggetto nei vari contesti in cui si è venuto a trovare. Le maschere possono così essere viste come metafore dei riconoscimenti ricevuti o come declinazioni di un’identità che si costituisce… R:Esatto! Assolutamente questa era la cosa: l’insistenza sul tema dell’identità, che è un tema che in fondo la sociologia non aveva mai preso sul serio, mentre per l’antropologia il tema dell’identità è ovviamente centrale da sempre. La sociologia, invece, ha incominciato a occuparsene davvero negli anni sessanta-settanta…sarebbe interessante vedere poi proprio una storia filologica dell’uso dei termini dell’identità da Freud a Durkheim a Weber. Nessuno dei classici usa questo termine, perché? La sociologia parte dai ruoli. I ruoli sono poi le maschere, e appunto le identità. Ma se si parla di una molteplicità dei ruoli, nessuno per molti anni parla di molteplicità di identità che è poi il problema che interessa molto ancora oggi, quello del multiple self, si pensi alla raccolta di saggi L’io multiplo curato da Jon Elster (1987).” Alessandro Pizzorno, Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2007, p. 378. ↩
- Ibid, pp. 184-92. ↩
- Alessandro Pizzorno, Identità, riconoscimento, scambio. Saggi in onore di Alessandro Pizzorno, op. cit., pp. 223-245. ↩
- “Se, come abbiamo detto, l’individuo vive la sua esperienza esistenziale a un livello più profondo di quanto egli stesso o la cultura nella quale egli vive riescono ad esprimere, non vi è coincidenza tra l’orizzonte culturale e sociale concreto nel quale egli vive. Il primo orizzonte è sempre trascendente rispetto al secondo. L’ordine sociale in quanto prodotto culturale, non riesce mai ad esprimere interamente le esigenze esistenziali del soggetto, e perciò non si può mai realizzare piena integrazione degli individui nella società in cui vivono. Rispetto alle istituzioni sociali l’individuo concreto vive in una situazione costante di crisi: egli non può fare a meno delle istituzioni, che anzi per molti aspetti gli offrono una garanzia e un potenziamento indispensabili alla sua sopravvivenza naturale e sociale, ma al tempo stesso egli ne è costantemente insoddisfatto. E’ in questa sproporzione che nasce la possibilità di sviluppare una dialettica negativa nei confronti della totalità sociale. (…). (…), la tensione tra individuo e società non potrà mai scomparire completamente.” Franco Crespi, Teoria sociologica e socializzazione del potere, Franco Angeli, Milano 1977, pp. 54-55. ↩
- Franco Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Ed. Laterza, Roma-Bari 2004, p. 115. ↩
- Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, p. 178. ↩
- Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, op. cit., pp. 155-6. ↩
- Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit,, pp. 172-3. ↩
- Ibid, pp. 175-6. ↩
- Ibid, p. 175. ↩
- Ibid, pp. 177-8. ↩
- Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, pp. 75-6. Come scrive anche in altra sede: “non dipende dall’uomo che questa essenza comune sia o non sia; ma fintantoché l’uomo non si riconosce come uomo e dunque non ha organizzato umanamente il mondo, questa essenza comune appare sotto forma dell’estraniazione.”. Karl Marx, Estratti dal libro di James Mill “Elements d’économie politique”, in Karl Marx e Friedrich Engels, Opere III 1843-1844, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 235. ↩
- “Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. (…); è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie.”. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, op. cit., pp. 106-7. ↩
- “L’uomo, per quanto sia da quel che si è detto un individuo particolare, e sia proprio la sua particolarità che lo fa diventare un individuo e un essere reale individuale della comunità, tuttavia è la totalità, la totalità ideale, l’esistenza soggettiva della società pensata e sentita per sé, allo stesso modo che esiste pure nella realtà tanto in forma di intuizione e di godimento reale dell’esistenza sociale, quanto come totalità delle manifestazioni vitali dell’uomo. (…). L’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come uomo totale.” Ibid, pp. 110-11. ↩
- Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, op. cit., pp. 113-118. ↩
- Basta leggere la sintesi materialistica che scriverà nella Prefazione alla Per la critica dell’economia politica. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 5. ↩
- Etienne Balibar, La filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 1994, pp. 38-54. ↩
- “(…) i proletari invece, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro. Essi si trovano quindi anche in antagonismo diretto con la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora un’espressione collettiva, lo Stato, e devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità.” p. 57. Un esempio di come si svilupperà il rapporto società-individuo si ha nella comunità dei proletari rivoluzionari: “Nella comunità dei proletari rivoluzionari, invece, i quali prendono sotto il loro controllo le condizioni di esistenza proprie e di tutti i membri della società, è proprio l’opposto: ad essa gli individui prendono parte come individui.”. Karl Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 57. ↩
- Ibid, pp. 27-8. Le tesi sulla scissione tra modello utilitarista e modello espressivo e dell’abbandono sulla prospettiva morale, cozzano anche davanti a certe affermazioni rivolte a Stirner sulla proprietà privata come alienazione dell’individualità degli uomini, sul legame tra interesse del singolo e interesse generale o tra dovere e interesse nel comunismo (pp. 195/227-8). ↩
- Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, op. cit., pp. 210-11. Ciò viene affermato chiaramente quando Honneth spiega i criteri che permettono di parlare di progresso morale nelle relazioni di riconoscimento (delle due possibilità di aumento del riconoscimento sociale): p. 224. ↩
- Ibid, pp. 290/92. ↩
- Ibid, p. 212. ↩
- Ibid, pp. 214-5/ 223 e Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit,, p. 200/ 204-9. ↩
- Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, op.cit., p. 220. ↩
- Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, pp. 202-3. Sul rapporto tra riconoscimento e crescita dell’identità individuale, si legga anche Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, op. cit., p. 210. ↩
- La commistione teoretica tra autonomia e riconoscimento in Honneth è sottolineata da un’altra prospettiva in Lucio Cortella, Il fondamento della normatività. Discutendo con Axel Honneth, in eds Egle Bonan e Carmelo Vigna, Etica del plurale. Giustizia, riconoscimento, responsabilità, V&P Università, Milano 2004, p. 92. ↩
- Per autonomia individuale Honneth intende non solo libertà dell’autorealizzazione ma principalmente l’autonomia morale dell’uomo. Sul legame tra riconoscimento e autonomia mediato dalla moralità si legga sopratutto Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, p. 201. ↩
- Come Honneth dice chiaramente in un’intervista rilasciata alla rivista francese Sciences Humaines : “ D: Questi principi di riconoscimento si iscrivono dunque in un quadro antropologico, ma allo stesso tempo in uno storico. R: C’è sicuramente una dimensione antropologica: in quanto esseri umani, non possiamo sviluppare la nostra identità e una relazione positiva con noi stessi senza riconoscimento. Questo costituisce il quadro antropologico globale e universale ma questo quadro non è un destino…I principi del riconoscimento sono aperti al cambiamento storico e sociale.”. Axel Honneth, Les conflits sociaux sont des luttes pour la reconnaaissance, in Sciences humaines, Giugno 2006 (n. 172), p. 40. ↩
- Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, op. cit., pp. 211-2. ↩
- “I sentimenti di misconoscimento costituiscono il nucleo di esperienze morali che sono implicate nella struttura delle interazioni sociali, poiché i soggetti umani si rapportano l’un l’altro con aspettative di riconoscimento da cui dipendono le condizioni della loro integrità psichica.”. Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, pp 193-4. ↩
- Ibid, p. 199. ↩
- Ibid, p. 198. ↩
- Ibid, pp.195-7. “Ma, approfondendo sempre più la questione sono giunto alla conclusione che ogni tipo di conflitto è -più o meno- motivato da delle convinzioni morali, perché certe rivendicazioni legittime, delle richieste di riconoscimento, sono ingiustamente rifiutate.”Axel Honneth, Les conflits sociaux sont des luttes pour la reconnaaissance, in Sciences humaines, op. cit., p. 38. ↩
- “Questo secondo modello di conflitto, basato su una teoria del riconoscimento, non può sostituire quel primo modello, di tipo utilitaristico, ma si limita a integrarlo: infatti, fino a che punto un conflitto sociale segue prevalentemente la logica del perseguimento di interessi oppure quella della reazione morale, rimane una questione empirica.”. Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, op. cit, p. 194. ↩
- Su questo aspetto si legga il saggio di Lucio Cortella, Il fondamento della normatività. Discutendo con Axel Honneth, in eds Egle Bonan e Carmelo Vigna, Etica del plurale. Giustizia, riconoscimento, responsabilità, op. cit., pp. 75-93. ↩
- Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, op.cit., (sopratutto) pp-50-65/ 258-9. ↩
- Ibid, pp.87-88 / 257. ↩
- Ibid, pp. 252-3. ↩
- Cornelius Castoriadis, La montée de l’insignifiance, Editions du Seuil, Paris 1996; Zygmunt Bauman, Modernità liquidita, Editori Laterza, Roma-Bari 2005; Ivan Illich, La convivialità, Milano 2005. ↩
- Ibid., p. 259. ↩
- Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 2008, (in particolare) pp. 77/156-7. ↩
- Questa dialettica ricorda la conflittualità che per Honneth è da imputare alla lotta agita per sottrarsi al misconoscimento. Paul Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, pp. 247-274. In particolare pp. 269 / 274 / 286. Sull’importanza del dono per la comprensione del riconoscimento umano in Ricoeur si leggano anche i saggi di Jervolino e Castagna in ed. Mauro Piras, Saggezza pratica e riconoscimento. Il pensiero etico-politico dell’ultimo Ricoeur, Meltemi, Roma 2007, pp. 21-40 / 71-84. ↩
- Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002, pp. 54 / 58 / 117. ↩
- In questa sede mi riferisco principalmente a Mark Anspach, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta e nel mercato, Bollati Boringhieri, Torino 2007. In particolare p. 44. ↩
- Ibid, pp. 13 /29 /37 / 79. ↩
- Ibid., p.27. ↩
- Paul Ricoeur, Soi-meme comme un autre, Ed. du Seuil, Paris 1990, pp. 147 / 176 /167-198. ↩
- Ibid, pp. 12-4 /28 (tutto il lavoro è un’articolazione della tesi presente in queste pagine). ↩
- Senza il movimento che dalla fine degli anni ’70 ha portato alla dissoluzione della dittatura militare non sarebbe pensabile la creazione del bilancio partecipativo di Porto Alegre per le seguenti ragioni: dal ’79 nella capitale del Rio Grande do Sul la tradizione consigliare della città riprende una sua forza organizzativa tanto da arrivare a chiedere ripetutamente la democratizzazione reale di tutti i livelli del potere esecutivo; nasce il Pt (Partido dos Trabalhadores) all’inizio degli anni ’80, partito che, appena eletto, accoglie per la prima volta questa richiesta introducendo una tassa comunale sui servizi (Issqn) che permette di usare dei fondi per organizzare e rendere effettivo l’Op; alla fine del processo costituente, con la stesura della carta del 1988, viene sancita una redistribuzione del potere statale senza precedenti, una decentralizzazione giuridica e finanziaria (art.159 della Costituzione) che porta all’approvazione dell’art. 116 della Legge Organica Municipale (Lom), in cui, al paragrafo 1, viene attestata la partecipazione della comunità nel processo di elaborazione, definizione e accompagnamento, dell’esecuzione del bilancio comunale. ↩
- Come è chiaramente documentato in Marcia Ribeiro Dias, Sob o Signo da vontade popular, o orçamento participativo e o dilema da camara municpal de Porto Alegre, Editora UFMG e IUPERJ, Belo Horizonte- Rio de Janeiro 2002. Viene anche sottolineato da una prospettiva diversa da Hilary Wainwright, Poder popular no século XXI, Xamà, Sao Paulo 2005, pp. 178-184. ↩
- Chi ha compiuto 16 anni può partecipare e le riunioni all’interno delle assemblee e del Consiglio sono aperte al pubblico. La parola e il voto però vengono dati solo a chi è incaricato. E’ possibile revocare in qualsiasi momento dal Forum dei delegati, gli stessi delegati. ↩
- Per avere un quadro analitico e completo del processo si legga in particolare, ma non solo, Luciano Fedozzi, O eu e os outros. Participaçao e transformaçao da consciencia moral e cidadania, Tomo Editorial, Porto Alegre 2008 e Tarso Genro, Ubitaran de Sousa, O Orçamento Participativo. A experiencia de Porto Alegre, Editorial Fundaçao Perseu Abramo, Sao Paulo 1999. Recentemente anche Luciano Fedozzi, Observando o Orçamento Participativo de Porto Alegre. Anàlise historica de dados: perfil social e associativo, avaliaçao e expectativas, Tomo Editorial, Porto Alegre 2007. ↩
- Come si può leggere chiaramente in ogni opuscolo esplicativo delle regole di funzionamento che il governo della città diffonde annualmente: tra Dicembre e Gennaio, momento conclusivo del ciclo, le riunioni del Consiglio dell’Op discutono e votano il regolamento interno, i criteri generali, tecnici e regionali del processo che tra Marzo ed Aprile d’ogni anno, momento iniziale del processo, viene presentato e assunto durante le riunioni preparatorie allargate alla partecipazione diretta della popolazione. ↩
- Opuscolo de l’Assembléia legislativa do Estado do Rio Grande do Sul: Ubiratan de Souza, Orçamento participativo -experiencia de Porto Alegre e do estado do Rio Grande do Sul, p.4. ↩
- Riferendosi alla Polis scrive: “Nella prospettiva di una rotazione rapida nelle funzioni del potere (la maggior parte delle quali sono attribuite per una durata che varia da qualche mese a un anno, al massimo), la selezione casuale costituisce una procedura assai razionale. L’accoppiata rotazione-sorteggio si rivela particolarmente efficace per evitare una professionalizzazione dell’attività politica, una monopolizzazione del potere da parte degli esperti e la sua autonomizzazione rispetto ai cittadini. Riguardo a quest’ultimo punto, l’ideale della Città è allo stesso tempo politico ed epistemologico: si tratta di difendere l’uguale libertà per tutti i membri della Città e di proclamare il principio secondo il quale tutti partecipano alla riflessione e all’azione politica, attività che non sono da considerarsi come terreno esclusivo degli esperti”. Yves Sintomer, Il potere al popolo. Giurie cittadine, sorteggio e democrazia partecipativa, Edizioni Dedalo, Bari 2009, p.55. ↩