Roberto Finelli
1. Le trasformazioni epocali degli ultimi trent’anni ripropongono, a mio avviso, quella che è stata la questione centrale di scienze sociali moderne, come l’economia e la sociologia: ossia come sia possibile studiare e definire la dinamica sociale come un tutto. E’ tempo infatti di ringraziare, ma nello stesso tempo di dire addio, alla grande ricerca microfisica di Michael Foucault. Perché il tempo storico che stiamo vivendo ci dice che non possiamo interpretarlo e muoverci dentro di esso con un pensiero debole, un pensiero anticausalistico e antisistematico, amante del frammento e della moltiplicazione delle differenze. Ed è perciò tempo di dire addio al modello originario di tutte le filosofie deboli ed antisistemiche della postmodernità, qual è stato il decostruzionismo di Nietzsche e il suo innalzamento del corpo, con la sua mutevolezza costante di pulsioni e passioni, a principio dell’intero universo culturale, sociale e politico. Così come è tempo di dire addio a quella reintepretazione del decostruzionismo di Nietzsche in chiave di religione e misticismo dell’Essere che è stata la filosofia dell’ontologia esistenziale di Martin Heidegger.
2. Attraverso la rivoluzione tecnologica informatica abbiamo assistito negli ultimi trent’anni al passaggio, per quanto riguarda la tipologia base dell’accumulazione capitalistica, dall’accumulazione rigida all’accumulazione flessibile, ossia, come anche si usa dire, dal fordismo al postfordismo. Questo passaggio epocale, che con l’applicazione delle nuove macchine dell’informazione ha generato un nuovo modo di organizzare l’accumulazione di capitale, ha comportato il collasso del Comunismo dell’Est, capace di reggere il confronto sul fordismo ma non sul postfordismo, e, contemporaneamente, la crisi del welfare states nel capitalismo dell’Ovest, con la perdita di potere della classe operaia tradizionale e della sua capacità d’opposizione quale si era mantenuta per tutto il periodo fordista. Così come ha provocato il sorgere di nuovi mercati del lavoro, con elevatissime quote di disoccupazione e di precarizzazione. Ma soprattutto, per quello che c’interessa in questa sede, questa trasformazione, basata sull’accumulazione flessibile del capitale, ha ancora di più accelerato quel processo di economia-mondo, di mondializzazione dell’economia, che fin dal millecinquecento ha accompagnato lo sviluppo dell’economia moderna.
3. La dilatazione dello spazio a spazio-mondo globale, insieme al movimento opposto di restringimento ed accelerazione del tempo, mette oggi infatti in discussione la caratteristica classicamente moderna dello Stato-nazione come entità economicamente sovrana. Tanto più quando, accanto alla dislocazione e deterritorializzazione del capitale produttivo, vanno considerate sia la velocità diffusiva del turbocapitalismo finanziario, sia la governance messa in atto da agenzie internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, la Banca Europea. E tanto più quando, nell’economia-mondo, il centro egemonico dell’accumulazione di capitale reale e produttivo appare in forte spostamento dagli Stati Uniti e dall’Ovest all’Est del pianeta e alla Repubblica Cinese.
E’ dunque soprattutto oggi che, l’estendersi all’intero pianeta dell’economia del capitale e della merce – dopo il toglimento del limite che al mercato del capitale aveva posto il comunismo dell’Est Europa e dell’Asia –, va riproposta, con la riaffermazione della forza dilagante dell’economico rispetto ai confini del politico, una teoria della dinamica storica e dei grandi mutamenti strutturali. A me sembra infatti che, con la fine del Welfare nei paesi dell’Occidente ed il crollo del comunismo autoritario nei paesi dell’Est, sia venuto chiaramente venuta meno anche la pretesa della politica di poter regolamentare e dirigere gli automatismi e l’impersonalità del mercato: una politica che appunto per mezzo secolo, nel Novecento, ha preteso di essere in qualche modo autonoma o almeno parallela al potere dell’economia. Quasi che politica ed economia, Stato e Capitale, dovessero essere concepite come le due dimensioni della modernità, sempre compresenti e parallele, ciascuna con una propria logica specifica, non riconducibile a quella dell’altra.
Invece ciò che si sta imponendo, io credo agli occhi di tutti, è che fattore dominante di realtà si stia facendo il potere dell’economico capitalistico, un potere che, con la sua estensione ad un’economia mondo, appare come smisurato, fuori misura, rispetto alle misure delimitate della politica.
Una scienza dell’impersonale
4. Ed appunto di fronte al riemergere e all’espandersi di un mercato capitalistico che mostra di non essere regolabile dall’esterno, dalla volontà e dall’illuminismo della decisione politica, ma di obbedire invece solo a proprie leggi interne, secondo automatismi propri, sembra assai utile, almeno a mio avviso, ritornare a una possibile utilizzazione critica dell’opera di Karl Marx. Perché Marx è stato uno dei massimi pensatori sociali che si sono confrontati con le dinamiche dell’unificazione di un’epoca storica, sotto il segno di un unico fattore di integrazione e di totalizzazione dell’agire sociale, qual è stato per lui il Capitale.
Ma possiamo riaccostarci a Marx solo a patto di un’operazione rigorosa e senza compromessi. Solo a patto di lasciare andare, nel crollo del comunismo stalinista ed autoritario del 1989, tutto quanto del comunismo teorico originario di Marx stesso ci appare ormai appartenere a una forzatura mitologica della storia e della visione dell’essere umano e che non a caso era stato poi codificato, nella sua presunta coerenza, nel canone del marxismo ufficiale. Ciò di cui bisogna liberarsi, in altre parole, è la teorizzazione da parte di Marx del primato del fattore economico in ogni formazione storico-sociale e di qualsiasi epoca (tesi che con il Marx del Capitale diverrà valida solo per la società moderna); la teoria della funzione solo subalterna e mistificatoria dei processi culturali nel rapporto tra struttura e sovrastruttura; la tesi della natura inevitabilmente associativa e comunitaria della classe lavoratrice a partire dalla funzione progressista e collettiva del lavoro; la teoria dell’inevitabilità storica della contraddizione tra classe lavoratrice e classe capitalistica, fino al suo precipitare nella rivoluzione; la teoria della società comunista come basata sull’unico valore del collettivismo e dell’eguale distribuzione di beni, senza valorizzazione alcuna della individuazione del singolo e di uno spazio del privato irriducibile a quello del collettivo. Ciò che possiamo, anzi dobbiamo, far cadere del pensiero di Marx è dunque tutta la teoria del materialismo storico.
Per dire cioè che non abbiamo più bisogno – né, a dire il vero, ne abbiamo mai avuto bisogno – di quel marxismo della oggettività e della inevitabilità della contraddizione che è stato alla base del canone religioso e dogmatico del materialismo storico e del materialismo dialettico. Come non abbiamo bisogno di quel marxismo del feticismo e dell’alienazione, da Lukàcs alla Scuola di Francoforte, da Sartre alla scuola italiana di Della Volpe e Colletti, che per tutto il Novecento, ha preteso di contrapporsi come marxismo eretico al marxismo ufficiale della contraddizione. Perché, si diceva, si contrapponeva una teoria della liberazione sociale fondata sull’iniziativa e la prassi antireificata della soggettività a una processualità solo oggettiva e fatalistica della storia.
Ma a ben vedere marxismo della contraddizione e marxismo dell’alienazione hanno partecipato entrambi della visione mitica di un soggetto organicamente e collettivamente predisposto a una volontà rivoluzionaria, come la classe operaia, che avrebbe dovuto spiegare tutta la storia e la conclusione della formazione economico-sociale moderna con la sua leggenda fatta di svuotamento/alienazione, sfruttamento/contraddizione, riconquista e riappropriazione della propria essenza. Hanno partecipato cioè, entrambi quei marxismi, del paradigma identitario, generato dalla regressione che il falso materialismo di L. Feuerbach diffonde tra i giovane Hegeliani, di un soggetto concepito come originariamente comunitario ed organico che si perde e si rovescia nei propri predicati.
5. Ma di tutto ciò, come ho già detto, non abbiamo proprio bisogno. Non abbiamo bisogno di paradigmi antropomorfi e antropocentrici per spiegare un meccanismo di fondo non antropomorfo, bensì astratto e impersonale, quale, soprattutto oggi, nella sua diffusione planetaria, si presenta il Capitale. E a tal fine, per collocare il vertice del nostro vedere nella messa in opera storica e sociale di un soggetto astratto ed extraumano, torna ad essere appunto preziosa quella parte del pensiero di Marx che ha voluto essere non più una filosofia della storia, bensì una scienza del presente visto come intessuto e totalizzato da quel peculiare fattore di storia che si chiama Das Kapital, quale soggetto, come suona il termine tedesco, neutro e senza sesso. Voglio dire cioè che per leggere il presente è necessario abbandonare i paradigmi teorici consumati della contraddizione e dell’alienazione e provare a riflettere nei termini di un paradigma nuovo qual è quello che qui propongo e che vorrei definire come il paradigma dell’astrazione.
Il Capitale, secondo quanto pensa il Marx che maggiormente ci è utile, è nella sua essenza fondamentalmente «quantità», cioè ricchezza che per la sua natura solo quantitativa e numerica non può che aspirare ad una accumulazione quantitativa di sé, e che, per promuovere la sua accumulazione tendenzialmente illimitabile e smisurata, è pronta ad invadere e colonizzare con la sua logica l’intero mondo della qualità, ovvero l’intero mondo della natura e degli esseri viventi, umani e non umani. L’esistenza del capitale, ci dice Marx, è intrinsecamente connessa ad una dimensione di crescita: di profitto cioè che torna ad essere investito, non consumato ma accumulato. Altrimenti senza reinvestimento ed accumulazione, senza innovazione tecnologica e di prodotto, il singolo capitale non riesce a soddisfare le due condizioni fondamentali della sua esistenza, che sono, rispettivamente, il controllo dei lavoratori al proprio interno e la concorrenza degli altri capitali all’esterno. Il capitale significa dunque, con la subordinazione del mondo della qualità al mondo della quantità, la colonizzazione sempre più estesa, in senso orizzontale e verticale, del mondo non legato e organizzato dal denaro da parti di un mondo in cui gli unici legami sono quelli delle merci e del denaro.
Di fronte a tale sua esigenza vitale – di quantità che deve espandere continuamente il suo limite quantitativo – tutte le altre esigenze della vita umana, affettive, morali, etiche, estetiche, ecologiche, vengono meno. Come tale il capitale è un assoluto incondizionatamente quantitativo-accumulativo, per il quale si dà condizione di patologia e di crisi non appena la crescita diminuisce o s’interrompe. Ed è talmente necessario il suo automatismo di crescita da comandare comunque anche quelle che sembrano le decisioni più liberamente soggettive ed umane dell’iniziativa economica, come la scelta delle merci da produrre e le abilità imprenditoriali dei singoli capitalisti, che appaiono da questo punto di vista, come dice Marx, solo dei portatori di ruolo, delle «Charaktermasken». Gli esseri umani entrano infatti nella stesura del Capitale solo come maschere teatrali che non rimandano mai a singole storie di vita, ma sempre a stereotipi, a ruoli generali di comportamento, predeterminati e prescritti, che vengono poi interpretati e vissuti dai singoli attori. «Il capitalismo -scrive un osservatore acuto come David Harvey-, è orientato alla crescita. Un tasso costante di crescita è essenziale per la salute del sistema economico capitalistico, poiché è soltanto grazie alla crescita che possono essere garantiti i profitti e può essere mantenuta l’accumulazione di capitale. Ciò significa che il capitalismo deve operare per espandere la produzione e per ottenere una crescita in termini reali, indipendentemente dalle conseguenze di ordine sociale, politico, geopolitico o ecologico. Se bisogna fare di necessità virtù, una pietra miliare dell’ideologia del capitalismo è rappresentata dal principio secondo cui la crescità è inevitabile e positiva. La crisi è quindi definita come assenza di crescita» 1. Questa teorizzazione da parte di Marx del capitale come un assoluto di quantità, come un assoluto di crescita neutra ed impersonale, non è stata in generale mai presa seriamente in considerazione, anche dai marxisti, probabilmente per la paura di cadere nella metafisica e per la seduzione patita di fronte all’empirismo e al realismo.
Con la collocazione nel cuore della modernità di un vettore essenzialmente quantitativo di socializzazione, di una dimensione quantitativa che si fa egemonica della dimensione qualitativa, Marx riesce a definire un soggetto dell’azione sociale fondamentalmente non identitario, un soggetto costituito dal processo e dal circolo della sua accumulazione, che, nel suo divenire di valore in processo, assegna un carattere di continua trasformazione alla modernità e mutua contemporaneamente la natura dello Spirito hegeliano: ossia quella di un soggetto che prova a riprodurre costantemente i propri presupposti, non lasciando nulla di altro e di eterogeneo rispetto alla propria logica di crescita e di riproduzione. Il Capitale è come il Geist hegeliano: fattore tendenzialmente di unificazione e di totalizzazione dell’intera esperienza naturale-geografica-sociale. E per quello che interessa noi, analisti critici della postmodernità, è qui che sta l’hegelismo vitale di Marx. Non nella valorizzazione della contraddizione come pretesa struttura generale, come pretesa metacategoria, della realtà storica e sociale, bensì nell’accettazione di una peculiare tipologia e modalità di totalizzazione. Secondo la quale un processo di unificazione e totalizzazione non avviene affatto attraverso un’opera di esportazione e imposizione di un dominio e di una forza costrittiva, ma attraverso la dinamica opposta della progressiva assimilazione e interiorizzazione dell’esterno, attraverso cioè la trasformazione di un limite e di un mondo che il soggetto, nel proprio agire, si trova di fronte come presupposto, dato, altro da sé, in quanto istituito su una diversa e pregressa logica di costituzione, in un mondo posto, prodotto e attraversato dalla propria e attuale logica costitutiva. Dove la tipologia del processo è circolare, perché il rafforzamento e l’espansione del proprio Sé non nasce dall’esclusione o dalla repressione dell’altro bensi dall’uscire fuori di sé, attraversare e mediarsi con l’altro e ritornare in sé arricchito dallo scambio con l’alterità.
E’ del resto proprio tale omologia strutturale con il modello di ciò che per Hegel è il Geist, lo Spirito, che ci fa meglio comprendere la natura paradossalmente “spirituale” del Capitale per Marx, ossia il fatto che esso non è mai una cosa fissa, un cumulo di proprietà, una ricchezza statica, ma è un processo circolare, scandito da diverse stazioni di percorso, attraversate dalla ricchezza astratta e che corrispondono, ogni volta, a ruoli umani ben codificati, a figure cioè dell’agire strumentale e della relazione sociale e intersoggettiva ben determinate.
Svuotamenti ed effetti di superficie
6. Tale natura non sostanzialistica ma volatile e in costante divenire del capitale si manifesta in modo quanto mai approfondito oggi, nel tempo storico e sociale che stiamo vivendo e che ormai per convenzione viene chiamato il tempo della società postfordista. Termine giusto a mio avviso se con esso si vuole designare una società che continua ad essere, nei suoi fondamenti invariabili, capitalistica, ma che, possiamo dire, ha profondamente trasformato il suo modo di accumulazione e con esso il suo modo di produrre, oltre che economia, anche forme di coscienza e ideologia. Per usare le parole di quell’acuto geografo e scienziato sociale che è David Harvey possiamo dire, come già abbiamo anticipato all’inizio, che il postfordismo è capitalismo passato dalla tipologia di «accumulazione rigida» alla tipologia di «accumulazione flessibile».
La nuova tipologia di accumulazione del capitale, cominciatasi a sviluppare negli USA all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, è caratterizzata da una ricerca infaticabile della flessibilità che ha cercato di aggredire qualsiasi nodo di rigidità, in genere legato a strutture di grande ampiezza, e che ha aggredito l’organizzazione e la tecnologia dei processi produttivi, il modo e il mercato del lavoro, la tipologia dei beni, la modificazione dei modelli di consumo. E’ venuta meno la centralità della grande fabbrica. La rigidità della catena di montaggio è stata smontata, attraverso la robotica e l’informatica, in più isole e segmenti, così come si sono affidate all’esterno molte delle funzioni prima concentrate nell’attività di un’impresa. Si è fortemente accellerata la delocalizzazione della produzione in altre nazioni con tempi storici e maturità civili assai diverse da quelle delle imprese di origine. La riduzione della produzione su grande scala con l’eliminazione dei grandi stoccaggi di magazzino ha sollecitato la produzione di piccole quantità e di beni costantemente mutevoli in base alle mutevoli indicazioni del mercato di consumo. Si è perciò accorciato il tempo di rotazione del capitale così come si è accorciato il tempo della durata dei beni e del loro consumo. In particolare con l’esportazione di unità produttive in paesi con inesistenti tradizioni industriali e la reimportazione nei paesi avanzati di relazioni industriali e sindacali arcaiche e sottosviluppate si è prodotto un forte ridimensionamento del costo e dei diritti del lavoro consolidati durante il fordismo: attacco ai diritti del lavoro facilitato anche dagli enormi movimenti migratori che interessano diverse zone del pianeta. In questo modo anche nei paesi cosiddetti avanzati forme di lavoro moderno spesso sono al termine di una filiera che utilizza forme di lavoro premoderno, dal lavoro a domicilio al lavoro minorile, al lavoro sotto patriarcato e sotto caporalato, fino a pescare in forme di lavoro propriamente schiavistico ancora ben presenti in paesi del Terzo Mondo. Per non parlare delle nuove forme di lavoro, offerte soprattutto ai giovani, quali il lavoro a par time, il lavoro interinale, il lavoro non pagato a progetto, il lavoro apparentemente autonomo, nelle quali la caduta di ogni voce previdenziale ed assistenziale, per il futuro e per le malattie, si accompagna a valori salariali minimi, al di sotto del livello di sussistenza. Tanto che si può ben dire che con il passaggio all’accumulazione flessibile s’è invertito il ciclo storico novecentesco di riduzione della giornata lavorativa, la quale è appunto è tornata ad allungarsi, riproponendo forme di estrazione del plusvalore assoluto che si credevano appartenere ormai solo alla storia moderna del XVIII° e XIX° sec..
7. E’ come se il crollo dell’Unione Sovietica e dei paesi del cosiddetto comunismo reale abbia messo in scena fisicamente e geograficamente tale capacità espansiva, senza limite e senza freni, di un capitale che riesce progressivamente a invadere tutti gli spazi e le forme di vita ancora lasciati estranei e non colonizzati dalla società fordista. La smaterializzazione flessibile consente all’economico di penetrare in pressocché tutti gli ambiti non economici e di sostituire a forme di relazione non mediate, nel bene e nel male, dal denaro e dalla logica quantitativa del mercato rapporti invece di natura solo quantitativo-monetaria. Si pensi in tal senso alla gigantesca riorganizzazione ed espansione del sistema finanziario, ai suoi poteri di coordinamento che, attraverso telecomunicazioni istantanee, sono venute emergendo con sempre maggiore forza a danno dell’autonomia degli stati nazionali nel controllo del movimento dei capitali e in una propria politica monetaria e fiscale. Ed è proprio il potere sempre più accentuato del sistema della finanza che ci parla del grado di smaterializzazione raggiunto oggi dal capitale, per la natura immanente del capitale finanziario di procurarsi un profitto solo attraverso la gestione del tempo e senza passare per la produzione di beni e servizi. Basti pensare in tal senso all’ultima grande crisi innestata nel 2007 dall’insolvibilità dei crediti al consumo e dei finanziamenti per l’acquisto di casa concessi della banche statunitensi e venduti poi come valori di mercato alle banche di tutto il mondo. Per dire cioè che è proprio la scommessa su quanto di più immateriale e concreto possa esserci, ovvero sul tempo futuro, con gli investimenti sugli swap valutari, sui differenziali dei saggi di interesse, sui futures delle merci, a sollecitare l’anima più profonda del turbocapitalismo contemporaneo mosso dall’unica logica del denaro che genera denaro e pronto dunque a preferire il capitale cosiddetto fittizio o virtuale al capitale produttivo e materiale.
8. Eppure alla fin fine il criterio di fondo per valutare la forza di un’economia non può non rimanere comunque la capacità di investire e di produrre sul piano dell’economia materiale reale e, in tale ambito, di riuscire a vincere costantemente il confronto con la forza-lavoro, riconducendola a norma ed astrazione ad ogni nuova epoca tecnologica. Così come non va dimenticato che, accanto alla forza dell’economia materiale e, in essa, al comando sul lavoro, il capitale si fa realmente totalità dominante quando, com’è ben noto, produce non solo merci e gerarchie sociali, ma anche forme di coscienza e rappresentazioni generalizzabili all’intero corpo sociale.
In tal senso, di nuovo, il paradigma del Capitale come astrazione in processo ci consente d’individuare lo svuotamento del concreto da parte dell’astratto come il fattore fondamentale, nella società postfordista e postmoderna, di produzione dell’ideologia e dell’immaginario sociale. Dove per svuotamento intendo la simultanea messa in opera di due funzioni: la colonizzazione e l’invasione del mondo concreto da parte della logica economica dell’astratto e, in pari tempo, l’occultamento di questo processo attraverso la sovradeterminazione, l’intensificazione di significato e di ruolo di ciò che rimane solo alla superficie. Svuotamento dell’interiore e intensificazione eccitata («isterica» per dirla con Fr. Jameson) dell’esteriore, che compongono una ideologizzazione dell’esperienza la quale deriva direttamente dalla diffusione impersonale dell’astratto capitalistico e che sta a principio di quel diffusissimo effetto di deformazione e falsificazione che, con le nuove tecnologie informatiche, ha coinvolto l’esperienza e la rappresentazione del lavorare.
9. Infatti con la messa al lavoro della mente, assai più che del corpo, si è detto e teorizzato che con il passaggio dal lavoro manuale al lavoro mentale sia finito ormai il tempo della fatica e dell’alienazione del lavoro, sostituito da forme di attività ricche della partecipazione e dell’intelligenza personale del singolo individuo. Ossia che con il lavoro non più su materie prime o semilavorati ma su dati alfa-numerici si richiede ormai l’intervento delle facoltà linguistiche, di calcolo, di attenzione e d’improvvisazione del singolo operatore, e che il tempo storico della fatica materiale si è dunque concluso con la macchina dell’informazione, per cedere il posto al tempo della lavorazione personale e creativa. Che insomma sia giunto infine il tempo della società, non più del capitale, ma della conoscenza e dell’informazione, e che in questa società immateriale, ben al di là della mediazione del denaro e delle merci, quale fattore di costituzione e d’integrazione sociale valga il grado di partecipazione di ciascuno alla conoscenza generalizzata, al general intellect, formato da un sapere comune, ad alto tasso di comunicazione e codificazione informatica.
A parere di chi scrive tale tesi dell’emancipazione e della liberazione del lavoro, attraverso la rivoluzione della tecnologia informatica macchine, rappresenta il cuore dell’ideologia postmodernista, secondo la quale, dopo l’età classica della ragione moderna, si è finalmente giunti a vedere nella realtà solo un insieme di segni che, privi di riferimento ad un mondo materiale ed extralinguistico, rimandano ad altri segni: in una connessione interpretativa ed ermeneutica di linguaggi, che non conclude mai in un sistema teorico, forte e coeso. Come ha voluto appunto l’ideologia del «pensiero debole», che, rifiutando ogni pretesa profondità nello strutturarsi del reale, ogni possibile dualismo tra essenza ed apparenza, tra inconscio e conscio, tra significato e significante, come avevano concepito i grandi sistemi della modernità tra Otto e Novecento, ha preteso di riportare tutto alla continuità di una superficie che non rimanderebbe ad alcuna interiorità di fondazione e di senso, ma che sarebbe composta di una serie di frammenti e di eventi, lontani da una causalità univoca e ben più interpretabili secondo una causalità accidentale e fortuita che necessiterebbe null’altro che di un’ermeneutica infinita.
Così della rivoluzione tecnologica attraverso l’informatica e i computers s’è voluto vedere, in una chiave interpretativa postmoderna, solo la dimensione di superficie, senza considerare quanto la maggior parte dell’odierno lavoro mentale elabori oggi dati alfanumerici attraverso programmi predefiniti, istruzioni di lavoro predeterminate e banche dati, il cui fine sfugge del tutto alla mente dell’operatore, ridotto a una soggettività essenzialmente comunicativo-linguistico-calcolante.
Ma la superficializzazione del mondo e dell’esperienza umana è, come si diceva, proprio uno degli effetti più conseguenti della diffusione dell’astratto capitalistico. E’ l’esito infatti del processo di occupazione del mondo del concreto da parte dell’accumulazione della ricchezza astratta, che assimila l’interno del concreto alla sua logica, lasciandone sopravvivere solo la spoglia vuota e di superficie. E’ l’«effetto simulacro», per dirla di nuovo con Fr. Jameson, secondo il quale il volto della superficie dell’esperire, apparentemente privo di rimando a una sua profondità – visto che il suo fondo riposto coincide con l’immaterialità di un’astrazione -, viene ad essere sovradeterminato e sovraesposto. Per cui è l’effimero e la vanità del dato superficiale che occupa e seduce l’intero sguardo e l’intera mente dell’osservatore.
Ed è proprio tale duplice processo di svuotamento e di sovradeterminazione che costituisce, a mio avviso, il motivo di fondo per cui l’ideologia postmodernista ha costituito, e ancora costituisce, la logica e la prassi culturale più adeguata e coerente con l’epoca postfordista. Ma sibadi, non secondo il canone arcaico e dogmatico del marxismo della struttura e della sovrastruttura; ovvero secondo la tesi della produzione delle idee come mero riflesso ingannevole e deforme della prassi economica. Bensì secondo il legame più intrinseco del capitale come astrazione del valore in processo che, facendosi meno materialmente visibile con il passaggio all’accumulazione flessibile, svuota il mondo della vita e delle qualità del loro originario contenuto, facendone solo delle silhouettes che sembrano vivere concluse nella loro apparenza e nella loro irrelatività.
La favola del lavoro mentale ed informatico come lavoro libero dalla fatica e come realizzazione della creatività intellettiva dell’essere umano, fino all’apice del mito di un general intellect che unificherebbe le menti di ognuno al di là della separazione dei corpi, è solo l’esito paradossale di una nuova organizzazione capitalistica del lavoro. La quale, per superare le rigidità, quanto a resistenza operaia, della fabbrica fordista, ha inventato un nuovo modo di lavorare, che produce comunque lavoro astratto (in quanto dipendente dalle disposizioni, dai programmi e dalle finalità di altri) ma che, paradossalmente si traveste e si dissimula della veste di lavoro altamente individualizzato e personalizzato.
10. Su questo aspetto drammatico a paradossale della realtà dei nostri ultimi trent’anni ha riflettuto bene in un saggio di qualche anno fa Axel Honneth, il teorico del riconoscimento 2. Ha sottolineato infatti con acume il paradosso secondo il quale ideali dei movimenti sociali degli anni ’60 e ’70 del secolo passato – ideali di realizzazione del proprio sé affrancati da ogni forma possibile di dominio – si sono rovesciati in un individualismo usufruibile, invece, dal sistema sociale dominante per il suo rinnovamento e la sua espansione. Ma proprio in ciò consiste, io credo, uno dei motivi di forza e di continuità della socializzazione capitalistica: nella produzione cioè di una forma di antropologia e soggettività capitalistica che, con l’aiuto di un sistema dell’istruzione sempre più conforme alle esigenze dell’economia, genera individualità astratte – astratte in primo luogo dalla loro interiorità emozionale – e volte perciò a un’identità essenzialmente superficiale e gruppale, che non può percepire il mondo se non secondo immagini di superficie e prive di qualsiasi logica profonda di connessione e di struttura.
Bisogna dunque ben afferrare la drammaticità della mutazione antropologica che il capitalismo dell’accumulazione flessibile, quanto a nuova tipologia del sentire e del vedere, del pensare e del giudicare dell’essere umano, ha portato con sé, per intendere come oggi una critica del potere, per dirla in termini assai schematici, non possa che riguardare la capacità di mettere in campo un’economia e un’antropologia dell’attenzione. Un’economia da istituire su quel bene, oggi prezioso e assai raro, che è la capacità di attenzione e di interiorizzazione, da opporre a quella marea d’informazioni che, come sapere senza conoscere, attraversano e danno forma senza profondità alla nostra vita.
Ma su tutto ciò, e su forme possibili di socializzazione ad alto tasso di individuazione (e specificamente su pregi e difetti del paradigma antropologico ed etico-politico del riconoscimento) speriamo di continuare a discutere quanto prima.
[1] D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net-Mondadori, 2002, pp. 221-222.
- D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net-Mondadori, 2002, pp. 221-222. ↩
- A. Honneth, Autorealizzazione organizzata. Paradossi dell’individualizzazione, tr. it. a cura di V. Santoro, in «post filosofie. Rivista di pratica filosofica e di scienze umane», anno I, num. 1, pp. 27 – 44. ↩