Claudio Bazzocchi
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(abstract. Per Hölderlin, la rivoluzione non può essere rappresentata dalla fredda lama di una dottrina sociale e politica. Deve contemplare il cuore degli uomini, avere spessore esistenziale. La rivoluzione è l’apertura di un tempo nuovo che non può però limitarsi all’abbattimento del positivo — religione al servizio dei dominanti, dispotismo, vuote convezioni sociali —, ma deve diventare messa a tema della libertà nel suo essere continuamente esposta alla finitezza e al nulla del destino mortale degli uomini. Il tempo veramente nuovo è allora quello in cui lo scacco della libertà — la tragicità del vivere — venga squadernato nella società nuova e possa diventare questione della polis, cioè politica. Il tragico è il luogo della compenetrazione tra intellettuali e popolo. In esso, infatti, vengono rappresentati i grandi temi dell’esistenza in forma mitica. Il ritmo tragico viene innescato dalla vita, con le sue passioni.
Non si dà quindi per Hölderlin una società rinnovata che debba dipendere dall’universale detenuto da pochi. È allora significativa la condanna che il poeta scaglia contro le sette rivoluzionarie nell’Iperione. L’incontro di Iperione con i compagni del nuovo amico Alabanda, appartenenti alla setta segreta Nemesisbund, nella quale Hölderlin volle rappresentare un gruppo giacobino, mette in scena lo smarrimento del protagonista di fronte a un gruppo di persone accomunate dai rovesci della vita, e quindi risentiti nei confronti degli altri e del mondo, i quali vedono nella rivoluzione un atto nichilistico e distruttivo e quindi un’affermazione di sé, una sorta di rivincita dalle sconfitte subite in precedenza nel corso dell’esistenza. Iperione nota infatti i segni della «passione repressa» sul loro viso e nello stesso tempo percepisce «una naturale durezza di cuore», assieme a una «freddezza» costruita «con la forza della convinzione».
È quella una pagina straordinaria di Hölderlin, in cui vengono intuite tutte le contraddizioni e i problemi delle rivoluzioni comuniste novecentesche. In particolare, Hölderlin capisce che la rivoluzione può essere una scelta fatta non per amore, ma per durezza di cuore, quasi come fosse dettata dal risentimento. Inoltre, ciò che conta per i rivoluzionari da lui descritti non è tanto la conquista di una superiore autenticità di vita, quanto la distruzione del potere precedente. Insomma, l’azione rivoluzionaria non è caratterizzata dall’intreccio indissolubile tra mezzi e fini, ma è l’ottenimento del risultato della dissoluzione del vecchio ordine, senza che il cuore degli uomini sia contemplato, cioè senza che l’essere umano venga considerato nella sua interezza, nel suo bisogno di calore, affettività e tensione alla ricomposizione tra individuale e collettivo, tra finito e infinito, e non solo come individuo che chiede eguaglianza e fine del dispotismo.
Acutamente, e prefigurando lo scacco delle rivoluzioni otto-novecentesche, Hölderlin capisce che la solo eguaglianza o il solo soddisfacimento dei bisogni materiali non potrà che portare al dispotismo della legge e alla frantumazione sociale, a causa di un’antropologia della penuria che non considererà la tensione all’interezza. Insomma, Hölderlin si rende conto che lo Stato sorto dalla Rivoluzione francese mantiene gli individui isolati l’uno dall’altro e in questo modo favorisce la divisione capitalistica del lavoro della nuova società borghese. Se la rivoluzione non si pone come obiettivo quello della ricostituzione della totalità, per quanto in modo dialettico, non potrà che rivoltarsi in nuovo dispotismo, il dispotismo del prevalere dell’intelletto sulla ragione e quindi dello sfruttamento della natura che non è più richiamo all’armonia e alla ricomposizione, ma mero insieme di oggetti da manipolare.)
In questo saggio metteremo a fuoco la critica alle sette segrete giacobine, che Hölderlin opera grazie a Iperione nel suo romanzo giovanile. Per Hölderlin, la rivoluzione non può essere rappresentata dalla fredda lama di una dottrina sociale e politica. Essa deve contemplare il cuore degli uomini, avere spessore esistenziale. La rivoluzione è l’apertura di un tempo nuovo che non può però limitarsi all’abbattimento del positivo — religione al servizio dei dominanti, dispotismo, vuote convezioni sociali —, ma deve diventare messa a tema della libertà nel suo essere continuamente esposta alla finitezza e al nulla del destino mortale degli uomini. Il tempo veramente nuovo è allora quello in cui lo scacco della libertà — la tragicità del vivere — viene squadernato nella società nuova e diventa questione della polis, cioè politica. La dottrina rivoluzionaria di poche avanguardie non può allora bastare e la trasformazione sociale diventa questione di popolo e ricomposizione mitica tra finito e infinito. A Hölderlin è chiaro che il solo soddisfacimento dei bisogni materiali o la sola eguaglianza non potranno che portare al dispotismo della legge, senza che nella rivoluzione venga contemplata la tensione all’unitezza, alla compenetrazione tra uno e molteplice. E capisce che lo Stato sorto dalla Rivoluzione francese mantiene i cittadini isolati gli uni dagli altri, assoggettandoli alla nuova divisione del lavoro capitalistica.
Un secolo prima delle rivoluzioni comuniste novecentesche, Hölderlin aveva intuito la contraddizione insita nel rivolgimento affidato ai rivoluzionari di professione e a una fredda filosofia della storia. Le pagine del poeta svevo parlano anche alla sinistra di oggi e a tutti coloro che hanno ancora a cuore la trasformazione sociale. Il socialismo, insomma, non è solo una teoria economica o politica per la redistribuzione della ricchezza o per la giustizia sociale, ma anche e soprattutto quell’ethos che tiene nella sfera pubblica la questione dell’essere e, così facendo, amplia la comprensione dell’umano, anche nella dimensione privata del rapporto con se stessi. Tale rapporto virtuoso tra sfera pubblica e sfera privata è ciò che veramente può consentire una vera liberazione dei subalterni, e il loro divenire autonomi creatori di storia.
Il romanzo
Il romanzo Iperione1 è ambientato nella seconda metà del XVIII secolo, al tempo dell’insurrezione dei Greci contro l’occupante ottomano. Iperione è un giovane greco dell’isola di Tinos, nell’arcipelago delle Cicladi, che ha per maestro Adamas, un vecchio che lo educa tramite i valori eroici della grecità antica. Il maestro lo lascia dopo averlo iniziato e il giovane greco abbandona l’isola natale con l’intento di conoscere il mondo, di vedere posti nuovi. L’arrivo a Smirne mette in contatto Iperione con l’ambiente raffinato e borghese della città, che rappresenterà per lui una delusione, imbevuto com’è degli antichi ideali greci ispirati alla ricerca dell’armonia e della totalità. Lo salva l’amicizia con Alabanda, combattente per la libertà della Grecia, con il quale riuscirà a condividere i suoi ideali e l’aspirazione alla costruzione di una nuova comunità. Alabanda appartiene però a una setta segreta rivoluzionaria, i cui metodi – come vedremo in questo saggio – Iperione non può condividere. Non gli resta che fuggire addolorato per la fine dell’amicizia con Alabanda. Suo rifugio sarà l’isola di Salamina dove costruirà una capanna in preda ai pensieri più cupi. Nell’isola vicina di Calauria avverrà l’incontro con Diotima, il grande amore, simbolo della bellezza, che rende possibile la conciliazione tra piano morale e piano sensuale in un nuovo impianto etico volto a superare il formalismo kantiano. E la bellezza, come dirà Iperione nel discorso di Atene visitata assieme all’amata, è proprio ciò che caratterizzò la grandezza greca e la virtù del suo stato. Così si chiude il primo volume del romanzo.
Il secondo volume vede il riavvicinamento tra Iperione e Alabanda, che lo invita a considerare la nuova situazione internazionale: la Russia ha dichiarato guerra alla Turchia, nel 1770 e l’idea è quella di sfruttare il conflitto fra le due grandi potenze per liberare il suolo greco. I soldati greci dimostrano però di non condividere il generoso slancio dei due amici volto a costruire uno Stato finalmente libero, fondato sulla bellezza e si rendono colpevoli di violenze e saccheggi contro la loro stessa gente. Il progetto fallisce e Iperione cerca in ogni modo la morte combattendo con la flotta russsa; ferito, viene curato e guarito dall’amico Alabanda che lo convince a scrivere a Diotima per comunicarle la sua volontà di vivere comunque, nonostante la sconfitta. La lettera arriverà troppo tardi. Diotima è morta e lascia a Iperione le sue ultime parole: «noi moriamo per vivere». Distrutto dal dolore, Iperione raggiunge la Germania, dove trova una società frammentata dalla mentalità borghese e dal conseguente egoismo. Anche sul suolo tedesco non incontrerà persone disposte a seguirlo nel suo progetto rivoluzionario di rinascita degli antichi valori di bellezza e di ricomposizione sociale. Il romanzo si chiude con la considerazione che nell’armonia del ciclo vitale sta la conciliazione delle scissioni delle vicende mondane. Ma nell’ultima frase del romanzo — «Presto, di più!» — intravvediamo la possibilità che il cammino di Iperione non si interrompa, che la sua elaborazione sulla riconciliazione degli opposti voglia andare oltre la rassegnata contemplazione del ciclo vitale.
Iniziamo il nostro ragionamento a partire dalla crisi dell’amicizia tra Iperione e Alabanda, così come viene descritta nel primo volume, quando il giovane greco di Tinos scopre che l’amico più anziano fa parte di una setta segreta rivoluzionaria.
La rottura tra Iperione e Alabanda
Alabanda e Iperione stanno discutendo animatamente e con passione, quando nella loro stanza entra un gruppo di uomini di cui il giovane protagonista intuisce all’istante la durezza di cuore e un atteggiamento di fredda onniscienza. Quindi, riflette Iperione, non li si sarebbe potuti definire nature bisognose «se la passione uccisa non avesse lasciato qua e là le sue tracce2».
Il giovane greco comincia a scrutare i loro visi, preoccupato dal gelo che si sta diffondendo in quella stanza. Nel viso di uno di questi — che si riveleranno poi essere gli amici congiurati di Alabanda, appartenenti alla setta segreta Nemesisbund — la quiete si stende come quella di un campo di battaglia, come a dire che passione, amore e morte vi hanno imperversato. Le sue labbra mostrano un forte disprezzo e il suo intelletto domina le macerie dell’anima «come l’occhio di uno sparviero che riposa su palazzi in rovina3». Un altro degli intervenuti dimostra invece una freddezza non certo innata, ma strappata con la forza della persuasione, tanto da essere caratterizzato dall’intima contraddizione del suo atteggiarsi, come «se dovesse fare la guardia a se stesso4».
I discorsi dei tre amici di Alabanda sono scioccanti per Iperione, a partire dal proposito principale: «siamo qui per fare piazza pulita sulla terra5». E ci tengono a spiegare che non sarà per preparare le condizioni del nuovo. Infatti, raccolgono sì i sassi dal campo per scavare solchi con l’aratro, ma non per seminare, bensì per estirpare le erbacce alla radice, affinché si dissecchino al calore del sole. Non hanno tempo per attendere l’esito del raccolto: «per noi il compenso arriverebbe troppo tardi; per noi la messe non maturerà più6». Non hanno più tempo: «siamo arrivati alla sera dei nostri giorni7».
I tre intervenuti pronunceranno parole ancora più dure, ma è importante sottolineare per il momento alcuni punti emersi da questa sorta di discorso programmatico sui compiti della rivoluzione, la quale si configura come distruzione, più che costruzione. O meglio, compito dei rivoluzionari non è attendere il raccolto, ma diserbare, disseccare. E fare presto. La vita è alla fine e ciò che sola può darle senso è la riuscita della rivoluzione.
La filosofia dei rivoluzione è quella illuminista dell’immanenza totale, per la quale ciò che conta è il risultato da raggiungere e non la vita come problema a se stessa, non l’esistenza come mistero sporto sull’abisso fra finito e infinito, tra uno e molteplice. Ciò che conta è rimuovere gli ostacoli al dispiegamento della rivoluzione e quindi distruggere il vecchio. E tutto questo va fatto in fretta, prima di morire, perché altrimenti la vita non avrebbe senso.
La rivoluzione arriva così a significare per gli amici congiurati di Alabanda una sorta di riscatto dai rovesci della vita, dalle alterne fortune e della aspettative deluse della giovinezza:
Abbiamo parlato molto di gioia e sofferenza e abbiamo amato, odiato entrambi. Abbiamo giocato col destino ed esso ha fatto la stessa cosa con noi. Dal bastone di mendicante fino alla corona di re ci ha innalzato e ci ha gettato giù. Esso ci ha sventolato come si sventola un turibolo ardente e noi siamo diventati roventi, finché il carbone s’è trasformato in cenere. Abbiamo smesso di parlare di fortuna e sfortuna. Abbiamo oltrepassato la metà della vita, dove verdeggia e c’è calore8.
Finalmente – pare quasi che dicano a Iperione – non siamo più giovani, nell’età in cui fortuna e sfortuna ci affannano coi loro rivolgimenti e la vita si fa problema di senso fra desiderio di libertà e destino. La fine della giovinezza ha fatto maturare una fredda razionalità e la dottrina rivoluzionaria si impone a placare i tormenti e le inquietudini della gioventù:
Ma non è il peggio ciò che sopravvive alla giovinezza. Dal metallo rovente viene forgiata la fredda spada. Si dice pure che sui vulcani spenti, morti, le viti non diano vino cattivo9.
La fredda spada è il pensiero rivoluzionario e lo si applica razionalmente, piuttosto che osare come in gioventù. Il pensiero, la dottrina è ora la guida fredda e implacabile contro le avversità della sfortuna, nel suo alternarsi con la fortuna, è la lama che si incunea fra libertà e destino e recide la sofferenza del continuo oscillare. Dottrina dura e fredda che si impone per la sua razionalità e non ha bisogno di conquistare il cuore degli uomini, non è amore:
Non mendichiamo il cuore dell’uomo. Ché non abbiamo bisogno del suo cuore, del suo volere10.
I rivoluzionari si trovano così a essere esecutori che agiscono in nome di una dottrina, tanto che si presentano disinteressati sia di sé, sia degli altri, per un attimo considerati destinatari dell’impresa sovvertitrice, ma comunque involontari servi del nuovo, avanzante con fredda e implacabile necessità, al quale è quindi impossibile sottrarsi:
«Non diciamo tutto questo per noi, […] lo diciamo per voi! […] ed i pazzi e gli assennati, i semplici ed i saggi e tutti i vizi e tutte le virtù della rozzezza e della cultura, senza essere assunti, sono al nostro servizio, aiutandoci ciecamente a raggiungere i nostri scopi — solo che desidereremmo che qualcuno potesse goderne, perciò ci scegliamo i migliori tra i mille ciechi aiutanti, per farli vedere11».
Si contribuisce ciecamente alla rivoluzione, per una sorta di astuzia della ragione che però – in questo caso – non si serve di grandi personaggi, ma di masse eterogenee. Tra loro, troviamo ciechi servitori, anche se qualcuno sarà ammesso a far parte dell’élite per poter finalmente vedere.
La dottrina rivoluzionaria procede, indipendentemente dal consenso, in forza della sua teleologia:
[…] ma se nessuno vuole abitare dove abbiamo edificato, non è colpa nostra, non è a scapito nostro. Abbiamo fatto quanto ci spettava. Se nessuno vuole raccogliere dove abbiamo arato, chi ci può biasimare per questo? Chi maledice l’albero, se la sua mela cade nel pantano? Mi son detto spesso “stai celebrando un sacrificio alla putrefazione”, eppure ho portato a termine il mio lavoro giornaliero12.
La rivoluzione è giusta anche se crea un deserto, cattedrali che nessuno vuole abitare. È forse la celebrazione di un «sacrificio alla putrefazione», ma è un lavoro che va fatto. Iperione rimane sconvolto dal discorso dei tre congiurati, la stanza diventa troppo stretta per lui in quel momento; le stesse mura è come se gridassero l’impostura di quegli amici di Alabanda. Sete di aria e di libertà sente Iperione, e il bisogno di uscire e di respirare.
Il nostro incontro con Hölderlin inizia qui, fuori da quella stanza, ponendo al centro della nostra riflessione queste tre pagine dell’Iperione, nelle quali si possono trovare alcuni dei temi principali del poeta svevo. Sono pagine che rappresentano un colpo al cuore per chi nel corso della propria vita ha pensato e sognato la rivoluzione e, allo stesso tempo, ha cercato il cuore — appunto — e il consenso degli uomini e delle donne. E siamo vicini a quell’Iperione-Hölderlin che molto prima delle rivoluzioni otto-novecentesche aveva esplorato il lato oscuro dei rivoluzionari di professione e della implacabile inesorabilità della dottrina di cui erano portatori. Siamo fuori da quella stanza e ci apprestiamo a interrogare quello stravagante poeta svevo che, prima di tutti, aveva capito e a cui — sorprendentemente — quasi nessuno si è più rivolto per pensare e riflettere sulla rivoluzione.
La rivoluzione come riscatto dai rovesci della vita
Iperione, come abbiamo visto, descrive i tre congiurati prima di farli parlare. Ciò che colpisce è la durezza dei visi, quieti, come la quiete del campo di battaglia dopo che la morte ha placato il suo bisogno di sangue; freddi, con la freddezza conquistata sacrificando affetti e amore; solcati dal risentimento, come chi ha dovuto subire le alterne vicende della gioventù e non si capacita dei rovesci.
Questi tratti psicologici sono molti significativi e non devono essere visti per la loro funzione meramente descrittiva. Infatti, la durezza di quei visi sta a rappresentare il risultato di percorsi esistenziali in cui la vita ha smesso di essere problema a se stessa. Siamo in presenza di quei rivoluzionari di professione che, di fronte alle contraddizioni della vita col suo carico di dolore e tensione fra finito e infinito, tra gioia e incombenza della morte, rimuovono la sofferenza per affidarsi alla dottrina e al suo compimento. Più di un secolo dopo, Georges Bataille espliciterà acutamente ciò che Hölderlin ci fa intuire con la sua pagina. A proposito dello stalinismo, scorgendo un nesso tra umanesimo comunista e tecnica, dirà che l’uomo sovietico diventa produttore e, tramite la produzione, produce se stesso, la propria essenza umana:
[Per un marxista] il valore sovrano è l’uomo: la produzione non è l’unico valore, essa è solo il mezzo per rispondere ai bisogni dell’uomo, è al suo servizio, e non l’uomo al servizio della produzione.
[…] Resta da sapere tuttavia se l’uomo a cui il comunismo subordina la produzione non abbia assunto questo valore sovrano a una condizione principale, quella di aver rinunciato, per se stesso, a tutto ciò che è veramente sovrano. Diventa, è vero, misura delle cose, ma forse ha dovuto, a tal fine, negare se stesso. Certo è ancora un uomo, mette la produzione al suo servizio, ma non lo fa senza cedere alle esigenze di questa: in una parola, senza abdicare. Al desiderio irriducibile, a ciò che l’uomo è per passione, per capriccio, il comunismo ha sostitui o quei nostri bisogni che possono conciliarsi con una vita interamente dedita a produrre.
Dobbiamo quindi chiederci alla fine se questo mondo, comunista o borghese, che dà il primo posto all’accumulazione, non sia costretto, in un modo o in un altro, a negare e sopprimere (o, per lo meno, a sforzarsi di farlo) quello che in noi non è riducibile a mezzo, ciò che è sovrano13 .
Per Bataille, l’uomo dell’umanesimo stalinista sarebbe riuscito a sconfiggere anche la morte. Infatti, potendo produrre la propria essenza, ha compiuto se stesso interamente e non ha più nell’orizzonte delle proprie interpretazioni la finitezza e la morte. L’uomo del comunismo realizzato è già morto e non può più avere paura della morte. Per lui, la vita si è fatta immanente a se stessa facendo scomparire la morte.
Anche quella dei congiurati amici di Alabanda è una vita che ha smesso di essere problema a se stessa, di muovere tra fortuna e sfortuna. La dottrina rivoluzionaria li salva e li dispone al compimento dell’opera necessaria senza che la morte sia più un problema. È allora importante richiamare qui un passo molto famoso del Thalia Fragment dell’Iperione14, in cui la vita viene definita dal giovane protagonista greco come un percorso che segue una sorta di traiettoria eccentrica che conduce l’uomo dall’immediatezza della gioventù alla maturità, in cui le contraddizioni del vivere giungono a consapevolezza nella mediazione, dopo che si è sopportato il dolore e la fatica della scissione e delle opposizioni fra sé e la natura, fra il soggetto e l’oggetto, fra il finito e l’infinito:
Vi sono due ideali della nostra esistenza: uno stato di massima semplicità, in cui i nostri bisogni, solo attraverso l’organizzazione della natura, senza il nostro intervento, sono in reciproca armonia con se stessi e con le nostre forze e con tutto ciò con cui siamo in relazione, e uno stato di massima formazione, in cui, attraverso l’organizzazione che noi stessi siamo in grado di darci, avverrebbe la stessa cosa, anche se i nostri bisogni e le nostre forze fossero moltiplicati e accresciuti all’infinito. Il cammino eccentrico che l’uomo, in generale e in particolare, percorre da un punto (della più o meno pura semplicità) all’altro (della più o meno compiuta formazione) sembra essere sempre uguale nelle sue direzioni essenziali15.
Ed in tale traiettoria eccentrica due sono le tendenze che caratterizzano il percorso umano: il «voler essere in tutto e al di sopra di tutto16». L’essere in tutto sta a significare l’aspirazione all’unità, al ricongiungimento con l’altro da sé; il desiderare di essere al di sopra di tutto rappresenta la volontà di dominio, l’espressione della superiorità sull’altro da sé. La massima impressa sulla tomba di Ignazio di Loyola, riportata nel Thalia Fragment, e posta come esergo dell’edizione definitiva dell’Iperione, indica l’ideale della misura: non coerceri maximo, contineri tamen a minimo. Non bisogna essere limitati dalla cosa più grande e tuttavia essere contenuti da quella più piccola. Si tratta di un equilibrio non facile da raggiungere, certamente dinamico e mai ottenuto una volta per tutte. In qualche modo, la massima sta a rappresentare l’accidentato cammino dell’Iperione del Thalia Fragment, ma anche di quello dell’edizione definitiva del romanzo, alla ricerca dell’equilibrio fra tensione verso l’infinito — non farsi limitare da ciò che è massimo — e finitezza — essere contenuti da ciò che è minimo.
Iperione ricercherà l’Uno-Tutto nell’amicizia per gli uomini, nell’amore per Melite-Diotima, nell’azione politica e nell’abbandono estatico della contemplazione e immersione nella natura. Scacchi e fallimenti si susseguiranno per l’unilateralità dei tentativi, per non essere riuscito a conciliare gli opposti impulsi della massima di Loyola. L’equilibrio da cercare è così sempre rischioso, sempre esposto al fallimento, dal momento che la traiettoria del percorso umano è eccentrica e non si dà mai compimento, conciliazione statica.
Rileviamo allora lo scarto tra il sentimento doloroso delle opposizioni che caratterizzano la vita dell’uomo e la sua ricerca della misura e la sicurezza — dura e senza dolore — dei congiurati della setta di Alabanda. Si tratta della sicurezza di chi ha «smesso di parlare di fortuna e sfortuna». Ora la rivoluzione ha sciolto la contraddizione, il dolore della scissione, la fatica della via eccentrica. La via si è fatta diritta e porta al compimento della dottrina. La rivoluzione è dunque la risposta al dolore della contraddizione, la soluzione sicura per non dover vivere tra fortuna e sfortuna, fra dominio e abbandono al corso delle cose, tra situazione e libertà. Si fa fredda spada e non contempla quindi il cuore degli uomini; non è questione di cuore, dal momento che a essa ci si può affidare completamente in virtù della sua dottrina. Il cuore ne sarà certo sollevato, nel senso che tale affidamento comporterà la fine della sofferenza. Insomma, per congiurati della setta di Alabanda il cambiamento rivoluzionario non ha a che fare con l’amore.
Siamo qui a un punto fondamentale del percorso hölderliniano. Una tale idea della rivoluzione è per il poeta svevo ripugnante, perché è certamente vero che la trasformazione deve abbattere le incrostazioni positive che frenano il libero dispiegarsi della vita umana, ma è altrettanto drammaticamente certo che quel dispiegarsi è sempre problema a se stesso, ha una densità esistenziale tragica che non può essere risolta dalla dissoluzione del positivo — religioni al servizio del potere, stati tirannici, ingiustizia, convezioni sociali — e che, anzi, tenderà sempre a cristallizzare nel tempo, proprio come risposta alla tragicità del vivere, all’insostenibile dolore delle scissioni e delle contraddizioni dell’esistenza.
Per Hölderlin, è inconcepibile che la rivoluzione non abbia spessore esistenziale, non contempli il cuore degli uomini. La rivoluzione apre un tempo nuovo, ma l’apertura è davvero tale, se è la possibilità che la libertà venga messa a tema nel suo essere continuamente esposta allo scacco della finitezza; e quindi il tempo nuovo è il tempo in cui la tragicità del vivere e la natura della fragile libertà umana possano essere squadernate pubblicamente nella società e possano essere questioni politiche, cioè, in senso greco, della polis, luogo in cui si rappresentano appunto le tragedie. La rivoluzione apre, non decide, né compie per sempre un apparato di teorie filosofiche e politiche. Infatti, il tragico è sotteso alla vita, è parte dell’esistenza, e la rivoluzione non è altro che la possibilità del suo dispiegamento. E tale dispiegamento significa insicurezza e fragilità dell’operare umano a seguito della rivoluzione, grazie alla rivoluzione stessa. Hölderlin non si ritrae di fronte all’inesorabilità del tragico per denunciare l’inutilità della rivoluzione. La sua riflessione non è né di segno moderato e conservatore, né apertamente nichilistico. La rivoluzione è la costante dell’opera hölderliniana e il pensiero è pensiero della rivoluzione, dell’azione, e non della ricerca nostalgica dell’armonia. Lo scacco esistenziale sempre in agguato, in quanto ontologico, è proprio l’essenza degli ideali rivoluzionari ed egualitari. Tragico e rivoluzione si presuppongono perché senza egualitarismo repubblicano non può esservi libero dispiegarsi delle contraddizioni tragiche nell’agorà pubblica, le quali, a loro volta, tengono aperta la prospettiva democratica col loro richiamo alla fragilità di ogni costruzione umana che si fonda su una libertà non fondata, sull’abisso della contraddizione fra finito e infinito che caratterizza l’esistenza umana col suo carico di dolore e insensatezza. Tale contraddizione, al tempo stesso, apre l’esistenza alla libertà e alla creazione del nuovo, dell’inusitato, della gioiosa creatività umana. Si dà quindi solo conciliazione tragica17 che, come tale, non può essere altro che temporanea e quindi aperta alla libertà e alla eguaglianza solidale tra gli uomini.
Amore e bellezza nella rivoluzione
C’è qui un punto molto importante che ha a che fare con la riuscita della rivoluzione. Che cos’è infatti la rivoluzione per Hölderlin, per Iperione? Come vedremo, Iperione intreccia il cambiamento rivoluzionario all’amore e alla bellezza, ben diversamente dai freddi congiurati della setta segreta. La rivoluzione è quindi sempre la condizione di apertura per squadernare il tema della conciliazione, e bellezza e amore sono le figure che caratterizzano la ricerca della misura, della compenetrazione. Quindi, come già detto, la rivoluzione non può essere affare di un’élite che conosce la dottrina e la applica per il bene della massa. Infatti, la rivoluzione è espressione di un pensiero che Hölderlin definisce repubblicano, il quale non muove tramite aut aut, ma attraverso et et, l’en diaferon eauto. È un pensiero che sa articolare l’idea dell’unità degli opposti e non può vedere la trasformazione sociale né come compimento definitivo, né come soppressione di una parte della realtà. Interpretando il conflitto tra Creonte e Antigone, scriverà:
La forma razionale che qui nasce in modo tragico è politica, e in verità repubblicana, poiché è mantenuto l’equilibrio tra Creonte e Antigone, tra il formale e l’antiformale. Ciò si rivela specialmente alla fine, quando Creonte è quasi maltrattato dai suoi servi18.
Potrà sembrare strano sentire commentare una tragedia greca in termini di natura politica repubblicana, ma questa è la profondità esistenziale e filosofica del ragionamento hölderliniano sulla politica. In una famosa lettera all’amico Sinclair aveva scritto che «nessuna forza è monarchica sia in cielo sia in terra19». Proprio perché la ricerca politica di Hölderlin si intreccia con quella filosofica e poetologica, egli può dire che in una vita che aspira alla conciliazione, tramite la bellezza e l’amore, non può esserci un principio gerarchico di tipo monarchico. Un pensiero e una vita che tendono alla conciliazione tra finito e infinito tramite amore e bellezza non possono essere caratterizzati che da principi repubblicani. Il tragico è repubblicano, la traiettoria eccentrica è repubblicana, in quanto policentrica e mai definitiva. La rivoluzione è allora solamente apertura e mai compimento per Hölderlin. Egli non può che sentirsi tradito da quei rivoluzionari che pensano alla rivoluzione come compimento definitivo di una dottrina e lo fanno addirittura in nome di ideali repubblicani di eguaglianza. Infatti, per lui prima viene la vita col suo carico di scissione e dolore, che allo stesso tempo apre alla libertà per il suo essere repubblicano, e poi la rivoluzione, innescata proprio da un sentimento tragico della vita e della politica. Si tratta della politica intesa come campo della polis in cui, in fraterna ed egualitaria solidarietà, ci si sporge sull’abisso del tragico per contenerlo, sorta di catabasi da cui risalire rafforzati, in consapevolezza della propria natura umana, e quindi più ricchi per essere fautori del nuovo storico-sociale assieme a tutti quelli che fraternamente hanno sperimentato la scissione.
La rivoluzione non è il prima che permette alla vita autentica di dispiegarsi, è ciò che viene dopo, in seguito alla tensione tragica che caratterizza l’esistenza ed è costitutiva della libertà umana. Tale tensione tragica che fa tendere gli uomini alla libertà, dal momento che li tiene sempre tra coscienza della finitezza e aspirazione all’infinito, non può essere che tensione comunitaria. La libertà, cioè la possibilità di sollevarsi oltre la naturalità della specie e di far valore la volontà della ragione, non può che farci vedere gli altri come esseri a loro volta liberi e non utilizzabili, non a nostra disposizione come cose. La libertà fa nascere allora la comunità, e quindi l’amore, nel momento in cui l’altro non è più cosa dominabile secondo leggi naturali, bensì essere libero che riconosce a sua volta la nostra libertà. E una tale intersoggettività è dialogo, parola. E la parola diventa cultura, memoria, possibilità di interpretare i fatti e le cose secondo la nostra libera volontà. La libertà non può essere altro che amore, e la politica ha quindi a che fare con l’amore per Hölderlin. Infatti, non si può essere liberi in solitudine, la libertà ha bisogno di una comunità di liberi per esplicarsi. L’autenticità che nasce dalla consapevolezza dell’abisso20 su cui sono costretti a vivere gli uomini si dispiega da un individuo all’altro disponibile ad accettare il rischio di quell’abisso, l’azzardo della libertà. La rivoluzione allora non è il compimento della dottrina che apre il paradiso in terra, è l’apertura della possibilità di liberare gli altri per liberare se stessi: è amore. E si verifica quando già la libertà tragica del nostro esistere si è fatta strada nel nostro cuore e già ci ha formato alla libertà e già è libertà operante nelle nostre vite.
Alabanda, per amore di Iperione, lascerà la setta segreta, affermando la forza superiore del diritto del cuore e della libertà:
Io ho dato la preferenza al diritto divino del cuore. Per amore del mio prediletto ho rotto il mio giuramento. Non è stato giusto? Non deve forse il desiderio più nobile essere anche il più libero? — Il mio cuore mi ha preso in parola; gli ho dato la libertà e vedi, esso ne fa uso21.
È nel rapporto di Iperione con Diotima che vediamo ancora meglio l’intreccio tra amore, bellezza e politica. Iperione si imbatte in Diotima proprio dopo la prima separazione da Alabanda, avvenuta in seguito al terribile incontro con i congiurati. La fanciulla rappresenta la bellezza come ciò che dà significato all’azione politica e rivoluzionaria, cioè l’unità dialettica della nuova comunità, in cui compenetrano – seppure in fragile equilibrio – natura e cultura, Stato e società, intellettuali e popolo. Si tratta della stessa idea di bellezza che leggiamo ne Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco:
E infine l’idea che tutte le unifica, l’idea di bellezza, intesa nel superiore senso platonico. Ho la certezza che il supremo atto della ragione, quello con cui essa comprende la totalità delle idee, è un atto estetico, e che verità e bontà sono intimamente fuse soltanto nella bellezza. Il filosofo deve dunque possedere un’attitudine estetica pari a quella del poeta. Ma i nostri filosofi sono, letteralmente, uomini privi di ogni senso estetico. La filosofia dello spirito è una filosofia estetica. Non si può assolutamente essere ricchi di spirito, non si può meditare con pienezza di spirito sulla storia — se non si è dotati di senso estetico. Deve finalmente risultare chiaro quello che manca agli uomini incapaci di comprendere qualsiasi idea — e abbastanza ingenui da confessare che per essi tutto è oscuro non appena si esce da tabelle e registri22.
Vediamo come venga richiamato espressamente Platone. Ricordiamo allora che nel Fedro Socrate si fa sostenitore del primato della bellezza fra le idee poiché è l’unica che porta la sua forza luminosa anche nel mondo sensibile. Infatti, la vita dell’amato ingenera il ricordo di ciò che è stato contemplato nel mondo delle idee. E così pensiamo alla Diotima del Simposio che ha iniziato Socrate ai misteri di Eros, mediante il quale si giunge alla contemplazione del Bello in sé, a partire dal desiderio del corpo di chi si ama. Seguendo l’ispirazione platonica, gli estensori del Systemprogramm ci dicono che la bellezza è potenza unificante tale per cui l’«atto estetico» è «atto supremo della ragione». La ragione deve essere estetizzata e la bellezza acquista così valore politico:
Se non daremo alle idee una forma estetica, ossia mitologica, esse non avranno interesse per il popolo, e viceversa: se la mitologia non è razionale, il filosofo ne deve provare vergogna. E così alla fine coloro che sono illuminati e coloro che non lo sono, si uniranno; la mitologia deve divenire filosofica, così da rendere il popolo razionale, e la filosofia deve divenire mitologica, così da rendere sensibili i filosofi. Allora regnerà tra gli uomini un’eterna unità. Non più sguardi sprezzanti, non più il timore del popolo verso i suoi sapienti e i suoi sacerdoti. E potremmo sperare allora in un armonico sviluppo di ogni capacità, nel singolo come nella totalità degli individui23.
Ma veniamo all’incontro con Diotima e lasciamolo alle parole di Iperione:
Oh, voi che cercate il sommo bene nelle profondità del sapere, nel tumulto dell’azione, nell’oscurità del passato, nel labirinto del futuro, dentro le fosse o sopra le stelle! Conoscete il suo nome? il nome di ciò che è uno e tutto?
Il suo nome è bellezza.
Sapevate ciò che volevate? Ancora io non lo so, però ne ho il presentimento, del nuovo regno della nuova divinità, e ad esso corro incontro afferrando gli altri per portarli con me, come il fiume trascina gli altri fiumi dentro l’oceano.
E tu, tu mi hai indicato il cammino! Con te ho incominciato. Non sono degni di una parola i giorni in cui non ti conoscevo ancora.
Oh, Diotima, Diotima, creatura celeste24!
Vediamo che per Hölderlin la bellezza unifica sapere, azione politica, epoche e quindi tradizione e innovazione, nonché religione e generazioni. È ciò che permette la nascita di una nuova comunità, tanto è vero che Iperione ha, nell’avvicinarsi a essa, il presentimento del «nuovo regno» e si affretta verso di esso afferrando gli altri e conducendoli con sé «come il fiume, le correnti verso l’oceano». Il poeta Hölderlin fa dire al rivoluzionario Iperione che la rivoluzione ha a che fare con la bellezza e porterà alla nascita di una comunità nuova, unificata da quel principio, che consentirà il superamento degli aspetti unilaterali della società e del sapere borghesi. La cultura è dunque per Hölderlin azione politica e rinnovamento esistenziale, e l’intellettuale deve tener fermo tale intreccio, pena la separazione tra Stato e società, tra natura e arte.
Il poeta — l’intellettuale — è colui che fa della rivoluzione un fatto estetico ed esistenziale. Suo compito è quello di conferire alla politica uno spessore esistenziale affinché possa parlare al cuore degli uomini, a differenza di quanto teorizzato dai congiurati della setta Nemesisbund.
Tornando a Diotima, possiamo dire che esprime il centro ordinatore e armonico delle mille contraddizioni della vita. Impersonando amore e bellezza, si fa simbolo della vocazione rivoluzionaria come tensione all’unità, alla compenetrazione tra i vari elementi contraddittori dell’esperienza:
Non avevo niente da darle, se non un animo carico di violenti contrasti, pieno di ricordi sanguinanti, nulla avevo da darle, se non il mio amore sconfinato con i suoi mille travagli, le sue mille tumultuose speranze; ella invece mi stava davanti in immutabile bellezza, schiettezza e sorridente perfezione, e tutto ciò che desiderano e sognano i mortali, ah, ciò che di tutte le sfere più alte presagisce il genio nelle auree ore del mattino, tutto era adempiuto in questa unica anima serena25.
Diotima spiega a Iperione quale sia la tensione continua che lo agita, tensione che va aldilà della semplice amicizia personale. Bellezza e amore, ancora una volta, nelle parole di Diotima, e nella riflessione hölderliniana, vengono ad avere spessore politico. Sì, perché l’amicizia e l’amore più volte cercati da Iperione non sono il semplice desiderio di non essere solo o di placare i contrasti grazie alla compenetrazione con l’altro. L’amicizia è tensione a un mondo nuovo trasformato dall’amore, il primo legame di una connessione sempre più estesa, sorta di “social catena” leopardiana:
È un tempo migliore ciò che tu cerchi, un mondo più bello. Soltanto questo mondo abbracciavi nei tuoi amici, eri con loro questo mondo. […] Tu non volevi uomini, credimi, volevi un mondo26.
I due innamorati intraprendono un viaggio verso Atene, città nella quale Iperione ricorda commosso il grande principio eracliteo dell’en diaferon eauto che, nel commento di Diotima, riceverà un significato politico forte, per cui l’unità nella diversità diventa costruzione sociale, accordo dialettico tra uomini e natura, che possa valere anche per la trasformazione del presente. L’amore stesso non può essere per Diotima appagamento privato, ma risorsa politica di trasformazione del mondo:
Ma pensi realmente di essere ora alla fine? Vuoi rinchiuderti nel cielo del tuo amore e lasciare avvizzire e gelare ai tuoi piedi il mondo, che ha bisogno di te? Come il raggio di luce devi calar giù, come la pioggia che tutto ristora devi scendere nel regno della mortalità, devi illuminare come Apollo, scuotere, animare come Giove, altrimenti non sarai degno del tuo cielo. Ti prego, entra in Atene ancora una volta, ed osserva anche gli uomini che si aggirano tra le rovine, i rozzi Albanesi e gli altri Greci buoni ed ingenui, che con una piacevole danza ed una sacra leggenda si consolano dell’infame violenza che grava su di loro — puoi tu dire: mi vergogno di questa materia? Io penso che si potrebbe ancora plasmare. Puoi tu distogliere il tuo cuore da chi è bisognoso? Essi non sono cattivi, non ti hanno fatto nulla di male27!
Ancora una volta, Hölderlin sottolinea come l’amore abbia una forte rilevanza politica e spinga alla liberazione di tutti, intesa come liberazione di se stessi, e alla riforma del cuore come progetto politico. La trasformazione non è un insieme di teorie e leggi storiche da applicare, bensì attenzione al cuore e al bisogno degli altri, che chiaramente non è solo necessità materiale, ma aspirazione alla libertà, per non accontentarsi della piacevole danza da schiavi, di adeguamento al mondo, che non è altro che la rimozione del problema stesso della libertà. La rivoluzione si configura allora come riforma morale e intellettuale, come autoeducazione e autoliberazione dall’apatia, dalla danza apparentemente piacevole, che in realtà è infame violenza, perché restringe le possibilità dell’umano e le appiattisce al presente del potere effettivo, la cui violenza non sta tanto nella brutale oppressione, quanto nella sacra leggenda di cui si serve.
Tramite Diotima, Hölderlin dimostra di aver capito che a partire da quel momento storico l’oppressione si fonderà sempre più non tanto e non solo nella violenza esplicita, quanto sull’ideologia dell’incipiente società capitalistica che, tramite l’intreccio tra spirito analitico28, divisione del lavoro29 e frantumazione sociale condanna gli uomini alla solitudine, in balia di un potere sempre più pervasivo e astratto, che trarrà forza proprio dallo spirito di scissione tipico delle scienze e della nuova economia capitalistica. Per Diotima, la rivoluzione deve essere allora riforma morale e intellettuale, e così consiglierà a Iperione al termine della visita ad Atene:
Vai in Italia, in Germania, in Francia — di quanti anni hai bisogno? tre-quattro — penso che ne bastino tre; non sei lento, e cerchi solo ciò che è più grande e più bello….
[…] Sarai l’educatore del nostro popolo, sarai un grand’uomo, spero. E quando poi ti abbraccerò, sognerò di essere una parte dell’uomo prodigioso, esulterò quasi mi avessi donato la metà della tua immortalità, come Polluce e Castore, oh! sarò una fanciulla orgogliosa, Iperione30!
E ancora, quando Iperione le comunica il desiderio di unirsi nuovamente ad Alabanda per la guerra di liberazione del suolo greco:
«Conquisterai — esclamò Diotima — e ne dimenticherai il perché? tutt’al più otterrai con la forza un libero stato e ti chiederai: a quale scopo l’ho costruito? Ahimè! tutta la vita bella che avrebbe dovuto animarsi in esso si sarà esaurita perfino in te! La lotta selvaggia ti strazierà, anima bella, tu invecchierai, spirito beato e alla fine, stanco di vivere, domanderai: dove siete ora, ideali della giovinezza?31».
L’eredità della riflessione hölderliniana oggi
Non seguiremo l’intera vicenda di Iperione e Diotima. Ci premeva mettere in risalto le pagine da cui siamo partiti, quelle dell’incontro di Iperione con i congiurati della setta Nemesisbund, per farle interagire con quelle successive, riguardanti soprattutto Diotima e quindi l’amore e la bellezza, in cui Hölderlin conferisce alla rivoluzione uno spessore esistenziale e antropologico molto più complesso e profondo delle dure e volgari parole dei rivoluzionari di professione.
Torniamo allora alle nostre pagine iniziali, arricchiti del punto di vista hölderliniano, provando a interrogarle nuovamente. Ebbene, i discorsi dei congiurati colpiscono, oltre che per la durezza, per una sorta di impazienza, di ansia del compimento della rivoluzione, la sola che possa colmare il vuoto di una vita senza senso che, arrivata alla maturità, ha bisogno di quel risultato per sentire di aver realizzato la propria umanità. E allora il compenso di una rivoluzione matura che preveda anche il raccolto «arriverebbe troppo tardi». Ciò che conta è aver compiuto l’opera, fatto quanto spettava. Chi potrà biasimarli per questo? E che importa se nessuno vuole raccogliere dove hanno arato, se la mela cade nel pantano? La sconfitta non è contemplata. E la mela può cadere nel pantano, senza che questo possa essere considerato una sconfitta. La rivoluzione è fatta, compiuta alla «sera dei giorni» dei rivoluzionari che hanno colto in tempo l’occasione senza che le cose del mondo — anche quelle che comunque permangono dopo la rivoluzione — siano problema che li riguardi. Anzi, quelle cose sono al loro servizio: «tutto è per noi, ed i pazzi e gli assennati, i semplici ed i saggi e tutti i vizi e tutte le virtù della rozzezza e della cultura, senza essere assunti, sono al nostro servizio, aiutandoci ciecamente a raggiungere i nostri scopi». Ciò che conta è recidere, tagliare, arare e riuscire, vincere, anche senza il cuore degli uomini.
Anche se Hölderlin pensava alla Rivoluzione francese — il grande evento del suo tempo e della sua giovinezza — la descrizione di quei rivoluzionari di professione può essere applicata anche a quelli delle rivoluzioni comuniste novecentesche, e ancora oggi parla della sconfitta storica della sinistra nel mondo. E non solo della sconfitta, ci dice molto anche dell’impossibilità di risalire la china, rialzare la testa e, soprattutto, riappassionarsi alle storie degli uomini e delle donne, al loro vissuto, alla loro concreta e sofferta storia esistenziale, sospesa tra destino e libertà, consapevolezza della morte e desiderio della vita.
Ci parla della sconfitta perché in quei discorsi è evidente un razionalismo incentrato sul compimento di una dottrina senza profondità esistenziale. Acutamente, e prefigurando lo scacco delle rivoluzioni successive, Hölderlin capisce che la sola eguaglianza o il solo soddisfacimento dei bisogni materiali non potrà che portare al dispotismo della legge e alla frantumazione sociale, a causa di un’antropologia della penuria che non considererà la tensione all’interezza, alla compenetrazione tra uno e molteplice. Insomma, si rende conto che lo Stato32 sorto dalla Rivoluzione francese mantiene gli individui isolati gli uni dagli altri e, in questo modo, favorisce la divisione capitalistica del lavoro delle nuove società borghesi. Se la rivoluzione non si pone come obiettivo quello della ricostituzione della totalità, per quanto dialettica e sempre instabile, non potrà che rivoltarsi in un nuovo dispotismo, il dispotismo del prevalere dell’intelletto sulla ragione e quindi dello sfruttamento della natura, che non rappresenta più il monito e il richiamo all’armonia e alla ricomposizione, ma un mero insieme di oggetti da manipolare.
La tensione all’unità, la compenetrazione dialettica tra finito e infinito, tipica dell’idealismo tedesco, può assumere valore politico solo se la politica si fa campo in cui la tensione fra i poli opposti dell’esistenza viene contenuta, se la polis è il luogo pubblico in cui il problema del vivere dell’individuo — oppresso dalla contraddizione tra libertà e destino — diventa elaborazione collettiva, messa in forma, cultura, istituzioni, oggetti sociali sui cui investire affettivamente, e quindi amore e bellezza esperiti collettivamente come azione politica. Invece, nel momento in cui la politica ha a che fare solo con la riuscita di una dottrina rivoluzionaria, legata a un’ottimistica filosofia della storia, non sarà in grado di confrontarsi con la precarietà esistenziale dell’essere umano, né di conquistare il cuore degli uomini e quindi di comprendere tutto il reale, la sua complessità, le sue tensioni. Non potrà contemplare non solo i bisogni materiali dell’uomo, ma anche la sua ansia di libertà e di sicurezza, di innovazione e tradizione allo stesso tempo, di tenerezza e lotta politica.
I discorsi dei congiurati che tanto disgustano Iperione, ci parlano anche dell’oggi, dell’afasia degli eredi delle rivoluzioni comuniste. L’idea della rivoluzione, come prima che apre alla vera vita, toglie parola e speranza nel momento della sconfitta, soprattutto quando la sconfitta si protrae per lungo tempo, diventa epocale. Inoltre, gli stessi singoli militanti di quell’idea si trovano senza progetto e arrivano “alla sera dei loro giorni” senza che la rivoluzione possa compensarli, induriti nel cuore dalla preparazione a una rivoluzione che in realtà non si farà, disumanizzati dalla durezza che si è insinuata nel loro animo da quel prologo preparatorio. Si ritrovano incapaci dunque di rapportarsi con l’altro da sé e di riconoscere l’esistenza con la sua tensione fra libertà e finitezza, senza le parole e il cuore per elaborare e pensare al socialismo come tensione alla compenetrazione tra finito e infinito, per superare la frammentazione borghese, a partire da un sentimento tragico della politica e dell’esistenza. La razionalità borghese è l’individualismo, l’egoismo sociale che nell’ipermodernità odierna si è trasformato in individualismo di massa, frammentazione e infelicità diffusa. Ciò che darebbe ancora fascino alla sinistra è l’idea che il senso dell’esistenza stia nell’essere popolo che sente di appartenere a una parte e nel declinare la propria vita come una sorta di ballo sociale e popolare. Ovviamente questo non significa mortificare la dimensione privata. Dimensione pubblica e sfera privata sono due dimensioni che si presuppongono a vicenda in una sorta di circolo da cui è impossibile uscire. Possiamo allora pensare al socialismo non soltanto come a una dottrina e a una prassi che garantirà benessere e giustizia sociale per tutti, ma come a quell’ethos che mantiene nella sfera pubblica la questione dell’essere, allargando così la comprensione dell’umano anche nella dimensione più privata del rapporto con se stessi e conferendo spessore e complessità all’esistenza, in modo che soprattutto i subalterni possano beneficiarne per diventare autonomi facitori di storia. La vita viene così a coincidere con la politica, dal momento che l’angoscia della condizione mortale trova argine e soluzione sebbene sempre parziale e bisognosa di continuo rinnovamento nella sfera pubblica, e compito dei subalterni e del socialismo sarà quello di rendere pubblica la questione dell’esistenza per sottrarla al privatismo borghese e alle false certezze della tecnica o dell’ipocrisia religiosa. Siamo evidentemente all’interno di una concezione certamente non laica della politica e del socialismo che, allo stesso tempo, non si fonda su alcuna religione o idea messianica di società futura.
È innegabile che oggi le organizzazioni della sinistra siano caratterizzate da una sostanziale freddezza umana, a causa della quale i rapporti umani rimangono a un livello meramente superficiale, anche se ormai si è consapevoli che non vi sarà alcun aldilà post-rivoluzionario, in cui vivere un’esistenza liberata. Ciò fa sì che vivere in tali realtà sia ben poco appagante e ricco dal punto di vista umano, dal momento che vi si trovano soggetti disorientati, afasici, confusi e intontiti dalla sconfitta, uomini e donne che non sono in grado di pensare che già nello stare insieme, in lotta come popolo di parte, inizia la liberazione come decisione per la libertà. Manca infatti la capacità di essere “consorzio umano”, accomunati dalla stessa fragilità esistenziale, dallo stesso abisso di senso sul quale la propria vita si sporge, e che Hölderlin aveva identificato essere la radice della libertà umana e della tensione all’azione.
La comunità politica si riduce a essere così un club di discussione politica nei casi migliori, o di distribuzione delle cariche e delle prebende in quelli peggiori. Gli appartenenti a tali realtà si chiamano tra loro ancora compagni, ma quasi nessuno conosce il significato etimologico della parola. Abitano quei luoghi non tanto come comunità, quanto come associazioni serali in cui ci si ritrova senza che a nessuno venga chiesto niente altro che la buona educazione e il rispetto dell’altro nella discussione. Anche nei partiti e nelle organizzazioni della sinistra vige così ferrea la distinzione tra pubblico e privato e così la libertà si riduce ai diritti civili e alla polemica anticlericale se non antireligiosa, e non è più la possibilità tutta umana di sollevarsi oltre la situazione della propria specie assieme alla consapevolezza della morte.
Quando la distinzione tra pubblico e privato si fa stile di vita e la politica si riduce al morto rito di un’attesa impossibile — per quanto riguarda la sinistra radicale — o alla “laica” risoluzione di problemi per il bene della “gente” per quella riformista, allora il pensiero stesso si fa borghese e la comunità politica ritrovo di reduci senza più parola che non si sentono più popolo in lotta, nel momento in cui l’evento rivoluzionario è impossibile o addirittura escluso. Sentimenti, passioni, gioie, amori, dolori si riversano tutti nel privato, e la parola compagno non ha più senso, e la richiesta di amore, passione, gioia e dolore da condividere si fa fonte di imbarazzo, silenzio, chiusura e forse anche compatimento per una vita non sufficientemente ricca nella famiglia o fra le amicizie.
Le pagine hölderliniane dell’Iperione ci hanno evidentemente portato molto lontano, fino all’oggi. Ciò non deve sorprendere, dal momento che in quelle pagine Hölderlin attua una spietata critica dell’antropologia dei rivoluzionari di professione, che può essere definita anche una grandiosa analisi ante litteram dell’antropologia del comunismo. Il poeta svevo aveva capito che una rivoluzione che ha a suo fondamento una filosofia della storia produce un soggetto dell’agire politico predefinito, che viene presupposto prima di qualsiasi evento. Tale soggetto non può che essere protagonista di un’azione politica, la cui violenza è legittimata dalla sua stessa predeterminazione, in quanto esecutore di una dottrina. Se l’esistenza è invece problema a se stessa, come Hölderlin pensava, l’essere umano si presenta come una costruzione, nel continuo sforzo di muovere tra finito e infinito e di trovare una presenza certa nel mondo — per quanto mai definitiva — per non essere annichilito dalla contraddizione.
La trasformazione sociale e la rivoluzione non sono quindi un prima che prepara la vita, ma rappresentano l’aspirazione a una condizione di libertà in cui poter costruire il proprio divenire, il proprio farsi soggetto sociale, a partire da una condizione ontologica di fragilità, contraddizione che fonda allo stesso tempo creatività sociale, libertà e tensione al confronto con gli altri. Senza ascolto dell’altro, e quindi amore, non può esserci azione politica; senza comprensione della bellezza, e quindi tensione all’unità dialettica, non può esserci rivoluzione. Questo è quanto la riflessione hölderliniana ci consegna a partire dalle pagine dell’Iperione, da cui abbiamo iniziato il nostro percorso. Ed è eredità non solo storica, ma viva e attuale, per ripensare oggi quale sia nel nostro tempo il fondamento della politica e l’antropologia della trasformazione sociale da sinistra.
[1] Hölderlin lavorò al suo Iperione dal 1792 al 1798, pubblicando la versione definitiva in due libri tra il 1796 e il 1799. Sappiamo che già a Tubinga veva scritto una versione del romanzo che è andata interamente perduta. Nei mesi centrali del 1794, vede la luce il Fragment von Hyperion, che verrà pubblicato da Schiller nella sua rivista «Thalia», tanto da essere conosciuto comunemente come Thaliafragment. L’edizione in versi, Metrische Fassung, è dell’inizio del 1795. Nello stesso anno, ad agosto, è terminata la versione che ha come titolo Hyperions Jugend. La fine del 1795 vede un’ulteriore versione dell’Iperione, la penultima, la Vorletzte Fassung. È il 1797 l’anno di uscita del primo volume dell’edizione definitiva, dal titolo Hyperion, oder der Eremit in Griechenland presso l’editore Cotta di Tubinga. Il secondo volume seguirà nel 1799. Si tratta di un romanzo epistolare in cui il giovane greco si rivolge perlopiù all’amico tedesco Bellarmino oltre che all’amata Diotima per un totale di sessanta lettere, trenta per volume.
[2] F. Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, a cura di G. Scimonello, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1989, p. 37.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 38.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, pp. 38-39.
[12] Ivi, p. 39.
[13] G. Bataille, La sovranità, Il Mulino, Bologna, 1990, pp. 153-154.
[14] Si tratta del Fragment von Hyperion, edito da Schiller sulla rivista «Thalia» nel 1794.
[15] F. Hölderlin, Frammento di Iperione, il Melangolo, Genova, 1989, p. 17.
[16] Ibidem.
[17] Si legga a questo proposito Il divenire nel trapassare, frammento scritto fra l’estate e l’autunno del 1799 durante il soggiorno homburghiano. In esso, il poeta svevo cerca di dare ragione del tragico emergere del nuovo, quando il vecchio ordine si dissolve e la violenza prende il sopravvento per aprire la strada all’avvento di nuove possibilità. È insomma questo il testo in cui Hölderlin si confronta con l’evento epocale del suo tempo: la Rivoluzione. Si tratta per il poeta di cogliere il momento in cui un ordine sociale entra in crisi per accertare quello che succede nel trapasso e come in esso si facciano strada le forze che aspirano a creare un nuovo ordine. È per noi questo un testo fondamentale perché vediamo come Hölderlin si misuri con la rivoluzione, da rivoluzionario. Come abbiamo già visto, Hölderlin fu critico duro dell’antropologia del rivoluzionari di professione e del loro titanismo, ma nello stesso tempo non rinunziò mai alla sua aspirazione politica all’eguaglianza, alla trasformazione sociale e al sovvertimento di tutti i poteri dispotici. La Rivoluzione non è solo l’evento che dà inizio alla modernità, liberando alla storia politica la borghesia, ma una costante — quasi cosmico–storica — che rompe continuamente le cristallizzazioni positive degli ordinamenti sociali politici e religiosi. Cfr. F. Hölderlin, Scritti sulla poesia e frammenti, a cura di G. Pasquinelli, Boringhieri, Torino, 1958, pp. 95-102.
[18] F. Hölderlin, Scritti sulla poesia e frammenti, a cura di G. Pasquinelli, Boringhieri, Torino, 1958, p. 144.
[19] F. Hölderlin, Sämtliche Werke, Große Stuttgarter Ausgabe, im Auftrag des Württembergischen Kultministeriums und der deutschen Akademie in München, herausgegeben von Friedrich Beißner, J.G. Cottasche Buchhandlung Nachfolger, Stuttgart, 1943/1974, 6, 1, 300/301.
[20] Come l’antropologia filosofica del Novecento ci insegna, l’uomo è l’unico vivente che rompe la chiusura informazionale-rappresentativa-cognitiva del livello biologico che caratterizza tutti gli altri esseri viventi. Si trova così esposto alla massima apertura di possibilità nei confronti del mondo che lo circonda e fa esperienza, proprio per questo, del Caos e dell’insensatezza del proprio vivere. L’apertura e l’esposizione al Caos fa sì che per gli esseri umani sia impossibile disporre della propria origine. La disponibilità dell’origine significherebbe infatti la fine dell’apertura e della libertà e, paradossalmente, non farebbe neppure sentire il bisogno di conoscere l’origine. Insomma, nel momento in cui gli uomini si pongono il problema dell’origine hanno già rotto la chiusura del livello biologico — propria di tutti gli altri esseri viventi — e sono già esseri sociali inseriti in un sistema fatto di cultura, istituzioni, norme e valori. Se così non fosse, non potrebbero neppure porsi il problema dell’origine, a cui del resto tutte le società hanno risposto con la religione, cercando di occultare l’abisso su cui si fondano, quello dell’indisponibilità dell’origine e della conseguente condizione tragica di un’esistenza che è coscienza di libertà assoluta e nello stesso tempo — proprio in virtù di quella libertà —, non può giungere mai a conoscere la propria provenienza.
[21] F. Hölderlin, Iperione, cit., p. 154. Alabanda decide di rompere il giuramento di fedeltà assoluta alla setta segreta per amore dell’amico.
[22] Hegel (?), Schelling (?), Hölderlin (?), Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, ETS, Pisa, 2007, p. 23. Come si sa, il frammento in oggetto venne trovato nel 1917 da Franz Rosenzweig che gli diede anche il titolo con il quale ancora oggi viene conosciuto. Si è sviluppata un’ampia letteratura sull’attribuzione a Hegel, Schelling o Hölderlin. Di certo c’è il fatto che la grafia del testo appartiene a Hegel, che può averlo comunque solamente ricopiato. Le varie attribuzioni si sono concentrate su uno dei tre studiosi, anche se alcuni ipotizzano che si tratti di una sorta di manifesto scritto da tutti e tre i colleghi dello Stift di Tubinga, o comunque frutto delle discussioni intercorse fra i tre, anche se poi messe nero su bianco da uno solo di questi. È utile orientarsi sulle varie interpretazioni a partire dal volume a cura di C. Jamme e H. Schneider, Mytologie der Vernunft. Hegels «älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus», Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1984.
[23] Ivi, p. 25.
[24] F. Hölderlin, Iperione, cit., pp. 59-60.
[25] Ivi, pp. 65-66.
[26] Ivi, p. 75.
[27] Ivi, p. 98
[28] Iperione pronuncia una dura critica dell’unilateralità dell’intelletto e del suo spirito di separazione, poco prima di approdare alle coste dell’Attica, nel suo viaggio ad Atene insieme a Diotima: «L’intelletto, senza bellezza dello spirito, è simile ad un servizievole garzone che costruisce un recinto di legno grezzo come gli è stato prescritto e inchioda l’uno accanto all’altro i pali squadrati per il giardino che il maestro vorrà coltivare. Tutta l’attività dell’intelletto è opera di necessità. Mettendo ordine, esso ci protegge dalla follia e dall’ingiustizia; ma essere sicuri dalla follia e dall’ingiustizia non è, tuttavia, il gradino più alto dell’umana perfezione. La ragione senza la bellezza dello spirito e del cuore è simile ad un guardiano che il padrone della casa ha messo a sorvegliare sui servi; egli sa altrettanto poco dei servi quale sarà il risultato di tutto questo lavoro senza fine e grida soltanto: spicciatevi, e vede quasi malvolentieri se tutto va avanti, poiché alla fin fine egli non avrebbe più nulla da fare ed il suo ruolo sarebbe esaurito. Dal solo intelletto non scaturisce nessuna filosofia, poiché la filosofia è più che limitata conoscenza del contingente. Dalla sola ragione non scaturisce nessuna filosofia, poiché la filosofia è più che cieca esigenza di un progresso infinito nell’unificazione e nella distinzione di una qualsiasi materia possibile. Ma se alla ragione che tende all’infinito risplende il divino en diaferon eauto, l’ideale della bellezza, essa non esige alla cieca e sa perché e a quale scopo esige. Se, come il giorno di maggio nell’officina dell’artista, risplende il sole del bello all’intelletto nella sua attività, esso certamente non correrà fuori sfrenato lasciando da parte la sua opera di necessità, ma penserà volentieri al giorno di festa, in cui potrà vagare nella luce di primavera che ringiovanisce». Vedi ivi, pp. 92-93.
[29] Vale la pena riportare una parte della famosa invettiva contro i tedeschi, pronunciata da Iperione, al suo arrivo da esule in Germania: «È una parola dura, eppure la dico, giacché è la verità; io non posso immaginarmi un popolo, che sarebbe più dissociato dei Tedeschi. Artigiani vedi, ma non uomini, pensatori, ma non uomini, sacerdoti, ma non uomini, padroni e servi, giovani e gente posata, ma non uomini — non è tutto ciò come un campo di battaglia, dove mani e braccia ed altre membra fatte a pezzi giacciono alla rinfusa, mentre il sangue vitale versato si disperde nella sabbia?». Si veda ivi, p. 170.
[30] Ivi, pp. 99-100.
[31] Ivi, p. 107.
[32] Così si era rivolto Iperione ad Alabanda in una discussione sullo Stato: «Tu concedi troppo potere allo Stato. Esso non può esigere ciò che non può estorcere con la forza. Ma ciò che danno l’amore e lo spirito non si fa estorcere. Che esso lo lasci intatto, altrimenti si prenda la sua legge e la si metta alla gogna! Per il cielo! Non sa quanto pecca chi vuol fare dello Stato una scuola di costumi. Ciò che tuttavia ha fatto dello Stato un inferno è che l’uomo l’ha voluto elevare a suo cielo.
La ruvida scorza intorno al nocciolo della vita e niente di più è lo Stato. Esso è il muro intorno al giardino dei frutti e dei fiori umani. Ma a che serve il muro intorno al giardino, se il terreno è arido? Qui serve solo la pioggia del cielo.
Oh, pioggia del cielo! Oh entusiasmo! Tu ci riporterai la primavera dei popoli. Su di te lo Stato non può dominare. Ma che esso non ti disturbi e così verrai, verrai tu, e con la tua onnipotente voluttà ci avvolgerai in nuvole d’oro e ci solleverai al di sopra di ciò che è mortale, e noi ci chiederemo stupiti se siamo ancora noi, noi i bisognosi che chiedevamo alle stelle se là fiorisse per noi una primavera — mi domandi, quando avverrà tutto questo? Quando la prediletta del tempo, la più giovane, la più bella figlia del tempo, la nuova chiesa sorgerà da queste forme antiquate e corrotte, quando il ridestato sentimento del divino riporterà all’uomo la sua divinità ed al suo petto la bella giovinezza, quando – io non sono in grado di preannunciarla, ché appena ne ho un presentimento, ma è certo che essa verrà. La morte è un messaggero della vita, ed il fatto che ora dormiamo nei nostri ospedali testimonia del prossimo sano risveglio. Allora, allora soltanto saremo noi stessi, allora sarà trovato l’elemento degli spiriti!». Si veda ivi, pp. 35-36. E nel Systemprogramm troviamo scritto: «Dalla natura passo all’opera umana: l’idea dell’umanità al primo posto, voglio mostrare che non si dà alcuna idea dello stato, perché lo stato è qualcosa di meccanico, così come non si dà l’idea di una macchina. Solo ciò che è oggetto della libertà si chiama idea. Dobbiamo dunque oltrepassare anche lo stato! Ogni stato, infatti, non può non trattare uomini liberi come rotelle di un meccanismo; ma non deve farlo; perciò deve finire». Si veda Hegel (?), Schelling (?), Hölderlin (?), Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, cit., pp. 22-23.
- Hölderlin lavorò al suo Iperione dal 1792 al 1798, pubblicando la versione definitiva in due libri tra il 1796 e il 1799. Sappiamo che già a Tubinga veva scritto una versione del romanzo che è andata interamente perduta. Nei mesi centrali del 1794, vede la luce il Fragment von Hyperion, che verrà pubblicato da Schiller nella sua rivista «Thalia», tanto da essere conosciuto comunemente come Thaliafragment. L’edizione in versi, Metrische Fassung, è dell’inizio del 1795. Nello stesso anno, ad agosto, è terminata la versione che ha come titolo Hyperions Jugend. La fine del 1795 vede un’ulteriore versione dell’Iperione, la penultima, la Vorletzte Fassung. È il 1797 l’anno di uscita del primo volume dell’edizione definitiva, dal titolo Hyperion, oder der Eremit in Griechenland presso l’editore Cotta di Tubinga. Il secondo volume seguirà nel 1799. Si tratta di un romanzo epistolare in cui il giovane greco si rivolge perlopiù all’amico tedesco Bellarmino oltre che all’amata Diotima per un totale di sessanta lettere, trenta per volume. ↩
- F. Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, a cura di G. Scimonello, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1989, p. 37. ↩
- Ibidem. ↩
- Ibidem. ↩
- Ivi, p. 38. ↩
- Ibidem. ↩
- Ibidem. ↩
- Ibidem. ↩
- Ibidem. ↩
- Ibidem. ↩
- Ivi, pp. 38-39. ↩
- Ivi, p. 39. ↩
- . Bataille, La sovranità, Il Mulino, Bologna, 1990, pp. 153-154. ↩
- Si tratta del Fragment von Hyperion, edito da Schiller sulla rivista «Thalia» nel 1794. ↩
- F. Hölderlin, Frammento di Iperione, il Melangolo, Genova, 1989, p. 17. ↩
- Ibidem. ↩
- Si legga a questo proposito Il divenire nel trapassare, frammento scritto fra l’estate e l’autunno del 1799 durante il soggiorno homburghiano. In esso, il poeta svevo cerca di dare ragione del tragico emergere del nuovo, quando il vecchio ordine si dissolve e la violenza prende il sopravvento per aprire la strada all’avvento di nuove possibilità. È insomma questo il testo in cui Hölderlin si confronta con l’evento epocale del suo tempo: la Rivoluzione. Si tratta per il poeta di cogliere il momento in cui un ordine sociale entra in crisi per accertare quello che succede nel trapasso e come in esso si facciano strada le forze che aspirano a creare un nuovo ordine. È per noi questo un testo fondamentale perché vediamo come Hölderlin si misuri con la rivoluzione, da rivoluzionario. Come abbiamo già visto, Hölderlin fu critico duro dell’antropologia del rivoluzionari di professione e del loro titanismo, ma nello stesso tempo non rinunziò mai alla sua aspirazione politica all’eguaglianza, alla trasformazione sociale e al sovvertimento di tutti i poteri dispotici. La Rivoluzione non è solo l’evento che dà inizio alla modernità, liberando alla storia politica la borghesia, ma una costante — quasi cosmico–storica — che rompe continuamente le cristallizzazioni positive degli ordinamenti sociali politici e religiosi. Cfr. F. Hölderlin, Scritti sulla poesia e frammenti, a cura di G. Pasquinelli, Boringhieri, Torino, 1958, pp. 95-102. ↩
- F. Hölderlin, Scritti sulla poesia e frammenti, a cura di G. Pasquinelli, Boringhieri, Torino, 1958, p. 144. ↩
- F. Hölderlin, Sämtliche Werke, Große Stuttgarter Ausgabe, im Auftrag des Württembergischen Kultministeriums und der deutschen Akademie in München, herausgegeben von Friedrich Beißner, J.G. Cottasche Buchhandlung Nachfolger, Stuttgart, 1943/1974, 6, 1, 300/301. ↩
- Come l’antropologia filosofica del Novecento ci insegna, l’uomo è l’unico vivente che rompe la chiusura informazionale-rappresentativa-cognitiva del livello biologico che caratterizza tutti gli altri esseri viventi. Si trova così esposto alla massima apertura di possibilità nei confronti del mondo che lo circonda e fa esperienza, proprio per questo, del Caos e dell’insensatezza del proprio vivere. L’apertura e l’esposizione al Caos fa sì che per gli esseri umani sia impossibile disporre della propria origine. La disponibilità dell’origine significherebbe infatti la fine dell’apertura e della libertà e, paradossalmente, non farebbe neppure sentire il bisogno di conoscere l’origine. Insomma, nel momento in cui gli uomini si pongono il problema dell’origine hanno già rotto la chiusura del livello biologico — propria di tutti gli altri esseri viventi — e sono già esseri sociali inseriti in un sistema fatto di cultura, istituzioni, norme e valori. Se così non fosse, non potrebbero neppure porsi il problema dell’origine, a cui del resto tutte le società hanno risposto con la religione, cercando di occultare l’abisso su cui si fondano, quello dell’indisponibilità dell’origine e della conseguente condizione tragica di un’esistenza che è coscienza di libertà assoluta e nello stesso tempo — proprio in virtù di quella libertà —, non può giungere mai a conoscere la propria provenienza. ↩
- F. Hölderlin, Iperione, cit., p. 154. Alabanda decide di rompere il giuramento di fedeltà assoluta alla setta segreta per amore dell’amico. ↩
- Hegel (?), Schelling (?), Hölderlin (?), Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, ETS, Pisa, 2007, p. 23. Come si sa, il frammento in oggetto venne trovato nel 1917 da Franz Rosenzweig che gli diede anche il titolo con il quale ancora oggi viene conosciuto. Si è sviluppata un’ampia letteratura sull’attribuzione a Hegel, Schelling o Hölderlin. Di certo c’è il fatto che la grafia del testo appartiene a Hegel, che può averlo comunque solamente ricopiato. Le varie attribuzioni si sono concentrate su uno dei tre studiosi, anche se alcuni ipotizzano che si tratti di una sorta di manifesto scritto da tutti e tre i colleghi dello Stift di Tubinga, o comunque frutto delle discussioni intercorse fra i tre, anche se poi messe nero su bianco da uno solo di questi. È utile orientarsi sulle varie interpretazioni a partire dal volume a cura di C. Jamme e H. Schneider, Mytologie der Vernunft. Hegels «älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus», Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1984. ↩
- Ivi, p. 25. ↩
- F. Hölderlin, Iperione, cit., pp. 59-60. ↩
- Ivi, pp. 65-66. ↩
- Ivi, p. 75. ↩
- Ivi, p. 98 ↩
- Iperione pronuncia una dura critica dell’unilateralità dell’intelletto e del suo spirito di separazione, poco prima di approdare alle coste dell’Attica, nel suo viaggio ad Atene insieme a Diotima: «L’intelletto, senza bellezza dello spirito, è simile ad un servizievole garzone che costruisce un recinto di legno grezzo come gli è stato prescritto e inchioda l’uno accanto all’altro i pali squadrati per il giardino che il maestro vorrà coltivare. Tutta l’attività dell’intelletto è opera di necessità. Mettendo ordine, esso ci protegge dalla follia e dall’ingiustizia; ma essere sicuri dalla follia e dall’ingiustizia non è, tuttavia, il gradino più alto dell’umana perfezione. La ragione senza la bellezza dello spirito e del cuore è simile ad un guardiano che il padrone della casa ha messo a sorvegliare sui servi; egli sa altrettanto poco dei servi quale sarà il risultato di tutto questo lavoro senza fine e grida soltanto: spicciatevi, e vede quasi malvolentieri se tutto va avanti, poiché alla fin fine egli non avrebbe più nulla da fare ed il suo ruolo sarebbe esaurito. Dal solo intelletto non scaturisce nessuna filosofia, poiché la filosofia è più che limitata conoscenza del contingente. Dalla sola ragione non scaturisce nessuna filosofia, poiché la filosofia è più che cieca esigenza di un progresso infinito nell’unificazione e nella distinzione di una qualsiasi materia possibile. Ma se alla ragione che tende all’infinito risplende il divino en diaferon eauto, l’ideale della bellezza, essa non esige alla cieca e sa perché e a quale scopo esige. Se, come il giorno di maggio nell’officina dell’artista, risplende il sole del bello all’intelletto nella sua attività, esso certamente non correrà fuori sfrenato lasciando da parte la sua opera di necessità, ma penserà volentieri al giorno di festa, in cui potrà vagare nella luce di primavera che ringiovanisce». Vedi ivi, pp. 92-93. ↩
- Vale la pena riportare una parte della famosa invettiva contro i tedeschi, pronunciata da Iperione, al suo arrivo da esule in Germania: «È una parola dura, eppure la dico, giacché è la verità; io non posso immaginarmi un popolo, che sarebbe più dissociato dei Tedeschi. Artigiani vedi, ma non uomini, pensatori, ma non uomini, sacerdoti, ma non uomini, padroni e servi, giovani e gente posata, ma non uomini — non è tutto ciò come un campo di battaglia, dove mani e braccia ed altre membra fatte a pezzi giacciono alla rinfusa, mentre il sangue vitale versato si disperde nella sabbia?». Si veda ivi, p. 170. ↩
- Ivi, pp. 99-100. ↩
- Ivi, p. 107. ↩
-
Così si era rivolto Iperione ad Alabanda in una discussione sullo Stato: «Tu concedi troppo potere allo Stato. Esso non può esigere ciò che non può estorcere con la forza. Ma ciò che danno l’amore e lo spirito non si fa estorcere. Che esso lo lasci intatto, altrimenti si prenda la sua legge e la si metta alla gogna! Per il cielo! Non sa quanto pecca chi vuol fare dello Stato una scuola di costumi. Ciò che tuttavia ha fatto dello Stato un inferno è che l’uomo l’ha voluto elevare a suo cielo.
La ruvida scorza intorno al nocciolo della vita e niente di più è lo Stato. Esso è il muro intorno al giardino dei frutti e dei fiori umani. Ma a che serve il muro intorno al giardino, se il terreno è arido? Qui serve solo la pioggia del cielo.
Oh, pioggia del cielo! Oh entusiasmo! Tu ci riporterai la primavera dei popoli. Su di te lo Stato non può dominare. Ma che esso non ti disturbi e così verrai, verrai tu, e con la tua onnipotente voluttà ci avvolgerai in nuvole d’oro e ci solleverai al di sopra di ciò che è mortale, e noi ci chiederemo stupiti se siamo ancora noi, noi i bisognosi che chiedevamo alle stelle se là fiorisse per noi una primavera — mi domandi, quando avverrà tutto questo? Quando la prediletta del tempo, la più giovane, la più bella figlia del tempo, la nuova chiesa sorgerà da queste forme antiquate e corrotte, quando il ridestato sentimento del divino riporterà all’uomo la sua divinità ed al suo petto la bella giovinezza, quando – io non sono in grado di preannunciarla, ché appena ne ho un presentimento, ma è certo che essa verrà. La morte è un messaggero della vita, ed il fatto che ora dormiamo nei nostri ospedali testimonia del prossimo sano risveglio. Allora, allora soltanto saremo noi stessi, allora sarà trovato l’elemento degli spiriti!». Si veda ivi, pp. 35-36. E nel Systemprogramm troviamo scritto: «Dalla natura passo all’opera umana: l’idea dell’umanità al primo posto, voglio mostrare che non si dà alcuna idea dello stato, perché lo stato è qualcosa di meccanico, così come non si dà l’idea di unamacchina. Solo ciò che è oggetto della libertà si chiama idea. Dobbiamo dunque oltrepassare anche lo stato! Ogni stato, infatti, non può non trattare uomini liberi come rotelle di un meccanismo; ma non deve farlo; perciò deve finire». Si veda Hegel (?), Schelling (?), Hölderlin (?), Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, cit., pp. 22-23.