Stefano Breda
Freie Universität Berlin
Nel numero 7/2017 de «Il Ponte» è stata pubblicata una mia recensione a Sgro’ (2016). In tale sede mettevo tra l’altro in evidenza come l’opera – un’utile panoramica sulle principali novità degli ultimi decenni in campo marxologico – facesse nascere il desiderio di conoscere più nel dettaglio le posizioni teoriche personali dell’autore (cfr. Breda 2017, 123). Col libro Friedrich Engels e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, uscito presso Orthotes nel 2017, Sgro’ ha ora esaudito almeno in parte quel desiderio.
In quest’opera si ritrovano, infatti, alcuni pregi che già caratterizzavano la precedente e che sembrano costituire la cifra stilistica dell’autore, quali la completezza della visione d’insieme, l’accuratezza filologica, l’argomentare equilibrato e di piacevole lettura, al servizio però di un testo dal carattere più prettamente teorico. Nel volume qui recensito, infatti, Sgro’ fornisce una panoramica complessiva del percorso teorico dell’ultimo Engels (dal 1873 fino alla morte nel 1895), interpretandolo alla luce di una personale tesi di storia della filosofia: se Ludwig Feuerbach rappresentava agli occhi di Engels il “punto d’approdo della filosofia classica tedesca”, Sgro’ si propone di dimostrare che è invece proprio la filosofia di Engels a costituire tale punto d’approdo. Nel dipanare la complessa e variegata produzione filosofica dell’ultimo Engels, Sgro’ la inserisce dunque fin dal principio nel solco dell’idealismo tedesco, «dalle sue fondamenta (post)kantiane fino alle vette della riflessione hegeliana» (p. 25), per mostrare alla fine come Engels, a differenza di Marx, non rompa mai veramente con quella tradizione e ne costituisca piuttosto lo sviluppo compiuto. Per dimostrare questa tesi l’autore mette in luce con grande efficacia come ancora negli anni Ottanta del XIX secolo Engels riproponga sostanzialmente «le stesse interpretazioni della dialettica hegeliana e della filosofia di Feuerbach, elaborate nelle sue opere filosofiche giovanili (o meglio: giovani-hegeliane) degli anni Quaranta», e come sia «Engels – e non Feuerbach – a non aver sottoposto Hegel a una critica radicale e produttiva, come aveva invece fatto Marx già nel 1843» (p. 151).
Nel primo capitolo (Il sistema dialettico della natura, pp. 21-47) Sgro’ svolge un’analisi dettagliata dei concetti che stanno alla base del progetto engelsiano, portato avanti fino al 1883, di un sistema dialettico della natura: «l’identità (nella differenza) di logica oggettiva e logica soggettiva, l’azione reciproca tra causante e causato, la concezione della libertà come […] presa di coscienza soggettiva della necessità oggettiva» (p. 7). L’autore ricorda, da un lato, come Engels riprenda tanto questi concetti quanto le famose tre leggi della dialettica (conversione della quantità in qualità e viceversa, compenetrazione degli opposti e negazione della negazione) dalla Scienza della logica di Hegel e mostra, dall’altro, come la torsione materialistica che Engels si propone di imprimere alla dialettica hegeliana si risolva in un suo rovesciamento speculare e giunga dunque spesso ai suoi medesimi risultati. Particolare attenzione è dedicata alla categoria di Wechselwirkung (azione reciproca) – categoria di importanza centrale nell’idealismo tedesco –, di cui Sgro’ ripercorre l’evoluzione da Kant a Hegel, passando per Fichte e Schelling, prima di trattarne la rielaborazione engelsiana.
Il secondo capitolo (Engels senza Marx, pp. 49-64) offre un quadro generale del contesto storico-politico nel quale si trova a operare Engels dopo la morte di Marx nel 1883, delle aumentate responsabilità politiche che si deve assumere come consigliere e organizzatore dei partiti socialisti e socialdemocratici europei e dell’ampissimo e variegato spettro tematico che ciò nonostante caratterizza la sua opera anche in questo frangente.
Dopo aver così delineato il contesto in cui va collocato il «pamphlet di politica culturale» Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, del 1886, nel terzo capitolo (Il Feuerbach di Engels, pp. 65-101) Sgro’ analizza nel dettaglio quest’opera, sottolineandone innanzitutto il movente politico, ovvero il tentativo di contrastare la tendenza in atto negli ambienti dei circoli operai di «regredire […] a un materialismo intuitivo-sensistico, tinto di quel piatto positivismo allora in gran voga» (p. 67). Dopo aver messo in evidenza come l’interpretazione in chiave dinamica e progressista dell’identità hegeliana di reale e razionale, fornita da Engels nella prima parte del Feuerbach, riproponga in verità una posizione già largamente diffusa negli anni Quaranta negli ambienti della Sinistra hegeliana, Sgro’ procede a una disamina delle critiche avanzate da Engels al materialismo meccanicistico, adialettico e aprocessuale di Feuerbach.
Il quarto capitolo (In difesa della concezione materialistica della storia, pp. 103-119) è dedicato agli sforzi compiuti da Marx e, dopo la morte di questo, soprattutto da Engels, per difendere la loro concezione materialistica della storia non solo dagli attacchi degli intellettuali borghesi, ma anche dai travisamenti e dalle deformazioni diffuse negli ambienti socialisti e socialdemocratici. Sgro’ si concentra in particolare sugli argomenti coi quali Marx respinge il tentativo di leggere la sua opera come se vi si trovasse o vi fosse proposto «il passe-partout di una teoria storico-filosofica generale» (Marx 2006, 235) che, in quanto tale, avrebbe un carattere sovrastorico, e sul modo in cui Engels rigetta le accuse di economicismo insistendo sull’esistenza di un’azione reciproca tra struttura e sovrastruttura.
Il quinto capitolo (Spettri di Engels, pp. 121-151) tira, infine, le somme del percorso fin qui tracciato. Nell’esprimere il suo giudizio complessivo sulle proposte teoriche dell’ultimo Engels, l’autore compie tre operazioni fondamentali. Mette infatti in luce: 1) i forti limiti dell’interpretazione engelsiana di Feuerbach, rimasta anche in questo caso sostanzialmente invariata dagli anni della formazione filosofica giovane-hegeliana e viziata da una visione riduttiva di Feuerbach come semplice termine intermedio tra Hegel e la rottura con la tradizione filosofica tedesca operata da Marx; 2) le differenze fondamentali tra l’approccio alla dialettica di Engels e quello di Marx, il quale, a differenza di Engels, non assume la dialettica nella forma che essa aveva in Hegel, come un metodo che vada solo diversamente applicato per liberarne il potenziale “critico e rivoluzionario”, ma rielabora e, in un certo senso, sconvolge la dialettica stessa come metodo; 3) il peso enorme avuto dalle teorie di Engels nel plasmare tanta parte del successivo marxismo teorico portando a trasformare la teoria critica marxiana in una Weltanschauung, in una generale e positiva visione del mondo. Sgro’ arriva così ‒ come già Ingo Elbe ‒ alla conclusione che «gran parte del “marxismo” del Novecento in realtà non sia stato, nel migliore dei casi, nient’altro che più o meno consapevole engelsismo» (p. 131).
L’interpretazione di Engels come vero punto d’approdo – e non di rottura – della filosofia classica tedesca apporta dunque un tassello importante a un ripensamento generale, in corso ormai da tempo, del rapporto tra Marx ed Engels in ambito teorico. Da questo punto di vista il libro di Sgro’ ha però il merito di consentire uno sguardo equilibrato sul rapporto tra i due. Infatti, se da un lato è oggi teoricamente imprescindibile – nonché politicamente rilevante – infrangere l’immagine stereotipata di una completa identità di vedute tra i due amici e compagni di lotta, sarebbe dall’altro lato una scorciatoia controproducente demonizzare Engels facendone un facile capro espiatorio per tutto ciò che non piace nel marxismo “tradizionale”. Sgro’ non corre il rischio di imboccare questa scorciatoia proprio in quanto si concentra fin dal principio sull’elaborazione di Engels, trattandolo come un pensatore con una sua autonomia e una sua dignità teorica anche a prescindere da Marx.
Se dunque nella visione tradizionale Engels finiva facilmente per essere ridotto al rango di «secondo violino», mentre nell’ambito delle nuove letture di Marx sviluppatesi a partire dagli anni Sessanta del XX secolo veniva spesso presentato solo come “volgarizzatore” del pensiero di Marx, l’approccio di Sgro’ consente di prendere finalmente davvero sul serio Engels e di mettere in luce non solo i limiti della sua proposta filosofica, ma anche i suoi elementi di originalità (e talvolta di genialità), perché se è vero che l’elaborazione engelsiana rimane arretrata rispetto a quanto sviluppato da Marx soprattutto con la sua critica dell’economia politica, è vero anche che resta comunque all’avanguardia rispetto a tanta elaborazione teorica successiva (a conferma del fatto che la “rivoluzione scientifica” tentata da Marx è rimasta in larga parte senza seguito).
Un esempio di come possa essere proficuo un simile atteggiamento critico ma equilibrato sull’opera di Engels si può trovare nella critica alla ripresa engelsiana della categoria di Wechselwirkung, abbozzata già nel 1967 da Oskar Negt. Questi, se da un lato negava che la Wechselwirkung di Engels potesse essere all’altezza dei problemi teorici sollevati da Marx nella sua critica dell’economia politica, sottolineava però al contempo che la teorizzazione di Engels in merito anticipava quello che nelle scienze sociali di stampo funzionalista si sarebbe poi chiamato “pensiero sistemico” ‒ si potrebbe aggiungere: lo anticipava in una forma più raffinata, più dinamica, di quella funzionalista ‒ e che, dunque, le moderne scienze sociali avrebbero potuto trarre beneficio da un confronto con l’elaborazione di Engels, se solo si fossero degnate di prenderlo sul serio (cfr. Negt 2018; Schmidt 2018b).
Ma prendere sul serio l’autonoma elaborazione teorica di Engels permette anche di afferrare al meglio le diverse prospettive aperte dalla critica dell’economia politica di Marx, perché consente di meglio individuare quali problematiche teoriche restino da affrontare quando si siano rifiutate le soluzioni fornite da Engels.
In questo senso vale la pena di soffermarsi e di aggiungere qualche commento personale su un punto messo in evidenza da Sgro’ già nel primo capitolo (cfr. pp. 42-46) e ripreso in qualche misura nell’appendice (pp. 155-171) sul rapporto tra natura e storia in Marx (cfr. pp. 168-170): la diversa concezione, in Engels e in Marx, del rapporto tra necessità e libertà e la connessione tra questa divergenza e una diversa concezione della dialettica.
Come si è visto, in Engels la dialettica materialista risulta da un capovolgimento speculare della dialettica hegeliana: avendo «semplicemente capovolto il rapporto di priorità e di causalità tra il pensiero e la materia […], Engels giunge allo stesso risultato di Hegel» (p. 42) e tratta dunque la dialettica come un metodo con validità sovrastorica, in quanto tale applicabile agli oggetti sociali e naturali più diversi. In Marx, al contrario, il rivoluzionamento della dialettica non consiste in un semplice capovolgimento di soggetto e predicato rispetto alla sua forma hegeliana, bensì nel riconoscimento del fatto che la dialettica tout court è la forma di pensiero adeguata a quegli specifici rapporti sociali in cui soggetto e predicato si presentano oggettivamente capovolti (si tratta di un punto colto con lucidità da Adorno e poi dalla Neue Marx-Lektüre di matrice francofortese). La dialettica è quindi in Marx un prodotto specifico dei rapporti borghesi, ne è ‒ afferma correttamente Sgro’ ‒ «la massima espressione filosofica» (p. 140).
Se dunque la dialettica hegeliana presenta un mondo capovolto, non la si rimette coi piedi per terra rovesciandola in quanto sistema di pensiero, ma svelandone l’oggettivo radicamento nei rapporti capitalistici storicamente datisi, la sua conformità a questi rapporti, criticando dunque non un rovesciamento operante nel pensiero, ma un rovesciamento operante nei rapporti materiali che ne stanno alla base. Da rovesciare, insomma, non è la dialettica hegeliana: essa va piuttosto de-naturalizzata, de-misticizzata individuandone i presupposti contingenti (molto più calzante di ogni immagine legata al rovesciamento è dunque un’immagine legata alla delimitazione: «la forma dialettica d’esposizione è corretta solo se conosce i propri limiti» (Marx 1980, 91), ovvero i punti nei quali la dialettica, da explanans, diviene essa stessa parte dell’explanandum, in quanto prodotto storico, dunque bisognoso di una spiegazione altrettanto storica); da rovesciare sono piuttosto i rapporti sociali di cui la dialettica hegeliana è l’espressione filosofica inconsapevole. Ma rovesciati questi rapporti, la dialettica tout court perderebbe il proprio radicamento oggettivo. La dialettica è dunque in Marx una forma di pensiero storicamente determinata, la cui validità è destinata a tramontare insieme ai rapporti storico-sociali di cui è espressione.
Ora, dalla concezione sovrastorica della dialettica come «scienza delle leggi universali di movimento e di sviluppo della natura, della società e del pensiero» (Engels 1974, 135), segue l’accettazione da parte di Engels della tesi hegeliana per cui la libertà è la consapevolezza soggettiva della necessità oggettiva. Come nota Sgro’: proiettata «sul piano storico, economico e politico, questa acquisizione permetterà a Engels di sostenere nell’Anti-Dühring che nella società comunista la coscienza diventerà autotrasparenza della totalità naturale e sociale, che la società comunista organizzerà quindi la materia naturale e sociale secondo la sua natura e renderà finalmente possibile ‘il salto dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà’» (p. 42).
Il significato economico-politico dell’idea engelsiana di libertà come coscienza soggettiva della necessità oggettiva può essere, a mio avviso, ulteriormente esplicitato: in quanto Engels attribuisce alla dialettica una validità sovrastorica, finisce per attribuire validità sovrastorica anche a quelle leggi economiche oggettive che il metodo dialettico permette di individuare. Il «salto dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà» consiste dunque per Engels nel fatto che nella società comunista gli uomini applicheranno in maniera cosciente quelle stesse leggi da cui, nella società borghese, erano dominati: «Le leggi della loro attività sociale che sino allora stavano di fronte agli uomini come leggi di natura estranee e che li dominavano, vengono ora applicate dagli uomini con piena cognizione di causa e quindi dominate» (Engels 1974, 273). È questa un’idea che il giovane Habermas attribuisce tal quale a Marx e ai comunardi parigini (cfr. Habermas 1971, 143-155 e 167-169), e che si ritrova, in qualche forma, in larga parte del marxismo “tradizionale”.
Al contrario, se la dialettica in Marx è una forma di pensiero storicamente determinata e dunque caduca, lo è perché il suo oggetto stesso, l’oggettività sociale, è storicamente determinato e caduco. Conseguentemente, il regno della libertà non può consistere, in Marx, nella presa di coscienza soggettiva dell’oggettiva necessità delle leggi dell’agire sociale. Superare il modo di produzione capitalistico e con esso la totalità dei rapporti borghesi significa piuttosto eliminare il fondamento oggettivo di quelle leggi, dunque superare quelle leggi in quanto tali. Non si tratta, insomma, di giungere a una differente disposizione soggettiva nei confronti dell’oggettività sociale (proposito che, a conferma delle tesi di Sgro’, suona molto giovane-hegeliano), bensì di superare l’oggettività sociale in quanto tale. Ma questo superamento non è ancora il «vero regno della libertà» per Marx, bensì ne è solo condizione necessaria. Perché una volta superato il dominio impersonale delle leggi della produzione capitalistica sugli agenti della produzione, nulla vieta che forme di dominio personale, o anche necessità di tipo materiale-naturale, impediscano «lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo» (Marx 2011, 656). Come nota ancora giustamente Sgro’ – parafrasando ampiamente il famoso passo di Marx (1994, 933) –, il fatto che «i produttori associati […] regolino razionalmente il loro ricambio organico con la natura, portandolo sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca, costituisce solo il presupposto materiale, la base del vero regno della libertà, che si situa oltre la sfera della produzione materiale vera e propria e che consiste nello sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso» (p. 45).
In Marx non vi è dunque un salto dal regno della necessità a quello della libertà, in quanto il «vero regno della libertà» può fiorire solo sulla base del regno della necessità. Perché tale regno della libertà possa fiorire occorre però che quel regno della necessità sia ristretto a ciò che non è socialmente determinato, ovvero alla “prima” natura. Occorre una libertà da la “seconda natura” delle leggi oggettive della produzione capitalistica, dunque una libertà dalla necessità del pluslavoro e dell’accumulazione di capitale, perché possa fiorire, in seno alla “prima natura”, una «libertà di dispiegamento incondizionato delle forze essenziali e ‘generiche’ dell’uomo» (p. 168), dispiegamento in cui già il giovane Marx vedeva il fine della società comunista.
In Engels questa distinzione tra “prima” natura e “seconda” natura (sociale e dunque transeunte) è resa impensabile da una concezione della dialettica come scienza con validità sovrastorica e universale, mentre la distinzione marxiana tra libertà da e libertà di (in cui è implicita una concezione dinamica della rivoluzione come apertura di possibilità) è impedita dalla concezione della libertà come presa di coscienza soggettiva della necessità oggettiva. Mostrando come tali impedimenti teorici permangano nell’ultimo Engels come residui della sua formazione nella Sinistra hegeliana, il libro di Sgro’ ci aiuta a liberarci coerentemente di tali residui anche nella lettura di Marx.
Bibliografia
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