Arvi Särkelä
University of Lucerne
arvi.saerkelae@unilu.ch
Arto Laitinen
University of Tampere, UTA
arto.laitinen@uta.fi
Abstract: Axel Honneth has revitalized the notion of “social pathology” as a critical concept for social philosophy and Critical Theory; he has even defined the task of social philosophy in terms of pathology diagnosis and that of Critical Theory as a diagnosis and therapy of social pathology. Social philosophy is then oriented towards a “deeper” layer of reality, a “higher” order of wrongs or the “society itself”. This level, which marks the jurisdiction of a distinctively social philosophy, would not be reached by the vocabularies of moral and political philosophy and its characteristic evils would in some relevant sense resemble or even be “pathologies”. In this article, we will try to show that in different texts, Honneth has appealed to several conceptions of a social pathology. First of all, Honneth has understood ‘social pathology’ as a kind of “umbrella term” for social-philosophical wrongs, and, with qualifications, supported Christopher Zurn’s analysis of social pathologies as second-order disorders. Secondly, Honneth has appealed to an organicistic conception of social pathologies as “diseases of society”. Thirdly, he has – at least implicitly – given expression to an idea of social pathology as stagnation of social life. The first view holds that socially pervasive wrongs that meet certain further conditions count as pathologies. We will call this view “social-philosophical normativism”. The other two views hold that diagnosing something as a social pathology sheds light to how it is wrong, or what the “wrong-making” features are. We will call this view “social-philosophical naturalism”.
Keywords: Honneth; social pathology; normativism; naturalism; organicism.
1. Introduzione[1]
Axel Honneth ha dato nuova linfa alla nozione di “patologia sociale”, elevandola a concetto centrale della filosofia sociale e della Teoria critica, giungendo perfino a definire il compito della filosofia sociale nei termini di una diagnosi di patologie e quello della Teoria critica come una diagnosi e terapia della patologia sociale (Honneth 2007; 2012). Egli ha, inoltre, impiegato l’idea di patologia sociale nel suo magnum opus (Honneth 2015), indagandola poi ancor più diffusamente come strumento critico dotato di dignità a sé stante (Honneth 2014).
L’ambizione di Honneth è quella di stabilire un approccio valutativo alla realtà sociale non riducibile alle prospettive della filosofia morale e politica (Honneth 2007). La filosofia sociale si volge allora a considerare uno strato “più profondo” della realtà, un “più elevato” ordine di distorsioni della “società stessa”. Questo livello, che delimita la giurisdizione di una filosofia specificamente sociale, non sarebbe raggiunto dal lessico della filosofia morale e politica, e i suoi mali caratteristici sarebbero affini o addirittura omologhi a delle “patologie”.
In quanto segue assumiamo, a titolo di esperimento, che la filosofia sociale sia effettivamente, come Honneth sostiene, un’impresa critica volta a diagnosticare patologie sociali e a reperirne la cura. Tenteremo, tuttavia, di mostrare che, in testi diversi, Honneth ha fatto appello a concezioni distinte della patologia sociale, alcune delle quali sono mutuamente incompatibili. In primo luogo, egli ha inteso la patologia sociale come una sorta di “termine ombrello” capace di abbracciare un ampio spettro di distorsioni filosofico-sociali ed ha, pur con le distinzioni del caso, avallato l’analisi delle patologie sociali come «disordini di secondo ordine» fornita da Christopher Zurn (par. 2). In secondo luogo, Honneth ha invocato una concezione organicistica delle patologie sociali come «malattie della società» (par. 3). Infine, egli ha – almeno implicitamente – dato espressione a un’idea di patologia sociale come stagnazione della vita sociale (par. 4).
Queste prospettive non sono compatibili, nella misura in cui esse presentano prese di posizione concorrenti su una questione che potremmo denominare il “dilemma-Eutifrone” della filosofia sociale. Una questione che qualunque concezione della patologia sociale si trova a dover affrontare è, infatti, la seguente: qualcosa è patologico perché è sbagliato, oppure è sbagliato perché è patologico? Le tre posizioni che Honneth sembra aver sostenuto rispondono a questa domanda in modo diverso. La prima posizione sostiene che le distorsioni socialmente pervasive che soddisfano determinate condizioni ulteriori valgono come patologie: qualcosa è una patologia sociale perché manca di soddisfare un qualche ideale normativo prestabilito. Chiameremo questa posizione “normativismo filosofico-sociale”. Le altre due posizioni sostengono la diagnosi di patologia sociale renda chiaro in che modo un fenomeno costituisce una distorsione, o quali tratti del fenomeno sono capaci di produrre distorsioni. Chiameremo questa posizione “naturalismo filosofico-sociale”.
2. Normativismo
Honneth introduce la nozione di patologia sociale con l’intenzione di definire il compito e la materia-soggetto della filosofia sociale. Nel suo primo saggio dedicato a questo tema, The Pathologies of the Social: The Past and Present of Social Philosophy (Honneth 2007), egli tenta di dimostrare che la filosofia sociale – disciplina segnata dalla sua travagliata collocazione nell’angusto interstizio tra filosofia politica e sociologia – non si esaurisce nel riferimento a una nobile tradizione, ma ha anche un compito da svolgere nella società contemporanea. Questo compito è primariamente quello di diagnosticare patologie sociali (Honneth 2007, 4). Le patologie sociali esibiscono processi di socializzazione suscettibili di critica che non possono essere indagati adeguatamente né dalla filosofia politica né dalla filosofia morale, le quali operano mediante criteri di giustizia e legittimità, né dalla sociologia specialistica contemporanea, che si tiene a debita distanza da ogni speculazione etica (Honneth 2007, 3-4). Pertanto, il concetto di patologia sociale riveste un ruolo nient’affatto secondario nel programma di ricerca di Honneth che mira a integrare ontologia sociale, analisi normativa e scienza sociale empirica sotto l’insegna della “filosofia sociale”. Si può anzi dire che accanto al “riconoscimento” – un concetto che ha attirato un’attenzione accademica molto più ampia negli ultimi 25 anni[2] – quella di patologia sia la categoria chiave della sua filosofia sociale.
Secondo la tesi centrale avanzata da Honneth in questo primo saggio, le patologie sociali definiscono la materia-soggetto della filosofia sociale e debbono essere concepite come «processi di sviluppo sociale» che finiscono per minare la capacità dei membri di una società di vivere una vita buona o ben vissuta (Honneth 2007, 4). Da questa asserzione negativa riguardante la buona vita Honneth trae la conclusione che la filosofia sociale poggia su criteri etici; la filosofia sociale differisce dalla filosofia morale e politica per il fatto che essa, come diagnosi di patologie sociali, fornisce «un’istanza di riflessione [Reflexionsinstanz], all’interno della quale vengono discussi criteri di misura per forme riuscite della vita sociale» (Honneth 2007, 4). Poiché tutte le deviazioni da tali criteri sono sussunte sotto il concetto di patologia sociale, sembra che Honneth prenda sul serio l’accezione naturalistica della buona vita. Nel corso del saggio, Honneth descrive costantemente il sociale come una sorta di processo vitale, il che mostra come la scelta del termine negativo «patologia sociale» non sia arbitraria.
Secondo Honneth, allora, la filosofia sociale si sostanzia di due impegni metodologici: una concezione formale di un’etica della vita buona e un negativismo critico legato alla riflessione sulla vita sociale. Da un lato, la filosofia sociale emerge come trasformazione dell’etica aristotelica in seguito alla nascita della scienza empirica moderna e alla differenziazione dello stato dalla società civile. Sulla base di queste precondizioni moderne, sul cui terreno si innesta l’opera del suo “padre fondatore” Rousseau, la filosofia sociale non poteva limitarsi a proseguire una linea di ricerca aristotelica riguardo la buona vita e lo stato; né essa poteva semplicemente ignorare la riflessione sulla buona vita, come invece secondo Honneth fece la moderna filosofia sociale e politica. Al contrario, la riflessione etica dovette essere formalizzata e ri-orientata verso una vita sociale (o una società) che non fosse più riducibile alla vita politica dello Stato: «fu così che la filosofia sociale emerse come rappresentante di una prospettiva etica nel territorio sconosciuto di una società in graduale emersione» (Honneth 2007, 33).
Dall’altro lato, la filosofia sociale non si limita a formalizzare e ri-orientare l’etica verso un più comprensivo concetto del sociale, ma reinterpreta anche in termini negativistici il compito dell’etica come «istanza di riflessione»: la filosofia sociale non entra in scena come etica normativa positiva, sviluppandosi invece come una «critica di una condizione sociale che si sperimenta come estraniata o priva di significato, reificata o del tutto patologica» (Honneth 2007, 34). In luogo dei fini positivi di una vita buona, la filosofia sociale postula punti di partenza negativi – alienazione, reificazione, pratiche cristallizzate, istituzioni morte, società malate. Tutte queste valutazioni negative di impronta più o meno naturalistica sono sussunte da Honneth sotto il termine ombrello di «patologia sociale». In forza di questa nozione, dunque, siamo in grado di afferrare l’unità della tradizione e il significato del compito della filosofia sociale.
Al tempo stesso, però, Honneth sostiene anche che tali valutazioni negative della vita sociale contemporanea dipendono da un qualche riferimento in positivo alle condizioni della libertà umana: «possiamo perciò parlare sensatamente di una ‘patologia’ della vita sociale soltanto se abbiamo già fissato specifiche assunzioni riguardo il modo in cui di fatto si costituiscono le condizioni dell’autorealizzazione umana» (Honneth 2007, 34). In altri termini, la filosofia sociale è negativistica nel senso che essa, anziché postulare fini etici, prende avvio da una diagnosi delle patologie della vita sociale contemporanea; ma, d’altra parte, essa non può stabilire che cosa sia patologico senza una configurazione in positivo della buona vita. Secondo la ricostruzione di Honneth, non è stato efficacemente chiarito dalla filosofia sociale in quale modo esattamente debba essere risolta la tensione tra un’istanza negativistica, che dovrebbe funzionare senza un’etica positiva e il bisogno di un riferimento etico positivo necessario alla sussistenza dell’istanza negativa. Pertanto, egli ritiene che risolvere il problema del “criterio” spetti al suo approccio alla patologia sociale. Tuttavia, in questo primo saggio Honneth non crede di essere già avviato verso la soluzione. Inizialmente, il suo scopo è più modesto: egli tenta di indagare il passato della filosofia sociale al fine di articolarne il problema attuale. Come mossa iniziale, Honneth ricostruisce dunque la storia di come quel compito si sia evoluto, delineandone così l’orizzonte futuro.
Nel corso del saggio, Honneth si volge perciò alla ricerca di differenti strategie teoriche di approccio al problema del criterio normativo che consenta di stabilire se determinati sviluppi sociali possano essere considerati patologie sociali. Nell’opera di autori come Rousseau, Hegel, Marx, Nietzsche, Lukács, Plessner, Horkheimer e Adorno, Arendt, Taylor e Habermas egli ritrova non soltanto differenti criteri per diagnosticare diverse distorsioni sociali che sussume sotto il termine ombrello di «patologia sociale», ma anche un’intera gamma di differenti opzioni metodologiche disponibili ai filosofi sociali per reperire i criteri etici necessari a un progetto di diagnosi delle patologie.
Rispetto al “dilemma Eutifrone” in filosofia sociale, pertanto, Honneth parrebbe, a tutta prima, collocarsi sul versante normativistico: uno sviluppo sociale non è distorto perché patologico, ma è patologico perché distorto. Questa tendenza diviene pienamente evidente nella sua lettura di Helmut Plessner – un filosofo sociale schiettamente naturalista. Anziché interpretare Plessner come se questi fornisse una lettura delle patologie della forma naturale di vita umana in modo da identificare le distorsioni sociali senza ricorrere a una speculazione normativa arbitraria (nel qual caso la critica sociale muoverebbe da un concetto di patologia sociale ontologicamente pregnante, in direzione delle distorsioni sociali), Honneth denomina la posizione di Plessner «un percorso di giustificazione presuntivamente non-normativo» e tratta il resoconto naturalistico come il tentativo di costruire un criterio identificativo della patologia sociale, da applicare solo in seguito a fini diagnostici (nel qual caso la direzione della critica è invertita e procede dai criteri normativi alle patologie sociali) (Honneth 2007, 24).
Nondimeno, Honneth si sforza di fornire un’immagine teorica convincente della cogenza per la filosofia sociale dei concetti di patologia, diagnosi e salute:
I concetti di ‘diagnosi’ e ‘patologia’, che sono strettamente collegati all’interesse conoscitivo della filosofia sociale, vengono entrambi dal campo della medicina. Con ‘diagnosi’ si intende prima di tutto l’esatta comprensione e determinazione di una malattia che colpisce l’organismo umano. Una rappresentazione clinica dello stato di salute, che per motivi di semplicità estrema è spesso caratterizzato dalla mera capacità di funzionamento del corpo umano, svolge il ruolo di parametro per la misura dei fenomeni anormali. ‘Patologia’ funziona in modo complementare a questo concetto di ‘diagnosi’. Sebbene inizialmente patologia indicasse soltanto la teoria della malattia, oggi si riferisce soprattutto agli stati anormali stessi. Una patologia rappresenta così la precisa deviazione organica che deve essere scoperta o smentita nella diagnosi. (Honneth 2007, 34)
Il concetto di patologia deriva dal termine greco παθολογία, che a sua volta si compone di πάθος (malattia, sofferenza, passione) e di λόγος (significato, ragione, studio di). Vi è allora un’ambiguità del lemma «patologia»: esso significa sia la malattia, sia la sua scienza. A prima vista, Honneth pare optare per il primo uso del termine, e concepire dunque la «patologia» come quella “aberrazione organica” che è rivelata da una diagnosi.
Evidentemente Honneth pensa a «patologia», «malattia» e «salute» come a concetti derivati dalla medicina e meritevoli di essere trasferiti alla critica sociale. Ciò potrebbe, tuttavia, non essere propriamente accurato: forse la medicina, come valutazione dei corpi fisici, e la critica sociale, come valutazione della vita sociale, non sono sempre state chiaramente distinguibili, vale a dire: forse esse sono emerse simultaneamente e condividono una parte della loro storia, nel qual caso la pratica della diagnosi di patologie si sarebbe sviluppata in pratiche valutative nelle quali la medicina e la critica sociale erano ancora indifferenziate. Il concetto di patologia sociale non avrebbe dunque alcun bisogno di essere «importato» (Honneth 2007, 34) nella critica sociale, avendo già in essa piena cittadinanza. L’idea di una chiara linea di demarcazione tra il lessico della natura e quello della società, tra corpi fisici e corpi sociali, sembra coincidere con una biforcazione peculiarmente moderna della natura (Whitehead 1948; Dewey 2012; Latour 1993). Per esempio, il medico presocratico Alcmeone di Crotone definisce la «malattia» come una squilibrio di forze, e come esempio menziona la «monarchia» (Dohrn-van Rossum 1978, 521).
A ogni modo, Honneth non crede affatto che la traslazione di questi concetti dalla medicina alla filosofia sociale sia priva di difficoltà. Il più gravoso di questi problemi è dato dall’esigenza di «una rappresentazione di normalità applicabile alla vita sociale nella sua interezza» (Honneth 2007, 34). Nel momento in cui Honneth sostiene che la vita sociale è orientata a valori culturalmente contingenti e, perciò, culturalmente mediata, tale criterio di “salute” sociale deve esprimere condizioni universali. Un «paradigma di normalità sociale» può secondo Honneth essere stabilito soltanto da un’etica formale che definisca le condizioni sociali per una libera auto-realizzazione dei partecipanti (Honneth 2007, 34-35). Questa riflessione etica filosofico-sociale, che discende dall’ambizione negativistica di diagnosticare le patologie sociali dell’epoca, è formale nel senso che si astiene dal postulare i fini dell’auto-realizzazione dei partecipanti; essa si limita, invece, a ricercare le condizioni sociali della libertà umana (Honneth 2007, 36). Honneth è convinto che una tale idea di etica formale sia implicita in tutte le valutazioni negative che egli sussume sotto il concetto di ”patologia sociale”:
Senza eccezioni i vari concetti negativi rimandano indirettamente alle condizioni sociali che devono così venir designate, in modo tale da rendere possibile agli individui una vita che è più piena e migliore o, in altre parole, riuscita. In questo modo una rappresentazione etica della normalità sociale, che è improntata alle condizioni di possibilità dell’autorealizzazione, rappresenta la scala su cui vengono misurate le patologie sociali. (Honneth 2007, 35-36)
Ricapitolando, Honneth ha quindi esplicitato il problema che orienterà la sua ricerca filosofico-sociale: la filosofia sociale ha a che fare con patologie sociali, cioè difetti sociali che non possono essere adeguatamente affrontati come ingiustizie, e tutte queste diagnosi sono sottoposte al vincolo metodologico di un’etica formale che definisca le condizioni sotto le quali i membri di una società possono percepire la garanzia di trovare possibilità sufficienti per vivere una vita buona, piena, ben vissuta.
Nel suo secondo saggio sul concetto di patologia sociale, composto alcuni anni dopo, Un caso di patologia della ragione: sull’eredità intellettuale della Teoria critica (Honneth 2012), Honneth impiega il concetto di patologia sociale per articolare i tratti definitori, non soltanto della filosofia sociale in generale, ma in particolare della filosofia sociale caratteristica della Teoria Critica della Scuola di Francoforte. In questo saggio, tuttavia, Honneth aggiunge all’approccio delineato in Patologie del sociale due elementi ulteriori di cruciale importanza.
La prima aggiunta consiste nel fornire ai suoi lettori un’analisi più dettagliata del modo in cui dovrebbe essere concepito il criterio della patologia sociale, che nel precedente saggio era consegnato alla formula piuttosto stringata di una «etica formale» avente il compito di fondare il «negativismo critico». Nella tradizione filosofico-sociale della Scuola di Francoforte Honneth reperisce una versione assai promettente di questa commistione di etica formale e negativismo critico. Secondo questo argomento, la peculiare strategia metodologica percorsa dalla Scuola di Francoforte nel delineare i tratti di un’etica formale consiste nella ricostruzione di una Ragione storicamente prodotta e socialmente efficace. Questa idea di una razionalità contenuta nelle pratiche sociali contemporanee dovrebbe permettere una critica immanente del capitalismo come deformazione di una razionalità già disponibile:
La Teoria critica insiste […] sul mediare teoria e storia in un concetto di ragione socialmente effettiva. Da un punto di vista pratico, il passato dovrebbe essere compreso alla stregua di un processo di sviluppo la cui deformazione patologica ad opera del capitalismo è superabile soltanto dando il via a un processo di rischiaramento tra i partecipanti. È questo modello concettuale dell’intreccio di teoria e storia che fonda, sempre nella molteplicità delle sue voci, l’unità della Teoria critica. (Honneth 2012; trad. it. mod.)
Di nuovo, Honneth sottolinea la necessità di una critica sociale né puramente normativa né meramente “locale”, anzi capace di utilizzare il concetto di patologia sociale per diagnosticare difetti sociali di vasta estensione. Questa specifica forma “francofortese” di critica immanente può dunque secondo Honneth essere reinterpretata come una “patologia sociale della ragione”. È interessante notare che ora Honneth fa un uso più esplicito del termine ‘patologia’, nella duplice accezione, più in ombra nel primo saggio, che unisce il disagio stesso e la scienza che lo indaga. Addirittura egli impiega ora il primo senso (riflessivo) di “patologia” nel titolo, accennando al fatto che la Teoria critica pratica la “patologia sociale” nel senso di una scienza delle deformazioni di una razionalità socialmente effettiva. Ma “patologia sociale” denota ancora anche l’oggetto di questa peculiare scienza critica della società; in effetti, essa costituisce la materia-soggetto dell’intera Teoria critica francofortese, passata e presente: «tutte le espressioni che i membri della Scuola di Francoforte utilizzano per caratterizzare la data condizione della società discendono da un vocabolario social-teoretico che si fonda sulla distinzione basilare tra rapporti «patologici» e rapporti «non-patologici», o «integri» (Honneth 2012, 50). Come nel primo saggio, “patologia sociale” compare come termine ombrello che tiene insieme una gamma di giudizi negativi sulla vita sociale contemporanea.
In che modo allora la Scuola di Francoforte fa seguito al progetto di diagnosticare e curare le patologie sociali? Come rinegozia il rapporto tra le due componenti della filosofia sociale, etica formale e negativismo critico? L’idea di una razionalità socialmente effettiva costituisce un argomento etico, poiché è basata sull’idea hegeliana secondo cui «una forma riuscita di società è possibile soltanto conservando standard molto altri, e da raggiungere ogni volta, di razionalità» (Honneth 2012, 52). Da un punto di vista riproduttivo e normativo, dunque, le società sono pragmaticamente vincolate da una Ragione evoluta. In modo corrispondente, le patologie sociali dovrebbero essere identificabili per contrasto, attraverso il criterio di una superiore forma di razionalità. In altri termini, Honneth concepisce qui la patologia sociale come una deviazione da tale ideale socialmente effettivo: «ogni deviazione dall’ideale qui delineato non può che condurre a patologie sociali, riconoscibili dalla sofferenza che i soggetti provano per la perdita di fini comuni, universali» (Honneth 2012, 52). Pertanto, anche in questo saggio, Honneth inclina nettamente verso un normativismo filosofico-sociale: un determinato sviluppo sociale vale come patologia sociale se e solo se può essere mostrato che esso rappresenta una deformazione di un prestabilito ideale normativo di razionalità.
Ora, come dovrebbe essere concepita questa razionalità? Qual è l’etica formale avallata dalla Scuola di Francoforte e dalla quale dovremmo aspettarci un criterio atto a identificare le patologie sociali? La risposta di Honneth si compone di tre parti. Primo, le deviazioni da questo ideale, scrive Honneth, si accompagnano a una «dolorosa perdita di occasioni per l’autorealizzazione intersoggettiva» (Honneth 2012, 53). La Teoria critica della Scuola di Francoforte ripropone l’eredità della Sinistra hegeliana, che specifica la razionalità in termini di libertà – un’eredità che può essere ascritta anche alla gran parte degli autori che Honneth includeva nella ricostruzione storica della filosofia sociale nel primo saggio. Secondo, questa libertà deve essere concepita come necessariamente incorporata in una prassi cooperativa. Gli esponenti della Teoria critica tengono fermo il punto secondo cui i singoli percorsi di autorealizzazione dei membri della società possono sussistere solo se reciprocamente intrecciati ed espressi nei termini di un «bene comune» (Honneth 2012, 54). In questo senso, il concetto di Ragione universale implica l’idea di un bene comune, che deve in linea di principio essere accettabile per tutti i partecipanti, in modo tale che la loro autorealizzazione individuale sia espressiva di una libertà cooperativa. Solo a quel punto la perdita di razionalità, che è una perdita del bene comune, può essere collegata alla sofferenza sociale individuale, dal momento che una deformazione della Ragione socialmente effettiva deve essere esperita come restrizione delle possibilità di autorealizzazione. Terzo, la Ragione socialmente effettiva deve essere storicamente ricostruibile come superiore alle precedenti forme di razionalità e le sue deformazioni devono essere sociologicamente spiegabili come “de-tematizzazioni” dei difetti sociali nella sfera pubblica. Pertanto, la Teoria critica francofortese si impegna a integrare la ricerca sociale empirica nel progetto di una filosofia sociale (Honneth 2012, 59).
La seconda importante aggiunta alla lettura della patologia sociale reperibile in questo saggio consiste nell’idea che la scienza della patologia sociale non si esaurisce nella diagnosi della patologia sociale, ma include anche la terapia di una società patologica. «Le figure centrali della Scuola di Francoforte condividono non solo lo schema formale di una diagnosi del capitalismo come insieme di relazioni sociali che esprimono una razionalità interrotta o distorta, ma anche l’idea del metodo terapeutico appropriato» (Honneth 2012, 66; trad. it. modificata). Questo punto richiama l’analogia tracciata da John Dewey tra il filosofo sociale e il medico: secondo Dewey sia la medicina che la filosofia sociale sono «scienze applicate» nel senso che esse non si limitano a teorizzare sull’oggetto al fine di produrne una conoscenza che in seguito, con un passaggio ulteriore, potrebbe essere applicata al fine di trasformarlo; la teoria si costruisce invece precisamente nella trasformazione dell’oggetto e attraverso di essa: sia il medico che il filosofo sociale “diagnosticano” patologie ma tentano anche necessariamente di “curarle”, e proprio come la diagnosi rende adeguata la cura, così anche la cura retroagisce sulla diagnosi perfezionandola (Dewey 1973, 47-48; cfr. anche Särkelä 2017). Tuttavia, la Teoria critica francofortese imprime a questa idea una piega teorica “razionalistica”: la cura per la patologia sociale diagnosticata dal teorico critico proviene dalla stessa Ragione che è deformata dall’organizzazione sociale. Qui Honneth allude a un modulo di pensiero freudiano: i teorici critici sostengono che «le patologie esprimono sempre un tipo di sofferenza nella quale si tiene vivo l’interesse nella capacità emancipativa della ragione» (Honneth 2012, 66; trad. it. mod.)
In conclusione, dopo aver usato il concetto di patologia sociale nel primo e più fondamentale intento di denotare i difetti sociali diagnosticati dalla filosofia sociale, fornendo nel suo secondo saggio una concezione più chiara del tipo di etica implicata dal negativismo critico Honneth tratta la «patologia sociale» anche come scienza della malattia, e include inoltre nel suo campo di interesse la terapia. Pertanto, un tratto che distingue la Teoria critica francofortese da (alcune delle) altre filosofie sociali – secondo l’interpretazione di queste ultime fornita nel primo saggio – è forse l’inclusione esplicita della cura nella sua prassi critica: la scienza della patologia partecipa almeno in una certa misura della guarigione della patologia che ha richiesto una diagnosi.
Nella sua interpretazione degli scritti di Honneth, Christopher Zurn (2011) suggerisce che le patologie sociali di ogni genere, esaminate nella tradizione della Teoria critica e da Honneth in particolare, possono essere concepite come «disturbi di secondo ordine». Questa definizione include patologie legate al carattere ideologico del riconoscimento, alla sperequazione distributiva, all’invisibilità sociale, alle distorsioni della razionalità, alla reificazione e all’autorealizzazione organizzata (o istituzionalizzata). Ciò che è in gioco, a suo giudizio, sono «disconnessioni costitutive tra un primo ordine, dei contenuti, e un secondo ordine, della comprensione riflessiva di quei contenuti, dove tali disconnessioni sono pervasivamente diffuse e socialmente prodotte» (Zurn 2011, 345-346).
Si pensi al mito che ascrive ai poveri la responsabilità personale della loro povertà. Questo mito è ideologico, nella misura in cui esso manca di rintracciare le cause della povertà nelle condizioni sociali, e la attribuisce in modo fallace a fallimenti personali. Il mito spaccia inoltre per naturale e legittima la forma data dei compromessi sistematici tra ricchi e poveri – omettendo così di domandarsi criticamente se non debbano prevalere altri assetti più egualitari. Vi è allora tra ciò che effettivamente accade e ciò che viene compreso una disconnessione, in virtù della quale l’interrogare critico di secondo ordine risulta impedito. E un simile blocco è socialmente causato e pervasivo.
La tesi di Zurn ha esercitato una notevole influenza sul dibattito recente. Honneth stesso, nel Diritto della libertà, manifesta una certa approvazione per l’analisi della patologia sociale fornita da Zurn (Honneth 2015, 107)[3]. Ciò è in qualche misura sorprendente, se si considera che le strutture “riflessive” delle patologie parrebbero corrispondere alla libertà “riflessiva”, che per Honneth non è ancora libertà “sociale”. Mentre la libertà riflessiva si esprime nelle capacità critiche dell’individuo, la libertà sociale è incorporata nella realtà istituzionale. L’analisi di Zurn può così intercettare “patologie riflessive”, laddove la libertà sociale dovrebbe forse essere accompagnata da un’indagine delle patologie sociali. Questa è la prima delle tre ragioni in base alle quali pensiamo che la posizione di Honneth potrebbe essere meglio supportata da concezioni alternative della patologia sociale.
In secondo luogo, vi sono alcuni problemi che riguardano l’analisi di Zurn in sé presa (per una discussione più ravvicinata delle tesi di Zurn, cfr. Laitinen 2015; Freyenhagen 2015). Quando Zurn discute i suoi esempi, diviene evidente che, così presentati, essi in realtà non rientrano nella sua caratterizzazione dei disturbi di secondo ordine. Ciò che vale come primo ordine varia (si tratta della realtà sociale, oppure delle esperienze di primo ordine dei partecipanti?) come varia anche ciò che è effetto della causazione sociale (si tratta dei contenuti del primo ordine, delle esperienze, o della riflessione di secondo ordine? O della mancata connessione tra tutti o alcuni di questi elementi?). Un insieme ampio di fenomeni sociali, che la tesi di Zurn apparentemente tralascia, è costituito dai casi in cui semplicemente è presente una distorsione nella realtà sociale del primo ordine. Essa presenta aspetti ingiusti, non democratici, aspetti che producono sofferenza, ostacolano il benessere, generano carenza di libertà e autonomia, o impediscono il sorgere di una solidarietà autentica. Possono verificarsi oppressione, misconoscimento, sfruttamento, dominio e coercizione brutale di vario genere, nonostante i soggetti restino in grado di afferrare riflessivamente questi fenomeni: il problema non si colloca cioè nello iato tra realtà e riflessione, ma nella realtà sociale stessa (fermo restando che la dissimulazione ideologica dell’oppressione può ben giovare all’oppressore).
Una struttura più complessa (cfr. Laitinen 2015) dovrà includere almeno i) la realtà sociale del primo ordine, come anche l’esperienza partecipativa del primo ordine o la sua comprensione, che è tipicamente costitutiva della realtà sociale (per esempio, tipi sociali come genere e razza sono attivamente performati dai partcipanti), ii) il livello della riflessione di secondo ordine sottolineato da Zurn, ma anche iii) l’idea di un preventivo silenziamento sociale della critica anche laddove una riflessione critica ha di fatto luogo. Le patologie sociali possono consistere in interruzioni del collegamento tra qualunque di questi elementi.
In terzo luogo, non è chiaro se questa comprensione delle patologie possa giovare alla definizione del compito della filosofia sociale. In base a questo approccio, un fenomeno è una patologia sociale se è in qualche modo “sociale” e sbagliato. Dobbiamo ritenere che questo approccio ci metta in grado di concepire il compito della filosofia sociale nei termini di una diagnosi di patologie? Potrebbe, ma solo se sapesse fornire un resoconto di come le distorsioni sociali differiscono da quelle morali o politiche. Si tratta di una questione controversa, della quale può però essere immediatamente disponibile almeno una connotazione negativa: le questioni socio-etiche non si limitano alla moralità in senso stretto (che riguarda come gli individui dovrebbero agire), e i problemi sociali non si esauriscono nelle questioni sociali della democrazia o della legittimità della governance – vi sono distorsioni o mali sociali ulteriori rispetto a quelli strettamente morali e politici. Vi sono, per esempio, le patologie menzionate in Zurn (2011), o i tre «disagi» individuati da Charles Taylor: perdita del senso, eclissi dei fini dinanzi all’espansione della ragione strumentale, perdita di libertà sotto il «dispotismo morbido» (Taylor 1991).
3. Naturalismo come organicismo
Nel Diritto della libertà Honneth non soltanto avalla (crediamo, erroneamente) la lettura di Zurn della patologia sociale come disturbo di secondo ordine, ma introduce anche una classe ulteriore di distorsioni rilevanti da un punto di vista filosofico-sociale: le «distorsioni dello sviluppo sociale». Come le patologie sociali, anche le distorsioni dello sviluppo sono irriducibili ai difetti individuati dalla filosofia morale e politica.
L’intento del Diritto della libertà è quello (prefigurato in Honneth 2012) di condurre una ricostruzione dell’evoluzione storica della Ragione per come essa si esprime in pratiche istituzionalizzate di reciproco riconoscimento nelle moderne società democratiche. In queste società, Honneth individua tre sfere in cui la «libertà sociale» – una libertà realizzata attraverso pratiche cooperative – svolge un ruolo indispensabile per la riproduzione sociale e acquisisce un valore normativamente cogente: le relazioni interpersonali (amicizia e amore), il mercato e la sfera pubblica politica (Honneth 2015, 163 ss.). Da ciascuna di queste tre sfere di valore, Honneth tenta di distillare la forma pertinente di riconoscimento reciproco e dunque anche la specifica modalità d’espressione della libertà sociale in quella sfera. Egli pone in atto una «ricostruzione normativa» della Ragione storicamente divenuta e socialmente effettiva, differenziata funzionalmente in ogni sfera di valore – una sostanza etica che rappresenta «il nucleo di regole d’azione normative» che può essere estratto da «modelli d’azione ‘idealtipici’» (Honneth 2015, 164). Ora, le patologie sociali, per come Honneth le concepisce in questa sede, designano distorsioni sociali causate da concezioni unilaterali della libertà (morale e legale). In questo caso, vi sono regole incorporate nelle pratiche sociali (come la legge e la moralità) che sono dotate di una legittimità soltanto limitata; pertanto, se trascendono quei limiti, queste concezioni della libertà producono deformazioni della pratica sociale, cioè «patologie sociali» (Honneth 2015, 83 ss.). Le «distorsioni dello sviluppo sociale», invece, designano distorsioni sociali che esibiscono «deviazioni» da quel «nucleo di regole d’azione normative», cioè dalla sostanza etica che nel corso della ricostruzione si rivelerà essere un universale razionale (Honneth 2015, 164). In questo caso, le distorsioni sociali esibiscono un’incapacità di soddisfare le richieste di libertà sociale incorporate nelle rispettive sfere di valore. Laddove le «patologie sociali» sono deformazioni della razionalità causate in modo sistematico da concezioni incomplete della libertà (morale e legale), le «distorsioni dello sviluppo sociale» esprimono degenerazioni di una Ragione già socialmente effettiva (cioè, della libertà sociale): non sono «patologie nel senso proprio del termine», ma piuttosto «anomalie le cui origini vanno ricercate altrove e non nelle regole costitutive dei rispettivi sistemi d’azione» (Honneth 2015, 165).
Sebbene entrambe queste concezioni siano verosimilmente espressione di un normativismo filosofico-sociale (in entrambi i casi la patologia è determinata dall’incapacità di soddisfare un criterio razionale), è importante porvi attenzione prima di volgersi a considerare il naturalismo di Honneth, poiché egli opererà di qui a poco una revisione sostanziale del quadro teorico, lasciandosi alle spalle ambedue i concetti di distorsione sociale.
Questa svolta ha luogo in un saggio intitolato The Diseases of Society: Approaching a Nearly Impossible Concept (Honneth 2014) pubblicato tre anni dopo l’edizione tedesca del Diritto della libertà. Quest’ultimo saggio sulla patologia sociale segna sotto numerosi aspetti una rottura con i precedenti scritti di Honneth. In primo luogo, l’idea di una patologia sociale non è più impiegata per caratterizzare una peculiare tradizione della filosofia sociale moderna risalente a Rousseau, né la soggiacente idea di Teoria critica: è invece una tradizione ben più ampia a essere chiamata in causa. Honneth, infatti, riconduce l’idea di una «malattia della società» al mondo antico. Già la Repubblica di Platone, sostiene ora, ha posto le basi per una «reciproca trasferibilità del lessico psicologico e del lessico politico»; da allora, l’idea è «divenuta endemica in tutti i discorsi sulle forme associative ideali e deteriorate» (Honneth 2014, 683). L’idea di patologia sociale sembra aver ampliato i suoi scopi: essa ha ora un ambito di impiego più esteso, che oltrepassa il contesto del progetto specificamente moderno di una filosofia sociale (Honneth 2007) o la sua particolare variante costituita dalla Teoria critica francofortese (Honneth 2012).
Una seconda importante innovazione contenuta nel saggio è la sua esplicita svolta in direzione del naturalismo filosofico-sociale: già nel primo paragrafo, la tradizione risalente a Platone si caratterizza per un uso dell’idea di patologia sociale «volto a trarre conclusioni normative circa i principi della giusta costituzione sociale dal modello di un’organizzazione virtuosa delle forze psichiche» (Honneth 2014, 683). Si osservi l’inversione compiuta da Honneth rispetto alle precedenti risposte al “dilemma-Eutifrone” della filosofia sociale. Laddove Honneth sinora aveva esplicitamente teorizzato la necessità per la filosofia sociale di formulare prima un criterio normativo per poter in un secondo momento giudicare del carattere patologico di un fenomeno, in The Diseases of Society egli fa ricorso a un’ontologia del corpo vivente o della mente integra, al fine di stabilire giudizi normativi riguardanti le distorsioni sociali. L’ultimo saggio di Honneth sulla patologia sociale indaga quindi la possibilità di trarre conclusioni normative dalle patologie del corpo vivente.
Questa piega naturalistica si osserva anche nel fatto che Honneth dichiara ora di prendere l’idea di patologia sociale «non in senso meramente figurato, anzi piuttosto letterale» (Honneth 2014, 684). Sebbene nel primo saggio egli si sforzasse di articolare il significato di “patologia”, “diagnosi” e “salute” per la critica sociale, il problema della traslazione categoriale veniva finora risolto rappresentando la “patologia” come una sorta di metafora per indicare distorsioni normative determinate da un’etica formale. Ora Honneth, di contro, pone le basi per un’interpretazione letterale del concetto: «patologia sociale» non è più un termine ombrello per una gamma di valutazioni negative, ma diviene uno strumento critico a sé stante. E proprio i tratti medici e naturalistici del concetto sono chiamati a dare sostanza alla sua validità critica. L’assunzione che soggiace all’uso di questo lessico medico e naturalistico è, infatti, che le entità sociali siano un tipo di entità che può realmente ammalarsi. Mediante questa tesi, che Honneth tenta di articolare nel corso del saggio, il lessico naturalistico della critica sociale dovrebbe acquisire una sua propria autorità valutativa.
Tuttavia, una simile critica sociale naturalistica richiede due argomenti ulteriori, di cui l’uso più metaforico del concetto di patologia sociale può invece fare a meno. In primo luogo, l’impegno ontologico verso un concetto di società come entità letteralmente capace di ammalarsi necessita di un argomento ontologico-sociale. In secondo luogo, ciò implica che sia dichiarato esattamente a chi deve essere attribuita la malattia – i molti individui, un gruppo sociale o “la società”. Chiameremo il primo il “problema ontologico” e il secondo il “problema dell’attribuzione”. L’assai sorprendente risposta di Honneth a entrambi consiste in una riproposizione dell’organicismo sociale.
Honneth prende avvio dal problema dell’attribuzione. Assieme ai due eroi del saggio, Freud e Alexander Mitscherlich, egli attribuisce ora le patologie sociali soltanto alla società stessa, vale a dire, non ai suoi membri né ad alcun gruppo sociale particolare. In riferimento al problema ontologico, questo conduce Honneth a concepire la società come «un’entità sui generis» (Honneth 2014, 689), cioè un’entità che deve essere determinata attraverso «categorie indipendenti» (Honneth 2014, 688). Se il disagio va attribuito solo a “la società”; e non ai suoi membri, allora sembra che questa società debba essere concepita come qualcosa che trascende categorialmente le sue parti.
Questa entità sui generis, determinabile solo attraverso categorie indipendenti, in filosofia è tradizionalmente chiamata sostanza. Ora, nel testo Honneth assume che il tipo di sostanza che può essere colpita da una malattia sia un organismo (Honneth 2014, 702-703). Molto dipende, allora, da come è concepito l’organismo. Una maniera di affrontare il problema è l’organicismo. Secondo il punto di vista organicistico, un organismo è una sostanza auto-sussistente che si riproduce attraverso le sue parti (dette «organi») ed è però a esse irriducibile. Una simile ontologia organicistica è già implicita nella tesi che Honneth avanza all’inizio del saggio, secondo la quale il punto focale di una diagnosi sociale sta nel «misurare la patologia sociale come collasso della capacità sociale di riproduzione» (Honneth 2014, 693). Ma vediamo più da vicino come l’organicismo sociale emerge nel corso del confronto di Honneth con il problema dell’attribuzione e con il problema ontologico.
Una conseguenza della soluzione organicistica al problema dell’attribuzione è l’astrazione della patologia sociale dalla sofferenza sociale individuale[4]. Questa è una novità importante, poiché rivede uno degli impegni centrali della precedente concezione. Infatti, Honneth recide qui la connessione tra la patologia sociale e l’esperienza individuale di illibertà che nel precedente modello aveva vigorosamente enfatizzato come componente necessaria della Teoria critica. Per esempio, in Patologie del sociale, Honneth sosteneva: «il punto di riferimento per tutti questi tentativi di stabilire un criterio di normalità per le relazioni sociali è costituito dalle condizioni di vita (associata) dei soggetti individuali. Le forme di organizzazione sociale sono viste come riuscite, ideali o ‘salutari’ se consentono agli individui un’autorealizzazione non distorta» (Honneth 2007, 37).
E in Patologie della ragione si era mostrato apertamente fiducioso riguardo una connessione concettuale tra patologia sociale e sofferenza individuale; era anzi a ben vedere proprio questa connessione a dover garantire alla teoria critica la possibilità di trovare una qualche risonanza in una società patologica:
La teoria critica presuppone che la sofferenza, soggettivamente esperita o attribuibile oggettivamente, tra i membri della società, debba condurre a un desiderio di liberazione dai mali sociali analogo a quello che l’analista deve attribuire ai suoi pazienti. […] Tutte le figure che rientrano nella cerchia della Scuola di Francoforte fanno affidamento sulla presenza, nei soggetti destinatari, di un interesse latente nei confronti di spiegazioni o interpretazioni razionali, poiché il desiderio di liberazione dalla sofferenza può essere soddisfatto soltanto riguadagnando una razionalità integrale. (Honneth 2012, 71; trad. it. mod.)
Purtroppo, in The Diseases of Society, Honneth scinde esplicitamente patologia sociale e sofferenza individuale: seguendo l’assunto organicistico secondo cui la «società» è una sostanza, cioè è determinabile soltanto mediante categorie indipendenti, «bisognerebbe attenersi alla prospettiva […] secondo cui le anomalie sociali, che inducono il sospetto che qualcosa sia patologico, possono anche consistere in schemi d’azione che non producono alcuna sofferenza individuale e perciò non costituiscono necessariamente disturbi psichici» (Honneth 2014, 690-691). Honneth non lascia spazio alcuno per relativizzare questa soluzione organicistica al problema dell’attribuzione: «i disagi della civiltà si verificano a un livello situato principalmente al di sopra dei soggetti» (Honneth 2014, 700).
Qual è, allora, la soluzione di Honneth al problema ontologico? In quale senso la società può letteralmente ammalarsi ed essere affetta da una patologia? Prendere in senso letterale l’idea di una patologia sociale significa per Honneth configurare la società come un tipo di sostanza che può effettivamente ammalarsi. Perciò, sostiene, la società deve essere compresa come analoga a un organismo. Tuttavia, Honneth non chiarisce appieno in che modo debba essere interpretata questa analogia. Vi sono almeno due modi di essere un organicista sociale, chiamiamoli debole e forte. La questione è la seguente: è sufficiente sostenere che la società sia abbastanza simile a un organismo al fine di diagnosticarne la salute o la malattia, oppure si deve sostenere che la società è un organismo? Nel primo caso, vi sarebbe un’analogia tra società e organismo, e queste due entità condividerebbero somiglianze strutturali in misura sufficiente ad autorizzare un naturalismo filosofico-sociale. Nel secondo caso, di contro, l’analogia sarebbe tra l’organismo sociale e l’organismo biologico, e queste due entità rappresenterebbero due distinte specie del genere «organismo».
La prima versione, debole, di organicismo, sarebbe una strategia concettuale certamente meno stravagante, ma non molto convincente laddove l’obiettivo fosse prendere in senso letterale l’idea di una patologia sociale. Solleverebbe la questione del perché questa analogia dovrebbe presentare un metodo più adeguato di critica sociale e un modello plausibile per concettualizzare la società. Cosa c’è di così “letterale” nel paragonare la società a un organismo? La seconda versione, forte, dell’organicismo, condurrebbe invece presumibilmente a un’ontologia sociale stravagante, ma la stravaganza in sé non può valere come argomento pro o contro una tesi filosofica. Verso la fine del saggio, in effetti, Honneth pare avallare un organicismo sociale forte:
Il parallelo con l’organismo vivente […] non è arbitrario e non può essere evitato. Si può finalmente parlare di ‘disagi della società’ in modo abbastanza coerente e sostanziale se ci si rappresenta la società come un organismo in cui le sfere individuali o i sottosistemi, concepiti come organi, cooperano in modo così armonico che possiamo derivare l’idea di uno sviluppo ‘libero’, privo di ostacoli. (Honneth 2014, 701)
Non si traccia qui un parallelo tra società e organismo ma tra la società, essa stessa rappresentata come un organismo, e l’organismo vivente. Ora, anche questo organicismo forte non si spinge certo a sostenere che la società sia un organismo biologico. Al contrario, sostiene che essa sia un organismo sociale, che può essere compreso per analogia con l’organismo biologico. Questa relazione di analogia, tuttavia, implica che la società deve essere a un tempo simile e dissimile rispetto all’organismo biologico. Ma allora, in che modo esattamente Honneth concepisce l’analogia? In quale senso la società è simile, e in quale senso è dissimile a un organismo “presociale”?
La società è una specie di organismo, e pertanto, essa è “simile” all’organismo biologico, nella misura in cui costituisce un intero funzionale autosussistente, che riproduce la sua struttura attraverso le sue parti e le parti attraverso la sua struttura, dove la struttura è concettualmente irriducibile alle parti (Honneth 2014, 701-703). Essa è, però, “dissimile” dall’organismo biologico, e tuttavia è un organismo sociale, nella misura in cui i fini riproduttivi dell’intero sociale sono culturalmente mediati e, dunque, culturalmente contingenti: «diversamente dai collettivi pre-umani, determinare che cosa rende una società umana capace di sopravvivere implica sempre il riferimento alle credenze normative dei suoi membri, e queste credenze sono soggette al mutamento e alla variabilità culturale» (Honneth 2014, 697). I requisiti funzionali di una società non possono dunque essere determinati senza prendere in considerazione la sua autocomprensione. In certa misura, Honneth si attiene allora alla sua precedente tesi secondo cui i valori della vita sociale sono culturalmente contingenti.
Tuttavia, Honneth distingue tre requisiti funzionali che sono universalmente necessari per tutti gli organismi sociali: questi requisiti riproduttivi che ogni società deve soddisfare sono la formazione della natura interna, la formazione della natura esterna e la regolazione delle relazioni interpersonali (Honneth 2014, 698). Ogni società umana deve affrontare queste sfide riproduttive attraverso assetti istituzionali[5]. Honneth chiama questi tre aspetti «funzioni di auto-conservazione sociale» (Honneth 2014, 698). La socializzazione, l’elaborazione della natura esterna e la regolazione delle relazioni interpersonali possono fallire sistematicamente in qualunque società (Honneth 2014, 699).
Sebbene questi tre imperativi funzionali siano «già da sempre culturali» (Honneth 2014, 699), essi sono universali nel senso che ogni società deve soddisfarli al fine di conservarsi come società, in una qualche forma culturalmente relativa. La natura organica della società impone, per così dire, questi imperativi a ogni società particolare, ma il modo in cui ogni società particolare soddisfa quei requisiti è demandato alla sua cultura: «si può parlare di un disagio sociale o di una patologia se nel suo assetto istituzionale una società, secondo i suoi valori prevalenti, fallisce uno dei compiti che si assume nell’ambito dei cicli funzionali di socializzazione, elaborazione della natura e regolazione delle relazioni di riconoscimento» (Honneth 2014, 699).
Honneth sostiene che, per quanto culturalmente contingenti possano essere i valori sociali, è possibile reperire una costante universale in grado di fondare una critica sociale naturalistica: le patologie si accompagnano sempre all’esperienza di una perdita di libertà. Tuttavia, in base al nuovo quadro teorico organicistico, questa esperienza non può più essere concepita nei termini di una sofferenza sociale individuale. Anche rispetto a questo punto, Honneth si attiene fermamente alla sua concezione della società come sostanza: la perdita di libertà non deve essere necessariamente esperita dai membri della società; Honneth propone, invece, di concepire la libertà in questione come una comunicazione armonica tra complessi istituzionali, cioè tra gli organi dell’organismo sociale.
Certamente questa rinnovata concezione della patologia sociale segna una deviazione dalla concezione “zurniana” avallata nel Diritto della libertà. Ma a questo punto il «disagio della società» trascende perfino ciò che Honneth in quel libro chiamava «distorsioni dello sviluppo sociale»; i «disagi della società» non rappresentano mere anomalie o fallimenti nel raggiungere fini culturalmente definiti, ma vere e proprie patologie (Honneth 2014, 700). Sono disequilibri tra i tre cicli funzionali universali della socializzazione, del controllo della natura e della regolazione delle relazioni interpersonali: la società si ammala letteralmente, sostiene Honneth, quando queste sfere istituzionali entrano in conflitto (Honneth 2014, 701). Ciò accade se i modelli prevalenti di socializzazione, la produzione materiale e le norme sociali minano il corretto funzionamento l’una dell’altra. La tesi di Honneth è che in questo caso si può parlare letteralmente di patologia sociale, perché vi è un restringimento della libertà dell’organismo sociale. Questa comunicazione distorta, intra-organica e inter-organica, tra complessi istituzionali, costituisce cioè un’incompiuta relazione della società con sé stessa:
Ciò che queste frizioni e tensioni hanno in comune con la malattia individuale è che esse esibiscono una relazione turbata di un soggetto con sé, sia questo soggetto una persona o una società. E nel caso delle società, la restrizione della libertà, che fa parte del nostro concetto di ‘disagio’, consiste nel reciproco impedimento di queste sfere funzionali a uno sviluppo compiuto. (Honneth 2014, 701)
Se si vuole proseguire in questa linea organicistica di indagine filosofico-sociale, vi sono alcune serie problematiche da affrontare[6]. Una prima questione da sollevare è se la declinazione del naturalismo in termini organicistici non sia controproducente per il progetto di critica sociale. La svolta di Honneth in direzione del naturalismo riguardo la patologia sociale ha effettivamente il vantaggio di aver raffinato il concetto fino a farne uno strumento critico dotato di dignità propria. Tuttavia, un’ontologia sociale organicistica pare essere un prezzo troppo alto da pagare. Se la società è concepita come una sostanza, diviene piuttosto fumosa la connessione con la sofferenza sociale e con buona parte di quei fenomeni che nella “critica” sociale quotidiana sono esaminati in termini naturalistici. L’organicismo urta contro i suoi limiti proprio nel punto in cui dovrebbe cominciare il lavoro della critica sociale: come possiamo mappare le connessioni tra sofferenza individuale, pratiche sociali irrigidite, abitudini meccaniche, ecc.? Inoltre, se il teorico dovesse considerare la nozione critica di patologia sociale come un’analogia tratta dal funzionamento di una più semplice natura pre-sociale, da usarsi in un secondo momento su un materiale sociale più complesso, egli limiterebbe sin dall’indizio la sua critica in modo riduttivo, poiché il lavoro valutativo consisterebbe sempre nell’applicare il concetto di qualcosa di più povero (l’organismo biologico) a qualcosa che è per definizione più ricco (la società). Pertanto, questa concezione si espone a obiezioni che assegnino centralità alla dimensione normativa e culturale. Perché il naturalismo filosofico-sociale dovrebbe essere modellato sulla natura pre-sociale – perché non riflettere su sui tratti distintivi della vita peculiarmente sociale?
Un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che l’organicismo di Honneth finisce per tenere in vita le patologie che originariamente si prefiggeva di curare: l’organicismo costringe la società entro una configurazione talmente statica, che una critica sociale che miri a «una vita più piena o migliore» (Honneth 2007, 36) diviene impossibile. L’organicismo lascia intatta la validità dei valori contingenti delle società. La diagnosi critica dei fini riproduttivi della vita sociale cade al di fuori del suo quadro teorico, nella misura in cui il patologo si limita a valutare l’armoniosità del mantenimento di quei valori. Tuttavia, se la vita non consiste soltanto nel preservare l’identico ma nel divenire «più pieno o migliore», quei fini dovrebbero essere considerati come filosoficamente criticabili e socialmente trasformabili.
Un terzo problema riguarda l’implicita ontologia dell’organismo che soggiace all’organicismo sociale. Honneth sostiene che la società sia una tipologia di sostanza capace di ammalarsi, e che tale sostanza sia un organismo autosussistente. L’organicismo, però, si basa su una superata visione aristotelica dell’essere vivente organizzato finalisticamente come un’organizzazione idealmente pianificata in cui nessuna parte può essere disfunzionale senza produrre disturbi nell’intero. Oggi sappiamo invece che gli organismi sono prodotti della storia naturale e della genesi individuale, cioè di una trasformazione funzionale; sappiamo inoltre che gli organismi sono molto più plastici di quanto ammesso dall’organicismo – essi sono, per esempio, capaci in misura assai ampia di mantenersi a fronte della perdita di organi (Hampe 2006, 210-211). Gli esseri viventi non sono più indagati come sostanze ma come processi. Pertanto, assumere la «patologia sociale» in senso letterale non impegna il patologo sociale a una concezione organicistica della società come sostanza. Vi sono diversi naturalismi disponibili per i patologi sociali che vogliano intraprendere lo studio di un uso “letterale” del concetto. Una concezione naturalistica della patologia sociale potrebbe, per esempio, pensare l’organismo nei termini di un’ontologia del processo, o soffermarsi su altri processi naturali suscettibili di non andare a buon fine (popolazioni, abitudini, specie), o semplicemente attenersi alla natura sociale, alla vita sociale. Al contrario di quanto crede Honneth (2014, 701-702), il naturalismo filosofico-sociale non è vincolato all’organicismo.
4. Un naturalismo della vita più piena?
Forse, allora, l’iniziale concezione honnethiana della «vita più piena o migliore» potrebbe essere sottoposta a una simile lettura naturalistica? Il primo saggio era davvero soltanto una rassegna dell’evoluzione storica del problema del criterio nella filosofia sociale? O forse esso conteneva già i germi di una soluzione naturalistica di quel problema? In effetti, la cosa notevole riguardo Patologie del sociale è che quel saggio già opera come scienza della patologia sociale: Honneth non soltanto ricostruisce varie concezione della patologia sociale, ma nell’analizzare queste concezioni egli anche pratica la patologia sociale. È perfettamente possibile leggere quel saggio come la storia del dibattersi della vita sociale tra crescita e stagnazione, nello sforzo di produrre una «vita più piena o migliore» attraverso quella «istanza di riflessione» che Honneth chiama «filosofia sociale».
Una caratteristica saliente di quel saggio risiede nel fatto che, nel narrare la storia della patologia sociale, Honneth ricostruisce ogni variazione dell’idea come una diversa diagnosi che emerge da una patologia della vita sociale e ne prospetta una terapia. Così la diagnosi rousseauiana dell’alienazione sorge come reazione a una «forma di vita sociale» in cui «la crescente pressione della competizione sociale ed economica» dà luogo a «pratiche e orientamenti […] che si sono basati […] sull’inganno, la dissimulazione e l’invidia» (Honneth 2007, 5), per cui Rousseau sostiene che «la più estrema autarchia individuale» realizzerebbe «i presupposti di una forma di società che consente l’autorealizzazione dei suoi membri» (Honneth 2007, 12-13). Anche la diagnosi di Hegel rappresenta una reazione «all’isolamento sociale, all’apatia politica e all’impoverimento economico» (Honneth 2007, 11) e la terapia proposta consiste in una «mutua obbligazione a un bene comune» (Honneth 2007, 13). A sua volta, la teoria di Marx è vista da Honneth come reazione alla rapida accelerazione della «industrializzazione capitalistica, i cui effetti sul mondo della vita non potevano più essere ignorati» – ed è in risposta a questa patologia sociale che Marx giunge a concepire il lavoro come processo di «autorealizzazione» (Honneth 2007, 13). Nietzsche, infine, riflette secondo Honneth sulle conseguenze nichilistiche delle «tendenze al livellamento» che conseguono dall’istituzionalizzazione del «principio di eguaglianza» (Honneth 2007, 16), il che lo conduce a vedere una possibile cura in quei valori capaci di affermare la vita.
Qui Honneth propone dunque l’accurata immagine diagnostica di un processo di vita sociale che tenta di conseguire maggiore pienezza attraverso una riflessione etica criticamente motivata. Significativamente, in questo primo saggio Honneth vede le diagnosi di patologia fornite dai suoi predecessori come parte integrante della forma di vita sociale che sta diagnosticando. La vita sociale, dunque, è una forma di vita che si media attraverso il tipo di riflessione etica espressa dalla diagnosi di patologie. La diagnosi e terapia della vita sociale è un aspetto critico della vita sociale in svolgimento.
Da questo punto di vista, Honneth usa il concetto di patologia a tre diversi livelli della riflessione. Nel primo, troviamo la sofferenza degli esseri sociali viventi e il deterioramento delle istituzioni sociali, elementi che costituiscono l’oggetto delle varie diagnosi di patologia sociale. Nel secondo, troviamo queste diverse “scienze” della patologia sociale (Rousseau, Nietzsche, ecc.) che producono diagnosi e cure dei fenomeni patologici. Nel terzo, infine, la ricostruzione, compiuta da Honneth, di queste concezioni; ricostruzione che agisce anche come scienza della patologia sociale, diagnosticando le diverse concezioni come sintomi e cure delle patologie sociali e proponendo come terapia un’etica formale.
Allora, Honneth tratta già nel primo saggio la patologia sociale a un tempo come la scienza e il fenomeno della sofferenza sociale. E la scienza della patologia sociale è parte integrante della vita sociale su cui si esercita la diagnosi. La critica sociale, se agisce nella peculiare veste filosofico-sociale di scienza della patologia sociale, non è qualcosa che si aggiunge a un organismo sociale che preserva indisturbato la propria struttura: essa ha invece il ruolo di mediare un processo vitale specificamente sociale che tende all’espansione. La patologia sociale può designare sia il fenomeno criticabile, sia la «istanza di riflessione» della vita sociale (Honneth 2007, 4).
Questa doppia fungibilità della nozione non è arbitraria: non di rado la scienza della patologia sociale diviene una manifestazione della patologia sociale. Le scienze della patologia sociale fornite da Rousseau, Marx e Nietzsche risultavano certamente problematiche in ordine al mantenimento dei valori sociali prevalenti, e perciò rappresentavano disturbi della società, nel senso di minacce per la sua autoconservazione. Allora forse la patologia nel senso della «degenerazione organica rivelata da una diagnosi (Honneth 2007, 34) è dopo tutto non soltanto la malattia ma anche la scienza della malattia, nel senso di una permanente ricerca e critica sociale che si rivela sempre attraverso il suo oggetto. Una simile «patologia sociale» è critica per l’ordine sociale, anche nel senso in cui sia la malattia che l’intervento del medico possono risultare critici per le condizioni del paziente.
Questa concezione di un processo di vita sociale critico e autoriflessivo risolverebbe, invero, i problemi che gravano sull’organicismo sociale, prendendo nel contempo in senso letterale il lessico naturalistico della critica sociale. Essa fornisce chiaramente una risposta naturalistica al “dilemma-Eutifrone” della filosofia sociale, poiché è la patologia sociale a rivelare il carattere distorto dei fenomeni sociali. Qui Honneth radica nella vita stessa la filosofia sociale come «istanza di riflessione»: una vita sociale è tale da riflettere eticamente su sé stessa nel corso del suo movimento. Una vita che non può, tuttavia, essere concepita come un intero autoconservantesi e che, al contrario, respinge l’organicismo.
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van den Brink, B., Owen, D., eds., (2007), Recognition and Power, New York: Cambridge University Press.
Whitehead, A. N. (1948), Science and the Modern World: Lowell Lectures, 1925, New York: Pelican.
Zurn, C. (2011), Social Pathologies as Second-Order Disorders, in Petherbridge, D., ed., Axel Honneth: Critical Essays. With a Reply by Axel Honneth, Leiden: Brill.
Zurn, C. (2015), Axel Honneth: A Critical Theory of the Social, Cambridge: Polity Press.
Note al testo
[1] Traduzione a cura di Luca Micaloni, da Laitinen, A., Särkelä, A., Between normativism and naturalism: Axel Honneth on social patology.
[2] Cfr. Deranty (2009); Fraser, Honneth (2003); Honneth (1995; 2010); Ikäheimo (2014); Ikäheimo, Laitinen (2011); Lysaker, Jakobsen (2015); McBride (2013; 2008); Petherbridge (2013); Ricoeur (2005); Schmidt am Busch (2013); Schmidt am Busch, Zurn (2010); Siep et al. (forthcoming); Taylor (1995); Thompson (2006); van den Brink, Owen (2007); Zurn (2015).
[3] «In ogni caso [Zurn] ritiene che io tratti disturbi sociali di secondo ordine, perché i soggetti assumono punti di vista falsi e inadeguati verso le loro pratiche, abitudini e percezioni, che invece sono relativamente intatte. Nel caso della mia analisi della ‘reificazione’, della ‘invisibilizzazione’ e della ‘distribuzione ingiusta’, concordo immediatamente con questa tesi sorprendente ed estremamente illuminante. Questi sono effettivamente tutti impedimenti di livello superiore che gravano sul giudizio adeguato, sulla classificazione e sull’articolazione delle pratiche quotidiane. Tuttavia, ho qualche remora ad applicare questa tesi al mio tentativo di riformulare il concetto di ideologia in termini di riconoscimento o di determinare i paradossi dell’autorealizzazione organizzata. In questi casi le mie descrizioni oscillano tra l’osservazione di disturbi di primo e di secondo ordine» (Honneth 2011, 417).
[4] Una questione che ogni concezione della patologia sociale si trova ad affrontare è se la patologia sociale sia una somma cumulativa delle patologie individuali socialmente prodotte, o se sia la società a essere “malata” (e la sofferenza individuale un suo mero indice diagnostico) al punto che forse la società può essere malata senza che lo siano i suoi membri. Oppure, anche laddove una società non può essere malata se non lo sono anche gli individui, resta la domanda se la patologia sociale sia ciononostante un tratto distinto (potrebbe esserci un insieme di sofferenze individuali, per altre cause, senza che la società sia in uno stato patologico). È interessante notare che Honneth (2014) considera esplicitamente la patologia come una caratteristica di una società, ma nella sua comprensione della libertà sociale (Honneth 2015) si distanzia da Neuhouser (2000) per il fatto di non considerare la libertà come una caratteristica della società o della totalità sociale.
[5] Honneth non specifica se questi tre requisiti funzionali coincidano con le tre sfere di valore de Il diritto della libertà. Forse l’idea è che la socializzazione sia il requisito paradigmaticamente soddisfatto dalla famiglia, l’elaborazione della natura esterna quello soddisfatto dall’economia e la regolazione delle relazioni di riconoscimento quello soddisfatto dalla politica, anche se sicuramente tutte le tre sfere in qualche modo coinvolgono tutti e tre i requisiti funzionali.
[6] Abbiamo criticato l’organicismo sociale più approfonditamente in Laitinen, Särkelä (forthcoming).