Giorgio Fazio
Università di Roma “La Sapienza”
giorgiofazio77@gmail.com
1. Una quarta generazione della Scuola di Francoforte, non più solo tedesca
È merito di Axel Honneth, l’esponente di spicco della cosiddetta terza generazione della Scuola di Francoforte, aver rilanciato nel dibattito filosofico e sociologico degli ultimi anni il concetto di “patologie sociali”, offrendo così un quadro di raccordo teorico a tutto un filone di ricerca, che tuttora alimenta alcune delle direzioni più vivaci e avvertite del pensiero critico contemporaneo.
A partire dall’importante saggio del 1996 Patologie del sociale, in cui per la prima volta si è cimentato in termini sistematici con questo concetto, Honneth ha assegnato al tema delle patologie sociali per lo meno due compiti fondamentali: in primo luogo quello di circoscrivere l’oggetto d’indagine specifico e il tipo d’interrogazione peculiare della filosofia sociale, intesa quale disciplina filosofica autonoma, depositaria di una tradizione propria, irriducibile tanto alla filosofia morale quanto alla filosofia politica; in secondo luogo, quello di ricostituire un legame produttivo, ancorché critico e attualizzante, con il programma di ricerca della prima generazione della Scuola di Francoforte.
Nel saggio del 1996, Honneth ricostruiva la parabola storica della filosofia sociale, evidenziando innanzitutto la peculiarità del tipo di sguardo critico sulla società moderna da essa messo in atto. Mentre la domanda fondamentale della filosofia politica è stata da sempre quella circa le condizioni di un ordine sociale corretto o giusto, la domanda della filosofia sociale – un’impresa intellettuale relativamente recente, posta a battesimo da Rousseau, e intrecciata a filo doppio al riconoscimento moderno del valore dell’individuo – è quella circa le condizioni sociali dell’autorealizzazione individuale o, detto in modo negativo, circa le limitazioni che la forma di vita sociale moderna impone all’autorealizzazione dell’uomo.
Concetti come quelli di “scissione” (Hegel), di “reificazione”, di “estraneazione” (Marx), di “nichilismo” (Nietzsche), ma anche di “massificazione” e “livellamento” (Kierkegaard-Heidegger), di “mercificazione” (Adorno), di “nevrosi collettiva” (Sartre) – i concetti allestiti da questa tradizione di pensiero e divenuti parte essenziale del vocabolario critico della modernità – hanno mirato a catturare gli sviluppi sbagliati o disturbanti propri del processo di modernizzazione economica e sociale, additati come tali non solo e non tanto perché lesivi di principi di giustizia, quanto perché tendenti a ridurre o a deformare possibilità di vita presupposte come normali o sane, ossia tali da rendere possibile agli individui una vita più piena e migliore, riuscita e realizzata. In questo senso, la filosofia sociale si è venuta definendo sullo sfondo di un doppio mandato. Essa si è presentata, in primo luogo, come una sorta di autoriflessione critica della modernità, animata dalla volontà di riproporre la domanda antica sulla buona vita nel quadro mutato di una società in cui una bürgerliche Gesellschaft si è autonomizzata dalla sfera politica e quest’ultima, quindi, non può più essere considerata l’orizzonte unico o ultimo della destinazione dell’essere umano. In secondo luogo, interrogando la società alla luce di una istanza etica e politica di felicità, oltre che di giustizia, la filosofia sociale ha dovuto presupporre una rappresentazione della salute e della normalità, ossia un’idea etica delle condizioni di possibilità sociali dell’autorealizzazione individuale, a partire dalla quale compiere la diagnosi delle patologie sociali. E tuttavia, proprio questa doppia pretesa di riproporre nell’orizzonte moderno la domanda antica sulla buona vita, e di trasporre sul piano dell’analisi sociale concetti provenienti dal campo medico e lì aventi il loro uso legittimo – come quelli di “diagnosi”, di “patologia”, di “sanità”, tutti evocanti l’esatta comprensione di una malattia che colpisce un organismo e mette a repentaglio la sua normale capacità di funzionamento – è anche ciò che ha esposto questa disciplina filosofica, fin dall’inizio, ad una serie di problemi di difficile soluzione. A quale idea di “normalità” o di “salute” della vita sociale nella sua interezza fanno riferimento concetti come quelli di estraneazione, di reificazione, di massificazione, di nevrosi collettiva? E una volta assunto che questi concetti non rimandano ad una stessa idea di sanità sociale, alla luce di quali criteri privilegiare una visione della normalità rispetto ad un’altra? E d’altra parte, non è forse vero che ciò che vale come potenziale di sviluppo o normalità in contesti sociali è sempre mediato culturalmente, ossia dipende da criteri interni all’autocomprensione di una società? Come reperire allora una misura della normalità della vita sociale che sia valida in termini universali, ossia che non generalizzi surrettiziamente ideali del bene specifici e particolari, ma che d’altra parte non sia nemmeno estranea all’autocomprensione culturale del contesto criticato? Sono tutte domande, queste, concludeva Honneth nel 1996, sulle quali i classici autori di questa tradizione di pensiero critico non hanno di fatto riflettuto con sufficiente radicalità, attingendo i propri criteri di salute sociale da presupposizioni antropologiche o di filosofia della storia non sottoposte ad un adeguato scrutinio critico. Proprio questi problemi metacritici devono stare al centro di una rinnovata filosofia sociale.
Dall’apparizione di questo saggio, Honneth non ha mai smesso di riflettere su questo ordine di problemi metodologici e filosofici. Al contempo, egli non ha mai interrotto un lavoro di ricerca su base empirica volto a compiere concrete diagnosi di processi sociali contemporanei definibili come patologici. Questo lavoro di analisi empirica è sfociato nel programma di ricerca interdisciplinare sui paradossi della modernizzazione capitalistica neoliberale, che tuttora orienta le ricerche all’interno dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte da lui diretto.
Giungiamo così al secondo obiettivo connesso all’esplorazione del tema delle patologie sociali. Di fatto, come dicevamo, è proprio ristabilendo un legame produttivo con le intenzioni della prima Scuola di Francoforte, che Honneth si è aperto una via per sbrogliare la matassa di problemi rilevati alla base di un tipo di filosofia sociale come quella da lui riproposta nel dibattito contemporaneo. Se infatti la critica sociale dei primi francofortesi è stata anche, se non soprattutto, una diagnosi delle patologie sociali delle società a capitalismo avanzato, essa si fondava su un procedimento critico che, nonostante problemi e aporie, ancora oggi risulta istruttivo. Radicati per formazione filosofica nella tradizione dell’hegelismo di sinistra, Adorno, Horkheimer e Marcuse hanno sempre tentato di legittimare la loro critica sociale per via ricostruttiva e immanente. Poiché nelle loro intenzioni la teoria critica, a differenza della teoria tradizionale, «doveva mostrarsi consapevole tanto del complesso di fattori sociali dal quale originava quanto del contesto politico nel quale poteva trovare impiego, al punto da rappresentare una sorta di autoriflessione del processo storico» (Honneth 2017, 92), essa si è sempre prefissata di ricavare i propri criteri di “sanità sociale” in maniera “immanente”, ossia muovendo dalle contraddittorietà e dal negativo rilevati nella realtà sociale, così come dalle potenzialità del loro superamento, che in questa realtà sono anche contenute. In questo senso, la teoria critica della prima Scuola di Francoforte non ha mai argomentato da un punto di vista normativo esterno rispetto alla realtà sociale. Al contrario, l’idea ispiratrice di questi teorici sociali – idea anti-utopica – era quella di orientarsi verso possibilità realmente esistenti, non verso un semplice dover-essere. Piano descrittivo-analitico e impianto critico-normativo, riferito ad una razionalità situata, andavano di pari passo. E ciò che in ultima istanza garantiva che gli ideali e i principi attinti dalla realtà sociale come criteri della critica possedessero anche validità universale, era la convinzione che essi incarnassero un surplus di validità e un potenziale di razionalizzazione sociale ulteriore: un’istanza di “trascendenza nell’immanenza” capace di fare segno verso una società in cui vengono meno gli ostacoli sociali ad una vita libera e pienamente realizzata.
2.
La soluzione approntata inizialmente da Honneth per rilanciare la filosofia sociale, così come per riattualizzare il modello di criticismo sociale della prima Scuola di Francoforte, è stata quella di ancorare la teoria critica della società ad un’antropologia debole o formale. Con la sua teoria del riconoscimento, delineata in Lotta per il riconoscimento (1992), Honneth ha puntato a ricavare i presupposti sociali e intersoggettivi dell’autorealizzazione individuale e, con ciò, i criteri normativi di sanità sociale, dalle esperienze di misconoscimento e di “disrispetto” degli attori sociali, ricostruendo a partire da qui le aspettative normative che strutturano il campo sociale della modernità. In questo modo, il teorico tedesco ha potuto attingere criteri della critica – le diverse strutture di riconoscimento reciproco (amore, diritto, stima sociale), capaci di assicurare una stabile e libera formazione dell’identità individuale – formali abbastanza da non veicolare un modello determinato di vita buona e, tuttavia, sufficientemente concreti da poter rivendicare di essere parte della stessa esperienza morale degli attori sociali e delle aspettative normative che strutturano i rapporti sociali moderni.
Questa prima versione della teoria del riconoscimento è stata però riformulata dallo stesso Honneth. In parallelo a questo ripensamento, anche la concettualizzazione delle patologie sociali ha subito variazioni di non poco rilievo. Nel frattempo, però, la linea di ricerca aperta dal suo lavoro teorico ha innescato un dibattito di largo respiro, che si è arricchito via via di voci originali e stimolanti, assumendo presto una dimensione internazionale. Un dibattito, questo, tanto più importante oggi, quanto più le filosofie normative della politica sul modello di Rawls, che costituivano uno dei principali referenti polemici di Honneth a metà degli anni Novanta, sembrano ormai aver perso la loro forza propulsiva.
La discussione sulle prospettive e il senso della filosofia sociale oggi è portata avanti in primo luogo da quella che può essere considerata ormai una quarta generazione della teoria critica tedesca di matrice francofortese, composta dagli allievi dello stesso Honneth: Rahel Jaeggi, Hartmut Rosa, Martin Saar, Titus Stahl, Robert Celikates. La linea di ricerca rilanciata da Honneth è stata però discussa, criticata e ulteriormente elaborata, con apporti originali e fecondi, anche da altri gruppi di ricerca, non più solo tedeschi. Tra questi ne vanno menzionati in primo luogo due: un filone di discussione francese di teoria critica – animato tra gli altri da autori come Jean-Philippe Deranty, Christophe Dejours, Estelle Ferrarese, Franck Fischbach, Stéphane Haber, Emmanuel Renault, Gérard Raulet – e un filone di ricerca finlandese di teoria critica – animato tra gli altri da autori come Onni Hirvonen, Heikki Ikäheimo, Arto Laitinen e Arvi Särkelä. Negli ultimi anni, l’idea di filosofia sociale come diagnosi delle patologie sociali ha avuto una ricezione anche nel contesto della discussione filosofica italiana, come attestano i molti lavori di taglio storico-ricostruttivo dedicati alle varie articolazioni del pensiero critico contemporaneo, tra i quali si fa strada anche qualche filone di ricerca più autonomo e originale.
3.
Di tutto questo dibattito si è tentato di rendere conto in questo numero di «Consecutio Rerum», una rivista che fin dalla sua fondazione ha dimostrato uno spiccato interesse per la teoria critica francofortese e i suoi sviluppi contemporanei. Proprio per rendere conto della specificità esibita dai diversi contesti di discussione nazionali ora menzionati – ferma restando la realtà dello scambio e dell’intreccio di posizioni e linee di ricerca, che attraversano confini e scuole di appartenenza – si è pensato di suddividere questo numero in diverse micro-sezioni, che vogliono in qualche modo dare un’idea di questa articolazione della discussione.
Il saggio di apertura del direttore della rivista, Roberto Finelli (L’estenuazione democratica della Scuola di Francoforte. Note critiche su Axel Honneth e Rahel Jaeggi) ripercorre, con profondità di sguardo storico e teorico, le varie tappe di evoluzione della teoria critica francofortese, evidenziando i rischi che minano gli ultimi sviluppi di questa linea di pensiero, al di là del meritorio tentativo che li caratterizza di riformulare con radicalità, come nel caso di Rahel Jaeggi, un modello di critica immanente delle forme di vita prodotte dal capitalismo che muove dalle sue contraddizioni normative e pratiche. Questi rischi sono quelli di riproporre una critica immanente del capitalismo senza però valorizzare a sufficienza la lezione del Capitale di Marx e quella della psicoanalisi freudiana.
A seguire, il numero ospita due articoli di due esponenti di spicco della quarta generazione della teoria critica tedesca, a cui abbiamo ora fatto riferimento: la stessa Rahel Jaeggi e Martin Saar. Agli originali e promettenti sviluppi della ricerca di Jaeggi – con particolare attenzione al suo programma teorico di una critica del capitalismo come forma di vita – la rivista «Consecutio Rerum» ha già dedicato un’ampia sezione di approfondimento nel numero 3, in occasione dell’uscita in italiano della raccolta di scritti curata da Marco Solinas, Capitalismo e forme di vita. Il saggio incluso in questo numero (Patologie del lavoro) offre un esempio del modo in cui la complessa elaborazione teorica di Jaeggi, avviata con il libro Alienazione (2005) e poi portata avanti con Critica delle forme di vita (2014), renda possibile ricche e promettenti applicazioni empiriche, in particolare rispetto ad un mondo del lavoro sempre più flessibile e precario, che oggi più che mai è percorso da vaste forme di sofferenza sociale, che non si lasciano analizzare soltanto con la categoria di sfruttamento. L’articolo di Martin Saar (Le forme del potere. Immanenza e critica) offre un esempio, invece, della linea di ricerca foucaultiana di quello che oggi è il successore di Honneth alla cattedra di filosofia sociale di Francoforte. Linea di ricerca apparentemente laterale rispetto a quella prevalente nell’attuale teoria critica tedesca, non tanto, tuttavia, se si pensa che lo stesso Honneth ha da sempre dedicato molta attenzione al pensiero di Foucault e al suo specifico modello genealogico di critica sociale, teorizzando anzi la necessità di una metacritica degli stessi parametri della critica acquisiti con procedimento ricostruttivo-immanente, da svolgere proprio con un metodo genealogico di ispirazione foucaultiana (su questo si veda anche il contributo di Giorgio Fazio, Dalla critica ricostruttivo-immanente della modernità alla genealogia del neoliberalismo. Axel Honneth e i problemi di una teoria critica della società oggi).
Il limpido contributo di Corrado Piroddi Patologie della società e filosofia sociale. Nuove prospettive dalla Finlandia, offre un’utile introduzione alla scuola finlandese di teoria critica. In continuità con la linea di pensiero elaborata inizialmente da Honneth, questi autori, pur nelle loro diversità – spiega Piroddi – hanno assegnato una funzione essenziale al tema del riconoscimento interpersonale, ma soprattutto hanno articolato una ricca riflessione sul tema delle patologie sociali, che ha messo in rilievo in modo convincente le potenzialità ma anche i rischi dei più recenti sviluppi della riflessione honnethiana sul tema, in particolare quelli connessi ad una sorta di svolta “organicista” riscontrabile negli ultimi scritti del filosofo sul tema. Una critica sistematica a questa svolta organicista è sviluppata nel contributo di Arto Laitinen e Arvi Särkelä (Tra normativismo e naturalismo. Honneth sul concetto di “patologia sociale”). Sullo sfondo di un’utile ricostruzione delle diverse varianti di significato della nozione di patologia sociale elaborate da Honneth negli ultimi anni, i due studiosi finlandesi si soffermano sul modo in cui l’analogia spinta all’eccesso tra società e organismo vivente, proposta recentemente dal filosofo tedesco, veicola un’immagine della società e delle patologie sociali troppo statica e incline al conservatorismo. A questa concezione andrebbe quindi contrapposta una nozione di patologia sociale inversa, che identifica quest’ultima più che in un blocco delle funzioni riproduttive della società come organismo, in una paralisi della vitalità trasformativa interna ad una società, derivante da una pressione a mantenere strutture sociali e orientamenti normativi collaudati ma divenuti inefficaci. Questa linea di ricerca è portata avanti da Federica Gregoratto nel suo ricco e originale contributo. La teorica sociale italiana si riallaccia alla critica di Latinen e Särkela al modello organicista di patologie sociali teorizzato da Honneth, e valorizza il modello dialettico, negativista, anti-organicista e non teleologico di critica sociale di Adorno. Da qui sonda la possibilità, sullo sfondo di una suggestiva lettura della recente serie televisiva The Handmaid’s Tale ispirata all’omonimo romanzo di Margaret Atwood, di assumere l’amore come una patologia peculiare, che può dischiudere un ruolo positivo e trasformativo nella critica del presente e nella sua trasformazione.
La linea di ricerca della filosofia sociale francese è rappresentata in questo numero da due saggi (Critica sociale e conoscenza e Una materialità rimossa. Recuperare il materialismo nella teoria del riconoscimento di Axel Honneth), rispettivamente di Emmanuel Renault e di Jean-Philippe Deranty, due dei massimi esperti in Francia del pensiero di Honneth e al contempo due filosofi che si sono sforzati, negli anni, di radicalizzare il paradigma honnetthiano del riconoscimento, reinscrivendo al suo interno gli strumenti della critica dell’economia politica di Marx. Il tentativo di unire Honneth e Marx si è tradotto, in Renault, nel tentativo di arricchire la teoria del riconoscimento con gli strumenti della sociologia del lavoro e, più in generale, con conoscenze accurate della realtà sociale e delle sue leggi, capaci di colmare lo iato tra teoria critica, esperienza della sofferenza sociale – che è anche un’esperienza derivante da asimmetrie di conoscenza oltre che di potere – e lotte politiche per la giustizia. Iato che rischia di venire perpetuato, secondo il filosofo francese, anche dall’approccio di Honneth, nella misura in cui rimane troppo sbilanciato su questioni normative di fondazione dei criteri della critica e troppo poco attento, a differenza di Marx o di un certo Adorno, a valorizzare la conoscenza delle leggi che regolano l’accadere sociale e generano dislivelli di potere e di conoscenza; unico strumento per aiutare ad articolare le stesse domande di giustizia e le lotte politiche che provengono dalla società. La ricerca di un connubio più stretto tra Honneth e Marx guida anche il percorso di ricerca di Deranty. Nell’articolo qui incluso, egli invita a valorizzare e a riscoprire l’originario background materialista e antropologico della teoria del riconoscimento di Honneth, e a riporre al centro della critica immanente della società quelle mediazioni materiali con cui le interazioni intersoggettive sono intrecciate. Mediazioni che sole possono conferire solidità alla teoria critica, ricollegandola ai caratteri specifici della prassi sociale, e così alla possibilità di articolare quella concezione critica del lavoro che lo stesso Honneth aveva cominciato a delineare nei suoi primi lavori.
I contributi degli autori italiani presenti in questo numero si concentrano prevalentemente su diversi aspetti della produzione di Honneth, mettendone in luce aporie, passi falsi, potenzialità inespresse, deficit nella considerazione dei temi della politica, del conflitto sociale, del lavoro, dell’amore. Nel contributo di Solinas (Teleologie senza Spirito? Sui deficit politici della filosofia della storia di Honneth) si insiste sulle vere e proprie impasse concettuali a cui va incontro l’impianto sistematico allestito da Honneth nel suo opus magnum, Il diritto della libertà – legato a filo doppio ad una teleologia storica e ad una forte teoria del progresso sociale – quando si misura con discontinuità storiche radicali, geometrie variabili di potere, regressioni sociali e normative, come quelle che ripropone continuamente la fattualità storica. Tema, questo, al centro anche del contributo di Fazio, dove si compie una ricostruzione dettagliata dei problemi cui va incontro Honneth nel momento in cui si confronta con il cambio di paradigma di ordine economico, sociale e culturale consumatosi con l’ingresso nell’età del neoliberalismo.
Il contributo di Luca Micaloni si sofferma sulla riflessione honnetthiana sul tema del lavoro, sullo sfondo di un confronto con la concettualizzazione del tema in Habermas. In linea su questo con l’indicazione di Deranty, Micaloni mette a fuoco una perdita di radicalità, oltre che di coerenza, nell’evoluzione di pensiero di Honneth su questo tema, soprattutto rispetto alla ricerca di una nozione critica di lavoro presente nei suoi primi scritti. Infine, l’articolo di Matteo Gargani si sofferma con attenzione sul confronto di Honneth con Lukács sul tema della reificazione, argomentando che l’eredità marxiana evocata da Honneth sia in realtà molto più connessa all’autore di Storia e coscienza di classe che a quella dello stesso Marx.
Bibliografia
Honneth, A. (2017), Una critica ricostruttiva con riserva genealogica, ora in La libertà negli altri. Saggi di filosofia sociale, Carnevali, B. (a cura di), Bologna: Il Mulino.