Patologie della società e filosofia sociale: nuove prospettive dalla Finlandia

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Corrado Piroddi

University of Jyväskylä / University of Tampere
copirodd@student.jyu.fi

 
 
 
Abstract: The main aim of the paper is to illustrate the distinctive features of the Finnish school of critical theory and social philosophy. In this respect, it will provide a concise description of the philosophical work of some of its members: Onni Hirvonen, Heikki Ikäheimo, Arto Laitinen and Arvi Särkelä. In the first part, we will try to describe the ways these scholars have reinterpreted Axel Honneth’s paradigm of recognition. In the second part, we will clarify how the Finnish theoreticians have discussed Honneth’s reflections on the theme of social pathology. In this regard, first we will seek to show how the leitmotif of Finnish scholars consist in the critique of two conceptions of social pathology that Honneth has explicitly endorsed in recent times. The first one is Christopher Zurn’s idea of pathology as second-order disorder. The second view is the organicist conception of social pathology that Honneth himself has exposed in the essay The Diseases of Society: Approaching to Nearly Impossible Concept. Furthermore, we will explain why the criticisms of Laitinen, Ikäheimo, Hirvonen and Särkelä are, in any case, consistent with Honneth’s philosophical perspective.
 
Keywords: critical theory; Finland; Honneth; pathology; recognition.
 
 
 

L’obiettivo principale delle seguenti pagine è illustrare alcune delle caratteristiche distintive della scuola finlandese di teoria critica e filosofia sociale attraverso una trattazione sintetica della produzione filosofica di alcuni dei suoi membri: Onni Hirvonen, Heikki Ikäheimo, Arto Laitinen e Arvi Särkelä. Nella prima parte (par. 1), si cercherà di descrivere, in generale, i modi in cui questi studiosi hanno declinato il pensiero di Axel Honneth rispetto al tema del riconoscimento. Successivamente (par. 3 e 4), si discuterà della maniera in cui i teorici finlandesi hanno recepito le riflessioni di Honneth sul tema della patologia sociale. Affrontando tale questione, da un lato, si tenterà di mostrare come il leitmotiv che accomuna le riflessioni degli studiosi finlandesi qui discussi sia la critica a due concezioni di patologia sociale (illustrate nel par. 2) esplicitamente accettate da Honneth in tempi recenti: il modello proposto da Christopher Zurn e quello organicista avanzato dallo stesso Honneth nel saggio The Diseases of Society: Approaching a Nearly Impossible Concept. Dall’altro, si proverà a sottolineare come la ricezione critica di Laitinen, Ikäheimo, Hirvonen e Särkelä a tale questione rimanga comunque fedele ai lineamenti generali del pensiero di Honneth: la filosofia sociale va intesa come disciplina filosofica la cui «vocazione primaria è diagnosticare come patologici quei processi di sviluppo sociale che precludono agli esponenti di una data società la possibilità di condurre una vita buona» (Honneth 2017, 39).
 
 
1. La scuola finlandese di teoria critica fra microfisica e macrofisica del riconoscimento
 
La scuola finlandese di filosofia sociale ha elaborato contributi originali e di valore sul tema della patologia sociale. Per meglio apprezzarli, è sicuramente utile fornire una panoramica sulla particolare interpretazione e rielaborazione che gli studiosi sopra citati hanno prodotto rispetto alla più generale riflessione di Honneth sul tema del riconoscimento.

Concentriamoci prima di tutto sul lavoro di Heikki Ikäheimo e Arto Laitinen che, in sintesi, potrebbe essere concepito come il tentativo di elaborare una “microfisica del riconoscimento”. Questo particolare approccio riesce ad approfondire, da un punto di vita ontologico, le caratteristiche invarianti dei processi pratici ricognitivi illustrati da Honneth, chiarificando al tempo stesso la prospettiva del filosofo tedesco. Sotto questo rispetto, occorre citare almeno due punti teorici che caratterizzano in maniera peculiare la posizione di Ikäheimo e Laitinen. In prima battuta, la distinzione analitica da loro tracciata fra a) riconoscimento come identificazione quantitativa e qualitativa di oggetti e persone, b) riconoscimento (acknowledgement) di norme, ragioni, regole e valori, e c) riconoscimento interpersonale. Tale distinzione consente, in primo luogo, di comprendere la differenza che corre fra riconoscere valori e norme istituzionalizzati e riconoscere persone in carne e ossa. Nel caso b), infatti, il riconoscimento consiste nell’approvazione razionale di enti astratti che non possono avere un’autorelazione verso se stessi. Nel caso c) il riconoscimento avviene fra individui che possono essere riconosciuti e che, a seguito di eventuali casi di misconoscimento, possono soffrire di carenza di autostima, amor proprio e rispetto di sé. In seconda battuta, la chiarificazione concettuale fra a), b) e c) ci mette nella posizione di individuare chi sono i potenziali soggetti dei processi ricognitivi. Attori di riconoscimento propriamente detti sono coloro che 1) sono capaci di riconoscere norme e valori; 2) possono essere soggetti e destinatari di riconoscimento interpersonale; 3) possono intrattenere significative auto-relazioni, ossia elaborare credenze e giudizi inerenti alla propria persona. In terzo luogo, questa distinzione ci consente di rendere conto di come gli atteggiamenti intersoggettivi di riconoscimento influenzino tanto le autorelazioni psicologiche degli individui, quanto la realtà sociale oggettiva in cui questi ultimi si muovono. Autostima e amor proprio, per esempio, possono essere raggiunti attraverso relazioni interpersonali con persone che ci stimano per i nostri contributi e successi professionali e che ci amano in maniera sincera. Di conseguenza, particolarmente importanti per il nostro benessere sono la solidità e il buon funzionamento di quelle organizzazioni sociali oggettive, il mercato del lavoro e la famiglia, che permettono a tali relazioni interpersonali di dispiegarsi, mettendoci nelle condizioni di poter raggiungere una positiva relazione con noi stessi[1].

La seconda caratteristica rilevante della riflessione di Laitinen e Ikäheimo è costituita dalla loro analisi del riconoscimento in termini di attitudini ricognitive[2]. Secondo questa prospettiva, le varie forme in cui il riconoscimento si manifesta dipendono fondamentalmente dalle attitudini specifiche degli individui coinvolti nelle relazioni interpersonali. In altre parole, affinché le dinamiche di riconoscimento possano realizzarsi concretamente, è necessario che agenti e soggetti di riconoscimento abbiano delle attitudini pratiche personalizzanti nei confronti dei loro partner di interazione. Questo vuol dire che, dati un soggetto riconoscente A e un soggetto riconosciuto B, per avere forme compiute di riconoscimento, A deve avere certi atteggiamenti nei confronti B, e B deve riconoscere A come un soggetto i cui giudizi hanno un certo valore e sono degni di credibilità. A titolo di esempio, consideriamo le condizioni necessarie affinché un completo processo di riconoscimento possa avere luogo nella sfera delle relazioni intime e in quella del mercato del lavoro. In queste circostanze, non è sufficiente che A abbia l’attitudine a riconoscere B come una persona la cui felicità è importante in maniera incondizionata; o come un partner di cooperazione le cui particolari competenze sono apprezzabili per il benessere della società.  È necessario che anche B assuma un certo atteggiamento ricognitivo nei confronti di A. Tale atteggiamento deve essere indicativo del fatto che B vede in A un agente il cui amore e stima sono fondamentali per il raggiungimento di una positiva autorelazione con la propria persona. Una simile concezione dei processi di riconoscimento in termini di attitudini ricognitive porta Ikäheimo e Laitinen a definire le circostanze di riconoscimento reciproco riuscito in modo piuttosto definito. Si tratta di quelle situazioni in cui, da un lato, chi riconosce considera qualcuno come una persona, atteggiandosi di conseguenza, e, dall’altro, chi è riconosciuto comprende e accetta il contenuto di tale atteggiamento. Grazie a questa prospettiva, per i due filosofi finlandesi, diviene possibile evidenziare alcune importanti proprietà del riconoscimento non sufficientemente enfatizzate da Honneth. Innanzitutto, la descrizione dei processi riconoscitivi in termini di attitudini ricognitive pone l’accento sulle attitudini di B, ossia del soggetto riconosciuto, e consente di comprenderne la natura dialogica e non monologica del riconoscimento reciproco (cfr. Ikäheimo, Laitinen 2007, 37-39).  In secondo luogo, tale lettura evidenzia il carattere tanto responsivo quanto costitutivo del riconoscimento, laddove Honneth tende a sottolineare la dimensione percettiva dietro gli atti di riconoscimento (cfr. Honneth 2007, 329-330). In altre parole:
 

Il riconoscimento ha qualcosa della natura del fare: ha un ruolo attivo cruciale nella attualizzazione delle potenzialità, nella formazione delle identità e nella formazione di speciali relazioni. Allo stesso tempo, il riconoscimento ha la natura del responso. Il riconoscimento può essere o una risposta a delle caratteristiche valutative reali, in tal caso non causa, ma supporta tali qualità, o una reazione delle caratteristiche valutative potenziali, contribuendo in questa circostanza alla loro attualizzazione. (Laitinen 2002, 475)

A questo punto, è possibile cogliere anche una importante differenza che corre fra la posizione di Honneth e quella di Ikähaimo e Laitinen. È senz’altro vero che, in base alla lettura di questi ultimi, e in linea con la posizione di Honneth, per avere forme compiute di riconoscimento, «non basta che qualcuno abbia intenzioni valide se ciò non si manifesta nell’azione e, d’altra parte, il puro e semplice agire come se si possedessero intenzioni valide non è sufficiente» (Laitinen 2006, 80). Tuttavia, diversamente da quanto sostenuto da Honneth, interpretare il riconoscimento in termini di attitudini permette di individuare un insieme più ampio di azioni che esprimono autentico riconoscimento. Secondo Honneth, infatti, gesti, atti verbali o misure istituzionali esprimo riconoscimento «solo se il loro scopo primario è diretto in qualche maniera positiva ad affermare l’esistenza di un’altra persona o gruppo» (Honneth 2002, 506). La lettura di Laitinen e Ikäheimo, al contrario, concepisce le attitudini al riconoscimento, e non le azioni, come elementi costitutivi del riconoscimento; e vede in questi stessi atteggiamenti elementi motivazionali determinanti per le azioni sociali degli esseri umani. Se così stanno le cose, esprimono autentiche attitudini al riconoscimento anche azioni che non sono indirizzate ad affermare direttamente o esplicitamente l’esistenza di un soggetto degno di riconoscimento:
 

Perché A aiuta B, quando B si trova ad affrontare dei problemi? Senza dubbio, ci sono molte possibili spiegazioni, e una è che A ama B. A non ha bisogno di dire questo a B perché B, in linea di principio, sia in grado di affermarlo. O ancora: rispetto all’atteggiamento di A verso B, cosa dice a B il fatto che A chieda sempre aiuto a B quando c’è un lavoro particolarmente difficile da fare in ufficio? Verosimilmente, che A stima B per le sue abilità e i suoi risultati in compiti simili. A non ha bisogno di dare a B una medaglia o un orologio d’oro a riconoscenza dei contributi di B, affinché quest’ultimo sia in grado, in linea di principio, di capire che l’insieme di attitudini che A nutre verso di lui comprende la stima. (Ikäheimo, Laitinen 2007, 45)

Se le riflessioni di Ikäheimo e Laitinen si contraddistinguono per l’attenzione riservata alla dimensione interpersonale delle dinamiche ricognitive, Onni Hirvonen e Arvi Sarkelä provano invece a sviluppare una riflessione più attenta al piano “macrofisico” del riconoscimento. Da questo punto di vista, il loro lavoro recepisce senz’altro la svolta impressa da Honneth alla propria filosofia sociale con la pubblicazione de Il diritto della libertà. Con questa opera, infatti, il filosofo tedesco passa dall’analisi delle dinamiche del riconoscimento intersoggettivo alla ricostruzione storica e normativa delle condizioni di possibilità oggettive del riconoscimento stesso, cioè delle istituzioni e costumi sociali delle democrazie liberali occidentali.

Per quanto riguarda la produzione filosofica di Hirvonen, è da sottolineare il suo interesse per l’elaborazione di una ontologia sociale in grado di fare chiarezza sui rapporti di riconoscimento fra individui e gruppi sociali, cercando di porre rimedio a una effettiva mancanza nella teoria honnethiana.  Da un punto di vista ontologico, infatti, Honneth pare avere una concezione riduttivistica del riconoscimento collettivo. Detto altrimenti, Honneth tenderebbe a negare che sia possibile personificare enti collettivi come classi o gruppi sociali. In questa prospettiva «il riconoscimento è collettivo nella misura in cui consiste di azioni sociali interpersonali che avvengono all’interno di una cornice normativa condivisa di istituzioni del riconoscimento» (Hirvonen 2015, 212). Tale posizione, da un lato, sembra contraddire alcune assunzioni tipiche della prima fase del lavoro teorico di Honneth, che vedeva nei movimenti sociali e nei soggetti collettivi che li promuovevano gli agenti in grado di far progredire le grammatiche normativo-riconoscitive di una data società[3]. Dall’altro lato, tale concezione riduzionista del riconoscimento collettivo sottovaluta il fatto che classi e gruppi possono svolgere una funzione agenziale nei processi di riconoscimento. Assumendo che i gruppi possano essere presi come soggetti, come persone dotate di capacità agentive, Hirvonen individua altre due modalità fondamentali di concettualizzare il riconoscimento collettivo. La seconda prospettiva da cui il riconoscimento collettivo può essere declinato concerne il rapporto riconoscitivo che si instaura fra i membri di un dato gruppo (singoli individui o sotto-gruppi) e il gruppo stesso. La terza consiste nelle relazioni di riconoscimento che un agente collettivo può instaurare con soggetti individuali e collettivi esterni ad esso. Ovviamente, da un punto di vista ontologico-sociale, è necessario chiarire quali impegni ontologici bisogna assumere per poter parlar delle capacità agentive di enti collettivi in relazione ai processi di riconoscimento. Sotto questo rispetto, Hirvonen sostiene che un gruppo deve poter essere riconosciuto come una persona. Detto altrimenti, un ente collettivo deve poter rispondere a quelle diverse dimensioni del riconoscimento che costituiscono le precondizioni fondamentali per lo sviluppo di una integra personalità individuale. Hirvonen avanza l’ipotesi che ciò sia ragionevolmente concepibile se si assume che:
 

L’interazione con un gruppo equivale all’interazione con un membro del gruppo. Le informazioni comunicate in un’interazione possono essere ricondotte ad altri membri, il che può avere un effetto sul comportamento e sul processo decisionale del gruppo in un modo paragonabile a forme di interazione che influenzano il processo decisionale individuale. In questo senso, i gruppi sono in grado di interagire reciprocamente. Possono esprimere le loro opinioni e comunicare attraverso i loro membri. La possibile mancanza di autocoscienza fenomenologica, percezione centralizzata e memoria unificata non escludono necessariamente la possibilità di interazione reciproca corporea. (Hirvonen 2017, 156)

Un ragionamento analogo può essere fatto anche quando si considera che, nella prospettiva di Honneth, per intrattenere relazioni di riconoscimento un agente deve avere la capacità di auto-relazionarsi a se stesso. Sotto questo rispetto, per Hirvonen, Possiamo provare a vedere se un gruppo può in qualche modo essere autocosciente attraverso i suoi membri. La conoscenza che gli individui hanno collettivamente di un gruppo, come membri di quel gruppo, può forse essere intesa come la conoscenza di sé stesso di quel gruppo. Se l’autocoscienza di un gruppo è intesa in questo modo, è effettivamente possibile per un gruppo formulare credenze su sé stesso. (Hirvonen 2017, 156) Queste considerazioni portano Hirvonen a concludere che enti collettivi come classi e gruppi sociali possono intrattenere, almeno in potenza, significative relazioni di riconoscimento con altre collettività e con altri individui. In altre parole, possono essere visti come persone morali; come agenti capaci di sviluppare autostima per le proprie peculiari caratteristiche collettive; e come soggetti in grado di nutrire atteggiamenti di cura verso esseri umani bisognosi.

Il tratto distintivo dell’approccio di Arvi Särkelä al paradigma del riconoscimento sociale risente dalla sua particolare interpretazione del pensiero honnethiano alla luce della Fenomenologia dello Spirito di Hegel e della produzione intellettuale di John Dewey. Secondo Särkelä, la vita sociale va concepita come un processo equilibrato fra conservazione e trasformazione delle norme di riconoscimento che regolano le interazioni sociali all’interno di una comunità. La necessità della conservazione si può comprendere, banalmente, se si osserva che una società che non è in grado di riprodurre le sue strutture e istituzioni fondamentali non può sopravvivere, e rischia di disgregarsi irrimediabilmente. L’imperativo naturale alla trasformazione sociale, invece, si può cogliere se si approccia il processo di interpretazione e rielaborazione dei fini che sovrintendono al processo di riproduzione di una data comunità nei termini di una lotta per il riconoscimento fra gruppi dominanti e dominati. Sotto questo rispetto, secondo Särkelä, le lotte per il riconoscimento hanno, in primo luogo, una funzione sia responsiva che generativa rispetto alle norme di riconoscimento che articolano le relazioni fra individui e gruppi di una determinata società. La funzione responsiva delle lotte riflette il fatto che certe norme per il riconoscimento sono diventate «problematiche», «particolaristiche», foriere di conflitto sociale perché mera espressione degli interessi di una classe dominante. Quella generativa dipende dal fatto che i soggetti dominati che tentano di emanciparsi lavorano per l’affermazione sociale di norme che non giovano solo ai loro interessi particolari, ma a quelli della società tutta. Riconoscere le istanze degli oppressi non significa soltanto emancipare questi ultimi, ma mettersi sulla strada per il raggiungimento di quell’integrità sociale andata perduta. Le lotte per il riconoscimento vanno perciò intese come un processo di creazione di nuovi valori attraverso cui ricostituire le relazioni riconoscitive indebolitesi a livello sociale. Quando una società è in crisi, attraversata da fenomeni disgregatori, «si avverte il bisogno di orientare in modo nuovo le relazioni riconoscitive che formano la comunità» (Särkelä 2014, 103). In tal senso, i gruppi in lotta tra loro per il l’affermazione dei rispettivi interessi collettivi lottano per affermare certi valori rispetto a cui i membri di tale società sono chiamati a comportarsi l’un con l’altro[4].

Da questo punto di vista, è interessante notare come Särkelä, in prima battuta, si ponga in continuità con l’idea di libertà sociale introdotta da Honneth ne Il diritto della libertà e, in un certo senso, la arricchisca. Si è detto che la lotta per il riconoscimento fra gruppi e classi di una data società nasce dall’incapacità delle norme socialmente vigenti di garantire la coesione della società stessa e la libertà dei suoi membri. Pertanto, una società realmente democratica è anche «una comunità in cui l’attitudine riconoscitiva alla ricerca è diventata un’abitudine» (Särkelä 2014, 105).  In una società democratica, insomma, non esistono valori e norme di riconoscimento assoluti, in quanto la loro validità dipende dalla loro capacità di garantire la libertà sociale di gruppi, classi e individui che la compongono. D’altro canto, ciò vuol dire anche che una società democratica si riproduce correttamente solo a una condizione. Essa deve mostrarsi aperta all’eventualità della trasformazione dei valori e delle norme che regolano le interazioni sociali di riconoscimento al suo interno, qualora emergano nuovi bisogni e interessi fra gli attori sociali[5].
 
 
2. Axel Honneth e il concetto di patologia sociale: un quadro generale
 
Prima di esaminare le riflessioni che Hirvonen, Ikäheimo, Laitinen e Särkelä hanno avanzato circa il problema della patologia sociale, vediamo di descrivere brevemente i tratti rilevanti dei due punti di vista sostenuti da Honneth. La concezione di disordine sociale elaborata da Zurn impiega il lemma di «patologia sociale» per indicare un disordine inerente le facoltà critico-riflessive degli attori sociali. Secondo Zurn, tutte le patologie sociali descritte da Honneth sono accomunate da un elemento invariante. Che si tratti di reificazione o maldistribuzione, invisibilità sociale o forme ideologicamente falsate di riconoscimento, per Zurn si ha patologia sociale nel momento in cui «c’è un qualche fenomeno sociale che presenta una disconnessione costitutiva fra contenuti del primo ordine e comprensione riflessiva di secondo ordine dei medesimi contenuti» (Zurn 2015, 98-99). Inoltre, per essere considerate patologiche, tali disconnessioni devono essere socialmente pervasive e causate da fattori sociali. Quando vi è patologia sociale, gli esseri umani non riescono più a comprendere il significato originario, autentico di quelle pratiche, norme e convinzioni che costituiscono i componenti fondamentali della realtà sociale in cui si muovono. Sotto questo rispetto, secondo Zurn, forme ideologiche di pensiero, ingiustizie redistributive, invisibilità sociale, atteggiamenti reificanti da parte dei soggetti sociali sarebbero tutte disfunzioni sociali che condividono la stessa struttura e patogenesi: una disconnessione fra contenuti del primo ordine e capacità riflessive degli individui. Una volta affetti da una tale condizione patologica, gli attori sociali sarebbero impossibilitati a ragionare riflessivamente sul significato delle pratiche e credenze che costituiscono il cuore della loro esistenza sociale e, quindi, a comprendere in quale contesto queste medesime pratiche e credenze si siano generate.

Nelle società capitaliste, per esempio, è socialmente diffusa la credenza per cui il benessere di ciascuno dipende esclusivamente dall’iniziativa e dalla responsabilità individuali. Secondo Zurn, questa è una forma di pensiero ideologico, e dunque patologico, poiché gli agenti sociali tendono a concepire tale correlazione fra benessere e scelte individuali come una immutabile legge di natura, non dipendente dalla struttura storicamente data della società in cui vivono. Incapaci di comprendere le origini sociali di tale credenza (e, di conseguenza, il fatto che quest’ultima è in primo luogo funzionale alla riproduzione del modo di produzione capitalista e al suo effettivo funzionamento) gli individui agiscono e pensano conformemente ad essa. In questa circostanza, insuccessi a livello professionale, forme asimmetriche di distribuzione del reddito, mancanza di mobilità sociale non vengono fatte dipendere dalle condizioni socio-economiche (classe sociale di appartenenza, o la somma totale di capitale di partenza a nostra disposizione) che predeterminano la posizione e il ventaglio di possibilità di azione a cui un agente sociale può effettivamente aspirare. Fallimenti e ingiustizie vengono percepiti solo come il risultato dell’incapacità dell’individuo di farsi imprenditore di se stesso, perché magari ha intrapreso percorsi educativi e lavorativi non remunerativi in base alle logiche del modo di produzione capitalista.

La seconda concezione di patologia sociale, avanzata direttamente da Honneth, può essere definita organicista. In questa prospettiva, risulta centrale l’assunzione ontologica secondo cui la società è animata da processi riproduttivi analoghi a quelli di un organismo vivente, e perciò possa letteralmente ammalarsi. Tale concezione ha due caratteristiche rilevanti. La prima è che la patologia di una società consiste nel collasso delle sue capacità riproduttive. Questo significa che una società è affetta da disordini quando non è in grado di modellare e auto-sostentare la propria intrinseca natura attraverso la socializzazione degli individui, di controllare e modificare la natura esterna e, infine, di regolare fattivamente e normativamente le relazioni interpersonali di riconoscimento fra i suoi membri (cfr. Honneth 2014, 698-699). Il secondo aspetto che contraddistingue l’approccio organicista è che le patologie sociali propriamente dette sono diagnosticate alla società nel suo insieme, non colpiscono gli individui che alla vita di una data società prendono parte. Di conseguenza, in un’ottica organicista, la sofferenza individuale non ha alcun valore diagnostico per il teorico critico. Infatti, dal momento che un disordine sociale «può consistere di schemi comportamentali che non causano sofferenza individuale» (Honneth 2014, 690-691), la filosofia sociale deve partire dal presupposto che «le malattie della società si verifichino a un livello situato principalmente al di sopra di quello dei soggetti» (Honneth 2014, 700).

La ricezione critica del primo modello di patologia sociale è espressa principalmente dalle riflessioni di Laitinen e Ikäheimo. Le posizioni di Särkelä e Hirvonen mostrano invece i limiti intrinseci a una concezione organica forte di patologia sociale. Nelle pagine seguenti, si cercherà di illustrare come tali rilievi critici siano mossi, in linea di massima, a partire da due assunti centrali del pensiero dello stesso Honneth. Il primo, particolarmente significativo per le riflessioni di Ikäheimo e Hirvonen, è che la sofferenza legata ai processi di misconoscimento e alla mancata autorealizzazione individuale è un indice fondamentale per la comprensione della natura delle patologie sociali e la loro diagnosi. Il secondo assunto è che una precondizione fondamentale della fioritura individuale è la dimensione oggettiva della realtà sociale in cui gli esseri umani si muovono. Di conseguenza, un concetto adeguato di patologia sociale dovrebbe tenere conto anche del mancato processo di trasformazione delle strutture sociali che fanno da sfondo al manifestarsi di situazioni di sofferenza sociale diffusa. Questo motivo, enfatizzato in particolare da Laitinen e Särkelä, si rifà a una definizione di patologia sociale (solamente abbozzata da Honneth nel saggio Patologie del sociale) secondo cui lo stato patologico di una società consiste nella «deriva organica» assunta dalla vita sociale stessa.
 
 
3. I limiti della proposta di Zurn: Laitinen e Ikäheimo
 
La critica generale che Arto Laitinen muove alla concezione di patologia sociale sviluppata da Zurn è che essa può descrivere, nel migliore dei casi, solo quei disordini che investono le capacità critico-riflessive degli attori sociali. Da questo punto di vista, essa non renderebbe giustizia a un aspetto significativo della filosofia sociale elaborata da Honneth. Ne Il diritto della libertà, infatti, Honneth sostiene che la libertà riflessiva degli individui (ossia la loro capacità di autodeterminarsi conformemente a norme morali universalizzabili, e scegliere i fini rispetto a cui plasmare il proprio percorso di realizzazione individuale) non costituisce il più alto grado di libertà cui aspirare. Reinterpretando le idee espresse da Hegel ne I lineamenti di filosofia del diritto, Honneth afferma che una completa fioritura individuale si può realizzare solo nel contesto di una più ampia libertà sociale, in cui «gli obiettivi liberamente scelti dagli individui si incastrano in modo tale gli uni negli altri da completarsi a vicenda e quindi trovare nella realtà sociale un adempimento voluto da quella realtà» (Honneth 2017, 284).  Detto altrimenti, a parere di Honneth, la libertà sociale può essere attuata solo attraverso quelle forme di riconoscimento reciproco che «‘costituiscono’ un agire che i soggetti coinvolti possono realizzare solo cooperativamente o in comune» (Honneth 2015, 194) in quanto «lo status accreditato legittima un soggetto a contare su un comportamento da parte dell’altro che contribuisce al compimento del proprio agire» (Honneth 2015, 193). La sussistenza di tale libertà sociale, a sua volta, è funzione di certe precondizioni istituzionali e pratiche oggettive, che costituiscono e strutturano l’ambiente in cui gli individui si muovono ed esercitano la loro libertà negativa e riflessiva: la sfera affettiva della famiglia e delle amicizie, la sfera economica del mercato del lavoro, e quella pubblica della vita democratica di una comunità. Queste sfere o sistemi d’azioni non sono solo relazionali (nella misura in cui rendono possibili forme di riconoscimento reciproco che permettono l’attuazione di condotte individuali che si completano a vicenda). Tali sistemi sono anche etici «poiché in essi la complementarità si accompagna a una forma di obbligo alla quale manca, in generale, l’ostico carattere del puro dovere» (Honneth 2015, 194).  Alla luce di ciò, Laitinen afferma che l’idea di patologia di secondo ordine avanzata da Zurn si rivela incapace di cogliere quelle disfunzioni che possono intaccare la realtà sociale stessa senza che ad essere compromesse siano la razionalità e le capacità critico-riflessive degli individui:
 

Ci possono essere oppressione, misconoscimento, sfruttamento, dominazione e coercizione violenta di vario genere anche nel caso in cui i soggetti possono comprendere riflessivamente tali concetti – il difetto non deve necessariamente trovarsi nella disconnessione fra realtà e riflessività, ma nella realtà sociale stessa. (Laitinen 2015, 47)

La proposta di Zurn è quindi eccessivamente focalizzata sull’idea che malfunzionamenti e distorsioni della vita sociale siano radicati in toto nell’ottundimento e nell’atrofizzazione delle capacità critico-riflessive degli agenti sociali. Per tale ragione, non riesce a rendere conto di quegli aspetti della dimensione sociale che potrebbero essere definiti patologici a prescindere dalla comprensione che ne hanno gli attori sociali. Poniamo il caso che, in date circostanze storico-sociali, i fattori che ostacolano un corretto esercizio delle capacità riflessive degli esseri umani siano stati rimossi o siano del tutto assenti. Assumiamo poi che, al tempo stesso, situazioni di oppressione e ingiustizia sussistano comunque a livello sociale. Cosa potrebbe garantire la riproduzione sociale di tali circostanze, o la mancanza di efficaci proteste nei confronti di ingiustizie redistributive o discriminazioni di natura sessuale, etnica o culturale? Si potrebbe pensare a operazioni mediatiche miranti a screditare la credibilità e diminuire la visibilità di chi ha posture critiche verso tali questioni. Oppure si possono immaginare limitazioni ai meccanismi istituzionali che garantiscono la libertà di espressione e la partecipazione democratica, in modo da togliere alle vittime delle ingiustizie sociali la possibilità di esprimersi e di attuare una trasformazione positiva del loro ambiente sociale. Per Laitinen, in questo caso, si tratterebbe di disordini sociali del terzo ordine: aspetti o caratteristiche oggettivi di una data realtà sociale che prevengono, disinnescano o silenziano critiche e rivendicazioni legittime da parte degli attori sociali.

Coerentemente con questa osservazione, Laitinen fa inoltre notare come il modello di Zurn non sia in grado di descrivere un secondo tipo di disconnessione, ossia quella fra secondo e terzo ordine della realtà sociale. Detto altrimenti, l’idea di patologia come disordine del secondo ordine non riuscirebbe a rendere conto del fatto che patologica può essere anche la disconnessione fra le capacità riflessive degli attori sociali e il mondo sociale che andrebbe riformato o trasformato:
 

Il mondo sociale è costitutivamente legato a chi ne prende parte, sicché ciò che previene socialmente la critica può essere interiorizzato sotto forma di autocensura: sapendo in anticipo che le critiche saranno socialmente etichettate come ‘naïve’, i soggetti potrebbero imparare a penalizzare i loro pensieri critici da soli, facendo sì che, grazie a un auto-silenziamento socialmente creato, non sia necessaria alcuna censura sociale. (Laitinen 2015, 50)

Un ultimo limite della proposta di Zurn starebbe nella caratterizzazione eccessivamente vaga di quelli che vengono definiti contenuti di primo ordine. Infatti, per Laitinen, assumendo la prospettiva di Zurn, si potrebbero includere nei contenuti di primo ordine tanto la struttura della realtà sociale in se (ossia l’insieme di istituzioni e pratiche che oggettivamente definiscono la morfologia e la fisionomia di una società storicamente data), quanto le esperienze e le credenze che di tale struttura hanno gli agenti sociali. Di conseguenza, il modello di patologia sociale di Zurn non contempla quelle disconnessioni che possono avvenire fra contenuti della realtà sociale e comprensione immediata del primo ordine che gli agenti hanno della realtà stessa:
 

Vari casi di anomia, di mancanza di adeguata socializzazione, e così via, possono portare gli agenti a distaccarsi cognitivamente, in termini motivazionali o praticamente dalla realtà sociale in atto. In alcuni casi, gli agenti potrebbero non apprezzare in pieno il valore della razionalità della realtà sociale per come è e, in altri casi, potrebbero non aver apprezzato l’oppressione di una realtà sociale irrazionale. (Laitinen 2015, 48)

Queste riflessioni portano Laitinen a sostenere la necessità di elaborare un modello di patologia sociale onnicomprensivo, alternativo a quello di Zurn, in grado di considerare contemporaneamente: la natura stratificata della realtà sociale; le esperienze dirette che di essa fanno gli attori sociali; le capacità riflessive di secondo ordine; i patterns della dimensione sociale che si rivelano proni a prevenire e impedire ogni tentativo di critica e, dunque, di trasformazione sociale. Tale concettualizzazione dell’idea di patologia, inoltre,
 

Abbandona il requisito in base a cui ognuno di questi aspetti è, in senso stretto, necessario perché qualcosa conti come una patologia sociale. Laddove la proposta di Zurn può essere interpretata come una concezione che descrive forme di ‘patologia della riflessione’ (analoga alla libertà riflessiva), il punto di vista onnicomprensivo può essere meglio concepito come una possibile teoria delle ‘patologie sociali’ (analogo alla libertà sociale). (Laitinen 2015, 60)

Ad approfondire i meccanismi alla base della disconnessione patologica fra realtà sociale e comprensione di primo ordine da parte degli attori sociali è Heikki Ikäheimo nel momento in cui si occupa delle cause scatenanti il mancato riconoscimento fra attori sociali. A parere di Ikäheimo, in tutte le sfere sociali individuate da Honneth (quella assiologica della famiglia e delle amicizie, quella deontologica del diritto, e quella contributiva della società civile e del mercato del lavoro) si possono distinguere forme condizionali (interessate e strumentali) e incondizionate di riconoscimento intersoggettivo puro.  Nella prima sfera, per esempio, ci possono essere forme di riconoscimento interessate quando, per esempio, ci si preoccupa per il benessere di un amico o di un caro per raggiungere un qualche scopo che non riguarda strettamente la felicità della persona amata, ma il proprio tornaconto personale. L’amore incondizionato verso qualcuno, invece, comporta una preoccupazione per il benessere e la felicità dell’altro che prescinde dalle convenienze e dai vantaggi egoistici[6]. In sintesi, per Ikäheimo:
 

Nella modalità incondizionata ciò che ‘conta essenzialmente’ è la prospettiva e l’intenzionalità dell’altro, laddove in quella condizionale quello che importa è in sostanza la propria prospettiva. […] Vale a dire, è solo nella modalità incondizionata di riconoscimento intersoggettivo puro che colui che viene riconosciuto è visto o considerato in quanto individuo in senso forte, cioè come irriducibile a un significato funzionale nella prospettiva egoistica di chi riconosce, e pertanto come una persona altra irriducibile e insostituibile. (Ikäheimo 2015, 32)

Da questo punto di vista, è importante sottolineare come, per Ikäheimo, ciò che porta gli esseri umani a sviluppare appropriati atteggiamenti riconoscitivi non è tanto una riflessione teoretica trasparente a se stessa, ma una prassi sociale adeguata in tal senso. Una persona può avere una perfetta comprensione delle ragioni morali e etiche che giustificano l’assunzione di comportamenti disinteressati nei confronti dei propri simili, ed essere tuttavia inabile ad attuarli quando dovrebbe:
 

Rispettare qualcuno non significa essere mossi da ragioni, ma piuttosto dalla persona stessa in quanto essere razionale che reclama autorità, inclusa l’autorità su cosa conta come ragione accettabile per essere trattata in questa o quella maniera. […] Un’effettiva comprensione della moralità del rispetto reciproco […] è perciò di natura pratica, non teoretica. (Ikäheimo 2015, 35)

È alla luce di una tale prospettiva che Ikäheimo definisce le cause che stanno a monte degli episodi di mancato riconoscimento sociale. In primo luogo, in linea con quanto appena detto, Ikäheimo sostiene che dietro i casi di mancato riconoscimento intersoggettivo ci può essere semplicemente l’incapacità di un essere umano di riconoscere propriamente qualcuno, a causa di condizioni psicopatologiche o di forme insufficienti di socializzazione. In seconda battuta, il venir meno di responsi riconoscitivi incondizionati e disinteressati può essere la conseguenza dell’influenza di entità istituzionali, norme e ruoli sociali. Queste potrebbero costringere il soggetto riconoscente a sopprimere o rifuggire forme di riconoscimento che, in certe circostanze, potrebbero risultare troppo costose da gestire sotto il profilo psicologico, o risultare controproducenti per il buon funzionamento di un certo ambiente istituzionale.  Una situazione di guerra, ad esempio, può spingere un soldato a dimenticare o mettere da parte certi genuini atteggiamenti riconoscitivi verso le proprie vittime, depersonalizzandole, al fine di rendere emotivamente sostenibile le uccisioni che è chiamato a compiere in nome della patria e dei doveri militari. Oppure: una guardia carceraria, per poter svolgere in maniera appropriata la propria professione, deve necessariamente elaborare una qualche forma di distacco psicologico e affettivo dai prigionieri, in moda tale da evitare di famigliarizzare con loro e sdegnarsi per la loro condizione. Sotto questo rispetto, il merito dell’analisi di Ikäheimo è quello di evidenziare come i casi mancato riconoscimento, e in potenza le patologie del riconoscimento vere e proprie, possano radicarsi in una disconnessione, tutta interna al primo ordine, fra contenuti e forma di una certa realtà sociale da un lato, e esperienza immediata che di essa fanno gli agenti sociali dall’altro. Per Ikäheimo, il sorgere di questa disconnessione può essere spiegato dal fatto che il bisogno di riconoscimento è intrinsecamente legato alle nostre tendenze innate al misconoscimento o al mancato riconoscimento. Se è vero che il nostro benessere psicologico è dipendente dal riconoscimento sociale che ci viene tributato, secondo Ikäheimo è però innegabile che tale condizione di dipendenza dall’altro ci può mettere in una condizione di vulnerabilità. Questa stessa condizione può spingere gli esseri umani ad attuare meccanismi difensivi che mirano a minimizzare le possibilità di esperire sofferenza psicologica attraverso un rifiuto del riconoscimento reciproco.

A parere di chi scrive, le riflessioni di Ikäheimo mettono poi in luce un altro aspetto interessante che la definizione di patologia sociale fornita da Zurn non riesce a cogliere. Un corretto esercizio delle capacità riflessive da parte degli esseri umani può essere la ragione dietro questo distacco primario. Il secondino che evita di tributare ai prigionieri la stessa forma di rispetto che, spontaneamente, concede ad altri esseri umani fa ciò perché, da un punto di vista pratico, sa che l’istituzione per la quale lavora, al fine di poter funzionare correttamente, impone l’assunzione di attitudini riconoscitive differenti da quelle operanti in normali circostanze sociali. Di conseguenza, quelle capacità riflessive di secondo ordine il cui ottundimento, a parere di Zurn, sta alla base delle patologie sociali, nel loro esercizio possono anche cagionare, occasionalmente, l’indebolimento o l’annullamento delle nostre normali attitudini al riconoscimento intersoggettivo in certe situazioni. A tal proposito afferma Ikäheimo che «la comprensione teorica è chiaramente essenziale nel definire e concepire le condizioni istituzionali in cui la reazione riconoscitiva incondizionata o va soppressa a causa dei suoi costi per gli individui, o ha lo spazio per fiorire nelle relazioni interumane» (Ikäheimo 2015, 38).

Questo ci porta a concludere che le patologie sociali non sono necessariamente legate a un disordine del secondo ordine. Patologico potrebbe essere considerato, dal punto di vista di Ikäheimo, il prevalere di una specifica modalità di riconoscimento condizionata a scapito di una incondizionata, o l’affermazione sociale di pratiche di misconoscimento generate da esperienze individuali di sofferenza psicologica ricorsive e socialmente pervasive.
 
 
4. I limiti della concezione organicista: Hirvonen e Särkelä
 
A prima vista, un’ottica organicista sulle patologie sociali, come quella avvallata da Honneth nel saggio Diseases of Society, parrebbe essere il candidato ideale per rendere conto delle patologie del riconoscimento a livello collettivo e sistemico. Tale prospettiva, infatti, definisce in maniera chiara quale sia il metro di valutazione a dover guidare la diagnosi del teorico critico: la capacità di funzionamento di una società va valutata nella sua totalità, concependo istituzioni e corpi intermedi in termini di integrità funzionale e riproduttiva. In quest’ottica, il grado di salute di una data società dipende dalla sua capacità di riprodursi, e quindi da un funzionamento normale degli organi sociali che la compongono. Sia Hirvonen che Särkelä non accettano aprioristicamente tale concezione dalle forti connotazioni funzionaliste, ma la problematizzano, alla luce dei loro studi inerenti la dimensione macrofisica del riconoscimento.

Come abbiamo visto nel primo paragrafo, secondo Hirvonen enti collettivi come classi e gruppi sociali possono intrattenere, almeno in potenza, significative relazioni di riconoscimento con altre collettività e con altri individui. È alla luce di questa idea che Hirvonen individua un’ampia serie di patologie del riconoscimento collettivo. Una prima forma di disordine è di natura sistemica e si manifesta come mancata auto-realizzazione degli agenti individuali e collettivi che partecipano a uno specifico sistema di riconoscimento. In altre parole, un complesso socialmente radicato di norme e forme di riconoscimento collettivo si rivela patologico quando impedisce la fioritura e il benessere di agenti individuali e collettivi, anche nel caso in cui questo medesimo sistema normativo di riconoscimento sia socialmente accettato e non abbia particolare problemi a livello riproduttivo.

Da una prospettiva agentiva, attenta alle azioni degli attori coinvolti nei processi di riconoscimento, Hirvonen afferma invece che la patologia sociale si manifesta quando un agente collettivo non agisce coerentemente con il sistema di norme di riconoscimento in cui si muove. In questa situazione, gli enti collettivi misconoscono, o non riconoscono, gruppi e individui esterni o appartenenti ad esso: «Il fattore comune dietro i vari casi pratici di discriminazione, ostracizzazione e reificazione è che un gruppo o è danneggiato o causa danno nel senso in cui disattende le norme di riconoscimento» (Hirvonen 2015, 218). Nelle dinamiche di riconoscimento interne a un gruppo, si possono rintracciare almeno due forme patologiche di riconoscimento agentivo. La prima si verifica quando la volontà collettiva di un gruppo si rivela talmente potente da portare al misconoscimento della volontà di autodeterminazione degli individui che vi appartengono. La seconda tipologia di patologia collettiva, strettamente legata alla prima, è definita da una cronica insensibilità del gruppo rispetto a forme di riconoscimento esterno, determinata dall’emersione e affermazione di identità collettive particolarmente forti ed esclusiviste:
 

L’ostinazione di alcune comunità – ad esempio, piccole sette religiose caratterizzate da atteggiamenti ‘noi contro il mondo’– potrebbe essere parzialmente spiegata da un’autosufficienza dell’identità collettiva che rende le forme di riconoscimento esterno per lo più irrilevanti. (Hirvonen 2015, 220)

Una terza forma di patologia collettiva agentiva, tanto interna quanto esterna, concerne i fenomeni di identificazione fra la costituzione concreta di un gruppo e la rappresentazione pubblica che di esso si afferma. In questi casi si può parlare di dinamiche di riconoscimento reificante, che si verificano «sia quando qualcuno viene identificato con un gruppo con cui personalmente non si identifica sia quando l’identità che è associata a gruppo non è determinata dal gruppo stesso» (Hirvonen 2015, 220). Infine, il sorgere di patologie del riconoscimento collettivo può essere strettamente legato alle dinamiche dell’esercizio del potere di un dato gruppo al suo interno e verso l’esterno. Infatti, collettività estese possono avere una visibilità e un’influenza maggiore rispetto ai singoli individui, ai sottogruppi loro interni o a minoranze esterne. Ciò, almeno in potenza, può determinare situazioni in cui «alcune richieste di riconoscimento possono essere facilmente rigettate quando non sussiste una forza di massa dietro di esse» (Hirvonen 2015, 220).

Alla luce di questo quadro, è possibile comprendere perché, per Hirvonen, è necessario adottare una concezione di patologia sociale più debole, o più articolata, rispetto al modello organicista classico. Dalla sua prospettiva, il grado di salute di istituzioni e agenti sociali collettivi non può essere considerato solo in ossequio alla loro capacità di riprodursi in termini funzionali. Uno dei parametri ideali rispetto a cui valutare lo stato di salute di un sistema di riconoscimento collettivo e degli agenti che lì agiscono concerne anche la loro capacità di garantire il processo di autorealizzazione individuale degli esseri umani. Da un lato, è dunque evidente come Hirvonen rispetti lo spirito teleologico della teoria sociale di Honneth, in cui l’idea etica di vita buona e quella fioritura individuale rivestono un ruolo cardine per descrivere e diagnosticare il buon funzionamento dei nostri sistemi sociali. Dall’altro, la sua concezione delle patologie del riconoscimento collettivo non sembra sussumibile sotto un punto di vista radicalmente organicista. Infatti, si dà il caso che le funzioni riproduttive di un dato sistema sociale possano non essere compromesse e che, al tempo stesso, questo stesso sistema sociale produca forme di misconoscimento o mancato riconoscimento che sono lesive dell’integrità e della libertà dei suoi membri. Una società patriarcale e castale, per esempio, può riprodursi senza problemi. Si possono costringere donne e schiavi ad adempiere funzioni meramente riproduttive sotto il profilo materiale (generazione di prole e lavoro forzato) e, contemporaneamente, riservare a un élite di uomini (definita dal sangue e/o dal censo) il compito di vigilare sul rispetto e l’applicazione di norme e valori che regolano tale società.

Sulla scorta di una simile considerazione, nella prospettiva di Arvi Särkelä, la concezione organicista di Honneth si rivela non solo insufficiente a cogliere gli aspetti sistemici dei disordini sociali. Attraverso un vero e proprio ribaltamento concettuale, Särkelä sostiene che una società che si dimostra capace solamente di riprodurre se stessa senza evolversi versa in uno stato patologico di stagnazione. Ciò risulta chiaro se si riconsidera l’idea, avanzata da Särkelä ed esposta nella prima parte dello scritto, secondo cui l’essenza di una società democratica è la sua capacità di trasformarsi in funzione dei nuovi bisogni e interessi, individuali e collettivi, che si sviluppano al suo interno. Dietro a una tale prospettiva è possibile cogliere una concezione naturalista ma non organicista della vita sociale. Naturalista perché vede nella società una dimensione attraversata da processi vitali, anche conflittuali, che la portano a crescere, mutare ed evolversi. Non organicista perché tale prospettiva evoluzionista e trasformativa della società è incompatibile con l’idea che la società si ammali solo nella misura in cui non è in grado di auto-sostentarsi e riprodursi secondo un set predeterminato e statico di fini riproduttivi. Alla luce di una concezione siffatta, sulla falsa riga delle riflessioni di Dewey, Särkelä individua almeno due forme di patologia che possono intaccare la vita associata degli esseri umani[7]. La prima tipologia di patologia, che può propriamente essere definita sociale, è definita da un eccesso di conservatorismo, da un’idealizzazione delle condizioni sociali esistenti che finiscono per essere percepite dagli attori sociali in termini di meri fatti di natura. La patologia sociale, pertanto, si verifica quando la vita associata ristagna e si pietrifica, limitandosi a riprodurre le sue strutture esistenti in maniera statica e ricorsiva, senza tenere conto di eventuali nuovi interessi e bisogni sviluppatisi fra i suoi membri. In tal senso, seguendo Dewey, vede nella riproduzione organica, fine a se stessa, di un consesso sociale la morte della vita associata.

Il secondo tipo di patologia, che Särkelä definisce della società, è definito da un’eccedenza di zelo trasformativo, che intacca i pur necessari meccanismi di riproduzione sociale. In tal senso, le patologie della società avvengono quando si concretizza una tendenza socialmente diffusa a voler estirpare in maniera radicale, e non a riformare, quegli istituti, abitudini e costumi sociali che, una volta, non avevano effetti oppressivi ma garantivano l’integrità di una società e il benessere di chi vi apparteneva. Quest’ultimo tipo di disfunzione, da un lato, può produrre una forma di disgregazione e dissoluzione sociale che dipende dall’impossibilità, per un consesso sociale, di stabilizzarsi in una qualche maniera. Dall’altro, può scatenare una reazione conservativa, ossia una patologia sociale del primo tipo, che porta all’oppressione di qualsiasi voce critica in seno alla società e, quindi, al suo irrigidimento. Alla luce di queste riflessioni, Särkelä può concludere che «la vita sociale è un’unita processuale pulsante di organico e inorganico» (Särkelä 2017, 122) di cui il teorico critico deve essere in grado di individuare le «aritmie».

L’influenza di queste idee è palese nella definizione di ideologia come «respirazione artificiale» elaborata da Särkelä. Särkelä vede nell’ideologia uno strumento essenziale per garantire la sopravvivenza di una società giunta a un binario morto, che tende cioè a riprodursi meccanicamente, a prescindere dal fatto che quelli che una volta erano gli interessi universali della comunità tutta siano diventati, a un certo punto, interessi particolari di una classe dominante. In tale situazione, i membri di quella comunità che non appartengono al gruppo dominante soffrono delle condizioni sociali in cui si trovano a vivere. Inoltre, seppur dominati, percepiscono il fatto che gli interessi generali della loro società sono surrettiziamente identificati con quelli di pochi dominanti. Sotto questo rispetto, compito della narrazione ideologica è quello di inibire la possibilità di un’autentica pratica trasformativa all’interno di tale società malata. A tal fine, una efficace ideologia sociale deve essere capace di modificare la coscienza dei membri di una data comunità coerentemente col fatto che questi ultimi soffrono delle condizioni in cui si trovano a vivere. Detto altrimenti, le credenze ideologiche non si possono limitare a far apparire come immutabili circostanze sociali che sono esperite negativamente dagli attori sociali. Devono anche riuscire a deviare il desiderio di cambiamento delle vittime di oppressione verso un oggetto che non sia la dimensione pratica e concreta in cui vivono e agiscono. Tale oggetto del cambiamento diventano gli agenti sociali medesimi i quali, percependo come immutabili le condizioni sociali esterne, tentano di superare lo stato patologico in cui si trovano trasformando se stessi. Un’ideologia, per essere tale, deve far sì che il misconoscimento cui sono sottoposti i suoi destinatari si traduca «nel disprezzo di ciò che è pratico in generale, prevedendo perciò qualsiasi sincera attività trasformativa da parte dei membri della comunità» (Särkelä 2015, 76). In tal senso, secondo Särkelä, le ideologie sono vere e false al tempo stesso. Sono vere nella misura in cui non nascondono il fatto che la realtà sociale che versa in condizioni patologiche, così come è, non va, è malata, e che qualcosa va trasformato. Sono false poiché spingono gli agenti a credere che il cambiamento delle circostanze sociali esterne, ossia una ridefinizione dei fini e degli interessi collettivi della comunità in cui si muovono, sia impossibile, e che il superamento della condizione di disagio in cui si trovano riposi in un cambio di coscienza rispetto alla situazione data[8].

Alla luce di queste considerazioni, è possibile comprendere in che misura Särkelä prenda le distanze anche dal modello di disordine del secondo-ordine descritto da Zurn. L’ideologia è sì una forma di disconnessione del secondo ordine, dal momento che, per essere operativa, deve essere interiorizzata dalla coscienza e impedire agli agenti sociali di agire razionalmente. Tuttavia le ideologie si formano e attecchiscono per non lasciar morire un corpo sociale affetto da una patologia del primo ordine: in questo caso, un disturbo trasformativo della vita sociale che la porta a riprodursi in maniera meramente organica.
 
 
5. Conclusioni
 
In queste pagine, ci siamo soffermati sui contributi che i membri della scuola finlandese apportano alla filosofia sociale in quanto scienza delle patologie sociali. In prima battuta, è bene sottolineare la loro comune adesione a una idea fondamentale del pensiero elaborato Honneth. Il riconoscimento interpersonale, nelle sue multiformi manifestazioni, ha una funzione essenziale sia per la fioritura e il benessere individuale, sia per l’esistenza e il buon funzionamento della realtà sociale oggettiva (intesa come insieme di istituzioni e costumi collettivi). Da questo punto di vista, si può senz’altro sostenere che, anche per i teorici finlandesi come per Honneth, filosofia sociale e teoria critica sono essenzialmente vincolate a un approccio etico-formale che mira a individuare non tanto i fini universali e assoluti dell’autorealizzazione umana, ma le condizioni di possibilità di questa stessa autorealizzazione.

D’altro canto, è sicuramente possibile ravvisare delle significative differenze fra le singole posizioni degli studiosi qui presentati sulla maniera più fruttuosa di approcciare il tema della diagnosi dei disordini sociali. Solo per citare un esempio, Ikäheimo sembra tendere a una concezione normativista, in cui è patologica la distorsione delle attitudini ricognitive necessarie per una positiva autorelazione personale. Särkelä promuove invece un approccio naturalistico che vede nella patologia sociale un fenomeno in grado di disturbare o bloccare il processo di sviluppo e evoluzione di una data società. Quello che, tuttavia, contraddistingue la scuola finlandese su queste questioni è la postura critica assunta rispetto ai due modelli di disfunzione sociale esplicitamente sostenuti da Honneth. In questo senso, i teorici finlandesi ci invitano a riflettere su dei punti precisi. Una filosofia sociale che ambisce a essere scienza diagnostica e terapeutica dei mali sociali deve evitare di incappare in due limiti fondamentali. Il primo, proprio del modello dei Zurn, potrebbe essere definito riduzionista: non si può pensare che tutte le patologie sociali siano tali in quanto caratterizzate dalla medesima struttura. Il secondo, che affligge invece la concezione organicista forte proposta da Honneth, è quello di perdere di vista il fatto della capacità evolutive e della plasticità della nostra esistenza sociale. Gli esseri umani sono infatti capaci di fare storia: essi possono non solo riprodurre l’ambiente sociale in cui nascono e si sviluppano, ma anche mutarlo, qualora cessi di essere precondizione favorevole al perseguimento di una vita buona.
 
 
 
Bibliografia
 
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Note al testo
 
[1] Per una completa panoramica su questa chiarificazione concettuale cfr. Ikäheimo, Laitinen (2007, 34-37) e Laitinen (2006, 77-79).
[2] Per approfondire il tema del riconoscimento in termini di attitudini ricognitive cfr. Ikäheimo (2002, 447-462) e Ikäheimo, Laitinen (2007, 42-51).
[3] Su questo tema si veda in particolar modo Honneth (2002, 171-199).
[4] Per una comprensione più approfondita di tale concezione della vita sociale, si rimanda in particolare a Sarkelä (2014, 87-105) in cui la questione della lotta per il riconoscimento, argomento centrale per Honneth almeno fino alla pubblicazione de Il diritto della libertà, viene proprio reinterpretata tracciando un parallelo fra l’immagine agonistica di riconoscimento elaborata da Dewey e il processo di conciliazione riconoscitiva descritto da Hegel nel momento in cui tratta la dialettica della coscienza nella Fenomenologia.
[5] In ultima analisi, Särkelä chiarisce come l’idea di eticità democratica di introdotta da Dewey e ripresa da Honneth sia compatibile con le dinamiche del conflitto sociale e con trasformazione sostanziale e progressiva di un dato framework normativo, elementi, questi, pressoché assenti negli ultimi lavori del teorico critico tedesco.
 [6] Parimenti, anche nella sfera deontologica e in quella contributiva ci possono essere forme di riconoscimento condizionali e incondizionate. Si può rispettare una persona solo per calcolo prudenziale. Un convinto razzista potrebbe assumere comportamenti tolleranti in pubblico verso minoranze etniche, religiose o linguistiche solo per non essere sanzionato dalle leggi del proprio paese. Nel mercato del lavoro, invece, è possibile assumere atteggiamenti riconoscitivi incondizionati allorché si manifesta gratitudine per gli sforzi di qualcuno a prescindere dai risultati delle sue performance lavorative. In questo caso, si apprezzano non tanto i risultati materiali raggiunti di chi viene riconosciuto e la loro utilità per i nostri scopi personali, ma la sua intenzione e i suoi sforzi miranti a contribuire al benessere generale e alla cooperazione in seno alla comunità di appartenenza.
[7] Per una più ampia descrizione di questi tipi di patologia e per approfondire il contributo della riflessione di John Dewey in tal senso, si veda in particolar modo Särkelä (2017, 107-126). In questo saggio, Särkelä analizza in particolar modo le riflessioni che il filosofo americano ha elaborato in un ciclo di lezioni in Cina tenutosi fra il 1919 e il 1920, riportato in Dewey (2017).
[8] «L’ideologia culmina dunque in un processo di apprendimento involontario; è involontario dal momento che la coscienza ideologica intende non cambiare il mondo, ma solo sé stessa; eppure è un processo di apprendimento in quanto, cambiando sé stessa, la coscienza ideologica sembra anche cambiare il mondo. […] I partecipanti imparano ad accettare le conseguenze pratiche delle loro concezioni ideologiche come la verità di queste stesse concezioni assumendo il punto di vista di un altro generalizzato – il grande risultato istituzionale dell’esperienza ideologica stessa» (Särkelä 2015, 77).
 
 
 

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