Roberto Finelli
Università Roma Tre
roberto.finelli@uniromatre.it
Abstract: Negation can be conceived of as the “metacategory” of Hegelian philosophy. An inquiry into its manifold and polysemous functions is essential to try to elucidate and to loose the complexities of Hegel’s dialectic. In the first part, this paper aims at showing how, through the three sections oft the Science of Logic the meaning and the function of Negation change in connection with the changing role of Otherness. The Author also argues that the Doctrine of the Concept displays structures and categories that are endowed with an ethical and anthropological relevance that can help superseed both “liquid” postmodernims and the pilosophical milieu of “intersubjectivity”, towards a new centrality of the “subject matter”. In the second section, the paper deals with the movement of Negation between identity and otherness in the dynamic of recognition, and discusses the possibility of integrating the Hegelian conception of Anerkennung with a psychoanalytic perspective, in order to propose a more appropriate definition of “friendship” in the light of the current state of human sciences.
Keywords: negation, identity, otherness, reification of language, friendship, Sein-lassen
Parte prima
La logica del concetto e le modalità della negazione in Hegel
Com’è ben noto, la collocazione e il contenuto della «Fenomenologia» varia nella sistematizzazione della filosofia di Hegel. Nella Enciclopedia di Heidelberg l’opera jenese del 1807 si riduce al paragrafi 413-439 ed illustra le determinazioni dello spirito soggettivo tra antropologia e psicologia. Ma ciò che non muta è il suo contenuto, ossia l’essere scienza della coscienza nella sua impossibilità di consistere e di coincidere con sé in quanto coscienza individuale. L’essere cioè, ancora secondo l’impostazione del 1807, scienza di una coscienza in cui verità oggettiva e certezza soggettiva ancora non coincidono, ma la cui compenetrazione e identità saranno solo il risultato di un certo percorso che toglierà appunto la distanza e la differenza tra oggetto e soggetto, tra mondo reale e mondo del pensiero. Perché questo è il significato del «sapere assoluto», conclusivo della Fenomenologia dello spirito: una coscienza universale che implicita in ogni coscienza individuale e che, libera dalle prospettive parziali e finite delle diverse modalità della coscienza individuale, non può che pensare realmente, ossia avere come contenuti pensieri che non possono non avere validità oggettiva. Perché il sapere assoluto è appunto una «coscienza» che non separa più una soggettività dall’altra, come accade con la coscienza individuale, bensì un sapere che unifica e universalizza e che in tale funzione ripropone l’identità kantiana tra universalità e oggettività.
Qui viene ricordato tale presupposto fenomenologico del pensiero logico hegeliano per tornare a sottolineare quanto la Wissenschaft der Logik di Hegel non possa esser letta come una logica filosofica nel significato tradizionale del termine, ovvero come una scienza delle forme del pensare considerate nel loro carattere formale, indipendentemente da ogni loro possibile contenuto. Giacché nel testo hegeliano la forma è invece immediatamente il contenuto, vale a dire che ogni determinazione o categoria del pensare è ipso facto determinazione e modalità della realtà. Il Logos non è Verbo che poi si fa Carne, ma è immediatamente Carne, è immediatamente Realtà. Proprio nel verso inaugurato dalla logica trascendentale di Kant, di un pensiero non formalmente astratto dai contenuti quanto invece capace di sintetizzare e produrre realtà. Ma, ovviamente, con una destinazione e realizzazione del medesimo scopo concepite e articolate da Hegel in una maniera profondamente diversa dall’autore della Critica della ragion pura.
Tale continuità, nella più profonda discontinuità tra Kritik der reinen Vernunft e Wissenschaft der Logik, in quanto entrambe le opere insistono a loro modo sull’identità di pensiero e realtà, critica e sottrae legittimità, a mio avviso, ad ogni interpretazione della filosofia hegeliana come teologia dissimulata, ossia come impianto teologico dissimulato attraverso una concettualità laica e discorsiva, che tratterebbe di un Logos-Dio che uscirebbe alienandosi dalla sua perfezione di puro pensiero per creare natura e storia e tornare, di lì, all’autocoscienza tutta spirituale di sé. Questa è stata l’interpretazione nell’Ottocento, in primis, di L. Feuerbach e nel Novecento, tra i molti, di G. della Volpe e L. Colletti e non mi sembra che in entrambi i casi ne abbia tratto giovamento né il rigore della storiografia filosofica né la fecondità della filosofia teoretica[1]. Ma soprattutto, per quello che qui interessa, la riproposizione del carattere non formale e astratto della Logica hegeliana consente a mio avviso di svolgere delle considerazioni sui diversi modi in cui un nesso, implicito e possibile, di ontologia, logica e antropologia si riferisca e si connetta intrinsecamente alle diverse tipologie della negazione in Hegel.
Appunto questo vuole essere il contenuto della prima parte di questo mio saggio: riuscire cioè, anche se in modo assai schematico e sintetico, ad evidenziare la triplicità delle tipologie che quanto a nesso di ontologia/logica/antropologia corrisponde alla scansione della Scienza della logica hegeliana in Libro I. Dottrina dell’Essere, Libro II. Dottrina dell’Essenza, Libro III. Dottrina del Concetto. Ed esplicitare insieme la connessione che si dà tra le tre configurazioni del nesso ontologico/logico/antropologico e le rispettive funzioni della negazione che attraversano i tre libri e che, con una minima integrazione del lessico hegeliano, potremmo definire come: 1) negazione determinata (bestimmte Negation); 2) negazione infinita (unendliche Negation); 3) negazione assoluta in quanto negazione circolare (absolute Negation).
Ma dire Negazione in Hegel significa dire definizione e collocazione del ruolo dell’Alterità e dunque, come vedremo, le tre tipologie sistemiche del nesso di ontologia/logica/antropologia in tanto si connettono alle tre diverse funzioni della negazione in quanto, eo ipso, si articolano secondo tre diverse collocazioni e funzioni dell’Alterità.
Dottrina dell’Essere (Sein)
ONTOLOGIA I
Il libro dell’Essere descrive la superficie della realtà, il suo ambito più esteriore. Potremmo dire, ciò che si coglie a prima vista. Esso è l’ambito dell’esteriorità. Nel duplice senso, di costituire, da un lato, il livello più estrinseco di un reale, formato evidentemente anche di un ambito più profondo, e dall’altro nel senso in cui ogni aspetto, ogni momento di tale strato superficiale appare come conchiuso in sé e come separato e indipendente da tutti gli altri. È l’ambito in cui l’Essere prevale costantemente sul Nulla, l’affermazione e la coincidenza positiva con sé sulla negazione, ossia sulla relazione e sulla connessione con l’altro. In esso è tale la dominanza e la permanenza nell’Identità, che ogni suo luogo e momento, concentrato del tutto su di sé, esclude dal suo orizzonte completamente ogni presa in considerazione dell’Alterità: non ancora di un suo specifico e proprio Altro, come accadrà nella Dottrina dell’Essenza, ma dell’Altro in quanto tale, cioè di ogni altro possibile Altro. Da tale egemonia dell’Identità e della sostanzialità del permanere ne deriva che nell’intero ambito dell’Essere la continuità della sua superficie non può essere formata altro che da radicali fratture e discontinuità. Ogni suo luogo e configurazione non trapassa nell’Altro, ma cade e precipita nell’Altro. Il suo uscire-fuori è uno über-gehen, un abbandonare se stesso, un essere invaso e dominato, a sua volta, proprio da quell’Altro che, in prima istanza, escludeva radicalmente da sé. Salvo a porre in essere e a riaffermare, dopo tale alterazione, il ritorno all’identità con sé. Ma a un’identità ormai arricchita dall’inclusione nel suo orizzonte della presenza e del motivo dell’altro, eppure già di nuovo pronta, con un nuovo nome e una nuova configurazione, ad attraversare e a patire nuove avventure dell’egemonia dell’Essere sul Divenire e del rovesciamento di quell’egemonia in una successiva e inevitabile alterazione.
LOGICA/GNOSEOLOGIA I
Al piano ontologico dell’Essere corrisponde sul piano logico-conoscitivo il pensare come «intelletto», il «cui principio è l’identità, il puro rapportarsi a sé» (Hegel 2004, § 80, 247A). Corrisponde cioè un modo di pensare che rispecchia, come pensiero della superficie, l’essere della superficie, in cui ogni cosa è finita e separata dalle altre. Questo tenersi fermo univocamente alla ferma determinatezza degli oggetti, senza porre parimenti in evidenza la relazione e la negazione della loro fissa identità, è proprio ciò che Hegel chiama intelletto, Verstand. «Il pensiero come intelletto si ferma alla determinatezza fissa e alla diversità da altre determinatezze. Una tale astrazione limitata vale per l’intelletto come sussistente ed essente per sé» (Hegel 2004, § 80, 246). La caratteristica di fondo della forma astratta o intellettuale del pensare è quella di muovere da un contenuto immediato, da un contenuto cioè che gli viene dato come pronto ed esistente dal di fuori.
A muovere dall’intuizione e poi, a seguire, dalla rappresentazione il pensiero interiorizza il contenuto esterno, la elabora rendendolo soggettivo e proprio, ma senza mai superare la dipendenza dall’esteriore e dalla sua datità di Essere. Per questa dipendenza dall’altro da sé, da un contenuto che rimane esteriore, anche l’attività dell’Intelletto propriamente detto – oltre intuizione e rappresentazione – consiste in una universalizzazione solo formale, in quanto, a muovere da molteplici contenuti dati, produce generalizzazioni e unificazioni che si collocano astrattamente fuori e più in alto di quei contenuti particolari, come vuole tutta la tradizione platonico-aristotelica della produzione dell’universale attraverso astrazione dai particolari:
L’attività dell’intelletto consiste in generale nel conferire al suo contenuto la forma dell’universalità e, precisamente, l’universale posto dall’intelletto è un universale astratto che, come tale, viene tenuto saldamente contrapposto al particolare, ma, in tal modo, viene al tempo stesso anche determinato a sua volta come particolare. (Hegel 2004, § 80, 246)
ANTROPOLOGIA I
Se l’orizzonte dell’Essere è quello di un conchiudersi nell’identità, non tenendo conto dell’altro fuori di sé, l’antropologia che ne deriva e che la sottende è quella inaugurata dallo Hegel di Francoforte con il concetto di destino nei manoscritti de Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. La soggettività umana, individuale e collettiva, che sceglie un’identità sostanzialistica ed esclusiva dell’altro, è esemplificata dalla storia di Abramo e del suo popolo. Una soggettività astratta, come quella di Abramo, sceglie, come scrive Hegel, di non amare, di esser nomade e di non radicarsi in nessun luogo, di non mescolarsi con altre genti:
Il primo atto con cui Abramo diviene capostipite di una nazione è una separazione che rompe i legami della convivenza e dell’amore, la totalità delle relazioni in cui egli ha vissuto finora con gli uomini e la natura […]. Abramo fu guidato tra le genti straniere, in cui si imbatté nel seguito della sua vita, dallo stesso spirito che lo aveva portato lontano dai suoi consanguinei: lo spirito di mantenersi in rigorosa opposizione verso tutto. (Hegel 1977, 355-356)
Ma appunto destinato ad essere a sua volta invaso e dominato proprio da quell’altro che si voleva dominare: è il destino di Abramo e del popolo ebraico, per l’interezza della sua storia di emarginazione e di repressione. Una antropologia fondata sull’identità e sull’astrazione dall’altro è condannata al rovesciamento, allo scacco esistenziale, a farsi subalterna e dipendente da quell’alterità che per principio ha disprezzato e tenuto lontano da sé.
Né è un caso, a me sembra, che questa antropologia del rovesciamento, questo capovolgersi di una polarità astratta e identitaria caratterizzi assai più propriamente la Fenomenologia dello Spirito che non la Scienza della logica, da cui è possibile estrarla solo per via metaforica. Giacché la Fenomenologia dello Spirito vede operare assai più, nel trapassare delle sue configurazioni, la negazione determinata, la prima negazione, che non la seconda, la negazione della negazione. Il percorso fenomenologico è infatti un esperire della coscienza che avviene essenzialmente attraverso scacchi e rovesciamenti. È una lotta della coscienza contro le proprie limitazioni interiori così come contro le limitazioni esterne, di natura storico-culturale, che le impediscono di sapersi come coscienza, non individuale, quanto invece capace di contenere e pensare l’universale. Ed è dunque il percorso fenomenologico assai meno segnato dalla capacità sintetica e inclusiva della negazione della negazione. Mentre nella Scienza della logica, superata ormai con il raggiungimento del sapere assoluto ogni distanza tra coscienza soggettiva e realtà oggettiva, il principio dell’Essere, come cominciamento obbligato e necessario, mette da subito in campo l’assolutezza immediata del Nulla che è archetipo generativo di quella negazione assoluta, o negazione della negazione, la quale costantemente si prova a togliere nella Dottrina dell’Essere il prevalere della negazione prima o negazione determinata, ossia della negazione come determinazione (Bestimmtheit) che fa valere la positività di essere dell’Identità.
NEGAZIONE E ALTERITÀ I
Omnis determinatio est negatio, scrive, com’è noto Hegel, citando Spinoza. In tutto l’ambito dell’Essere, in quanto ambito dell’esteriorità, la negazione, in quanto esclusione, collocazione al di fuori dell’altro, è la condizione per l’identità di ogni essere determinato. Il termine della determinazione, il confine, tiene fuori, nega l’Altro da Sé e procura in questo modo al Sé la positività, la consistenza, del suo esistere. È il negativo dominato ancora dal positivo, il Nulla dominato ancora dall’Essere. Per cui l’istanza del consistere e del permanere domina ancora su quella del negare e del trapassare. La piega e la curva a mezzo del suo identificarsi con Sé. «La determinatezza è la negazione posta come affermativa; è la proposizione di Spinoza: Omnis determinatio est negatio» (Hegel 1968, 108). Ma il limite, in quanto non essere dell’Altro, è comunque attestazione e affermazione del non-essere. E il non-essere è potenza escludente in quanto tale, che è volta non solo verso l’esterno di sé ma anche verso l’interno. Così il non-essere pervade l’essere determinato, e lo toglie in quanto essere determinato e finito. La negazione della negazione, o negazione seconda, è la negazione che da escludente si fa includente e, trascinando l’Altro, dal fuori al dentro, altera l’identico e lo conduce all’autosuperamento.
In tale argomentare hegeliano sulla bestimmte Negation appare, a me sembra, evidente l’ipostatizzazione che Hegel compie del limite come non-essere. Il non-essere, astratto da ogni riferimento a ciò che nega, diviene potenza di negazione in quanto tale, che volge la sua virtù di annichilimento dell’Essere in ogni dove. Tale assolutizzazione astratta della negazione, tale ipostasi del negare, trae il suo fondamento dall’ipostasi del Nulla che Hegel ha posto a principio della Scienza della logica e senza la quale l’intero processo dialettico di produzione delle categorie logiche non si metterebbe in luogo. Il Nulla deve, sia pure per un momento, avere realtà e consistere di fronte all’Essere, prima di scomparire in esso, affinché sia possibile il divenire come sintesi del nascere, scomparire del Nulla nell’Essere, e del perire, scomparire dell’Essere nel Nulla. Ma l’aporia originaria e di fondo dell’intero impianto hegeliano consiste, a mio avviso, proprio nel fatto che l’argomentazione di questa immediatezza assolutamente irrelata, di questa consistenza e coincidenza immediata del Nulla con sé, è contraddittoriamente spiegata da Hegel ricorrendo alla mediazione e all’utilizzazione della categoria del «qualcosa», che in tale luogo aurorale della Scienza della logica non avrebbe ancora alcun diritto e legittimità di comparire (cfr. Ilchmann 1992, 11-25).
Del resto la forza gigantesca che Hegel assegna alla negazione, quale funzione paradossale, di unificazione e di sintesi – quale funzione che va al di là del suo significare logico-verbale e assume potenza ontologica – ha, a mio avviso, una origine extralogica e nasce dalle esigenze etico-politiche, oltre che teoretiche, della Vereinigungsphilosophie (filosofia dell’unificazione), che il giovane Hegel ha elaborato insieme al suo sodale Hölderlin nel periodo di Francoforte[2].
Le scissioni e le patologie della modernità, le promesse non mantenute della Rivoluzione francese, hanno costituito l’origine pratica, e non speculativa, del filosofare hegeliano, com’è testimoniato ancora nella pagina del 1801 che apre la Differenzschrift. Ma mentre Hölderlin s’è limitato, per così dire, a mettere in scena, in forma letteraria, il dramma dell’impossibilità di trovare nel proprio tempo le condizioni e le soggettività per sanare quelle scissioni, Hegel ha invece perseguito un altro percorso che proprio nell’intensificazione della valenza, oltre che logico-verbale, ontologica della negazione ha voluto trovare il suo principio risolutore. Infatti il compito fondamentale che Hegel assegna alla filosofia non è tanto la nostalgia e la celebrazione di un fondamento unitario, da cui deriverebbe la scissione per poi ricomporsi ad unità, quanto invece la riflessione sulla potenza di unificazione che gli opposti, di per sé, sono in grado e capaci di mettere in campo[1]. Pensare il darsi dell’Uno a muovere dall’intrinseco movimento del Due, pensare la struttura e la dinamica intrinseca all’opporsi, nella varietà delle sue possibili configurazioni, è il compito specifico e peculiare che Hegel assegna alla filosofia dialettica. Di questa funzione unificatrice attraverso l’opposizione, la negazione, vera e propria metacategoria della filosofia hegeliana, è il vettore fondamentale. Cosicché, se di aporie dell’idealismo hegeliano si ha da trattare, non è tanto questione di cominciamento quanto invece della natura della negazione e delle difficoltà implicite nella sua sedimentazione polisemica e sovradeterminata.
Dottrina dell’Essenza (Wesen)
ONTOLOGIA II
Il libro dell’Essenza descrive una realtà la cui superficie, nell’impossibilità di coincidere con se stessa, rimanda a un piano più profondo, definibile come Wesen (Essenza). Se la caratteristica dominante del piano dell’Essere è l’esteriorità, cioè, per così dire, la sua dimensione orizzontale, la caratteristica dominante quello dell’Essenza è l’internamento (Erinnerung), la profondità, ossia la dimensione verticale. Tutte le configurazioni che s’incontrano infatti nel mondo dell’Essenza non pretendono più di esistere di per sé, come accadeva con le configurazioni dell’Essere, ma sono solo parvenze che nel loro apparire rimandano al sostrato e all’attività originaria che li produce. Sono non più esistenze ma solo parvenze che vengono appunto prodotte, poste, da ciò che è essenziale.
Dire che la superficie della realtà è uno Schein (parvenza) e non una Erscheinung (fenomeno) significa dire che l’apparire è un apparire oggettivo, generato e prodotto dalla realtà essenziale, e non un fenomeno kantianamente inteso, in cui prevale la funzione strutturante e significante della soggettività. Ma proprio per questa distinzione fondamentale tra il fenomeno kantiano e la parvenza hegeliana, va aggiunto che la parvenza del mondo dell’essenza in tanto ha una sua apparente e momentanea consistenza, una sua oggettività, per Hegel, in quanto non è una mera emanazione dell’essenza ma è l’apparire capovolto della medesima. La parvenza è l’essenza che si riflette in se stessa ed appare all’esterno di sé come qualcosa di opposto e di rovesciato rispetto al proprio interno.
Le «essenzialità», ossia le determinazioni della riflessione, come identità e differenza, positivo e negativo, forma e materia, il fondamento, la cosa e le sue proprietà, l’esterno e l’interno, definiscono quindi un realtà costruita di rapporti in cui ciascun polo rimanda necessariamente all’altro. Ciascun polo può essere e darsi senza contemporaneamente chiamare in gioco l’opposto di sé, senza apparire e riflettersi nell’altro da sé. Ma in un altro che ormai non è più l’altro in quanto tale, l’altro in generale della sfera dell’Essere, quanto invece il suo più proprio, il suo più specifico altro. E in cui il primo si riflette rovesciandosi e così nascondendosi a sé medesimo.
LOGICA/EPISTEMOLOGIA II
Sul piano logico-conoscitivo l’essenza rimanda a un pensiero che pretende di cogliere, oltre la rappresentazione e il rappresentabile, una pura relazione di opposizione. Una relazione cioè in cui i termini della relazione non abbiano alcuna altra consistenza e caratteristica di esistenza fuori della relazione medesima. Per il dominio della negazione sull’Essere che connota strutturalmente la sfera dell’Essenza, nella relazione d’essenza i poli della relazione, infatti, non possono avere alcuna consistenza d’essere. Possono bensì essere connotati di una consistenza solo logica, tutta conchiusa ed esaurita nella negazione del polo opposto. Devono essere solo polarità tutte istituite sulla sola negazione. Polarità in sé solo negative, la cui identità si definisce solo attraverso la negazione/esclusione dell’altro.
Solo qui l’opposizione è assoluta, perché ciascun polo è completamente attraversato e risolto nel negare l’altro di sé e solo qui l’altro si mostra come il suo proprio altro, senza residuo di alterità fuori della relazione, perché appunto la sua alterità s’iscrive tutta nell’opposizione al polo che la nega. Ma tale pura relazione di opposizione – che designa forse il luogo più elevato ed estremo della dialettica in Hegel – vive, a mio avviso, di una concepibilità solo logico-teoretica, affidata alla reciprocità ed alla assolutizzazione della funzione logica del negare. E come tale si mostra infeconda di applicazione e di valenza conoscitiva appena la si voglia applicare, nella assolutezza della sua relazionalità oppositiva, alla concretezza di relazioni reali. Ma l’aporia del suo formalismo e della sua concepibilità solo logica, a motivo dell’assolutizzazione del negare, rimanda all’aporia originaria che, a mio avviso, sta a principio della Scienza della logica: l’assolutizzazione e l’ipostasi del «Nulla».
Il Nulla, com’è noto, è indispensabile sia sul piano ontologico che su quello logico perché si metta in moto l’intero processo categoriale, il quale senza l’opposizione, la scissura iniziale di Essere e Nulla, non avrebbe motivo di iniziare. Ma perché ciò accada è necessario che il Nulla consista. Abbia, sia pure per un attimo, autonomia d’esistenza di contro all’Essere. Cosa che, invece, Hegel non sembra riuscire a fare, argomentando sul Nulla attraverso il riferimento, come si diceva, a un etwas che, come determinazione logica, ha la funzione e il diritto di entrare in gioco solo successivamente. Ma se non riesce l’operazione di attribuire potenza ontologica al Nulla, anche i suoi derivati più consequenziali, come appunto la negazione infinita dell’Essenza, precipitano nell’aporia, riuscendo a illuminare solo metaforicamente, e non più secondo il rigore dell’argomentazione teoretica, la scena di un’Essenza la cui funzione è solo quella dell’apparire e del riflettersi nella parvenza evanescente del suo più specifico e proprio Altro.
ANTROPOLOGIA II
Se l’apparire nel proprio altro è la caratteristica generale dell’essenza, l’antropologia che ne deriva è quella di un’identità che si costruisce attraverso la relazione, potremmo dire usando qui categorie psicoanalitiche, a una propria produzione fantasmatica, attraverso cioè la relazione di riconoscimento/disconoscimento tra la propria interiorità e il proprio immaginario. Qui l’identità del sé si costruisce, non su proprie e autonome qualità e positività, quanto invece e unicamente attraverso l’opposizione/negazione dell’altro. Ma con una diversità sostanziale rispetto alla negazione dell’altro già caratterizzante e costitutiva del piano dell’Essere. Giacché ora l’Altro non è più esterno ed indeterminato, bensì del tutto interiore. E, per tale interiorità, è un Altro, o meglio l’Altro, assolutamente proprio del Sé.
Ma essendo l’Altro del tutto interno al Sé, e non godendo di alcuna consistenza autonoma, non può essere che effetto di un gioco di riflessività e di proiezione interiore. L’Altro come l’assolutamente ostile ed opposto – e la cui polarità da negare ed annichilire è intrinseca alla definizione del Sé – non è altro che la proiezione su uno schermo della natura intrinsecamente negativa e distruttiva del Sé (la negazione infinita di Hegel, come negazione che nega infinitamente se stessa e infinitamente si respinge da sé). Infatti l’Altro come riflesso interiore e proprio nasce solo quando l’Essenza dimentica e rimuove la propria natura, ritrovandosela di fronte a sé nello specchio come fissata nella silhouette di un’alterità (visto che l’Essenza ricade a pensare secondo le modalità dell’Essere).
In tal modo il proprio Altro non è altro che il proprio Sé, oggetto di rimozione e proiezione. In un transito tra realtà ed immagine che toglie consistenza ed autonomia ad entrambi e dove la soggettività è dissolta in una intersoggettività interiore e maniacale. Perché ogni volta che la si vuole raggiungere, per superarla e toglierla, essa svanisce nell’inconsistenza di una mera parvenza.
NEGAZIONE E ALTERITÀ II
La negazione dell’essenza non deve portare l’altro, originariamente escluso da sé, nel proprio interno, come accadeva alla negazione nella sfera dell’essere con un’alterità collocata nell’esteriorità. Qui l’altro è già interiore, intrinseco all’essenza, perché all’essenza è consustanziale apparire nel suo altro, nell’inessenziale.
La negazione che opera nell’essenza è infatti non più negazione determinata ma negazione infinita. È negazione che non deve negare alcun altro esterno ma solo sé medesima. «Il determinare e venir determinato non è un passare, né una mutazione esteriore, né un presentarsi delle determinazioni in lei, ma è il suo proprio riferirsi a sé, il quale è la negatività di lei stessa, del suo essere in sé» (Hegel 1968, 428). L’essere è scomparso, perché tutte le sue configurazioni e determinazioni, tutte le sue identificazioni, si sono dimostrate come incapaci di sussistere e permanere. Nel venir meno di ogni sua identità possibile, sia di definizione qualitativa che quantitativa, l’Essere si è dimostrato inconsistente. E tale da rinviare, per l’essersi iscritto in una processualità che toglie ogni sua figura identificabile e differenziabile, ad una istanza indifferente alla differenze, cioè ad un operatore unitario e permanente, che è appunto indifferente a tutte le sue determinazioni particolari.
Tale unità è la negazione che, avendo tolto ogni essere ed ogni alterità, è appunto non determinata o finita, ma infinita: infinitamente volta non verso l’altro ma verso se stessa. In un’attività inesauribile del negare che è superamento e critica di ogni dimensione, presente ancora nel suo agire, del vecchio essere, della dimensione cioè dell’identità. La negazione infinita, in quanto assolutamente curvata e riflessa dentro di sé, è continuo distacco e scarto da sé medesima, in una profondità che si fa abissale, infinita. Pronta a negare qualsiasi identità e permanenza, qualsiasi medesimezza, della sua struttura del suo operare, perché tale permanenza significherebbe un ritorno al piano superato dell’Essere.
Ora è appunto proprio la rimozione di sé come negatività pura e infinita, è proprio il suo esser catturato dall’apparenza del suo permanere – cioè dell’essere eguale a sé stesso proprio in quanto ripetizione infinita del differenziarsi e diseguagliarsi da sé – che produce le parvenze del suo apparire in superficie. Le apparenze sono i luoghi di una effimera permanenza in cui la negazione infinita torna a pensarsi come negazione determinata. Ma dove dunque l’altro è solo la proiezione, nella figura di una determinazione di permanenza e identità, del negare, in quanto attività a sé sempre eguale nel porre infinitamente la diseguaglianza. E, come tale, è apparenza inconsistente, da ricondursi costantemente all’essenza che torna a ridurla all’inessenziale.
Dottrina del Concetto (Begriff)
ONTOLOGIA III
La realtà del concetto non è più né quella della superficie senza profondità né quella della profondità che annulla ogni superficie. Essa è l’insieme della superficie e della profondità, della molteplicità e dell’unità. È la realtà di una totalità, una ed unica, interamente libera e tutta presente a sé attraverso il dispiegarsi di tutti i suoi momenti: ciascuno dei quali ha il diritto di affermarsi ed esprimersi, senza arrecare impedimento o nocumento alcuno alla medesima libertà degli altri. Perché appunto quella totalità può vivere, come intero, solo della realizzazione di tutti i suoi momenti. Senza che alcuno di essi abbia a subire diminuzione o subordinazione alcuna di vita e dove quindi ciascuno, nella sua particolarità, sia contemporaneamente e immediatamente espressivo dell’interesse universale dell’Intero.
LOGICA/EPISTEMOLOGIA III
Il piano conoscitivo della Dottrina del Concetto è quello che nella visione hegeliana attinge il massimo di verità e di scienza e che si realizza nel circolo del presupposto-posto. Com’è ben noto, per Hegel dire conoscenza in quanto scienza significa porre in atto un sistema circolare:
Bisogna riconoscere che questa è una considerazione essenziale […] – la considerazione cioè che l’andare innanzi è un tornare addietro al fondamento, all’originario ed al vero, dal quale quello con cui si era incominciato, dipende, ed è infatti prodotto […]. L’essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un puro immediato, quanto che l’intiera scienza è in se stessa una circolazione, in cui il Primo diventa anche l’Ultimo, e l’Ultimo anche il Primo. (Hegel 1968, 56-57)
Dire «scienza», Wissenschaft, per Hegel significa eliminare ogni traccia di Meinung, di «opinione soggettiva», dal cammino del «conoscere», dall’erkennen. Per tale esigenza il cominciamento del conoscere non può essere altro che fenomenologico: ma fenomenologico, appunto, in senso universale. Ossia muovere da quello che è il dato più universale e a portata di mano del nostro esperire, più immediato e semplice, ma tale che appunto, nella sua immediata ed universale esperibilità, sia indiscutibile e privo di Meinung, ovvero di assunzioni e prospettive soggettive. Ed abbandonarsi, calarsi, nello sviluppo oggettivo delle ulteriori configurazioni e determinazioni che scaturiscono dialetticamente dalla condizione strutturale di quell’immediato iniziale di non poter coincidere e permanere con sé ma di essere obbligato a rovesciarsi nell’altro da sé. Fino a raggiungere, attraverso tutta la serie necessaria e inevadibile di quei passaggi – attraverso tutta la serie delle mediazioni – una configurazione finale che ritorni alla certezza immediata e indiscutibile dell’inizio, ma questa volta salda e vera in sé medesima, perché non sottoponibile più ad alterazione alcuna. Nel linguaggio della Scienza della logica l’«Idea assoluta», la meta conclusiva dell’intero percorso, si piega e ritorna sull’Essere, perché dell’Essere torna a possedere, ma con una certezza fenomenologica che s’è trasformata in una verità ontologica e logica, il valore dell’Identità, cioè della permanenza con sé medesimo che resiste ad ogni alterazione/negazione.
Tutto ciò significa per Hegel che si dà scienza solo quando il presupposto iniziale (das Vorausgesetzte), da cui è partito l’intero processo conoscitivo, si mostra essere prodotto e posto (gesetzt) dal processo sistemico dell’intera realtà. O meglio quando si mostra essere la realtà più solida e inconcussa dell’esperienza, dato che alla fine del percorso di tutte le figure insufficienti del conoscere, si dimostra come capace di una permanenza e una corporeità con sé, che non la obbliga a trascendersi in altro. E il circolo del presupposto-posto si conferma appunto come l’unico e vero metodo della scienza di contro a qualsiasi procedere meramente analitico o ipotetico-deduttivo.
ANTROPOLOGIA III
L’antropologia del concetto è quella di un soggetto che è in primo luogo «libertà», perché si è liberato da ogni estrinsecità, da ogni alterità che possa condizionarlo in qualche modo dall’esterno (come accadeva ancora anche con l’Essenza e la sua alterità introvertita e riflessa). Si è liberato dall’alterità perché dall’esterno l’ha accolta e riconosciuta solo nel suo interno, come molteplice articolazione e differenziazione di sé. «L’universale […], anche quando si pone in una determinazione, vi rimane quello che è. È l’anima del concreto, nel quale risiede, non impedito ed eguale a se stesso nella molteplicità e diversità di quello» (Hegel 1968, 682). Il concetto è l’Io in quanto s’è sciolto, assolutizzato dall’alterità esterna, e, come tale, è autocoscienza: coscienza di sé e dell’alterità interiore dei momenti particolari e differenziati che lo costituiscono.
L’universale è quindi la potenza libera. E’ se stesso e invade il suo altro; non però come un che di violento, ma come tale che in quello è quieto e presso se stesso. Come fu chiamato la libera potenza, così potrebbe chiamarsi il libero amore e l’illimitata beatitudine, essendo un rapporto di sé al differente solo come a se stesso; nel differente esso è tornato a se stesso. (Hegel 1968, 683)
Il concetto rimanda a un soggetto che riconosce ed esprime la sua potenza ad essere in ognuna delle sue istanze interiori, senza che una abbia ad estremizzarsi e a dominare sulle altre. Perché in ognuna trova ed esprime se stesso. Rimanda cioè ad un’antropologia in cui la cura e l’amore per il proprio sé, per lo sviluppo e l’esprimersi senza dominio e squilibri della propria molteplicità interiore, affranca dalla passione e dalla dipendenza dall’altro. E libera in tal modo anche ogni altro, perché sottraendolo ad essere specchio e contenitore del primo, lo restituisce, a sua volta, alla libertà e alla realizzazione del più proprio progetto di vita.
Il concetto, come radicale interiorizzazione dell’altro, è dispiegamento e moltiplicazione di un’antropologia della libertà. Della propria, perché concentrazione e individuazione nel proprio progetto di vita, di quella dell’altro, perché restituita anch’essa a sé medesima e alla propria individuazione. Come già Hegel, prima della Scienza della logica, scriveva nella Fenomenologia dello spirito:
Questo togliere in doppio senso questo esser-altro in doppio senso, è altrettanto un ritorno in doppio senso in se stessa; ché, in primo luogo, essa, mediante il togliere, riottiene se stessa, perché diviene ancora eguale a se stessa mediante il togliere del suo esser-altro; ma in secondo luogo, restituisce di nuovo a lei stessa anche l’altro autocoscienza, perché era a se stessa nell’altro; nell’altro toglie questo suo essere, e quindi rende di nuovo libero l’altro. (Hegel 1976, 154)
NEGAZIONE E ALTERITA’ III
La negazione che caratterizza l’ambito conclusivo del concetto è la negazione assoluta, ulteriore e distinta dalla negazione determinata dell’Essere e dalla negazione infinita dell’Essenza. È negazione assoluta, appunto perché finalmente ab-soluta, sciolta da ogni riferimento a un’alterità esterna o riflessa. Come tale, è tutta volta all’interno, ma non più per respingersi ininterrottamente da sé, come accadeva con l’Essenza, ma per negare l’estremizzazione e la rigidità intellettualistica di ogni suo contenuto. La negazione assoluta assolutizza il Sé, facendo in modo che ogni determinazione e istanza del Sé sia accolta e valorizzata nella giusta misura, sia cioè espressione e sviluppo della potenza ad essere del Sé. In modo tale che ogni momento, ogni particolare esprima l’universale e, viceversa, che l’universale del Sé si ritrovi in ogni sua istanza particolare. E in modo tale, perciò, che ciascun momento, essendo positivo, si lega con gli altri, tutti parimenti positivi, non attraverso negazione escludente, quanto invece attraverso negazione integrante. Cioè attraverso una negazione che impedisce le estremizzazioni e le unilateralità interiori e che, in tal modo, dà al Concetto/Soggetto la realizzazione della piena coincidenza e padronanza di sé. La negazione assoluta del Concetto, in quanto superamento di ogni contraddizione e opposizione, torna ad essere la negazione del Sofista platonico, quale sinonimo di differenza o distinzione, per la quale entrambi i poli della relazione sono positivi e coesistenti e nessuno dei due è negazione della realtà dell’altro.
Per tutto ciò se la «negazione determinata» è caratterizzata dallo übergehen im Anderen (transitare fuori di sé nell’altro), e quella «infinita» dal reflektieren o scheinen im Anderen (apparire in altro), la «negazione assoluta» della sfera del Concetto, è caratterizzata dall’entwickeln o fortgehen. Dallo «svilupparsi», cioè, e dall’esser presente del concetto/soggetto in ogni sua manifestazione. Dall’approfondirsi in se stesso proprio attraverso il suo manifestarsi e il suo esteriorizzarsi immediato, come sviluppo continuo di sé, senza interruzioni e scissioni, nell’alterità dei suoi momenti determinati. Dove ogni momento è l’intero, o meglio, dove ogni particolare è la singolarizzazione dell’universale.
Parte seconda
La libertà del «lasciar essere»
Secondo quanto abbiamo svolto nella prima parte del nostro discorso, che la Logica nell’idealismo di Hegel sia immediatamente un’Etica, che il piano del conoscere sia immediatamente il piano dell’agire, conferma quanto la critica di Feuerbach ad Hegel come pensatore cristiano e neoplatonico non sia per nulla pertinente alla vera natura della filosofia del maestro berlinese e, nel seguito dell’interpretazione di Feuerbach, quanto la critica del Marx della Kritik del 1843 e il marxismo di buona parte della scuola dellavolpiano-collettiana in Italia, abbia proposto una raffigurazione assai misera ed incongrua della filosofia hegeliana. Ma ad illustrare ulteriormente il rapporto tra negazione ed alterità in Hegel converrà richiamarci ad una pagina poco frequentata della Fenomenologia dello Spirito, perché in modo assai schematico ma quanto mai icastico ed espressivo ci riassume parte del percorso che abbiamo compiuto in sede di Wissenschaft der Logik e ci apre, contemporaneamente, ad una possibile coniugazione di ciò che significhi amicizia nella prospettiva di un’etica dell’emancipazione mediata da un’antropologia psicoanalitica.
La pagina in questione che ha come tema la dialettica del riconoscimento non è da cercare nei passi sulla dialettica di signore e servo, troppo celebrati e troppo sovradeterminati dall’operazione teoretica di radicalizzazione del conflitto che A. Kojève ha voluto compiere su di essi. Bensì è da ritrovare nel breve testo che in quello stesso capitolo precede la dialettica di signore e servo propriamente detta e in cui Hegel articola e definisce quel «puro concetto del riconoscere (reiner Begriff des Anerkennens)» che rappresenta la teorizzazione più elevata, a mio avviso, che egli riesce ad assegnare, in tutta la sua opera, al riconoscimento come principio della filosofia pratica: tanto da valere come criterio normativo e valutativo di tutte le forme manchevoli e deficitarie di riconoscimento che caratterizzano le numerosissime costellazioni storiche e culturali protagoniste del seguito della Fenomenologia dello Spirito, a muovere dalla stessa dialettica di signore e servo.
In quella breve pagina Hegel descrive il formarsi dell’autocoscienza all’interno dell’orizzonte del riconoscimento in tre fasi.
Nella prima fase un’autocoscienza attraverso l’incontro con un’altra autocoscienza fa esperienza del fuori di sé (ausser sich):
Per l’autocoscienza c’è un’altra autocoscienza; essa è andata fuori di sé. Ciò ha un doppio significato: in primo luogo l’autocoscienza ha perduto se stessa perché ritrova se stessa come una altra entità (ein anderes Wesen); in secondo luogo essa così ha tolto l’altro, perché non vede anche l’altro come entità (Wesen), ma vede se stessa nell’altro (sich selbst im Anderen). (Hegel 1976, 153)
Una soggettività, dapprima conchiusa in sé e perciò povera ed astratta di relazioni, quando nel suo orizzonte si accende l’altro, questi non è mai percepito come tale, cioè come esistenza autonoma e non riducibile alla prima. Perché la soggettività iniziale, sedotta, condotta fuori di sé, nell’altro vede e personifica solo il luogo della propria alienazione e fascinazione, oppure nell’altro rispecchia e vede solo se stessa. Cadendo o nella sopravalutazione dell’altro o nella sua sottovalutazione. In entrambi i casi collocando nell’altro solo le proprie movenze e praticando dunque i due lati di una medesima proiezione che in entrambi i casi fa dell’altro appunto solo il ricettacolo del proprio sé.
Pure, malgrado la sua inesistenza come vita autonoma, l’altro, l’alterità, sono divenute ormai componenti di senso indispensabili per l’identità della prima soggettività. Per cui, quest’ultima, costruita ormai sulla relazione e sull’implementazione di senso che l’altro dà alla propria vita, non può non essere tentata di ritornare alla sua condizione originaria, prima della relazione, di pretesa autosufficienza monadica e monastica. La tentazione di ritornare alla condizione di astrazione onnipotente è costante, è consustanziale a una dinamica di relazione. Così, secondo l’argomentazione hegeliana, nella fase che segue alla prima, l’autocoscienza in questione prova e tenta di negare ed eliminare la stessa presenza dell’altro, distanziandosi ed irrigidendosi di contro ad esso. Ma, tentando di riaffermarsi come entità indipendente e non bisognevole di relazione, in effetti non ritrova più se stessa, perché l’altro è ormai consustanziale al suo sé, l’altro è ormai se stessa:
Essa deve togliere questo suo esser-altro (sein Anderssein). E’ il togliere del primo doppio significato ed è perciò esso stesso un duplice togliere. Essa deve procedere infatti a togliere l’altra esistenza indipendente, per divenire certa di se stessa come l’essenza; ma con ciò procede in secondo luogo a togliere sé medesima, perché questo altro è lei stessa». (Hegel 1976, 154)
Dunque, attraverso la supposta negazione e il supposto toglimento dell’altro, l’autocoscienza non riesce a tornare autenticamente in se stessa, perché con la rimozione della relazione rimuove ormai anche se stessa.
È solo nel terzo movimento, descritto da Hegel, che l’autocoscienza ritorna veramente in se stessa, appropriandosi effettivamente di sé. Ma questo può accadere solo quando il togliere la dipendenza dall’altro, il liberarsi dall’altro, è nello stesso tempo la liberazione dell’altro, il lasciar essere libero l’altro. Solo quando cioè la libertà propria è, ipso tempore, la libertà dell’altro:
Questo togliere duplice del suo duplice esser-altro è parimenti un ritorno in doppio senso in se stessa; perché, in primo luogo, essa, mediante il togliere, si riappropria di sé, in quanto diviene di nuovo eguale a se medesima mediante il toglimento del suo esser-altro; ma, in secondo luogo, restituisce di nuovo a lei stessa l’altra autocoscienza, perché essa era se stessa nell’altro; essa toglie questo suo essere nell’alterità, e lascia dunque di nuovo libero l’altro (entläßt also das Andere wieder frei). (Hegel 1976, 154)
Solo a questo punto prende corpo di realtà il puro concetto del riconoscere, perché l’altro non è più solo un oggetto del desiderio ma un soggetto autonomo, la cui indipendenza dà valore e pregnanza ad ogni modalità ulteriore della relazione.
Ma a ben vedere di questo susseguirsi di movimenti che conducono al puro riconoscere nella pagina hegeliana non c’è reale spiegazione, o meglio c’è solo una stentata spiegazione affidata al gioco, più verbale che non sostanziale, dell’aufheben, per cui il movimento dogmatico e reattivo di togliere e negare l’altro esterno, la seconda autocoscienza, diventa il movimento di togliere e negare l’altro interno (della prima autocoscienza). In una assolutizzazione e ipostatizzazione del negare – che da negazione dell’esteriore si fa, senza mediazione, negazione dell’interiore – in cui torna a rivelarsi il luogo più aporetico, a mio avviso della filosofia hegeliana, e dove, conseguentemente, si consuma il vero impasse della dialettica.
Abbiamo bisogno dunque di una prospettiva ulteriore, che per noi è quella propriamente psicoanalitica, per integrare ed esplicitare il profondo valore del testo hegeliano, traducendolo in un vero manifesto per un nuovo concetto di relazione e di amicizia tra gli esseri umani (quale appunto voleva essere l’intento del vero concetto del riconoscere).
La psicoanalisi rilegge quella pagina hegeliana dicendo infatti che solo quando una soggettività, una singolarità, riconosce l’altro nell’autonomia del suo progetto di vita, quando rispetta l’altro nel valore del suo esser-per-sé, può finalmente giungere a riconoscere se stessa. Solo quando l’autocoscienza in questione cessa di considerare l’altro come l’estraneità di un campo da cui difendersi o, rispettivamente, da invadere e manipolare, riducendolo ad ogni modo a sé, può avere accesso ed impossessarsi finalmente del suo più proprio ed irriducibile sé, in quanto appunto non gravato da un legame simbiotico con l’altro da sé.
È cioè soltanto la rottura dell’approccio e dell’atteggiamento fusionale, in cui l’altro è semplicemente una continuazione, una estensione, una proiezione, senza distanza e autonomia alcuna, del mio sé a consentire, il vero riconoscere: un riconoscere che consiste nel doppio senso (Doppelsinn) di lasciare liberi se stessi solo e perché, contemporaneamente, si lascia libero l’altro di essere e vivere secondo la sua più propria misura. In altri termini si può dire che una individualità nasce solo quando abbandona una condizione trascendentale preedipica, in cui l’altro è solo una proiezione/integrazione del proprio sé ed esiste e compare solo per il soddisfacimento della propria bisognosità. E dove appunto l’altro è per definizione oggetto, campo di uso e di manipolazione, a che l’esposizione interna alla propria imperiosa interiorità sia risolta.
Vale che a dire che il soggetto, dopo la nascita fisica, nasce realmente a sé medesimo solo quando attraversa e vive invece la costellazione edipica che, per mezzo dell’intervento del terzo, rompe la relazione fusionale a due e, nel contesto di una relazione triadica, obbliga l’individuo a maturare progressivamente una cura e una responsabilità personale della propria bisognosità. Ma tutto ciò significa, evidentemente, complicare e trasformare profondamente il discorso hegeliano sull’alterità. Giacché ciò che va messo a tema è una dimensione interna dell’alterità (il corpo emozionale di ciascuno) che è d’altra natura, eterogenea, rispetto all’alterità collocata su una dimensione esterna. E che proprio qui, in tale dislocazione e raddoppiamento del concetto di alterità, sottratto alla ipostatizzazione e reificazione linguistica che ne compie Hegel, si gioca il progresso di un’antropologia del futuro.
Il riconoscimento va inteso in tal senso come compimento di un processo alla fine del quale dovrebbe nascere la capacità di un soggetto di riconoscere la propria bisognosità e di farsene curatore responsabile, senza delegarne il soddisfacimento ad altri. Un riconoscimento cioè che dovrebbe portare alla fin fine al disconoscimento di madri e padri, giacché ciascuno dovrebbe essere padre a se stesso, accogliendo come fondo ontologico della propria legge di vita, prima che obblighi e norme esterne, la norma interiore del proprio sentire che lo allontana da estremizzazioni e passioni unilaterali e lo consegna all’armonia e alla forza del proprio conatus. A proposito del quale bisognerebbe aprire, ovviamente, il discorso sul conatus spinoziano e sulla possibilità di interpretarlo come un principio di conservazione del corpo d’ognuno basato su una proporzione equilibrata, e per ciascun individuo diversa, tra le molteplici componenti della sua costituzione. Ma non è questo il luogo.
In conclusione ci sembra di poter dire che una visione dell’amicizia, basata sul puro concetto del riconoscere di Hegel, riletto psicoanaliticamente, possa fortemente contribuire a delineare, non solo relazioni personali, ma anche un’etica socio-politica del futuro. Nella misura in cui mette in gioco una definizione di libertà che supera quella classicamente liberale, che afferma che la mia libertà termina dove comincia quella dell’altro, e introduce a un’ipotesi assai più complessa di legalità che tenta di dire che la mia libertà comincia solo dove comincia quella dell’altro.
Ma, si badi bene, secondo un principio da svolgere certamente non nel verso di una pur possibile interpretazione cristiana, vale a dire dell’amore come rinunzia a sé e come dedizione all’altro, né nel verso della morale comunista e della sua esaltazione univoca e fallimentare del valore dell’eguaglianza contro quello dell’individuazione e della differenza. Bensì come tipologia di un agire da porre a base, potremmo aggiungere noi, di una nuova morale del futuro, di un’etica postliberale e postcomunista[4], per la quale l’attrazione e la relazione verso l’altro deve essere accompagnata costantemente da un distanziamento, per la quale cioè vicinanza e distanza siano compresenti, in un riconoscimento reciproco dove i due poli, il Sé e l’Altro da sé, siano capaci entrambi di lasciar essere l’Altro sì accanto a sé ma nel compimento del più proprio e irriducibile progetto di vita e dove quindi, per dirla con le parole penetranti di quel grande clinico e teorico della psicoanalisi che è stato Wilfred Bion, ciascuno può stare e rimanere con l’altro solo se non ha paura di rimanere solo con se stesso. Vale a dire, in conclusione, che non ci può essere riconoscimento dell’altro sull’asse orizzontale della relazione sociale se non c’è, come presupposto, riconoscimento da parte d’ognuno della propria alterità interiore e verticale, ossia se non si dà la libertà di dialogare, al grado minimo possibile di autocensura e rimozione, con il proprio corpo emozionale.
Ma quale, c’è da domandarsi, il possibile farsi reale di tale tipologia e concettualizzazione pura del riconoscere? Da dove cominciare per dare carne e concretezza a tale scenografia estrema ed utopica di esseri umani che si riconoscono reciprocamente come liberi rispetto all’altro e rispetto e se stessi e che si sanno consapevolmente come tali?
Per iniziare a rispondere si deve tornare, in questo mio dialogare tra idealismo tedesco e psicoanalisi, a Fichte, a colui che cioè nell’ambito della filosofia tedesca moderna per primo ha introdotto, in modo esplicito e concettualmente argomentato, la tematica e la pratica del riconoscimento. Com’è noto in Fichte il riconoscimento è connesso all’«esortazione» (Aufforderung). Vale a dire che, affinché l’essere razionale possa divenir consapevole della sua libertà c’è bisogno che un altro lo riconosca come tale esortandolo a non considerarsi come determinato dal mondo esterno ed oggettivo e ad essere invece principio di una libera causalità. Io posso riconoscere me stesso solo se precedentemente sono riconosciuto come tale da un altro, che mi scuota e mi risvegli da una mia condizione di esistenza naturalistica, e chiusa nella mia dipendenza dal mondo oggettivo, per esortarmi all’autodeterminazione razionale. E appunto, nel verso di questo ritorno alla prima formulazione moderna del tema del riconoscimento come principio di una filosofia pratica, meriterebbe domandarsi come poter tradurre e attualizzare ciò che è implicito nella riflessione di Fichte e cioè che condizione trascendentale del riconoscere l’altro, come del riconoscere me stesso, sia l’essere riconosciuto.
Io credo, per tutto quello detto fin qui, che si possa provare a rispondere a tale domanda a mezzo di una materializzazione, o meglio a mezzo di una incarnazione dell’intero paradigma del riconoscimento, che vengano posti in essere attraverso la messa in scena della corporeità in tutta la sua polisemia fisico-psichica, organico-pulsionale, e che valgano a sottrarre anche il riconoscimento attraverso conflitto a tutte le ipoteche di riconoscimento solo giuridico-formale, come ancora troppe volte risuona il discorso di A. Honneth. Con l’opera di questo autore infatti nel passaggio da un riconoscimento attraverso dialogo a un riconoscimento attraverso conflitto, la riflessione ha provato a includere nella tematica orizzontale del riconoscimento discorsivo la verticalità dei sentimenti di stima e disistima, di accoglimento o di rifiuto del proprio sé. Ma senza giungere ad allargare le modalità e le istituzioni del riconoscimento democratico fino all’inclusione del biologico e del pulsionale, come all’inizio aveva fatto sperare la tematizzazione honnethiana: la quale, anche nel riferimento all’interazionismo simbolico di G. H. Mead, più che non alla metapsicologia freudiana, sembra privilegiare anch’essa, alla fin fine, un modello di socializzazione giocato più sul riconoscimento orizzontale dell’altro che non sul riconoscersi idiosincratico del sé.
Mentre, a mio avviso, per radicalizzare verso un’etica materialistica il paradigma del riconoscimento e farne il principio di senso di una nuova filosofia politica e sociale, è necessario integrare, come dicevo, la filosofia con la psicoanalisi, e specificamente la psicoanalisi d’ispirazione kleiniana-bioniana, perché solo di lì possiamo attingere, a mio avviso, una antropologia dell’intersoggettività, inconcepibile senza l’intreccio, fin dall’inizio, con un’antropologia della infrasoggettività. Perché solo con la psicoanalisi – con la psicoanalisi d’orientamento freudiano-bioniano, lontana dai funambolismi del lacanismo – possiamo intendere come l’essere contenuti da un altro contenitore, l’essere cioè la mia mente d’emozione e di coscienza pensata da un’altra mente, sia la condizione trascendentale a che si costituisca una soggettività capace di riconoscere e d’agire la propria vita pulsionale, il proprio progetto di vita, e capace perciò di lasciar essere l’altro, senza necessità di manipolarlo e farne uso. Altrimenti, senza quell’iniziale e fondativo riconoscimento, si dà luogo a un apparato per pensare distorto e patologico, che usa e manipola i pensieri solo in senso difensivo o proiettivo, destinandosi a una pratica conoscitiva che frequenta solo superfici ed esteriorità ed è priva di ogni attitudine all’interiorità.
Il paradigma del riconoscimento, per potersi mantenere all’altezza di un’etica della trasformazione, deve incarnarsi e materializzarsi attraverso un congiungimento dell’asse intersoggettivo dell’essere umano con l’approfondimento e la circolarità del discorso sull’asse infrasoggettivo. Ed è proprio su questo snodo – di come connettere istituti e pratiche sociali con il riconoscimento delle autenticità di ognuno – che a mio avviso la filosofia sociale e politica del futuro avrà il compito di riflettere.
Anche qui, credo, utilizzando e mediando indicazioni preziose della tradizione dell’idealismo tedesco con acquisizioni teoriche e antropologiche della tradizione psicoanalitica. Giacché è di nuovo Hegel che ci ha insegnato quanto e come uno dei problemi fondamentali della modernità consista nell’impossibilità che il singolo individuo della società civile, conchiuso nella dimensione privata del proprio interesse economico, possa sapere ed essere competente dell’universale e dell’interesse generale. Perché il privato dell’economico è per principio ontologico estraneo al pubblico della dimensione statuale. Tant’è che Hegel rifiuta l’istituzione della rappresentanza per elezione e ripropone, aporeticamente, nella sua delineazione dello Stato moderno, la mediazione, arcaica e impossibile, della vecchia struttura sociale premoderna degli Stände e delle Korporationen.
Ma appunto, muovendo da questa necessità di mediazione tra individuale e universale, si può pensare ad un contesto di gruppo, di amicalità allargata che lavora in qualsiasi campo per un prodotto comune e che possa valere, senza mediazioni mercantili di denaro al proprio interno, come orizzonte fondamentale e di base di un processo di individuazione che si svolga attraverso la relazione e l’alterità. Come luogo, cioè, di una socializzazione volta a procurare un’identità collettiva che, nel suo fine comune, si distingua e si autonomizzi rispetto ad altre identità – che cioè abbia la forza e la dignità di un riconoscersi e di un differenziarsi rispetto alle altre collettività – ma che, nello stesso tempo, sia realizzata attraverso un riconoscimento interno dei tempi e delle specificità di vita do ognuno. E questo perché lo spirito di gruppo, fecondato dalle pratiche di reciproco riconoscimento, assume come propria norma costituzionale la proporzione interiore tra le proprie differenze, anziché il comando della legge universale dello Stato o della lex mercatoria, nella loro distanza sempre e necessariamente astratte e impersonali.
Lo spirito di gruppo, che non è limitato al rapporto a due della passione amorosa ma che può valere a contenere e a mitigare nella cornice dell’amicizia e di un fine comune le valenze distruttive, sempre presenti ed operose dell’invidia e della competizione (come insegna la lezione freudiana a partire dalla pulsione di morte), può così, forse, costituire una qualche fragile, ma pure significativa, indicazione per fuoriuscire dalle estenuazioni, ormai logore e non più praticabili, della tradizione del liberalismo da un lato e del comunismo dall’altro, e proporre una tipologia del riconoscimento il cui contenuto essenziale sia, nell’adesione distante all’alterità, l’educazione al riconoscimento e all’impossessamento di sé. Uscire cioè da forme ormai estenuate di socializzazione in cui una soggettività astratta non riesce a vedere né l’altro né sé medesima e volgersi verso rinnovate forme di philia, in cui la valenza simbiotica e proiettiva dell’amore si converta nell’amicizia verso l’altro in quanto amicizia vero se stessi.
Bibliografia:
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Note al testo:
[1] Sui limiti delle interpretazioni feuerbachiana e dellavolpiana di Hegel mi permetto di rinviare a Finelli-Trincia (1982 e 1983) e Finelli (1987 e 2006).
[2] Anche qui mi permetto di rinviare a Finelli (2009 [1996]).
[3] Cfr. in tal senso Henrich (1975, 9-40), saggio sempre valido.
[4] Mi permetto di rinviare a Finelli (2005, 219-345 e 2013, 39-50).