Oscar Oddi
Recensione de “Il Marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere” di D. Losurdo (Laterza, Bari-Roma 2017).
Tra i molti aspetti che caratterizzano lo scacco storico in cui si trova oggi il pensiero e la prassi di emancipazione degli oppressi, a cominciare da quello di ispirazione marxista, spicca, come sua manifestazione da un lato, e causa dall’altro, l’abbandono di ogni analisi e riflessione, e dunque delle sedi ad esse preposte, sui fondamenti del corpus teorico-strategico che ha sostenuto il processo di liberazione di milioni di uomini e donne nel corso almeno degli ultimi due secoli.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla parabola de “Il Manifesto”, che ancora si fregia del sottotitolo di “quotidiano comunista”, ormai più per ragioni di marketing che altro, per decenni vivace punto di riferimento, pur nella diversità, a volte, radicale, delle posizioni, della riflessione sul marxismo e il comunismo, oggi ridotto a inseguire e propugnare qualsivoglia lista elettorale “unitaria” e di “sinistra di governo”, anche quelle dall’ispirazione sempre più pallidamente liberal-democratiche, supportato, non a caso, dalle pagine culturali, gestite in modo personalistico, che esprimono una sorta di post-operaismo minore in salsa pop, perfettamente congeniale allo stato di cose presenti.
Deve quindi essere accolto con favore ogni, ormai raro, tentativo di tornare a ragionare sui fini ultimi, come prova a fare l’ultima fatica di Domenico Losurdo, Il Marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (Laterza, Bari-Roma, 2017).
La tesi esposta nel saggio è netta e chiara: il marxismo occidentale, che Perry Anderson nel saggio tradotto nel 1977 da Laterza (Il dibattito nel marxismo occidentale) invitava finalmente a dichiarare la propria indipendenza ed estraneità rispetto al marxismo caricaturale vigente nei paesi socialisti, collocati ad Est, ha mancato l’incontro con la rivoluzione anticolonialista mondiale, la vera svolta decisiva del Novecento, e questa è la ragione che spiega il suo tracollo.
Losurdo, quindi, fa propria questa divaricazione tra i due marxismi, invertendone però il senso rispetto all’interpretazione datane da Anderson, e, con l’ausilio di una cospicua documentazione, prova a dar conto lungo tutto il testo della propria posizione.
L’origine della questione è collocata tra l’agosto del 1914 e l’ottobre del 1917, cioè tra l’inizio della prima guerra mondiale e la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre. La prima guerra mondiale rappresenta una cesura storica fondamentale per l’Occidente. L’immane carneficina da essa provocata mostra senza più finzioni l’orrore proprio del sistema capitalistico-imperialista e l’impellente necessità del suo rovesciamento. Gli stessi leader bolscevichi leggono in questo modo lo scontro in atto. La Rivoluzione d’Ottobre viene quindi salutata in Occidente come quel processo in grado di fermare il massacro in corso, espandendo così la sua capacità di attrazione sia sulle masse che sugli intellettuali. Spostando però lo sguardo in Asia, l’emozione suscitata dalla prima guerra mondiale è tutt’altra rispetto all’Europa, e non solo e non tanto per la distanza dal fronte. In questi luoghi, colonie o semicolonie occidentali, il sistema capitalista-colonialista ha ben prima del 1914 mostrato il suo volto violento e repressivo. In questa vastissima parte del mondo non è, dunque, la prima guerra mondiale la cesura storica determinante, ma la Rivoluzione d’Ottobre, perché è grazie a essa che inizia il processo di liberazione dal giogo colonialista. Noterà, al riguardo, Merleau-Ponty a metà degli anni Cinquanta del Novecento come la politica rivoluzionaria scaturita dal 1917 russo era diventata sempre più la politica dei paesi nuovi, che grazie ad essa stavano passando da economie semicoloniali ai modi di produzione più moderni, mentre sembrava svanire la “missione” comunista del proletariato occidentale e del marxismo occidentale, espressione che il filosofo francese ha il merito di introdurre nel lessico.
Questa ricostruzione storica permette a Losurdo, da una parte di criticare la storiografia “classica” come quella di Hobsbawm, che vede il Novecento come “secolo breve” che inizia dal trauma della prima guerra mondiale, accusata di eurocentrismo, dall’altra di fornire un inquadramento storico all’interno del quale collocare la divaricazione tra marxismo occidentale e orientale che comincia a profilarsi all’orizzonte.
Se, infatti, in Europa è il rifiuto della guerra a condurre alla scelta rivoluzionaria, non sorprende che la critica dell’ordine vigente si indirizzi in special modo verso l’apparato statale e militare. Valga per tutti il giovane Bloch, che definisce lo Stato «come tipica essenza coercitiva, pagana e satanica» e che finisce per respingere la stessa idea di nazione. Toni diversi risuonano nel movimento marxista e comunista in via di formazione all’Est sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre. Qui l’edificazione di uno Stato nazionale indipendente per liberarsi dall’oppressione coloniale è la priorità. Se in Occidente lo scontro imperialistico è letto, suggerisce Losurdo, più da un punto di vista morale, propugnando la fine di ogni economia privata e del denaro, del potere in quanto tale, in Oriente il commercio e l’economia del denaro rappresentano la sopravvivenza fisica e la difesa del progetto rivoluzionario (come avviene nelle aree liberate dal partito comunista cinese dalla fine degli anni ’20). E ancora, se in Europa le devastazioni della guerra portano ad una considerazione solo negativa dello sviluppo tecnologico, in Oriente si cerca di studiare criticamente lo sviluppo economico, della scienza e della tecnica, dei paesi avanzati perché solo in questo modo è possibile sviluppare lo Stato nazionale e porre le basi per l’indipendenza e il soddisfacimento dei bisogni della popolazione.
In sostanza, mentre in Europa l’esperienza della prima guerra mondiale ha portato a immaginare il «futuro non capitalistico» come «un Altro assoluto», in Oriente, i paesi meno sviluppati, prima di abbattere il capitalismo, hanno bisogno dello sviluppo delle forze produttive di cui esso è capace, come da Marx affermato nel Manifesto del partito comunista.
Per Losurdo però non sono solo le condizioni storiche e materiali a indurre il processo di divaricazione tra i due marxismi, anche le tradizioni culturali sono da tenere nella giusta considerazione. Infatti, a suo parere, in Occidente spira l’influenza del messianesimo ebraico-cristiano, che, uscito ancor più forte dall’orrore provocato dalla prima guerra mondiale, porta a pensare la trasformazione del mondo come una redenzione dal negativo e dal peccato. Tali visioni messianiche, che affidano alla rivoluzione la missione di eliminare il male radicale, il potere in quanto tale, sono assenti nel marxismo orientale, là dove, osserva Losurdo, la diversità della tradizione culturale ha permesso una «ricezione più «pragmatica» della teoria di Marx».
A questo punto del discorso si pone il problema di come e dove collocare la Russia sovietica, e Losurdo non si esime dall’affrontare la spinosa questione. Molti dirigenti bolscevichi si sono formati nell’esilio in Occidente, e lo stesso Lenin in Stato e Rivoluzione, scritto e pubblicato mentre la prima guerra mondiale infuriava sempre più e alla viglia dell’Ottobre, oscilla tra la tesi dell’estinzione dello Stato e la liquidazione del dominio coloniale così da costruire uno Stato nazionale indipendente. In tal modo comunque, sostiene Losurdo, seppur tra gravosi ripensamenti, Lenin fa propria la centralità della questione coloniale. Tutto il gruppo dirigente bolscevico ha, in modi diversi, recepito tale assunto leniniano, e, subito dopo la presa del potere, si attende che la rivoluzione si espanda in tutta Europa, così da poter realizzare una trasformazione mai vista nella storia. Per qualche tempo, quindi, non sembra affacciarsi in Russia la divaricazione tra i due marxismi. Sarà quando la prospettiva della rivoluzione mondiale verrà sempre più meno che essa comincerà a profilarsi. Più la prospettiva dell’avvento su scala mondiale di una società senza mercato, senza apparato statale e confini nazionali, viene scemando, più diviene vitale il compito di governare la Russia, un paese devastato dalla guerra (compresa quella civile), con l’ulteriore fardello dell’arretratezza storica. Il gruppo dirigente bolscevico deve compiere un rapido apprendistato, stante la situazione interna ed esterna, condotto tra contraddizioni e oscillazioni. Emblematico di questo passaggio è ancora Lenin. Anche lui, nota Losurdo, inizialmente pare nutrire le stesse illusioni degli altri bolscevichi riguardo la rivoluzione proletaria mondiale, ma ben presto questa illusione viene meno e comprende che ora la sfida è «migliorare il nostro apparato statale», che l’impegno va profuso nell’ «edificazione dello Stato», che va aumentata la produttività del lavoro, assumendo criticamente sia il taylorismo che gli ultimi progressi del capitalismo.
L’esempio di Lenin consente a Losurdo di illustrare il percorso che a suo avviso intraprende il gruppo dirigente bolscevico: in esso la distinzione tra marxismo occidentale e orientale è innanzitutto di carattere temporale. Prima del 1917 molti hanno vissuto in Occidente, ma non come i comunisti cinesi, che per un breve periodo si stabilirono in Francia o Germania con l’obiettivo di imparare la tecnica e la scienza da riportare il più rapidamente possibile in patria, ma rimanendovi per lunghi periodi della loro vita e senza nessuna certezza di poter tornare in Russia, isolati negli stessi paesi che li ospitavano e dunque senza poter fare anche la pur minima esperienza di amministrazione. Da un giorno all’altro si dovettero trasformare in uomini di governo. Se prima della presa del potere pensavano la nuova società come la negazione immediata e totale del precedente ordinamento capitalistico, con l’inizio dell’esperienza della gestione del potere emerge come la trasformazione rivoluzionaria non è una creazione dal nulla, rapida e indolore, ma una contradditoria, complicata e tormentata Aufhebung, ovvero un negare che è al tempo stesso un fare propri i punti più alti dell’ordinamento precedente, che è stato negato e rovesciato. Di certo non fu un processo lineare e pacifico, si pensi ad esempio alle forti resistenze che dovette affrontare Lenin nel momento in cui propose la Nep.
Nessuna contraddizione, allora, dovrebbe esistere tra marxismo occidentale e orientale, afferma Losurdo, se si considera che sono due diverse prospettive dello stesso sistema sociale, analizzato, in un caso e nell’altro, a partire dall’analisi elaborata da Lenin (nella formazione del marxismo occidentale si privilegia la sua denuncia della carneficina bellica e della irreggimentazione e mobilitazione totale, in quello orientale la sua critica dell’imperialismo e la pretesa delle presunte nazioni elette di dominare e saccheggiare il resto del mondo). Si tratta di due lotte per il riconoscimento che pone in discussione il capitalismo-imperialismo: in una, quella della prospettiva del marxismo orientale, sono protagoniste le nazioni che si liberano dell’oppressione de-umanizzante del dominio coloniale, nell’altra, quella della prospettiva del marxismo occidentale, sono la classe operaia e le masse popolari le protagoniste nel loro rifiuto di essere carne disponibile per le élites. In realtà le cose presero, già all’inizio, tutt’altro corso.
Mentre infatti la riflessione di Lenin evolveva, seppur a fatica, arrivando con lungimiranza a considerare sempre più importante e permanente la questione coloniale e nazionale, nonostante la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, non altrettanto si può dire per quel che riguarda il movimento comunista in Europa. Lo scontro tra imperialismi del 1914 faceva ritenere vana l’idea di una indipendenza nazionale, che anche se in qualche modo ottenuta sarebbe rimasta alla mercé delle grandi potenze. Il vero problema da affrontare era quindi il superamento su scala mondiale del sistema capitalista e imperialista.
A questo punto la divaricazione è ormai compiuta e il pensiero del marxismo occidentale, nella sua quasi totalità, la sancirà definitivamente. Losurdo passa in rassegna tutti i principali esponenti che, a vario titolo, considera facenti parte del marxismo occidentale, senza fare sconti di nessun genere. Si va dal Colletti che sbeffeggia l’interesse dei marxisti per i paesi del sottosviluppo, i contadini, le plebi rurali, al Tronti che ancora di recente si vanta di non essere mai caduto «nella trappola del terzomondismo, delle campagne che assediano le città, delle lunghe marce contadine, non fummo mai “cinesi”»; da Althusser, il cui antiumanesimo filosofico mina una comprensione complessiva, oltre l’economico, della lotta anticolonialista che pure appoggia, a Bloch, che da giovane critica la Russia sovietica e la sua democrazia economico-sociale difendendo le libertà liberali dell’Occidente ignorando sia il loro affievolirsi nelle nazioni occidentali, sia la loro totale assenza nelle colonie; e ancora Horkheimer, che vede in Russia affermarsi un capitalismo di Stato, negatore della democrazia consiliare e dell’estinzione dello Stato, riflessioni svolte nel 1942 quando l’esercito nazista è alle porte di Mosca e Leningrado, e che anche nel secondo dopoguerra ignora la questione coloniale rifugiandosi nel contrasto tra “Stati civili” (sottintesi quelli occidentali) e “Stati totalitari” mentre contro il Vietnam infuria la guerra coloniale e genocida, e Marcuse, che pure ha il merito di comprendere la centralità della questione coloniale, ma che ad esempio dubita che la vittoria del popolo vietnamita nella guerra di aggressione Usa abbia a che fare qualcosa con il socialismo; e poi Foucault, la cui rimozione del colonialismo impedisce di comprendere adeguatamente il capitalismo, inficiando tutto il suo percorso di ricerca storica-teorica, dalla storia del razzismo fino alla biopolitica; per giungere poi a Negri e Hardt, che in modo esplicito esaltano la rivoluzione americana e la democrazia da essa scaturita, ignorando il suo reale significato (rispetto al rapporto con i popoli coloniali la fondazione degli Stati Uniti appare più una controrivoluzione che una rivoluzione), e a Žižek, che astrae la sorte riservata ai popoli coloniali dalle sue ricostruzioni, sgombrando così il terreno dalle categorie di imperialismo, antimperialismo e Terzo Mondo, distinguendo in questo modo solo tra capitalismo autoritario e non, inserendo nella prima categoria la Cina e i paesi dell’America Latina, considerati paesi a capitalismo populista con propensione autoritaria.
Solo Gramsci e Lukács si elevano al di sopra di tale coro compatto. Il pensatore sardo capisce che per la cultura dominante umanità vuol dire Occidente, il comunismo è allora un umanesimo che combatte l’arroganza e i pregiudizi dei «bianchi superuomini», mentre il filosofo ungherese, che pure non presta attenzione alla questione coloniale né in Storia e coscienza di classe, né in scritti della maturità, nel libro del 1924 dedicato a Lenin descrive e analizza il ruolo rivoluzionario delle «nazioni oppresse e sfruttate dal capitalismo». La loro lotta è parte integrante del processo rivoluzionario mondiale, da cui la dura critica che rivolge a coloro che per inseguire la pura rivoluzione proletaria non considerano la questione coloniale e nazionale, perdendo così di vista il processo rivoluzionario nella sua concretezza.
Dopo aver tratteggiato questo quadro, Losurdo si chiede se e come possa rinascere il marxismo in Occidente. Se i due marxismi sono caratterizzati da due temporalità diverse, il futuro in atto e gli inizi del futuro prossimo (i paesi di orientamento comunista, dovendo fare i conti con i rapporti di forza realmente esistenti, si sono arrestati sulla soglia del futuro postcapitalistico) per quanto riguarda il marxismo orientale, la fase più avanzata del futuro prossimo e il futuro remoto utopico per quanto riguarda il marxismo occidentale (che ha interesse esclusivamente per quel futuro postcapitalistico, non avendo fatto i conti con il proprio messianesimo utopico), quest’ultimo deve imparare a gettare un ponte tra le due diverse temporalità, tra futuro in atto e futuro remoto. Così come a Oriente la prospettiva socialista non può fare a meno della realizzazione completa della rivoluzione anticoloniale, in Occidente essa passa mediante la lotta contro un capitalismo che oggi ha reso estrema la polarizzazione sociale ed è attraversato da crescenti tentazioni militari. Solo superando ogni atteggiamento dottrinario, rendendosi disponibile a rapportarsi con il proprio tempo, iniziando a filosofare e non a profetare, il marxismo occidentale può, per Losurdo, rinascere.
Le questioni sollevate da questo libro sono numerose e di assoluto rilievo, ed è un merito di Losurdo aver proposto all’esangue discussione politica-filosofica che caratterizza i nostri tempi temi di tale portata. Va in primis precisato che la categoria di marxismo occidentale ha una connotazione storica e filosofica ben definita e riconosciuta. Due sono i suoi padri fondatori, Lukács con Storia e coscienza di classe e Korsch con Marxismo e filosofia, ed anzi, si deve proprio a quest’ultimo, nella prefazione dell’edizione del 1930 del suo libro, l’avere inserito tale definizione dentro il pensiero novecentesco, dato che la contrappone a quella di marxismo russo o orientale (si vedano in particolar modo le pp. 22-24 dell’edizione italiana edita da Sugarco, Milano, 1978). Come ha scritto Giorgio Cesarale «mentre il marxismo occidentale rifiuta la teoria della conoscenza come rispecchiamento dell’essente, eleva la totalità, intesa come vivente unità fra coscienza e realtà oggettiva, a principio di ricostruzione dei nessi scientifici esistenti e insiste sulla centralità della prassi del soggetto, il marxismo russo o orientale (la dottrina ufficiale dello Stato sovietico, il “marxismo-leninismo”) promuove la teoria del rispecchiamento e separa il campo della teoria da quello della prassi e il piano della coscienza da quello dell’accadere storico, restaurando, di fatto, la prospettiva teorica fondamentale della Seconda Internazionale» (Filosofia e marxismo tra II e III Internazionale, pp. 213-214, in Storia del Marxismo, Vol. I, Socialdemocrazia, revisionismo, rivoluzione (1848-1945), a cura di Stefano Petrucciani, Carocci, Roma, 2015).
Indipendentemente dai diversi, in qualche modo opposti, percorsi politico-filosofici intrapresi successivamente dal filosofo ungherese e da quello tedesco, i problemi posti non erano affatto astratte teorizzazioni accademiche, ma riguardavano le concrete modalità di interpretazione del reale per meglio trasformarlo. Non è questa la sede per approfondire tali questioni, certo è che il dibattito che ne scaturì, durissimo nei modi, nelle forme e nelle conseguenze, dimostra la sua concretezza. Lo stesso Lenin aveva ben chiaro il nesso teoria-prassi (il suo noto detto “senza teoria rivoluzionaria non vi è movimento rivoluzionario”) e la sua attiva partecipazione alle discussioni e agli scontri filosofici ne è l’ulteriore conferma. Se si fosse potuto approfondire e sviluppare, all’interno del processo rivoluzionario, quei nodi problematici, forse le cose avrebbero potuto prendere una strada diversa, sia in Occidente che in Oriente. Ci sembra ingeneroso, allora, “nascondere” queste tematiche, pur con i loro limiti, all’interno di proposte storiche e filosofiche ad esse estranee, inserendo, all’interno della categoria marxismo occidentale, una serie di autori che a rigore nulla hanno a che fare con esso (se non quello di essere nati in Occidente, ma questo non rappresenta certo una categoria teorica) e con i temi sollevati e sviluppati poi in vari modi nel corso del tempo. L’operaismo e il post-operaismo, lo strutturalismo e il post-strutturalismo, con tutte le loro propaggini che arrivano fino ai nostri giorni, sono correnti che hanno pensato, usato categorie, avuto influenze filosofiche che le collocano in tutt’altro contesto rispetto al marxismo occidentale (e per molti di essi anche rispetto al marxismo tout court), e la stessa Scuola di Francoforte non è certo interamente ascrivibile a quel filone di riflessione. Questo ci permette anche di osservare come la visione utopica-messianica, presente in un certo marxismo in Europa, non era l’unica posizione esistente, e non era una esclusiva Occidentale. Giustamente Losurdo ha ricordato come nello stesso gruppo dirigente bolscevico, formatosi in gran parte nell’esilio europeo, l’idea di palingenesi immediata e totale era fortemente presente, e ciò dimostra come tali visioni fossero il frutto di un “clima” che caratterizzava quegli anni ben al di là dei confini europei. Nemmeno le enormi difficoltà nella pratica di governo dopo la rivoluzione, che pure bruciarono molte illusioni, fecero venire meno del tutto queste idee, a sancire il loro profondo radicamento.
Il richiamo a fare i conti, sobriamente e pragmaticamente, con la realtà, evitando voli pindarici, che è la modalità con la quale Losurdo legge Marx e Lenin, ha certo le sue ragioni, ma va evitato di cadere nel pericolo opposto. Quel che oggi è stato espunto, anche solo a livello ipotetico, è proprio l’idea del cambiamento, della trasformazione. La sconfitta storica subita dalle classi subalterne, ha fatto sì che il sistema capitalistico, nonostante il suo essere ancor più iniquo e violento, sia vissuto come non suscettibile di alcuna, seppur minima, modificazione. Vero è che il marxismo, in tutto l’Occidente, vive ormai in nicchie accademiche, completamente o quasi avulso da ogni sommovimento sociale, dove ancora presenti, e comunque da ogni contesto politico più in generale, ma non si capisce in che modo, data la realtà in cui ci si dibatte, possa essere rivitalizzato dalle peculiari esperienze orientali di orientamento più o meno socialisteggiante (e ci sia consentito nutrire qualche perplessità sull’”eterna” transizione al socialismo della Cina). Il vero problema, allora, è capire perché in Occidente non si è avuta alcuna rivoluzione (qualsiasi sia la “gradualità”, più o meno estesa, che si vuol dare a tale concetto, e le forme che storicamente poteva assumere) e come sia possibile riattivare un percorso storico, con tutte le tappe intermedie necessarie, che possa di nuovo metterla all’ordine del giorno. Ma questa è già un’altra storia.