Fabio Ciracì
(Università del Salento)
fabio.ciraci@unisalento.it
Abstract: Schopenhauer’s metaphysics leads to a double nullity of the world: as a phenomenon, d.i. fleeting appearances, and as noumenon, because the Wille has to be redeemed by Nichtsein. Schopenhauer’s disciples (Hartmann, Bahnsen and Mäinlander) will give the Nichtsein an absolute ontological value, as a principle of redemption or metaphysical essence of reality.
Keywords: Nichtsein; Nichts; Hartmann; Mainländer; Bahnsen.
- Dal Kant verso il nichilismo idealistico
Esiste ormai una nutrita letteratura critica circa la natura teoretica che Schopenhauer attribuirebbe al nulla e non mancano certo saggi e contributi che tendano a considerare il filosofo del Mondo come una sorta di precursore dell’esistenzialismo heideggeriano o sartriano, collocandolo nella più labile cornice della cosiddetta filosofia dell’esistenza[1]. A parte però le interpretazioni attualizzanti a rebours, più o meno giustificabili da un punto di vista ermeneutico, la metafisica schopenhaueriana esige di essere indagata a partire dalle proprie fonti, nel tentativo di essere restituita al suo contesto storico per comprenderne al meglio la sua peculiarità.
L’analisi storico-critica del concetto di nulla all’interno dell’opera schopenhaueriana è resa però difficoltosa dalla polisemia del concetto di nulla in Schopenhauer, che cede spesso ad ambiguità talvolta intenzionali, dotando i termini nulla (Nichts)[2] e non essere (Nichtsein) di un significato estensivo che consente scivolamenti semantici da un piano teorico ad un altro. Una premessa fondamentale è il presupposto idealistico-kantiano della filosofia di Schopenhauer e la sua originale declinazione e trasformazione interna del kantismo. Nella filosofia schopenhaueriana, infatti, convergono, da un lato, l’eredità postkantiana che da Reinhold attraverso Enesidemo Schulze conduce fino a Fichte, e dall’altro lato una certa Sehnsucht romantica, intrisa di platonismo gnostico e cupio dissolvi, cui Schopenhauer appartiene per ragioni storiche e culturali. Come ha mostrato Franco Volpi nel suo fondamentale studio su Il nichilismo:
Nella contrapposizione dell’idealismo al realismo e al dogmatismo, il termine “nichilismo” viene impiegato per caratterizzare l’operazione filosofica mediante la quale l’idealismo intende “annullare” nella riflessione l’oggetto del senso comune al fine di mostrare come esso in verità non sia altro che il prodotto di una invisibile e inconsapevole attività del soggetto. A seconda del punto di vista, favorevole o meno a tale operazione, il termine acquista un senso positivo o negativo. Nichilismo significa allora, nell’eccezione positiva, la distruzione filosofica di ogni presupposto; in quella negativa, invece, la distruzione delle evidenze e delle certezze del senso comune da parte della speculazione idealistica. (Volpi 1996, 13).
Si tratta qui della celebre polemica di Jacobi, che utilizza il termine nichilismo per la prima volta in senso moderno, contro Fichte, che invece mira a superare le secche dello scetticismo di Schulze in favore di un idealismo fondato sul soggetto assoluto (Fichte 1972, 245). Quando nel 1818 Schopenhauer giunge al suo sistema filosofico compiuto con la pubblicazione del primo tomo del Mondo come volontà e rappresentazione ha già fatto i conti con l’idealismo assoluto di Fichte, che ha inteso superare tornando al cosiddetto «principio della rappresentazione» di Reinhold[3] da cui lo stesso Fichte era partito. Tuttavia, il ricorso al principio reinholdiano da parte di Schopenhauer è in vista di un recupero e di una rielaborazione del problema della cosa in sé, che Fichte aveva incluso nell’autotesi dell’Io assoluto ma che Schopenhauer si rifiuta di risolvere all’interno dei fatti della coscienza. In questo senso, se è vero che «il mondo è la mia rappresentazione», come scrive Schopenhauer nel noto incipit del Mondo, e se non si dà «nessun oggetto senza soggetto» (WWVa I, 514) – e quindi non può esistere un soggetto assoluto come vorrebbe Fichte – al contempo è vero che la rappresentazione non esaurisce le possibilità del mondo, poiché esso non è solo ciò che appare, ma ha una essenza metafisica, la quale, almeno nella prima edizione del 1819, per Schopenhauer coincide senza resto con la kantiana cosa in sé: la volontà metafisica universale.
Ora qui si pone il primo vero grande problema della metafisica schopenhaueriana. Stabilito infatti che i fenomeni sono determinati dal tempo, dallo spazio e dalla causa (sotto la forma della quadruplice radice del principio di ragion sufficiente), e che la cosa in sé è opposta al fenomeno – affermazione che Nietzsche contesterà fortemente[4] – allora la volontà universale, in quanto cosa in sé, è di necessità eterna, ubiqua e incausata ovvero irrazionale. In questo senso, il Wille assume le caratteristiche proprie di un’essenza metafisica che si connota come il negativo del mondo conoscibile dei fenomeni, per intuire il quale è necessaria una nuova forma di conoscenza, diversa da quella discorsiva-razionale, un sapere intuitivo che passa non già dalle forme dell’intelletto ma dalla conoscenza del corpo vivo, in grado non solo di conosce l’individuo come oggetto di conoscenza ma di riconoscerlo anche come soggetto del volere. Tuttavia, il Wille non può definirsi né reale né essente, poiché realtà ed essenza sono tutte categorie dell’intelletto alle quali la cosa in sé si sottrae per statuto gnoseologico. Il Wille si configura quindi come un concetto negativo, ma si distingue dalla Ding an sich kantiana intesa come concetto-limite, poiché la volontà universale di Schopenhauer è un’essenza che si afferma, che si obiettivizza nel mondo e quindi, nella sua indeterminatezza e immanenza, rimane pur sempre un qualcosa, non solo un correlato negativo dei fenomeni.
Schopenhauer avrebbe potuto far propria la celebre domanda formulata da Leibniz nei Principes de la Nature et de la Gràce: «Pourquoy il y a plustòt quelque chose que rien?», ma certamente non avrebbe sottoscritto la risposta leibniziana «Car le rien est plus simple et plus facil que quelque chose» (Leibniz, 1875-90: VI, 602), optando invece per la semplicità del Nichtsein (cfr. WWV I: 893-5). Vero è che la coerenza logica avrebbe dovuto portare Schopenhauer a stabilire in maniera univoca un’equivalenza fra volontà metafisica, in senso positivo, e nulla relativo, in relazione ai fenomeni, e invece il filosofo del Mondo oscilla fra prospettive non sempre del tutto conciliabili fra di loro. Vi è cioè una definizione, per così dire, positiva, in base alla quale Schopenhauer attribuisce alla volontà un’attività, una spontaneità che non ha alcun fondamento o causa e che esprime la sua fame di vita manifestandosi, di grado in grado, come forza della natura, istinto e egoismo. Vi è poi una prospettiva negativa, secondo la quale la volontà miracolosamente può mutarsi in noluntas, di modo che all’individuo è data la possibilità di redimersi dall’esistenza, agone dei motivi e della sofferenza umana, di liberarsi dalla schiavitù della determinazione, di redimersi dalla caduta nella vita.
- Schopenhauer e la doppia nullità del mondo
Recenti studi (Novembre 2011; 2016) hanno stabilito con precisione filologica e finezza teoretica che l’utilizzo anfibolico del concetto di volontà trae origine alla cosiddetta “duplicità della coscienza” (doppeltes Bewußtsein) che Schopenhauer, muovendo dallo studio della absolute Besonnenheit fichtiana, elabora prima di giungere al suo sistema filosofico compiuto e, in ogni caso, prima della scoperta della volontà universale. Ciò spiegherebbe la coesistenza di due temi fondamentali della metafisica schopenhaueriana, uno morale e l’altro teoretico, che convergono in un’unica soluzione sistematica nella metafisica della volontà: la questione dell’esistenza del male nel mondo e la discussione del problema kantiano della cosa in sé, che intende risolvere con la scoperta del Wille cieco e universale. Al primo tema si ricollega la possibilità di individuare una «coscienza superiore» (höheres Bewusstsein), distinta dalla coscienza empirica, che nel sistema filosofico del Mondo mette capo alle figure del genio e dell’asceta; al secondo tema, invece, si ricollega l’equivalenza della cosa in sé con la volontà irrazionale che nella metafisica schopenhaueriana diviene ad un tempo principio metafisico per spiegare i fenomeni naturali e origine dell’egoismo individuale in campo etico.
Analizzando con maggiore attenzione il lessico del Mondo come volontà e rappresentazione, è possibile compulsare l’utilizzo che Schopenhauer fa del concetto di nulla, attraverso i sostantivi Nichtsein (più spesso nella forma arcaica Nichtseyn) e Nichts (più raro). Una prima interessante occorrenza si trova al § 59 del IV libro:
Ma per quanto concerne la vita dell’individuo, ogni storia di vita è una storia di sofferenza; ogni vita, infatti, è, di regola, una serie continua di sventure grandi e piccole, che invero ognuno fa il possibile per nascondere, giacché sa che raramente gli altri vi partecipano e ne provano compassione, e anzi quasi sempre ne provano soddisfazione, per il fatto di rappresentarsi i tormenti da cui essi sono al momento risparmiati; – ma forse mai un uomo, se è assennato e insieme sincero, desidererà, alla fine della vita, ricominciarla daccapo; piuttosto che ciò, preferirà scegliere l’assoluto non essere [viellieber gänzliches Nichtsein erwählen]. (WWV: I, 633).
In questo caso, è d’obbligo riportare il passo in lingua originale, poiché i traduttori, forzando il testo tedesco, non hanno potuto rendere diversamente quel gänzliches (completo, totale) Nichtsein da “assoluto” [5]. Tuttavia, Schopenhauer non solo avrebbe potuto utilizzare l’aggettivo absolut, come d’altronde fa in altri casi (per es. absolute Freiheit des Willens, absolute Vernichtung), ma più tardi, nel § 71, nega financo la possibilità di un absolutes Nichts (WWV: I, 790). Ma su questo punto si tornerà più avanti. Più interessante al fine della nostra analisi si rivela il passo del § 61, tratto sempre dal IV libro del Mondo:
A ciò si aggiunge, negli esseri dotati di conoscenza, che l’individuo è portatore del soggetto conoscente e questo è portatore del mondo; cioè che tutta la natura fuori di lui, quindi anche tutti gli altri individui, esistono solo nella sua rappresentazione, egli ne è consapevole sempre e solo come della sua rappresentazione, ossia solamente in modo mediato, e come di una cosa dipendente dalla propria essenza ed esistenza: poiché con la sua coscienza perisce per lui necessariamente anche il mondo, cioè l’essere e il non essere [Nichtsein] di esso divengono per lui equivalenti e indistinguibili. Ogni individuo conoscente è dunque in verità e trova se stesso come tutta la volontà di vivere o “in sé” del mondo stesso, e anche come la condizione integrante del mondo come rappresentazione, e pertanto come un microcosmo, che è da stimare uguale al macrocosmo. (WWV: I, 648-9).
In questo passo Schopenhauer mostra con chiarezza la relatività del concetto di non essere, ovvero la sua correlazione intrinseca al principio di coscienza: qualcosa è o non è solo in relazione alla coscienza, sicché anche il nulla è un concetto relativo e ha natura gnoseologica. Nel capitolo 41 dei Supplementi al IV libro del Mondo Schopenhauer indugia invece sul non essere in relazione al suo significato etico per l’individuo:
Se ciò che ci fa apparire tanto terribile la morte fosse il pensiero del non essere [Nichtseyn], dovremmo pensare con pari raccapriccio al tempo in cui non eravamo ancora. Giacché è incrollabilmente certo che il non essere [Nichtseyn] dopo la morte non può essere diverso da quello prima della nascita, e quindi neanche più lacrimevole. Tutta un’infinità è trascorsa, quando non eravamo ancora, ma ciò non ci turba affatto. Invece, che al momentaneo intermezzo di un’effimera esistenza debba seguire una seconda infinità, in cui non saremo più, lo troviamo duro, anzi insopportabile. Sarebbe allora questa sete di esistenza sorta per avventura dall’averla noi ormai assaporata e trovata magari, così, amabilissima? Come già sopra abbiamo brevemente spiegato: certamente no; tutto al contrario, l’esperienza fatta avrebbe potuto suscitare un’infinita nostalgia per il paradiso perduto del non essere [Sehnsucht nach dem verlorenen Paradiese des Nichtseins]. Alla speranza dell’immortalità dell’anima si attacca anche sempre quella di un “mondo migliore” – segno che il presente non vale molto. (WWV: II, 1872-73).
Anche in questo passo dagli echi fortemente romantici e miltoniani, la Sehnsucht nach Nichtseyn assume una valenza etica: l’infinità del non essere, che precede e segue la vita dei singoli individui, ha il potere di sciogliere le catene con cui la volontà ci avvince alla vita. Al di là di ogni miracolosa compassione o ascetica negazione della volontà, esiste per Schopenhauer una “giustizia eterna” che riconduce ogni esistenza individuale al tutto (o forse dovremmo dire, al nulla) dal quale proviene, com’è insegnato in forma dogmatica e mitologica dalla resurrezione, per i cristiani, e dal karma brahminico per i buddhisti (WWV: II, 1915)[6].
Che però il problema del nulla sia direttamente collegato a quello etico del male è ampiamente provato dallo stesso Schopenhauer, il cui pessimismo metafisico è in qualche modo edulcorato dalla certezza, quasi escatologica, di una redenzione finale per gli individui ne «la pace infinitamente preferibile del beato nulla [die unendlich vorzuziehende Ruhe des saligen Nichts ]» (WWV: II, § 50, Epifilosofia), con la promessa della loro dissoluzione nell’unità primigenia del Wille e con essa del dolore costitutivo dell’esistenza:
Se anche dunque il male fosse al mondo cento volte minore di quel che è, la mera esistenza di esso basterebbe comunque già a fondare una verità che si può esprimere in modo diverso, per quanto sempre e solo alquanto indirettamente, cioè che dell’esistenza del mondo non dobbiamo gioire, ma rattristarci; che il suo non essere [Nichtseyn] sarebbe da preferire alla sua esistenza; che esso è qualcosa che in fondo non dovrebbe essere. (WWV: II, 2074).
Ecco enunciato il postulato fondamentale di ogni pessimismo metafisico: il non essere è preferibile all’essere. Ed è sulla base del bilancio sia metafisico sia eudemonologico («la vita è un affare che non copre le spese»[7]) che Schopenhauer traccia una direzione di senso che l’irrazionalità della volontà metafisica aveva di principio negato: proprio perché la vita è dolore, perché funestata dal desiderio e dalla noia, proprio perché non ha senso, poiché il suo unico scopo è affermare se stessa e perdurare nel tempo attraverso la procreazione, all’uomo non rimane che uscire dalla ruota delle nascite, attraverso quelle che Schopenhauer indica come le vie della redenzione: l’arte, la morale della compassione e la pratica delle virtù ascetiche (digiuno, povertà e castità).
Sembrerebbe quindi che, così come ha affermato l’esistenza di una “doppia coscienza”, Schopenhauer affermi al contempo anche una “doppia nullità” del mondo: dal lato empirico, la nullità fenomenica degli individui, come testimonia la loro caducità e illusorietà nel tempo[8]; dal lato metafisico, invece, con la noluntas, la negazione della volontà che ha luogo come inversione/conversione[9] della volontà di vivere, e quindi tange l’essenza stessa della realtà fenomenica. In questo senso, il mondo ha una “doppia inconsistenza”, è un nulla fenomenico che anela al nulla metafisico.
- La patodicea e il nulla barrato
Certo non a caso, a proposito di Schopenhauer il filosofo contemporaneo Ludger Lütkehaus ha parlato di una forma di ontologia negativa (Lütkehaus 1999, 165-222), riscontrando nella filosofia schopenhaueriana il ricorso a schemi e concetti della tradizione mistica e gnostica, l’utilizzo di una sorta di teofania negativa del Wille, i cui attributi sono ottenuti ex contrario e a cui si giunge solo come concetto relativo, una sorta di Ab- e Urgrund romantico dotato di una propria attività, che però non genera la teodicea dei mistici medievali, piuttosto conduce ad una patodicea [Pathodizee] del male (Lütkehaus 1999, 185): in luogo di un dio provvido e benevolo Schopenhauer pone l’orco cieco e insaziabile del Wille, di modo che il filosofo del Mondo appare quasi un neo-gnostico adoratore di un malevolo demiurgo del mondo (Lütkehaus 1999, 218). Si potrebbe forse aggiungere che, nel tentativo di fondare una filosofia sistematica, Schopenhauer radicalizza la frattura fra metafisica (intesa come dottrina dei principi ultimi e delle essenze) e ontologia (intesa come studio degli enti reali), una cesura che già Kant con la sua “metafisica critica” aveva tracciato ponendo nell’Estetica un limite invalicabile fra noumeno e fenomeno. Schopenhauer scava a fondo proprio nel solco tracciato da Kant, allargando lo iato creatosi fra essenza ed apparenza. Riconosce gli individui (ovvero tutti gli enti che cadono sotto il principium individuationis) da un punto di vista ontologico, in quanto enti fenomenici, ma attribuisce loro un’essenza metafisica, il Wille, che da un lato per Schopenhauer si manifesta nella natura, “si obbiettiva” [objektivirt], dall’altro lato è toto coelo diversa da essa, come scrive a più riprese il filosofo con le parole di Aristotele.
Vi sarebbe pertanto uno scarto fra il mondo come volontà e rappresentazione e la Volontà in sé – che invece lo comprende e lo esubera. Scrive Schopenhauer nell’Epifilosofia «per me il mondo non esaurisce ogni possibilità dell’essere e […] in questa rimane ancora molto spazio per ciò che noi indichiamo solo negativamente come la negazione della volontà di vivere» (WWV: II, 2199). In tale prospettiva, la noluntas aprirebbe le porte ad una dimensione altra, squarcerebbe il velo di Maia su di una regione cui Schopenhauer non sa e non può dare nome, come è scritto nell’ultimo paragrafo del primo tomo del Mondo:
Non evitiamo affatto di trarre la conseguenza che con la libera negazione, con la rinuncia alla volontà siano poi anche soppressi tutti quei fenomeni, quel costante premere e agitarsi senza meta e senza posa, in tutti i gradi di oggettità, in cui e per cui il mondo consiste, soppressa la molteplicità delle forme susseguentisi gradualmente, soppresso con la volontà tutto il suo manifestarsi, e infine anche le forme generali di questo, tempo e spazio, e anche l’ultima forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo. (WWV: I, 795).
Tuttavia, di questa inattingibile alterità, abbiamo contezza solo per via negationis, come «conoscenza negativa, paghi di aver raggiunto l’ultima pietra di confine di quella positiva» (WWV: I, 793). Si tratta cioè di un “nulla relativo”, una sottrazione della nostra coscienza dall’intero del mondo che però ci sfugge e a cui diamo il nome di volontà metafisica:
Noi dichiariamo anzi liberamente: ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è invero, per tutti coloro che sono ancora pieni di volontà, il nulla. Ma anche, viceversa, per coloro in cui la volontà si è rovesciata e negata, questo nostro mondo tanto reale con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – nulla. (WWV: II, 797).
Ora, come è possibile verificare dall’analisi delle poche occorrenze prese in considerazione, i termini nulla e non essere (Nichts, Nichtsein) in Schopenhauer si caricano di una serie di significati che prevedono slittamenti da un piano teorico all’altro: non essere è lo stato illusorio del mondo dei fenomeni, che Schopenhauer assume a mere ed effimere parvenze (nulla relativo sul piano empirico); non essere è anche la sospensione raggiunta dal genio nella contemplazione estetica, poiché egli annulla tutti i legami con il mondo apparente dei fenomeni, si pone come uno specchio di fronte alla volontà, sottraendovisi in qualità di soggetto assoluto del conoscere (nulla sul piano metafisico come fenomeno assoluto); al non essere giunge infine l’asceta, attraverso la conversione della volontà in noluntas, che però è sottrazione della propria individualizzazione e quindi della propria coscienza dal resto del mondo, pervenendo così al nirvana (nulla relativo sul piano metafisico come Wille).
Vi è allora un ulteriore passaggio: alla doppia nullità del mondo si aggiunge un successivo sdoppiamento, sul piano metafisico, di quella che era la giovanile “coscienza migliore”, in due figure che percorrono strade differenti: la via estetica del soggetto del conoscere, in base alla quale il genio coincide con l’idea archetipa che egli contempla nell’opera d’arte, sfruttando l’antagonismo[10] esistente fra volontà e conoscenza a scapito della prima e divenendo così «soggetto puro della conoscenza, come chiaro occhio del mondo» (WWV: I, 377); la via mistica dell’asceta, raggiunta attraverso la pratica della castità, del digiuno e della povertà, in grado di affievolire la volontà di vivere sino all’estinzione (Erlöschung), in una sorta di ricongiunzione mistica con il tutto poiché, venuta meno la volontà individuale, viene meno anche il principio di determinazione. Il genio nega la volontà attraverso le idee in quanto «compiuto e perfetto fenomeno» (WWV: II, 1683), l’asceta attraverso la noluntas che Schopenhauer intende come una mutazione della natura dell’individuo.
Per spiegare a che tipo di nulla si riferisce, Schopenhauer ricorre alla terminologia utilizzata da Kant in sede critica (Kant 2004, 523-5; B 347-8), distinguendo un nihil privativum, ovvero relativo, da un nihil negativium, ovvero assoluto, affermando che per l’asceta o il genio è possibile giungere solamente al primo:
A questo riguardo devo innanzi tutto osservare che il concetto del nulla è essenzialmente relativo e si riferisce sempre e solo a qualcosa di determinato, che esso nega. Si è attribuita (principalmente da Kant) questa proprietà solo al nihil privativum, che è ciò che viene designato con – in contrasto con un +, il quale –, a punto di vista invertito, potrebbe diventare un +, e si è posto in contrasto con questo nihil privativum il nihil negativum, che sarebbe nulla sotto ogni aspetto, per cui si usa come esempio la contraddizione logica, che elimina se stessa. Ma a guardar meglio, nessun nulla assoluto, nessun nihil negativum vero e proprio è neanche solo pensabile; ogni nulla di questa specie, considerato da un punto di vista superiore, o sussunto sotto un concetto più ampio, è sempre di nuovo solo un nihil privativum. […] Così dunque ogni nihil negativum o nulla assoluto apparirà, se subordinato a un concetto superiore, come un mero nihil privativum o nulla relativo, che potrà anche sempre scambiare segno con ciò che nega, sicché questo venga allora pensato come negazione ed esso stesso invece come un porre. (WWV: I, 791).
Con tale spiegazione Schopenhauer vorrebbe quindi difendersi dalla possibile accusa – che egli stesso muove più volte a Fichte, a Schelling ed in particolare a Hegel – di aver fatto di un’astrazione concettuale, l’essere e il non-essere, un’entità autonoma. Se però proviamo a seguire nella sua interezza il ragionamento schopenhaueriano, a dire il vero il filosofo del Mondo sembra violare il suo stesso presupposto. Difatti, attraverso la contemplazione, il genio giunge a farsi tutto fenomeno nella sua forma più generale e perfetta (idea platonica)[11], sicché nella contemplazione rimane una forma di conoscenza positiva, assoluta e oggettiva, sospesa e indeterminata ma che è pur sempre fenomeno. Già in questo caso, per Schopenhauer, la volontà scompare. Il punto è: quale volontà? Se nella contemplazione il genio coincide con l’idea, la quale non è affatto determinata, e se l’idea è l’unica cosa che sussiste, allora ciò che dovrebbe scomparire è la volontà universale che le sta di fronte e di cui le idee sono specchio, espressione diretta. Nella contemplazione estetica dovrebbe cioè scomparire l’intera volontà universale[12].
Nel santo asceta, invece, attraverso la noluntas ha luogo l’estinzione della volontà individuale. Se dal punto di vista dell’individuo vi è una sottrazione della sua volontà con la dissoluzione della individualità in relazione al tutto (kantianamente «concetto della mancanza o privazione di un oggetto»), dal punto di vista inverso del Wille l’evento è ben più problematico: la volontà universale è inestinguibile, eterna, perché è l’essenza della realtà stessa. L’estinzione della volontà individuale allora può solo significare la fine della sua esistenza in relazione alla coscienza di un individuo con la scomparsa di quest’ultima: se non vi è più coscienza individuale non vi è più una volontà in relazione all’individuo, poiché, come si è già ricordato, «con la sua coscienza perisce per lui necessariamente anche il mondo, cioè l’essere e il non essere» (WWV: I, 648-9).
Stando così le cose, nel caso del santo avremmo forse la realizzazione di quel nihil privativum sostenuto da Schopenhauer nel § 71 del Mondo; nel caso del genio estetico, però, le cose sono più complicate, perché non vi è più un’opposizione parziale, relativa, di un individuo rispetto al tutto, in cui volontà individuale e quella universale sono, per così dire, grandezze omogenee. Nel caso della contemplazione estetica vi è invece un’opposizione assoluta, fra volontà in sé e fenomeno generale, perché, nell’idea, il fenomeno sussiste di per sé, autonomamente, come elemento positivo, sospeso in una sorta di limbo stabilito dalla contemplazione estetica e nel quale la volontà scompare. Se volessimo utilizzare il linguaggio caro alla Existenzphilosophie, si potrebbe dire che nella contemplazione estetica il Wille viene “barrato” ( Wille), perché negato in modo assoluto. Tuttavia, mentre nel caso di Heidegger si tratta dell’Essere inattingibile, che si rivela e si nasconde nelle pieghe della temporalità, un essere che viene barrato (Sein) perché inadeguato a venir rappresentato nei termini del linguaggio metafisico occidentale, nel caso di Schopenhauer il Wille, che pure è fuori dal tempo e sfugge al concetto umano, è l’essenza metafisica del mondo, essenza ineffabile che non si può definire nei termini di essere e non essere, perché essi si riferiscono sempre ad una coscienza e hanno connotazione gnoseologica. Il problema è semmai provare a concepire una negazione assoluta oppure un’opposizione assoluta.
In realtà le difficoltà interpretative nascono proprio dall’utilizzo anfibolico da parte di Schopenhauer del concetto di nulla, talvolta in senso gnoseologico, talvolta in senso metafisico: difatti, in maniera esplicita Schopenhauer si riferisce a Kant, sostenendo un nulla relativo che è tale perché riferito alla coscienza dell’individuo, muovendosi quindi su di un crinale gnoseologico; tuttavia, a proposito degli asceti e del buddhismo, il filosofo del Mondo si riferisce al Nulla come regno di pace e di quiete, in senso positivo, sicché subentra un cambiamento di prospettiva, il cui riferimento implicito è Platone, che interviene surrettiziamente, come una vena carsica, facendo del nulla più di un semplice correlato della coscienza, ma un’essenza metafisica.
- Vacuità e fascinazione del nulla
Come nota Riconda, nel secondo libro del Mondo,
C’è […] in Schopenhauer una duplice tendenza: da un lato egli dà piena consistenza alla volontà di vivere — spinto a ciò, oltre che dal senso profondo della vita che è caratteristica saliente del suo pensiero, anche dal fatto che altrimenti i grandi temi della colpa e del dolore non assumerebbero quel carattere autenticamente tragico che pure egli intende loro conferire — dall’altro gliela toglie di fronte alla Noluntas come sfera della redenzione dalla colpa e dal dolore è la volontà di vivere, si sdoppia allora nella cosa in sé come volontà di vivere, di per sé conoscibile ma assiologicamente negativa, e nel Nulla cui mette capo la volontà di vivere, che dal punto di vista assiologico si configura come positivo ma che, come abbiamo detto, sfugge alla conoscenza filosofica che su questo punto trova il suo supplemento nella mistica. (Riconda 1972, 81).
Le continue oscillazioni semantiche del concetto di nulla e il mistero di cui spesso Schopenhauer ammanta il processo della Verneigung des Willens ha sollevato più di qualche perplessità già nei primi seguaci e allievi di Schopenhauer, come è possibile rilevare dal carteggio del filosofo con Johann August Becker e Julius Frauenstädt. Riconda, che traduce alcune lettere del Maestro ai discepoli, fa notare che in una di esse il filosofo del Mondo cerca di mettere al riparo la sua dimostrazione della noluntas, facendo appello all’impossibilità di muovere obiezioni alla natura della volontà su di un piano trascendente, sostenendo che la sua dottrina si sforza di rimanere immanente, di attenersi ai dati dell’esperienza esterna (fenomeni) e interna (volontà):
La mia filosofia non parla di un mondo di favole, ma di questo mondo: cioè essa è immanente, non trascendente. Essa insegna che cosa è il fenomeno e che cosa è la cosa in sé. Questa pero è cosa in se solo relativamente, cioè nel suo rapporto con l’apparenza: e questa è solo apparenza in rapporto alla cosa in sé. Oltre a ciò è un fenomeno cerebrale. Che cosa dunque sia la cosa in sé al di fuori di quella relazione io non l’ho detto, perché non lo so: in essa pero è la volontà di vivere. Che questa possa superarsi io l’ho mostrato empiricamente: ed ho aggiunto che con la cosa in sé deve sparire anche la sua apparenza. La negazione della volontà di vivere non è l’annullamento di un oggetto, ο di un essere, ma puro non-volere come conseguenza di un quietivo […] Che cosa poi possa essere ciò che noi conosciamo solo come volontà di vivere e nucleo di questa apparenza al di fuori di ciò, quando cioè non è più questo ο non lo è ancora, è un problema trascendente, la cui soluzione le forme del nostro intelletto, che sono funzioni di un cervello destinato al servizio dell’apparenza individuale della volontà, non sono adatte a cogliere e a pensare. (Schopenhauer a Becker, 21 Agosto 1852, cit. in Riconda 1972, 82).
Se nella lettera a Becker, che Schopenhauer stima come “l’apostolo più dotto”, il filosofo assume ancora un atteggiamento prudente, in un’altra successiva indirizzata a “l’arcievangelista” Frauenstaedt[13], Schopenhauer si spinge ad affermazioni ben più forti, solo che esse invece di chiarire sollevano nuove questioni relative al concetto di negazione della volontà e alla sua coerenza interna al sistema:
L’affermazione e la negazione della volontà di vivere è un puro Velle e Nolle. Il soggetto di entrambi è uno ed identico. Come tale esso non può venire estinto ed annullato con il suo atto. Esso ci è noto solo attraverso i suoi atti. Il suo Velle si manifesta in questo mondo empirico, che proprio perciò è l’apparenza della sua cosa in sé. Del Nolle invece conosciamo solo l’apparenza del suo ingresso, che può avvenire solo nell’individuo: questo pero appartiene innanzitutto all’apparenza del Velle. Perciò vediamo il Nolle comparire ancora sempre in lotta con il Velle, finché l’individuo dura. Se in lui il Nolle ha vinto e l’individuo è finito, allora si ha una pura manifestazione del Nolle. Di questo stesso non possiamo dire niente di più, se non che la sua apparenza non può essere quella del Velle (il mondo è superato); non sappiamo pero se in generale appaia, cioè se abbia un’esistenza secondaria per un intelletto che prima dovrebbe produrre (e à propos de quoi?), e non possiamo neanche dire nulla del soggetto di questo Nolle; invece nel suo atto opposto, come quello che anche produce un intelletto, abbiamo una conoscenza positiva di esso come della cosa in sé della sua apparenza. (Schopenhauer a Frauenstädt, 24 agosto 1852, cit. in Riconda 1972, 82)[14]
Quale sia “l’identico soggetto del Velle e del Nolle” a noi poveri umani non è dato di sapere e certo chiamarlo soggetto non solo pone gravi problemi organici al sistema (esiste un soggetto solo in relazione all’oggetto, ovvero all’interno della rappresentazione) ma spingerebbe a considerare l’origine di velle e nolle come un’entità trascendente, la qual cosa è del tutto incompatibile con le premesse immanentistiche schopenhaueriane, a meno di non fare di Schopenhauer, come pure ironicamente propone Lütkehaus, un neo-gnostico adoratore di Mefistofele, il cui sistema filosofico dominato dall’irrazionale prenderebbe le sembianze di una sorta di pansatanismo[15], per dirlo con Liebmann, o di un pandiabolismo, per esprimerci con le parole di Nietzsche[16].
Si potrebbe essere tentati di difendere Schopenhauer dalle critiche incrociate degli allievi, rispondendo che nell’Epifilosofia, facendo una sostanziale ritrattazione circa la coincidenza della cosa in sé con il Wille[17], il filosofo afferma un po’ sibillinamente che le radici dell’individualità arrivano fin «dove arriva l’affermazione della volontà di vivere, e che cessano dove subentra la negazione: giacché sono sorte con l’affermazione» e, pertanto, che con domande su ciò che oltrepassa l’esperienza possibile «urtiamo dappertutto col nostro intelletto, questo mero strumento della volontà, contro problemi irrisolvibili, come contro le pareti del nostro carcere» (WWV: II, 2195).
In realtà Schopenhauer ha spesso trasgredito al principio di immanenza, fondando l’esperienza esteriore (l’intuizione dei fenomeni) e interiore (l’intuizione della volontà) sul presupposto di un’essenza della realtà, il Wille, di cui non si può predicare alcunché perché esso sfugge all’intelletto umano. Come del Wille, anche di questo Nulla – di cui appunto nulla si dovrebbe dire – Schopenhauer continua a scrivere, immaginandolo come un paradiso beato da raggiungere salendo la scala della negazione della volontà, nell’ascetica salita verso la purezza del non essere che santifica e redime l’uomo dall’inconveniente di essere nati, per dirlo con Emil Cioran. È sulla base della pratica ascetica che Schopenhauer congiunge la sua filosofia alle dottrine orientali di Buddhismo e Brahmanesimo (ma anche al Cristianesimo delle origini), predisponendo quello scivolamento di piani cui si è fatto già riferimento:
La morte di ogni uomo buono è di regola placida e dolce; ma morire di buon grado, morire volentieri, morire gioiosamente, è un privilegio del rassegnato, che rinuncia e rinnega la volontà di vivere. Perché egli soltanto vuole morire per davvero e non solo in apparenza, e quindi non ha bisogno e non pretende una sopravvivenza della sua persona. Rinuncia di buon grado all’esistenza che noi conosciamo: quel che ne ottiene in cambio, ai nostri occhi è nulla perché, riferita a quello, la nostra esistenza è nulla. La fede buddhistica lo chiama Nirvana, ossia estinzione. (WWV: II, 1951).
Schopenhauer considera le religioni come metafisiche del popolo[18], per il quale è più semplice comprendere la verità sull’essenza del mondo in forma allegorica e dogmatica che non attraverso la filosofia. Ecco perché il filosofo del Mondo aderisce alla dottrina pessimistica del cristianesimo, sorretta dall’idea di un peccato originario dell’uomo e della vita come caduta e “valle di lacrime”. L’etica schopenhaueriana coincide sul piano pratico con la condotta di vita dei grandi eremiti e dei mistici cristiani. Allo stesso modo, l’adesione al buddhismo è motivata sia dalla convinzione che dall’Oriente provenga la sorgente della vera sapienza[19], non ancora inquinata dall’ottimismo semita, sia dall’approvazione di una visione del mondo che guarda all’esistenza come un’illusione e al nirvana come la possibilità di uscita dal cerchio delle vite e, quindi, della sofferenza.
Compassione e nirvana insegnate da Schopenhauer sembrerebbero essere l’una alternativa all’altra: se da un lato Schopenhauer chiede all’individuo di attivarsi in favore del prossimo, cercando di non recargli offesa e di sollevarlo dal peso della vita (neminem laede; imo omnes, quantum potes, iuva) e riconoscendo in lui la medesima unità metafisica (tat twam asi, questo sei tu!), dall’altro lato, l’esito nichilistico della noluntas apre la strada ad un’interpretazione quietistica dell’etica schopenhaueriana, che pure ha avuto larga fortuna. La via della negazione della volontà però non è alternativa alla via del Mitleid, entrambe sono indicate da Schopenhauer come percorribili da parte dell’individuo. La via di redenzione morale della compassione scorre parallela a quella ascetica della noluntas, di modo che al filosofo illuminato, che ha fondato la prima etica della storia del pensiero umano in senso laico e solidaristico, si affianca il mistico del Nulla; assieme al moralista illuminato, maestro di disincanto e di disinganno, procede il pensatore romantico che cede alla tentazione dell’infinito e della purezza del non essere. E tuttavia, il misticismo nichilistico schopenhaueriano sembra essere corretto in qualche modo dal ruolo esercitato dalla ragione che, pur presentandosi come semplice fluorescenza della volontà, getta la sua fioca luce sull’individuo e fa della conoscenza il quietivo della volontà, elemento di liberazione e di redenzione dal Wille.
Sembra allora che, una volta fondata la metafisica su di una volontà cieca e universale, confutata l’idea di un dio provvido e benevolo con l’immanenza del male, spogliato il mondo di ogni elemento romantico e di ogni scintilla divina, Schopenhauer non intenda però gettare l’uomo nella più cupa disperazione, ma aprirgli una speranza di redenzione nel fuoco purificatore del non essere. È così che il Nulla rimane forse l’ultima divinità lasciata viva dalla terribile volontà di vita.
Anche alcuni allievi di Schopenhauer hanno subito quella che si potrebbe definire la fascinazione del nulla, sviluppando la propria metafisica sulla base di quella del maestro. Eduard von Hartmann[20], per esempio, ha trasformato la metafisica astorica di Schopenhauer in una filosofia della storia, secondo la quale l’Inconscio collettivo e originario, attraverso lo svilupparsi della coscienza in autocoscienza, brama la redenzione nell’assoluto nulla, abbandonandosi al (de-)corso necessario della storia. La Filosofia dell’Inconscio di Hartmann sviluppa l’antagonismo schopenhaueriano fra volontà e conoscenza[21], si presenta come la prima opera del nichilismo metafisico schopenhaueriano compiuto, mettendo capo ad un sostanziale riconoscimento del Nichts come entità metafisica, solo che nella visione hartmanniana l’irrazionale è superato dal razionale, come è ben ricapitolato nella conclusione alla Filosofia dell’Inconscio:
Il volere, che pone il che del mondo, condanna pertanto il mondo, comunque sia organizzato alla sofferenza. […] Il logico guida il processo cosmico nel modo più saggio verso il fine del maggior sviluppo possibile della conoscenza, giungendo al quale la coscienza riesce a far precipitare indietro nel nulla tutto il volere in atto. […] Il logico pertanto fa sì che il mondo divenga il migliore possibile, vale a dire tale che giunga alla redenzione, in modo tale che la sua sofferenza non sia perpetuata all’infinito. (Hartmann 2006, 162).
Alla base di questo processo vi è quindi la convinzione schopenhaueriana che il non essere è migliore dell’essere, dal cui principio Hartmann fa derivare un pessimismo immanente («nel mondo domina la sofferenza») e un ottimismo storico nella trascendenza («l’assoluto nulla è sempre preferibile a qualsiasi mondo possibile»).
Un altro Schopenhauer-Schüler, Philipp (Batz) Mainländer[22], ha rafforzato invece la dimensione religiosa e mistica dell’Essere, immaginandolo come un dio originario e primigenio, il quale sceglie di non-essere – l’unica scelta possibile sul piano inclinato che corre fra i due estremi. Per passare però al nulla assoluto la divinità primigenia ha innanzitutto dovuto lottare contro la propria onnipotenza, autolimitandosi, creando uno strumento per il proprio annichilimento, ovvero passando dall’unità del suo essere al molteplice del mondo, dall’essere al divenire. «Dio è morto – scrive Mainländer – e la sua morte fu la vita del mondo» (Mainländer 1996-1999: I/108). In tal modo, il mondo è inteso come strumento di morte di dio e il suicidio cosmico dell’unità dell’Essere determina il processo entropico del mondo verso l’assoluto nulla. In quanto strumento di morte divino, ogni essere nel mondo è costituito dalla noumenica volontà di morte che si manifesta come apparente volontà di vita a causa della difficoltà che dio incontra a vincere la sua onnipotenza, dovendola prima limitare, grado per grado, attraverso la legge di indebolimento progressivo delle forze, per raggiungere infine l’agognata purezza dell’assoluto nulla. All’annichilimento, come ogni essere, è votato anche l’uomo, cui però è lasciata una qualche libertà residua, un’unica scelta all’interno del movimento preordinato del mondo, e cioè accelerare il processo di dissoluzione verso il non essere, mettendo in atto alcune pratiche: la castità per estinguere la specie e il suicidio per spegnere la volontà individuale. Precetti che Mainländer, a differenza di Hartmann (che vive a lungo, anche se infermo, procreando e sposandosi per ben due volte), mette in pratica, ponendo fine alla sua fragile esistenza, a soli 34 anni, il giorno stesso in cui riceve la sua opera fresca di stampa, La filosofia della redenzione.
Del tutto diversa, invece, l’interpretazione nichilistica di Julius Bahnsen, per il quale «l’uomo è solo un nulla cosciente di sé» (Heydorn 1952, 61), com’è affermato in un suo manoscritto datato 1847, ancor prima di conoscere la filosofia di Schopenhauer, con il quale, negli ultimi anni della vita dell’ormai celebre Saggio di Francoforte, Bahnsen avrà modo di entrare in contatto personalmente. Bahnsen si forma alla filosofia della sinistra hegeliana (David Strauss, i fratelli Bruno ed Edgar Bauer, Friedrich Christian Baur e soprattutto Ludwig Feuerbach, «il più grande ed amato maestro»[23]), frequenta a Tubinga le lezioni di Friedrich Vischer, pervenendo così all’idea che nella dialettica la contraddizione (Widerspruch) fra gli opposti non è superabile da un punto di vista ontologico e metafisico, ma si può accettare solamente da un punto di vista estetico, sotto la categoria del tragico (cfr. Bahnsen 1995), giungendo così alle medesime conclusioni di Nietzsche nella Nascita della tragedia, per il quale la vita è giustificabile solo come fenomeno estetico[24]. Ed è proprio riformando con Feuerbach la dialettica hegeliana che Bahnsen, alla luce della metafisica schopenhaueriana, interpreta la contraddizione come generata dal conflitto della volontà con se stessa – volontà che però, va ricordato, nella sua Realdialektik Bahnsen assume come una moltitudine di atomi di energia, vere e proprie forze del reale, chiamate anche eneadi (Willensathome oppure Willenshenaden). Già in questa prima opera giovanile Bahnsen ha rilevato la «negatività reale e metafisica della volontà che allo stesso modo vuole e non vuole», una sorta di «Voluntas nolens e Noluntas volens in uno» (cfr. Bahnsen 1995, 6). Sviluppando il concetto di contraddizione e applicandolo alla Realdialettica, nella sua monumentale opera intitolata La contraddizione nel sapere e nell’essenza del mondo, Bahnsen perviene all’idea che «la volontà vuole ciò che non vuole e non vuole cioè che vuole» (Bahnsen 1880-1882: 1/53), ovvero – come chiarisce Fazio – «è volontà di vita (Wille zum Leben), che non vuole la vita perché essa è dolore; è volontà dalla vita (Wille vom Leben), ossia volontà di morte, che non vuole la morte perché è volontà di vita» (Fazio 2009, 88). Ed è proprio in questa contraddizione che la volontà è impedita dal fondarsi sull’essere, poiché per lei equivarrebbe a dire di aver raggiunto la fine di ogni conflitto e quindi aver superato la contraddizione. La volontà agogna qualcosa che mai è e che mai può raggiungere[25].
Invernizzi ha sottolineato che «Bahnsen riprende la tematica kantiana coniando due neologismi, Nihilität e Nihilenz, il primo dei quali corrisponde al puro nulla (nihil negativum), il secondo a un nulla sussistente (nihil privativum – il termine Nihilenz è rifatto su Existenz)» (Invernizzi 1994, 243). Ed in effetti, nel Widerspruch, Bahnsen non solo definisce la propria filosofia come «nichilismo», ma anche l’uomo come «un Nulla consapevole di sé» (Bahnsen 1880-1882, 161-2, 432)[26]. È evidente che Bahnsen accetta l’idea di un nulla assoluto che è il vero fondamento metafisico della sua filosofia, in base alla quale è possibile giustificare non solo la fame di vita della volontà senza che le due cose coincidano (come invece accade in Schopenhauer), ma anche dare ragione a livello eudemonologico del perché il dolore è sempre positivo e il piacere è negativo (ovvero mancanza di sofferenza). Bahnsen però non escogita via di fuga dal dolore, non apre la possibilità ad alcuna redenzione né può cercarla nel nulla, come pure fanno Hartmann e Mainländer, perché l’esistenza si fonda stirnerianamente sul nulla e il Nichtsein è la base e il principio della contraddizione metafisica. È per questo che Bahnsen non può concedere alcuna Erlösung, ma segue piuttosto l’insegnamento schopenhaueriano di una vita eroica[27], una vita che cioè è accettata nonostante il suo dolore e il conflitto di tutte le volontà, da giustificare solamente come fenomeno estetico in senso tragico. Si tratta quindi di un pessimismo radicale, che Hartmann non esita a definire un «disperato miserabilismo» (Hartmann 1885, 48), ma che ha come obiettivo fondamentale l’idea di un’educazione che per Bahnsen, diversamente dal maestro, è possibile, opponendo all’immutabilità del carattere la forza dei contromotivi. Con Bahnsen, quindi, non solo il Nulla è assoluto, ma diviene addirittura l’essenza stessa della realtà, la sua massima affermazione in senso metafisico, anche se spogliato di ogni dimensione soteriologica.
Sarà però Nietzsche a liberarsi definitivamente dal Nichtsein in senso metafisico, radicalizzando lo schopenhaueriano «sguardo orrificato verso un mondo sdivinizzato» (Nietzsche 1964: V/II, aforisma 357). Come Bahnsen, Nietzsche accetterà la vita in senso tragico, dicendole sì con tutto il suo dolore e il suo tormento, liberandola però da ogni favoleggiamento metafisico. Decantato l’essere da ogni purezza platonica, il filosofo di Umano troppo umano ne raccoglierà il fondiglio per riconoscervi dentro non più celesti principi morali ma solo le scorie della storia, precipitati chimici delle vicende umane. Anche il non essere schopenhaueriano, l’ultima divinità rimasta salda dopo la morte di dio, viene frantumato dalla scepsi nietzscheana. Al nichilismo passivo degli adoratori del nulla metafisico subentra un’altra più sinistra figura, un nano sulle spalle dello Zarathustra, gravato del peso più grande, la Sinnlosigkeit determinata dalla morte di dio. Si tratta dell’“ospite inquietante”, che apre la strada al nichilismo attivo ed esige l’oltreuomo, sopravvissuto al nichilismo morale del mondo contemporaneo, con cui Nietzsche congeda l’ultimo uomo, orfano di dio e del nulla.
Tavola delle abbreviazioni
WWV = Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giametta, S. (2010), Milano: Bompiani. (I numeri romani si riferiscono ai due tomi interni).
WWVb = Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 2 voll., a cura di Brianese, G. (2013), Torino: Einaudi.
PuP = Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, vol. I a cura di Colli, G.; vol. II a cura di Carpitella, M., (2003), Milano: Adelphi.
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Note al testo
[1] Si vedano, ad esempio, Hübscher (1962); Diemer (1962); Jaspers (1968); Müller-Lauter (1993); Salaquarda (2007); Steppi (1991); Regehly, Schubbe (2016); Schubbe (2014), Cappelørn, Hühn, Fauth, Schwab (Hrsg.) (2012).
[2] Nel presente saggio il termine nulla è utilizzato anche in luogo di niente, non essendovi necessità di distinguere, in senso heideggeriano, fra una dimensione ontica e una ontologica (niente come non-ente).
[3] Cfr. Reinhold (1790, 267): «attraverso il soggetto, la rappresentazione viene distinta dall’oggetto, e però è dal soggetto medesimo riferita ad entrambi».
[4] Nietzsche (1964, I/II, 220-8).
[5] Brianese traduce invece con il tratto esistenzialista «assoluto non-essere», WWVb: I, 416.
[6] Si veda anche WWV I: 361: «Ogni relazione ha essa stessa solo un’esistenza relativa; per esempio ogni essere nel tempo è anche d’altra parte un non-essere, perché il tempo è appunto solo ciò per cui alla stessa cosa possono spettare determinazioni opposte».
[7] WWV: II, cap. 28.
[8] Cfr. il cap. 47 “Della vanità e del male di vivere” dei Supplementi al IV libro: «Il modo in cui questa nullità di tutti gli oggetti della volontà [Nichtigkeit aller Objekte des Willens] si palesa e si rende comprensibile all’intelletto radicato nell’individuo, è innanzi tutto il tempo. Esso è la forma per mezzo della quale questa nullità delle cose appare come la loro caducità, in quanto, per essa, tutti i nostri godimenti e le nostre gioie ci svaniscono di tra le mani e noi ci chiediamo poi stupiti dove siano andati a finire. Questa nullità stessa è dunque la sola cosa oggettiva del tempo, ossia ciò che gli corrisponde nell’essenza in sé delle cose, vale a dire ciò di cui esso è l’espressione» (WWV II: 2071).
[9] Si veda quanto affermato da Schopenhauer in Parerga e paralipomena (PuP II: 409): «Del nolle possiamo semplicemente dire che la sua apparenza non può essere quella del velle, ma non sappiamo se in generale apparisca, se cioè riceva un’esistenza secondaria per un intelletto, che però esso dovrebbe innanzitutto produrre. Ora, noi, conoscendo l’intelletto solo come organo della volontà nella sua affermazione, non vediamo perché, dopo che l’affermazione sia annullata, il nolle dovrebbe produrre l’intelletto; ma non possiamo dir nulla neppure del soggetto del nolle perché lo abbiamo conosciuto positivamente solo nel suo opposto, il velle, come cosa in se del suo mondo fenomenico».
[10] Cfr. WWV II: 1689: «Per spiegare ciò in modo un po’ più preciso, ricordo che la nostra coscienza ha due facce: da un lato cioè è coscienza dell’essere proprio, che è la volontà; dall’altro è coscienza delle altre cose, e in quanto tale è in primo luogo conoscenza intuitiva del mondo esterno, intuizione degli oggetti. Quanto più poi l’una faccia dell’intera coscienza si fa avanti, tanto più l’altra arretra. Quindi la coscienza delle altre cose, ossia la conoscenza intuitiva, diviene tanto più perfetta, cioè tanto più oggettiva, quanto meno siamo allora consci di noi stessi. Qui ha luogo effettivamente un antagonismo. Quanto più noi siamo consci dell’oggetto, tanto meno lo siamo del soggetto; quanto più invece quest’ultimo occupa la coscienza, tanto più debole e imperfetta è la nostra intuizione del mondo esterno».
[11] Cfr. WWV I: 357: «L’idea platonica è invece necessariamente oggetto, un che di cognito, una rappresentazione, e appunto perciò, ma anche solo perciò, diversa dalla cosa in sé. Essa ha semplicemente deposto le forme subordinate del fenomeno, le quali tutte noi comprendiamo sotto il principio di ragione, o piuttosto non è ancora entrata in esse; ma ha conservato la forma prima e più generale, quella della rappresentazione in genere, dell’essere oggetto per un soggetto [corsivo mio]. Sono le forme a questa subordinate (di cui il principio di ragione è l’espressione generale), che moltiplicano l’idea in individui particolari e transeunti, il cui numero è assolutamente indifferente rispetto all’idea».
[12] Si rifletta pure sul fatto che nella contemplazione è data la possibilità che l’idea, in quanto forma generale del fenomeno, sopravviva autonomamente alla scomparsa della volontà, che è si è estinta; inoltre, per Schopenhauer, la contemplazione ha vita breve, avviene solo per pochi istanti: ma in realtà, non dovrebbe avvenire fuori dal tempo, e quindi essere un’irruzione dell’eternità, una sorta di greco kairòs?
[13] Sulla categoria storiografica della Schopenhauer-Schule, la sua articolazione interna e i suoi esponenti, si veda Fazio (2009). Sul pessimismo tedesco dell’Ottocento si consulti invece Invernizzi (1994).
[14] Il testo, quasi alla lettera, è il medesimo in Parerga e paralipomena (PuP II: 408-9).
[15] Liebmann (1900, 248); cfr. Ciracì (2014, 497-509).
[16] Cfr. Nietzsche (1965: IV/II, 436 – frammento 24 [21]): «Schopenhauer concepisce il mondo come un immenso uomo, del quale vediamo le azioni, e il carattere del quale è affatto immutabile; questo lo possiamo appunto dedurre da quelle azioni. In questo la sua filosofia è un panteismo o forse un pandiabolismo».
[17] Cfr. WWV: II, 1357: «La percezione interna che abbiamo della nostra stessa volontà non fornisce ancora in alcun modo una conoscenza della cosa in sé esauriente e adeguata».
[18] Cfr. PuP II: 424: «La religione è la metafisica del popolo, che gli si deve assolutamente lasciare e che perciò deve essere rispettata esteriormente, poiché il discreditarla significa toglierla al popolo. Come esiste una poesia del popolo e, nei proverbi, anche una saggezza del popolo, così vi deve essere anche una metafisica del popolo, [poiché gli esseri umani necessitano assolutamente di una interpretazione della vita, ed essa deve essere adeguata alla loro capacità di comprensione]. Perciò la religione è sempre un rivestimento allegorico della verità, adeguato alla capacità di comprensione del popolo e riesce a fare, dal punto di vista pratico e sentimentale, cioè a guisa di direttiva per l’agire e come calmante e consolazione nella sofferenza e nella morte, forse altrettanto, quanto la verità stessa riuscirebbe a raggiungere, se noi ne fossimo in possesso».
[19] Alla visione dell’Oriente come fonte originaria del sapere Schopenhauer si ricollega in armonia con una certa tradizione del pensiero tedesco dell’Ottocento, che da Herder conduce a Schelling. Sul tema, mi permetto di rinviare a Ciracì (2014b).
[20] Su Hartmann, si veda in particolare Vitale (2014); Invernizzi (1994, 119-199).
[21] Cfr. Hartmann (2006, 141): «Non si può quindi disconoscere un profondo antagonismo tra volontà – che tende all’assoluta soddisfazione e alla felicità – l’intelligenza – che attraverso la coscienza si emancipa sempre più dall’istinto. […] In questa posizione la conoscenza combatte la volontà passo dopo passo nel corso della storia».
[22] Su Mainländer, cfr. Müller-Seyfarth (2000); Ciracì (2006); Invernizzi (1994, 263-312). Circa lo sviluppo della dimensione mistica in Mainländer, si veda invece Ciracì (2014c).
[23] Heydorn, H. J. (1952, 61).
[24] Cfr. Nietzsche (1964: III/I, 159): «Questo fenomeno originario dell’arte dionisiaca, difficile da afferrare, risulta peraltro unicamente comprensibile per via diretta e viene immediatamente afferrato nel mirabile significato della dissonanza musicale: come in genere solo la musica, posta accanto al mondo, può dare un’idea di che cosa sia da intendere per giustificazione del mondo come fenomeno estetico». Sul tema si veda Fazio (2011, 621-636).
[25] In modo non dissimile dal Bahnsen del Widerspruch, anche lo schopenhaueriano italiano, morto giovanissimo suicida, Carlo Michelstaedter, nella sua fondamentale opera La persuasione e la rettorica, sviluppa la metafisica schopenhaueriana della volontà in senso nichilistico, mettendo in crisi la coincidenza fra volontà ed essere: «So che voglio e non ho cosa io voglia. Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quando pende dipende. […] La sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di niente – ma fosse finito, perfetto: possedesse sé stesso, esso avrebbe finito di esistere. – Il peso è a sé stesso impedimento a posseder la sua vita e non dipende più da altro che da sé stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può mai esser persuaso», Michelstaedter (1905, 39-40).
[26] Cfr. Volpi (1996, 36).
[27] Cfr. PuP II: 421: «Una vita felice è impossibile; il massimo che l’uomo può raggiungere è la vita eroica. Una tal vita conduce colui che, in qualsiasi modo e occasione, combatte con eccezionali difficoltà per un qualche bene comune, e alla fine vince; ma viene male o nient’affatto ricompensato».