Andrea Cengia
Secondo alcuni giudizi del pensiero e dell’esperienza di Raniero Panzieri, l’azione politica e teorica dell’intellettuale torinese andrebbe derubricata a quel particolare tipo di materiale ormai inservibile, in quanto appartenuto ad una contingenza storica irrimediabilmente consegnata al passato[1]. Leggere Panzieri oggi, quindi, rientrerebbe in una sorta di attività di ricerca, in ultima analisi, fine a se stessa e destinata ad essere ininfluente sul presente in quanto il suo oggetto d’indagine sarebbe una fase conclusa del capitalismo novecentesco e delle lotte operaie. Eppure, a misurarsi attentamente con i saggi di Panzieri (o collegati alla sua impostazione dei Quaderni rossi), questa impressione non sembra in grado di cogliere nella sua interezza il lascito dell’intellettuale torinese. L’idea di questo testo è che Panzieri, pur parlando dello scorcio di secolo in cui ha vissuto, abbia individuato alcune questioni teorico-politiche molto utili anche per l’analisi della riflessione sulla condizione capitalistica contemporanea[2].
Infatti, rispetto al contesto nel quale si muove Panzieri, le rivendicazioni degli odierni lavoratori salariati danno l’impressione di essere marginali sia da un punto di vista politico che di classe. Le lotte operaie internazionali di oggi sono sfilacciate, poco organizzate e in estrema difficoltà rispetto a qualsiasi tentativo di portarsi al livello dei rapporti di forza dominanti tra capitale e lavoro. Tuttavia, questo non significa che, nella società capitalistica avanzata, le questioni della condizione del lavoro e i problemi relativi alla crisi del modello di sviluppo di questa società, non siano all’ordine del giorno.
La differenza tra i due contesti storici (quello degli anni Sessanta in cui opera Panzieri e quello odierno) sono certamente ben percepibili leggendo le analisi di quegli anni. Infatti, a Panzieri e in generale alla redazione di Quaderni rossi si può rimproverare forse una eccessiva fiducia nella possibilità di individuare un percorso politico di opposizione capitalistica e di emancipazione sociale, dovuta alle particolarissime condizioni di quegli anni in Italia. “Noi riteniamo che, praticamente e immediatamente, questa linea, possa esprimersi nella rivendicazione del controllo operaio” (Panzieri 1994, p.40), argomentava Panzieri nel primo numero dei Quaderni rossi quale risposta alle novità tecnologiche di razionalizzazione del neocapitalismo.[3] Mario Tronti, commentando successivamente quegli avvenimenti e, provando a sintetizzarne un bilancio dirà che “Sembrava che ci fosse una classe operaia ormai disponibile ad un grande passaggio storico politico, quasi una situazione rivoluzionaria o pre-rivoluzionaria” (Milana 2008, p. 599). Rispetto a quest’ultima valutazione, vi sarà una ulteriore accelerazione politica promossa da Tronti, la quale sarà alla base della successiva rottura all’interno della redazione di Quaderni rossi, spaccatura che darà origine all’esperienza della rivista classe operaia.
Questo elemento di analisi non va considerato come secondario. Infatti già da queste differenti valutazioni emerge un elemento che contraddistingue l’originalità dell’approccio di Panzieri. Egli condivide, come s’è visto, il clima culturale e la valutazione politica del momento, arrivando a dire che “oggettivamente, c’è veramente oggi in Italia e in altri paesi capitalistici avanzati una situazione che per i militanti è una situazione entusiasmante” (Panzieri 1994, p.89). Tuttavia, nel merito alla possibilità che tale situazione potesse innescare una trasformazione generale dell’intera società, Panzieri si dimostra meno sicuro. Come sostiene Mario Tronti: “Raniero vedeva l’esplosione della fabbrica, ma non pensava che potesse sfondare nella società” (Ferrero 2005, p. 257). Ed è interessante notare che, rispetto a questa circoscritta valutazione, l’autore di Operai e capitale abbia recentemente fornito un commento più che indicativo. Nel confronto tra la propria posizione e quella di Panzieri, Tronti dirà che “nel breve periodo aveva ragione lui” (Ferrero 2005, p. 257)[4]. Su cosa aveva quindi ragione di Panzieri? L’intellettuale socialista riteneva che, pur nella situazione eccezionale ed “entusiasmante”, occorresse proseguire il lavoro di analisi delle condizioni di lavoro e di lotta, per poter ricavare successivamente un quadro di comprensione più adeguato alle potenti trasformazioni in atto. Questo progetto dovrà confrontarsi con alcuni accadimenti che ne comprometteranno l’esito. Da un lato, l’esperienza dell’operaismo politico[5], per una serie articolata di ragioni, si esaurirà con la fine di classe operaia[6]. Dall’altro, già in precedenza, com’è noto, Quaderni rossi aveva perso la guida di Panzieri a causa della sua repentina scomparsa. A partire da questa complessa situazione, recentemente, Mario Tronti si è espresso formulando un giudizio molto duro sull’esperienza dell’intero operaismo politico sostenendo che “sul lungo periodo avevamo torto tutti” (Ferrero 2005, p.257). Quegli anni sono, per il filosofo di Operai e capitale, “[…] il paradossale racconto di una generale sconfitta reale, scandita da parziali vittorie illusorie. Andò così fino alla fine degli anni Ottanta, quando tutti fummo costretti a capire dove la storia era andata per suo conto a parare. Il mondo operaio, come tutti i mondi che contano, si esprime per potenti immagini simboliche. L’arco va dalla rivolta di piazza Statuto alla marcia dei quarantamila” (Milana 2008, pp. 34-35).
1.La costante operaia
Rileggendo tuttavia le parole di Panzieri scritte in quegli anni, nonostante quanto si è appena affermato nel merito della portata storico-politica della sconfitta operaista, si ritiene che, sul versante teoretico, l’analisi di Panzieri meriti di essere osservata oggi con rinnovata attenzione.
Dopo la data simbolo del 1989[7], l’evidente sconfitta del movimento operaio, (italiano e internazionale) e la vittoria incontrastata e entusiastica (Fukuyama 1992) del modo di produzione capitalistico, è ancora possibile provare a ripartire dal discorso di Panzieri. In particolare occorre rivedere alcune sue analisi che proprio al problema della condizione sociale degli uomini nel capitalismo contemporaneo possono essere riferite. Il testo al quale ci si riferirà maggiormente è “Lotte operaie nello sviluppo capitalistico”, (Panzieri 1994, pp. 73-92).
Facciamo nostro il punto di partenza utilizzato da Panzieri. “Punto di riferimento, che è un punto di riferimento teorico e pratico nello stesso tempo, sono le lotte operaie quali si sono sviluppate in Italia dal 1960” (Panzieri 1994, p. 73). “Prese nel loro insieme, queste nuove rivendicazioni indicano la tendenza chiarissima, da parte della classe operaia, a portare in primo piano la condizione operaia nel suo complesso e, vorrei dire, la condizione operaia in sé stessa” (Panzieri 1994, p. 74).
L’angolatura scelta da Panzieri, con tutta evidenza, prende spunto dalla lettura della condizione operaia. L’intellettuale torinese fa di questo elemento il punto di partenza della propria analisi. Ecco qui individuata la novità dell’impostazione operaista e, forse, uno dei suoi lasciti più importanti. In esso troviamo, non solo una particolare sensibilità alle richieste di una delle parti più deboli della società italiana, ma anche un elemento essenziale per una lettura del processo capitalistico che torni a riferirsi autenticamente alle analisi di Marx.
Le osservazioni delle rivendicazioni operaie evidenziate da Panzieri hanno una evidenza contingente. Nel caso specifico sono quelle che si sviluppano prevalentemente in Piemonte nei primi anni Sessanta. Tuttavia, pur nella loro particolarità[8], “[…] la caratteristica saliente è che in un grande numero di casi (evidentemente non nella totalità dei casi) rivendicazioni poste dagli operai, dalla classe operaia, tendono a colpire, a sottolineare quello che è il momento caratteristico del rapporto dell’operaio, della classe operaia di fronte al capitale in quella determinata situazione, cioè tendono a porre in evidenza quelli che sono gli specifici elementi del rapporto di subordinazione come tale della classe operaia al capitale, davanti al capitale”, (Panzieri 1994, p. 74). Gli elementi specifici, ai quali si riferisce Panzieri, riguardano, in sintesi, gli effetti delle importanti trasformazioni neocapitalistiche sulle condizioni di esistenza dei lavoratori salariati. Esse consistono in: “crescente sviluppo del capitale costante, crescente sviluppo e crescente modifica della composizione organica del capitale, il ricorso a tecniche d’integrazione dell’operaio nella fabbrica sempre più raffinate, il ricorso a tecniche di programmazione, di pianificazione capitalistica ecc.”, (Panzieri 1994, p. 74).
Di fronte a questi mutamenti il cui impatto è enorme, Panzieri individua degli elementi che possono offrire una lettura di sintesi in grado di dare senso alle lotte in corso. “[…] Sia che si sviluppino in zone avanzate sia che si sviluppino in zone arretrate, le lotte operaie tendono ad assumere le stesse caratteristiche, cioè tendono appunto a mettere in evidenza, attraverso sia pure ancora i contenuti sindacali (e questo è il grosso problema di cui dobbiamo discutere), tendono però a mettere in evidenza il rapporto complessivo tra la classe operaia e il capitale”, (Panzieri 1994, p. 75).
Oggi questo rapporto tra zone avanzate e zone arretrate, che Panzieri evidentemente riferiva all’Italia, si è dislocato e articolato, arrivando a raggiungere buona parte del pianeta. In tale contesto, le proteste di oggi, nel sud del mondo, ai confini o anche dentro l’Occidente capitalistico sembrano confermare le parole di Panzieri riguardanti la costante delle odierne richieste operaie globalizzate. “Baja California farm workers demand better pay and working conditions” titola The Guardian online del 25 marzo 2015 riferendosi alla zona di Baja California, al confine tra Mexico e California, ossia al confine tra due mondi economico-sociali molto differenti[9]. Si tratta solo di uno dei tanti esempi che si fanno strada faticosamente sulla stampa mondiale. Dai casi contemporanei (a qualsiasi latitudine) quello che si può ricavare è ben espresso dalla valutazione che l’intellettuale torinese riferiva alla realtà italiana degli anni Sessanta, ossia “[…] che le lotte delle zone più arretrate tendono ad assumere le stesse caratteristiche che assumono le lotte delle zone più avanzate”, (Panzieri, 1994, p. 76). Ovvio che qui Panzieri si riferisca principalmente alla sua diretta esperienza del caso italiano. Nord e sud, ma anche centro-periferia dei poli industriali, rimangono, nei primi anni Sessanta, due mondi produttivi radicalmente lontani. Si pensi ad esempio alla differente percezione che doveva essere avvertita tra chi lavorava al centro del capitalismo (nel caso specifico la FIAT a Torino) e chi lavora in periferia (la Val di Susa). Tuttavia, in queste specifiche lotte, ma si potrebbe dire nelle lotte in generale, Panzieri vede un’operazione di smascheramento delle autentiche condizioni in cui si dispiega il modo di produzione capitalistico. Quest’ultimo, evidentemente, se non lo si osserva alla luce degli elementi di frizione, delle crisi e delle contraddizioni, mette in campo un processo teso a mostrarne unilateralmente e spettacolarmente la messa a disposizione di una “immane raccolta di merci” (Marx 1989, p. 67).
Quindi, la critica al capitalismo che emerge da questo intervento di Panzieri ha, ancora una volta, il merito di riferirsi all’oggetto d’analisi dal punto di vista della produzione. Questa angolatura tipicamente marxiana[10] è tanto più preziosa perché, secondo l’ideatore di Quaderni rossi, è proprio dal punto di vista della produzione che è possibile far emergere la forza dell’articolazione del capitale, ossia il suo stato di sviluppo e il suo valore di sfruttamento nei confronti della classe operaia. Quindi il programma delle analisi panzieriane si costituisce come la ricerca dell’essenza del capitalismo attraverso le sue manifestazioni storiche. Infatti “[…] quando la classe operaia si muove e nel suo muoversi matura una coscienza di classe, essa misura, tende a misurare le proprie richieste in base a ciò che è il capitale, non in base alla situazione empirica in cui la classe operaia si trova” (Panzieri 1994, p. 76). Sembra che Panzieri voglia dire che la classe operaia regoli le proprie richieste in base al livello di sviluppo raggiunto dal capitale. In sintesi, a prescindere dal valore storico-politico dell’assunto panzieriano, le rivendicazioni operaie si possono leggere sono a partire dal livello del capitale, sia che esse contengano istanze di avanzamento delle proprie condizioni di vita, sia che esse, come spesso accade oggi, contengano elementi di mera difesa degli spazi minimi di civiltà. Le lotte sono quindi il frutto della condizione storica della società capitalistica e dello sviluppo del capitale. Proprio per questo, non vanno scambiate con situazioni empiriche individuali, cioè della singola fabbrica. Le lotte sono accadimenti dello sviluppo capitalistico[11]. Non è una indicazione di poco conto. Le lotte aziendali, le rivendicazioni nelle singole realtà produttive, non vanno semplicisticamente lette quali episodi sconnessi di protesta tra un capitalista e la forza lavoro. Lo stato effettivo delle lotte, almeno ad un livello di analisi, è la sintesi delle situazioni locali viste attraverso uno sguardo d’insieme in grado di rappresentarle come frutto di un unico processo. Tutto ciò ci deve spingere “a superare questa visione frantumata, malamente empirica della realtà e a reimpadronirci di una visione marxista della realtà, per cui reale non è il dato empirico, questa o quell’azienda vista come un atomo, ma reale è il capitale così come si manifesta in questa o in quella situazione” (Panzieri 1994, p. 76).
Quindi, per Raniero Panzieri, la realtà capitalistica, che si offre ad uno sguardo distratto come scomposta, trova il suo significato nella unificazione delle singole realtà empiriche a partire dalla visione “marxista della realtà”. Quest’ultima può permetterci di raggiungere un livello di comprensione che è all’altezza dell’oggetto studiato. Infatti, “se non si vede il livello del capitale nel suo insieme, non si può cogliere neanche la realtà delle singole situazioni”, (Panzieri 1994, p. 76). Dall’informazione di carattere empirico, si passa perciò alla sua decodificazione attraverso quel modello di pensiero che permette di cogliere in ogni singolo caso l’elemento comune, la categoria, grazie alla quale è possibile dare al processo senso autentico e, immediatamente dopo, riconsiderare i singoli dati empirici di partenza. Sul “ritorno” al dato di partenza, Panzieri insisterà molto anche nelle righe successive[12].
Questo metodo, sembra voler suggerire Panzieri, è la strada corretta per restituire alle complesse dinamiche del capitalismo il loro autentico valore, il quale si presenta comunemente mascherato e filtrato nella sua essenza. Emerge, ancora una volta, il legame tra apparenza e realtà. “Noi” invece, afferma Panzieri rivolgendosi ad un pubblico che si può immaginare prevalentemente vicino alle istanze della classe operaia dei primi anni Sessanta[13], commettiamo l’errore di accettare l’immagine che il capitale offre di sé. L’accettazione del manifestarsi del capitale come se quel manifestarsi fosse l’essenza e non il fenomeno, è semplicemente, un errore. Un grave sbaglio in cui la sinistra, alla quale si rivolge Panzieri, continua a cadere. E, si potrebbe affermare, si tratta di un errore che spesso colpisce, più in generale, il giudizio che molta popolazione odierna attribuisce alle condizioni di vita nel capitalismo del XXI secolo, non ultima, una robusta fiducia nelle automatiche sorti di emancipazione, prodotte da quel progresso tecnologico legato a doppio filo alla crescita del sistema capitalistico[14].
Quindi, secondo Panzieri è essenziale non considerare il capitale come tende a presentarsi. E il modo in cui esso si manifesta, negli anni di Panzieri, è sotto la forma della differenza, della molteplicità priva di relazioni. A ben vedere, invece, il capitale, tende ad essere la medesima entità pur nella molteplicità delle sue manifestazioni empiriche. “L’errore che tutti quanti facciamo ancora molto spesso è di vedere, di accettare noi stessi il capitale per come esso tende a presentarsi, cioè come un insieme atomizzato di situazioni”, (Panzieri 1994, p. 76). È d’obbligo perciò ricercare l’essenza del capitale oltre la sua apparenza. Per avviarsi lungo questa prospettiva, metodologicamente, si deve partire dalla individuazione di ciò che è comune in quell’”insieme atomizzato di situazioni” che riguarda la vita dei lavoratori nel capitale. Questo è possibile perché, secondo l’analisi di Panzieri, la classe operaia, in generale, tende ad un livello comune di rivendicazioni. Si apre qui la possibilità di una ricerca che individui il livello unico delle rivendicazioni e che, oggi, provi a riferire questo livello alle condizioni della classe lavoratrice globalizzata. Certamente il contenuto di tale rivendicazione è un contenuto pienamente politico che va oltre la stabilizzazione dei rapporti tra capitale e lavoro. Quest’ultimo, in fondo, è l’obiettivo sindacale[15].
Tuttavia, come si è appena cercato di argomentare, seguendo il ragionamento di Panzieri, la comprensione dei movimenti di protesta richiede preventivamente e metodologicamente l’analisi del livello del capitale nel suo insieme. Questa analisi si rende necessaria poiché solo grazie ad essa sembra possibile individuare l’elemento comune dei fenomeni di protesta. La protesa, gli scioperi, le manifestazioni e le rivendicazioni non nascono separatamente dalla propria condizione storico-politica; piuttosto essi sono il prodotto del livello che la condizione di sfruttamento capitalistico ha raggiunto in una determinata epoca. Ad osservare disgiuntamente alcune proteste, come Panzieri sembra aver intuito, si corre il rischio di cogliere solo gli elementi superficiali e contingenti, senza poter afferrarne le cause profonde. Insomma, senza analisi comune, le proteste rischiano di venir derubricate a “fatto provvisorio, particolare”, (Panzieri 1994, p. 79).
Per tali ragioni, allora, se è corretto quanto osservato in precedenza, è doveroso compiere quella che Panzieri chiama la verifica (Panzieri 1994, p. 79), ossia la sintesi tra le manifestazioni empiriche delle proteste con il livello storico raggiunto dal capitale. Il capitale infatti è l’elemento non contingente dell’analisi sociale in corso. “Bisogna avere questa verifica, la verifica è sempre al livello del capitale, non può mai essere soltanto all’ interno del livello operaio. Anzi il livello operaio si costruisce seriamente soltanto se esso si è portato al livello del capitale ed è riuscito a dominare, a comprendere, a inglobare il capitale”, (Panzieri 1994, p. 79).
Ecco qualificarsi ulteriormente la prospettiva panzieriana. Essa è operaista in quanto legata alla figura del lavoratore salariato e alla sua possibilità di emancipazione. Si ritiene che, così espresso, il punto di vista e l’analisi operaista possa essere riportato ad oggi pur sapendo che le lotte odierne sono presenti secondo il livello raggiunto dal capitalismo contemporaneo. Per rendere possibile questa operazione occorre da subito ribadire che, oggi, il livello generale di politicizzazione raggiunto dal mondo del lavoro salariato è ben lontano da quello avanzato[16] a cui si riferiva Panzieri. In questa operazione di attualizzazione, è obbligatorio quindi partire dal dato storico della generale sconfitta delle lotte operaie nello sviluppo capitalistico. Tuttavia, oggi, pur partendo necessariamente dal dato di quella sconfitta, può riavviarsi il discorso panzieriano. In particolare, come è stato scritto, è possibile ribadire una idea forte dell’intellettuale torinese, ossia che lo stadio attuale delle lotte operaie è il frutto del livello attualmente raggiunto dal capitalismo. Quest’ultimo, nel corso degli ultimi trent’anni, si è servito di una serie di strumenti che potremmo definire pianificazione razional-tecnologica. Quest’ultima ha avuto come effetto la disfatta delle forme di rivendicazione del XX secolo e la faticosissima ripresa delle lotte anticapitalistiche a noi contemporanee. Quindi, con Panzieri, l’elevatissimo livello di sviluppo del capitalismo fornisce senso al livello di disarticolazione delle lotte e delle condizioni della classe salariata globale. Dal punto di vista dell’analisi, l’attuale livello di sviluppo capitalistico, nella ricchezza di figure con le quali si mostra e domina le più differenti realtà territoriali e sociali, è l’elemento imprescindibile, per comprendere la drammatica difficoltà e l’atomizzazione delle lotte degli strati più deboli della popolazione mondiale. Quelle lotte, dalle quali non è difficile ricavare anche istanze tipiche delle lotte operaie europee del primo Ottocento, si spiegano (specie nella loro difficoltà ad essere sindacalizzate e per la loro quasi impossibilità a tradursi sul piano unitario internazionale) solo alla luce del livello raggiunto dal capitale.
Qui emerge un problema interpretativo. Quando Panzieri collega il livello, lo stato, la condizione delle lotte operaie al livello raggiunto dal capitalismo, pone una sorta di equivalenza: “[…] noi ci accorgiamo e pensiamo di poter affermare che proprio il carattere avanzato delle lotte operaie rivela, diciamo pure, i tratti avanzati del capitalismo”, (Panzieri 1994, p. 79). Se consideriamo letteralmente quanto detto da Panzieri, nella condizione contemporanea, quella equazione è improponibile. Infatti uno dei due termini, (ossia le lotte operaie quale fenomeno anticapitalistico autocosciente del proprio ruolo di classe internazionale), oggi non ha la rilevanza politico-sociale a cui faceva riferimento Panzieri. Il mondo del lavoro salariato si presenta quindi con le caratteristiche della assoluta frammentazione logistica, produttiva e politica e non certo con l’alto grado di integrazione del modello di produzione capitalistico del XXI secolo. Tuttavia, si potrebbe affermare che, applicando l’equazione panzieriana alla condizione attuale dei lavoratori salariati contemporanei e alle forme di precarizzazione del lavoro nelle singole realtà locali o a quello migrante, l’equazione assuma un significato ancora più forte sul piano dell’analisi[17]. Il livello del dominio che il capitalismo ha raggiunto oggi sul piano globale, dispone, conseguentemente, il livello della distribuzione della forza lavoro sull’intero pianeta. Il livello di precarizzazione politico-sociale, della condizione del lavoro salariato mondiale, delle lotte e rivendicazioni (che così difficilmente riesce a mettere in campo), risulta dal dominio, quasi incontrastato, che il capitale, anche esso globalizzato, è riuscito a raggiungere nella nostra contemporaneità. Non c’è qui, quindi, equivalenza politica: nessuna rivoluzione, in grado di scardinare oggi, dal basso, tali meccanismi di dominio, è alle porte; in altre parole non vi è quella “ricchezza di contenuti politici”, a cui faceva riferimento Panzieri, (Panzieri 1994, p. 79). Tuttavia rimane e si conferma l’equivalenza individuata teoreticamente da Panzieri.
Per tale ragione si ritiene che, dal punto di vista dell’analisi, l’equazione panzieriana possa essere intesa come l’espressione di una correlazione, tra capitale e lavoro, comunque esistente. Una correlazione che permette di ricavare lo stato qualitativo e quantitativo, Panzieri direbbe “il livello”, di una delle due grandezze a partire dallo sguardo rivolto all’altra. Nel nostro caso, quindi, lo schiacciante livello raggiunto dal capitalismo contemporaneo corrisponde un equivalente livello di minorità e sofferenza del lavoro che si rapporta a questo capitalismo. Questa è, secondo chi scrive, la via interpretativa attraverso la quale le indicazioni panzieriane possono essere d’aiuto nella decodifica della condizione degli uomini sotto il capitale. Ovviamente questa inferiorità, questa subalternità, non va intesa come un ritorno a forme di dominio capitalistico di stampo ottocentesco. Se così fosse, non solo salterebbe l’analisi di Panzieri, ma si rischierebbe di non comprendere adeguatamente la storia dello sviluppo del modo di produzione capitalistico. Detto diversamente, non è una lettura storicistica degli avvenimenti che può permetterci di cogliere, marxianamente, la logica specifica dell’oggetto specifico, ossia quello stato che “rivela effettivamente la realtà del capitalismo di oggi”, (Panzieri, 1994 p. 79).
A partire dalla condizione storico-empirica dello stato avanzato delle lotte operaie in quello sviluppo capitalistico (gli anni Sessanta), si possono quindi cogliere due elementi: (1) il dato politico (da cui si ricava il livello di coscienza di classe di quel periodo storico e gli errori strategici di valutazione a cui si è accennato in precedenza) e (2) il dato teoretico, vale a dire l’esigenza, suggerita da Panzieri, di proporre sempre un’analisi delle forme capitalistiche di produzione a partire dalla lettura circolare (condizione delle lotte-analisi del livello del capitalismo-verifica della analisi). Così il valore teoretico dell’affermazione di Panzieri, secondo cui le lotte operaie “sono avanzate quanto è avanzato il capitale”, (Panzieri 1994, p. 79) assume un significato più ampio. Per chi scrive, quindi, il termine “avanzate”, utilizzato politicamente da Panzieri, può essere liberato dalla sua contingenza.
Perciò l’analisi, che si vuol proporre, parte dalle lotte operaie in quella loro particolare condizione che si dà oggi in assenza della classe operaia poiché è difficile definire alto il livello della protesta, sia alla periferia del sistema capitalistico[18], sia nel mondo occidentale. Anzi, la condizione generale del lavoro salariato, il quale non ha certo perso importanza a livello globale, manifesta tutta la sua difficoltà. Come riportato, già nel 2004, da Emilio Quadrelli, il bilancio potrebbe essere così definito. “Revisione e/o rimozione della memoria, esclusione sociale delle classi subalterne e riattivazione di ordini discorsivi neocoloniali nei confronti delle popolazioni non occidentali, questo lo scenario che i cosiddetti processi di globalizzazione riservano a coloro che un’analisi disincantata non può che definire globalizzati in basso. Una realtà che lascia obiettivamente ben poco spazio all’edulcorato e ovattato mondo della lotta per i diritti generali e che, più realisticamente, dovrebbe suggerire ai dominati di riprendere in mano il filo rosso della lotta per i propri diritti particolari” (Raimondi 2004, p. 52).
2.La subordinazione alle macchine-macchine e ritorno a Marx.
Se applichiamo questo discorso alla condizione contemporanea[19], le lotte, le proteste globali per il salario e le condizioni di salubrità lavorativa e di vita, raccontano: (1) il livello di pervasività e di forza del capitale globalizzato, (2) l’estrema difficoltà di queste lotte a seguirlo politicamente a quel livello e quindi (3) a trasformare i propri contenuti universali in contenuti politici contemporaneamente locali e universali. Una volta ricollocata la questione dell’attuale crisi, e sconfitta, della classe operaia, in particolare dopo il 1989, è possibile utilizzare le chiavi di lettura panzieriane per compiere quella operazione di comprensione del livello del capitale a cui si è fatto riferimento. Questo è possibile grazie alla riproposizione panzieriana del punto di osservazione operaio quale elemento essenziale dell’analisi marxiana.
A ben vedere, quindi, è proprio a livello dell’analisi che va ricercato uno dei contributi più significativi del lavoro del fondatore dei Quaderni rossi: intrecciare dati empirici grezzi con l’analisi teoretica per produrre, successivamente, una lettura più esaustiva della contingenza all’interno dei processi di lunga durata ricavandone il senso profondo. Le esigenze di comprensione e di ricerca analitica (svolte secondo la prassi della conricerca), la metodologia di ispirazione dellavolpiana e un autentico ritorno a Marx, erano l’elemento distintivo dei Quaderni rossi. Occorre allora ribadire che l’urgenza di meglio analizzare i processi socio-politici innescati negli anni Sessanta produrrà la rottura con il gruppo di Mario Tronti, classe operaia. Nell’idea del filosofo romano, e del suo gruppo, infatti “non bastava più fare analisi della produzione capitalistica o studiare le lotte operaie, bisognava intervenire nelle lotte operaie, per orientarle, in misura minima per organizzarle” (Milana 2008, p. 599) [20]. Quel “non bastava più fare analisi” era evidentemente riferito all’atteggiamento della redazione di Quaderni rossi e in primo luogo a Panzieri.
Si ritiene che proprio questo ulteriore supplemento d’analisi, così sentito da Panzieri e dal gruppo torinese di Quaderni rossi, sia stato in grado di individuare con assoluta chiarezza le principali linee di tendenza dello sviluppo capitalistico, emerse con il neocapitalismo, che matureranno nel corso di tutto l’ultimo scorcio di secolo. Su questo, l’analisi di Panzieri non potrebbe essere più indicativa della condizione di precarizzazione e di subalternità odierna del lavoro al capitale. “Noi, per esempio, ci accorgiamo che tutte le rilevazioni che possiamo fare circa la tendenza della classe operaia a riproporre in ogni lotta, anche in quella che parta da problemi sindacali immediati, il rapporto complessivo fra classe operaia e capitale, corrisponde a un aspetto assolutamente fondamentale della condizione del lavoro nel capitalismo pienamente sviluppato: quando cioè il capitalismo è arrivato a quello stadio di sviluppo della composizione organica del capitale, a quel livello del rapporto fra capitale costante e capitale variabile – del rapporto, cioè, tra il complesso del lavoro passato utilizzato come capitale (macchine, materie prime, materie ausiliarie, ecc.) da una parte e forza-lavoro dall’altra -, per cui esso ha necessità di ottenere una assoluta integrazione del capitale variabile nel capitale costante, cioè ha bisogno di essere assolutamente garantito che il capitale variabile, cioè la forza-lavoro vivente – le macchine che, diceva Marx, vanno a dormire la sera a casa e abitano a casa la domenica (adesso anche il sabato) -, che le macchine viventi siano in modo assoluto subordinate alle macchine morte”, (Panzieri 1994, pp. 79-80).
La lunga citazione ha evidentemente un valore che travalica il periodo in cui è stata scritta. Anzi, essa, sembra avere oggi una validità ancora più chiara. In breve la subordinazione dei lavoratori, la loro atomizzazione precaria, spesso la mancanza di autocoscienza del proprio ruolo e, infine, la marginalizzazione politica, non possono che restituire, a livello teoretico, l’imperativo di una analisi che si inneschi a partire dalla condizione operaia[21]. Dal punto di vista della produzione, oggi, rimane largamente presente l’idea di fondo che la tecnologia, applicata alla produzione, possa regalare, presto o tardi, forme di emancipazione dal lavoro, ricercate nel Novecento attraverso azioni politiche dal basso. La tecnologia, secondo questo punto di osservazione, potrebbe assumersi l’onere emancipativo che gli operai del XX secolo avevano individuato nei processi di liberazione attraverso le lotte politiche e sindacali. La tecnologia potrebbe, ad esempio, liberare del tempo da poter dedicare ad altro. Questa retorica, accresciuta dal discorso pubblico sulle virtù unilaterali delle nuove tecnologie elettroniche, applicate dentro e fuori dal processo produttivo, impone i suoi effetti pervasivi alla società contemporanea. Si ritiene che siano questi i due elementi, tra gli altri, che debbano emergere come il più importante lascito panzieriano. Quindi, da un lato la consapevolezza della non neutra ma devastante azione della tecnologia e del piano capitalistico (dagli anni Sessanta ad oggi), dall’altro lato la necessità di un ritorno a Marx per poter analizzare il valore da attribuire alle nuove condizioni tecnologico-sociali. Qui, evidentemente, si entra all’interno di un’altra e più vasta dimensione suggerita dalla riflessione panzieriana. Il ruolo non neutro della tecnologia è solo il più recente e formidabile distruttore di un universo di relazioni sociali che sta all’origine del capitalismo e della sua specifica forma di razionalità. Questa separazione si manifesta, in particolar modo tra XX e XXI secolo, con le sembianze della macchina, ossia con i processi di automatizzazione della produzione industriale. Tuttavia[22], l’identikit delle macchine per produrre (da quelle del neocapitalismo agli attuali sistemi digitali di produzione) va compreso in tutta la sua interezza. Il concetto di macchina è ovviamente molto più ampio e pervasivo rispetto agli oggetti e agli strumenti di lavoro in cui si manifesta. Infatti Panzieri così intende il significato di macchina: “intendo la parola macchina non in senso empirico: le macchine sono gli impianti, ma sono anche le tecniche, sono anche l’organizzazione del lavoro ecc.” (Panzieri 1994, pp. 79-80). Il concetto di macchina per Panzieri avvolge certamente tutta la produzione e si espande oltre essa, come avrà modo di segnalare il saggio che più di tutti sarà il vertice della sintonia teoretica Tronti-Panzieri: La fabbrica e la società (Tronti 1962, pp. 1-31) apparso sul secondo numero di Quaderni rossi.
Oggi si sente l’esigenza di ribadire con forza che le macchine, intese nel senso della forma più alta della razionalità tecnologica del capitalismo, hanno certamente potenziato il loro ruolo nella società e nella fabbrica. Il piano capitalistico, la forma di estrema ottimizzazione della produzione, passa attraverso le tecnologie alienanti con le quali l’uomo si interfaccia. Si tratta delle “macchine-macchine” di cui parla Panzieri e che oggi mantengono quelle dimensioni della pianificazione e della disciplina (due delle sue declinazioni razionali) già individuate dal fondatore dei Quaderni rossi. “Nella fabbrica il capitale afferma in misura via via crescente il suo potere «come privato legislatore». Il suo dispotismo è la sua pianificazione, «caricatura capitalistica della regolazione sociale del processo lavorativo»“, come scriveva Panzieri nel suo saggio sulle macchine del primo numero di Quaderni rossi (AA. VV. 1978, p. 55)[23]. Non stupisce quindi che, la sfavillante efficienza produttiva, ottenuta da alcuni giganti della produzione mondiale sia raggiunta al prezzo del restringimento degli spazi di vita e umanità dei lavoratori, all’interno di regimi di legislazione privati e militarizzati[24].
Si ritiene infine che siano questi i due elementi che debbano emergere dal lascito panzieriano. Da un lato l’azione fortemente orientata della tecnologia (intesa anche nel senso del piano capitalistico) che si dispiega dagli anni Sessanta ad oggi, dall’altro lato la necessità di un ritorno a Marx per poter analizzare compiutamente il valore da attribuire a questa forma di razionalità capitalistica[25]. Forse, ripercorrere oggi questo duplice e arduo sentiero può essere meno improbo, grazie agli spunti offerti da Raniero Panzieri e alla più ampia riflessione che si è creata attorno a lui.
Note al testo
[1] Goffredo Fofi, intellettuale che ha conosciuto molto da vicino Panzieri, traccia un bilancio che sembra avere principalmente questo significato. “Il molto che abbiamo appreso da Panzieri fa parte di una storia nel bene e nel male chiusa, si direbbe, definitivamente. Bisogna ripartire da altre storie, da altre lezioni che probabilmente per una lunga fase di incertezza e sincretismo retta bensì de alla coscienza di certi irrinunciabili valori e, panzierianamente, da un “metodo” – quello della conricerca e inchiesta, quello della verifica in una “base” che non è più la classe ma che, in modi nuovi e complessi, pure continua a essere anche classe. E che si trova molto più altrove che non nel mondo sviluppato del capitalismo, trionfante grazie al consenso dei suoi proletari” in (Pianciola 2014, p. 59). Cesare Pianciola sembra sulla stessa linea di Fofi: “Rileggendo i suoi scritti, ammiriamo il suo coraggio di andare controcorrente, la sua ferma volontà di esplorare nuove vie accettando il prezzo dell’emarginazione, e la sua ostinata speranza in un socialismo molto diverso dai regimi autoritari che ne avevano usurpato il nome, anche se poi è andato tutto in modo troppo difforme da quanto credevamo di leggere nella realtà e ci aspettavamo per il futuro per non misurare criticamente l’ampiezza del mezzo secolo che ci separa da lui”. (Pianciola 2014, p. 50).
[2] Per comprenderlo, basterebbe rifarsi al discorso tenuto a Siena in occasione della presentazione del primo numero di Quaderni rossi. Quel discorso, opportunamente sistemato per la pubblicazione su carta da Stefano Merli, porta il titolo Le lotte operaie nello sviluppo capitalistico. Si veda quanto scritto da Panzieri in Spontaneità e organizzazione, (Panzieri 1994, pp.73-92).
[3] Si veda il testo di Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neo-capitalismo, (Panzieri, 1994).
[4] Il giudizio completo di Tronti è il seguente: “Nel breve periodo aveva ragione lui. Nel periodo medio avevamo ragione noi. Sul lungo periodo avevamo torto tutti”, (Ferrero 2005, p.257).
[5] Tronti, per evitare polemiche così lo aggettiva alla fine dell’intervista riportata nel libro di Milana (Milana, 2008, p.609).
[6] “L’operaismo italiano degli anni Sessanta comincia con la nascita di «Quaderni rossi» e finisce con la morte di «classe operaia». Punto. Questa è la tesi. Poi — si le grain ne meurt — si riproduce in altri modi, si reincarna, si trasforma, si corrompe e… si perde” (Milana, 2008, p. 5).
[7] Rispetto al processo di dissoluzione della classe operaia dovuto ai cambiamenti epocali del post 1989, così si esprime Nick Dyer-Whiteford. “With these transformations, a whole culture of industrial class struggle, including both the technical composition on which it was based and its political composition in political parties, trade unions, community solidarity and militant cadres, was effectively annihilated. Not just working-class power, but the very concept of class itself seemed erased as a triumphant capitalism announced social existence to be a mere sum of privatized market choices”, (Dyer-Witheford 2015, p. 38).
[8] “Noi abbiamo rivendicazioni di tipo diverso – salario a rendimento, rivendicazioni che riguardano addirittura la contrattazione degli organici, tempi e ritmi di lavoro, ecc. – che si presentano molto diverse da situazione a situazione, da azienda ad azienda, da zona a zona ecc.;” (Panzieri 1994, p. 74).
[9] Tuckman, J. (25-02-2015). Baja California farm workers demand better pay and working conditions. The Guardian. http://www.theguardian.com/world/2015/mar/25/mexico-baja-california-farm-workers-strike [07-02-2016]
[10] Ai primi incontri tra il gruppo torinese di Quaderni rossi e la figura di Mario Tronti va attribuito questo ritorno diretto a Marx. Questa riscoperta di Marx, depurato dalle incrostazioni storicistiche secondo quanto riferito da Mario Tronti fu proprio l’incontro intellettuale tra il gruppo dei “torinesi” e quello “romano” di Quaderni rossi che produsse un sistematico ritorno a Marx. Commenta Tronti: “Lo stesso Panzieri che pure aveva già tradotto con la moglie il secondo libro del Capitale (il libro sulla circolazione delle merci, sul denaro), spostò tutta la sua attenzione sul primo libro, sulla famosa quarta sezione (produzione del capitale, la storia della grande industria, il macchinismo). “Fu un enorme salto di qualità che Panzieri lucidamente colse come una grande opportunità”, (Milana 2008, pp. 595-596).
[11] A tal proposito si pensi a come Panzieri metta in rapporto dialettico la situazione paradigmatica della FIAT con quella dei cotonifici in val di Susa.
[12] “La realtà empirica delle singole situazioni è importante in quanto però rimanda alla realtà complessiva del capitale; e questa comprensione è la sola che permette di ritornare poi a comprendere veramente le singole situazioni”, (Panzieri 1994, p. 76).
[13] Si ricordi che il testo in esame è stato registrato alla presentazione del 1° fascicolo dei Quaderni rossi a Siena nel marzo 1962, presso la Federazione giovanile del Psi.
[14] “E poi ci sono tutti i miti tecnologici, positivi e negativi, che troviamo nelle forme più raffinate presso gli intellettuali borghesi e riformisti. Quelli più positivi sono facili a svelarsi: sono quelli che dicono che il socialismo verrà sull’ onda dell’automazione, per cui questo futuro mostruoso che sarebbe un mondo automatizzato nel capitalismo, questa che è soltanto un’idea limite, evidentemente, viene rovesciata in forma positiva come liberazione dell’uomo, con tutte le conseguenze (e ricompare anche qui il benessere, ecc. ecc.)”, (Panzieri 1994, p. 87).
[15] Aggiunge Panzieri: “Il secondo significato, più generale, è quest’ altro: cioè che in realtà, in quella lotta sindacale, gli operai avevano espresso un contenuto che non può essere soddisfatto da nessuna conclusione sindacale, perché ogni azione sindacale, per quanto sia avanzata, ha sempre un aspetto, appunto quello contrattuale, che è inevitabilmente sempre un aspetto di stabilizzazione del sistema: il quale è precisamente ciò che gli operai avevano invece messo in discussione nella lotta”, (Panzieri 1994, p. 78).
[16] “Le lotte operaie tendono ad essere avanzate – usiamo questa brutta e anche ambigua parola – tendono, diciamo meglio, ad avere una tale ricchezza di contenuti politici in assoluta corrispondenza al livello raggiunto dal capitale: sono avanzate quanto è avanzato il capitale, quanto è avanzato il capitalismo del nostro paese”, (Panzieri 1994, p. 79).
[17] È evidente che sul piano politico essa non è presentabile, ma, come s’è argomentato in precedenza, la stessa sua applicazione alle lotte dei primi anni ’60 può apparire problematica se osservata da un punto di vista contemporaneo.
[18] A titolo di esempio si consideri un caso di alcune condizioni di lavoro che richiedono, da parte sindacale, l’intervento di tutela di altre realtà governative (Europa) su quelle del paese dove sono allocati i siti produttivi. “EU must do more to protect Bangladesh garment workers The EU must do more to protect Bangladesh garment workers by ensuring the country’s government complies with the rules of its trade arrangement – this was the finding of a recent evaluation by global unions UNI and IndustriALL” in http://www.uniglobalunion.org/news/eu-must-do-more-protect-bangladesh-garment-workers
[19] Ad esempio l’effetto della crisi sul lavoro salariato è, in parte, ricavabile da qui: At the global level, average wages have grown but at lower rates than before the crisis. However this Global Wage Report 2012/13 shows that the impact of the crisis on wages was far from uniform. http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—dgreports/—dcomm/—publ/documents/publication/wcms_194843.pdf
[20] “Ripeto, nel ’62 vedere fisicamente questa classe operaia italiana in lotta aperta fu una cosa che convinse me e tutti quelli che faranno poi «classe operaia» che era venuto il momento di fare un passo più audace. Non bastava più fare analisi della produzione capitalistica o studiare le lotte operaie, bisognava intervenire nelle lotte operaie, per orientarle, in misura minima per organizzarle. Sembrava che ci fosse una classe operaia ormai disponibile a una grande passaggio storico politico, quasi una situazione rivoluzionaria o pre-rivoluzionaria, a fronte di un Movimento Operaio (sindacati e partiti) che arrancava, era ancora molto indietro, incapace di vedere e comprendere il fatto storico nuovo di una classe operaia disponibile a un grande passaggio di rottura rivoluzionaria” Tronti in (Milana 2008, p. 599)
[21] Si ritiene che stia a questo elemento debole (perché indebolito) del rapporto capitale-lavoro il compito di risollevare le proprie sorti. Discorso simile, anche se con riferimenti storici leggermente differenti è quello compiuto da Dyer-Whiteford (Dyer-Whiteford 2015, p. 4).
[22] Qui si apre un altro fondamentale elemento della riflessione di Panzieri in particolare ma dei Quaderni rossi in generale, vale a dire il ruolo della più ampia forma di razionalità capitalistica alla quale vanno imputati gli effetti della imposizione dei processi tecnologici nella fabbrica e nella società.
[23] Panzieri R., Sull’uso…, in Quaderni Rossi, 1/1961, p. 55 in AA. VV. 1978
[24] Paterson, T. (14-02-2013). Amazon ‘used neo-Nazi guards to keep immigrant workforce under control’ in Germany. The Independent. http://www.independent.co.uk/news/world/europe/amazon-used-neo-nazi-guards-to-keep-immigrant-workforce-under-control-in-germany-8495843.html.
[25] Un percorso di analisi che si muove in questa direzione è quello di Dardot e Laval in merito alla forma neoliberale della razionalità capitalistica. Significativa è questa loro osservazione: “La razionalità neoliberale ha per principale caratteristica quella della generalizzazione della concorrenza come norma di comportamento e dell’impresa come modello di soggettivazione”. “[…] siamo di fronte a una ragione globale nel duplice senso del termine: una ragione che di colpo diventa valida su scala mondiale e una ragione che, lungi dal limitarsi alla sfera economica, tende a totalizzare, cioè a «fare mondo», con un proprio specifico potere di integrazione di tutte le dimensioni dell’esistenza umana. La ragione del mondo è anche, contemporaneamente, una «ragione-mondo»”, (Dardot, Laval 2013, p. 8).
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