L’ambivalenza della «Gewalt» in Marx ed Engels. A partire dall’interpretazione di Balibar

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joan-mitchell-1969-untitled-11818Luca Basso

 
 

In der wirklichen Geschichte spielen bekanntlich
Eroberung, Unterjochung, Raubmord, kurz
Gewalt die große Rolle. In der sanften
politischen Ökonomie herrschte von jeder
die Idylle.
K. Marx, Das Kapital

 

Das Recht auf Arbeit ist im bürgerlichen Sinn ein
Widersinn, ein elender, frommer Wunsch,
aber hinter dem Rechte auf Arbeit steht die Gewalt
über das Kapital […], also die Aufhebung der
Lohnarbeit, des Kapitals und ihres
Wechselverhältnisses.
K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848 bis 1850

 
 
La riflessione intorno alla struttura e alla valutazione della Gewalt ha sempre costituito una questione controversa all’interno del marxismo, a causa delle (apparenti o reali) ambiguità esistenti all’interno del percorso teorico di Marx ed Engels, e a causa della rilevanza delle conseguenze politiche insite in una determinata scelta di campo al riguardo. La trattazione del concetto indicato, da parte di Marx e Engels, si contraddistingue per una sostanziale ambivalenza, presentando quindi una caratterizzazione complessa e articolata, che sembra irriducibile sia alla sua esaltazione in quanto “levatrice della storia”, sia, di converso, alla sua eliminazione sulla base di una conciliazione “irenica” fra marxismo e pacifismo. Ad offrire un’occasione molto stimolante per l’approfondimento di tali temi è l’articolo di Etienne Balibar (2001a) sulla nozione di Gewalt, apparso sull’Historisch-kritisches Wörterbuch des Marxismus[1].

Occorre sottolineare la forte pregnanza del termine Gewalt nella lingua tedesca, che si presta perfettamente a sottenderne il carattere ambivalente: Gewalt è, nello stesso tempo, violence e power, violence et pouvoir, violenza e potere. Tale parola non si limita, quindi, a connotare la violenza stricto sensu, investendo un campo d’azione più vasto: essa non concerne solo la violenza vera e propria, seppur esercitata nella dimensione pubblica, statale, ma la violenza-potere nel suo complesso, nell’intreccio problematico di tali elementi. Come risulta evidente dall’esame di vari lessici tedeschi, ci si trova di fronte a una connessione strutturale fra Herrschaft, Macht e Gewalt[2]. Queste nozioni, seppur con differenti sfumature e peculiarità, contrassegnano la sfera statuale: una gigantesca, immane concentrazione del potere, in grado di sottomettere a sé i singoli individui, nella misura in cui essi hanno consensualmente scelto di cedere tutti i propri diritti al corpo politico, al fine di ricevere, in cambio, pace e sicurezza. L’assetto istituzionale venutosi a formare possiede un carattere di legittimità: ogni atto del detentore della sovranità, se è coerente con l’ordinamento giuridico nel suo complesso, si rivela quindi a priori legittimo, essendo frutto del consenso dei cittadini-sudditi. Anche la violenza in senso proprio viene giustificata da tale meccanismo di legittimazione. Da questo punto di vista, si rivelano compatibili le due celebri affermazioni, rispettivamente, di Karl Marx e di Max Weber: lo Stato, secondo il primo, è «la violenza concentrata e organizzata della società (die konzentrierte und organisierte Gewalt der Gesellschaft)» (Marx 1867, 779 [814]), e, secondo il secondo, è «quella comunità umana (menschliche Gemeinschaft), che nei limiti di un determinato territorio […], esige per sé (con successo) il monopolio della forza fisica legittima (das Monopol legitimer physischer Gewaltsamkeit)» (Weber 1948, 48). Da queste considerazioni emerge non solamente il fatto che Gewalt (e termini affini come Gewaltsamkeit) presentano una maggiore area di estensione rispetto all’inglese violence, includendo il power, ma anche, più radicalmente, che ciascuna delle componenti indicate si rivela strutturalmente ambivalente. L’articolo di Balibar prende le mosse giustamente da questo problema, e quindi dalla comprensione del carattere ancipite del concetto in questione. Tale riflessione non approda a un dualismo fra il potere non-violento e la violenza extraistituzionale, visto che lo Stato include la possibilità continua della violenza, seppur legittima: le definizioni di Marx e di Weber concordano nell’individuazione del carattere di Gewalt dello Stato. Il riconoscimento del nesso esaminato conduce il ragionamento in una direzione inconciliabile rispetto a quella di Hannah Arendt (20022), che dà vita a una contrapposizione fra la violenza e il potere, intendendo quest’ultimo come elemento radicalmente altro rispetto alla prima[3].
 

***

 
Le due principali direttrici della presente indagine sono le seguenti. La prima risiede in un’analisi cursoria, a partire dalla trattazione di Balibar, della nozione di Gewalt in Marx e Engels, volta a mostrarne la connessione con la struttura capitalistica, sul piano economico, e con la dimensione statuale, sul piano politico. Come vedremo, il rapporto tra l’orizzonte economico e quello politico non appare definito una volta per tutte. La seconda, più problematica, consiste nell’esaminare se tale concetto possa essere usato “in positivo” o solamente a livello critico e decostruttivo: in caso affermativo, si tratta di capire se la Gewalt proletaria si riveli asimmetrica rispetto alla Gewalt capitalistica, o se, al contrario, presenti le medesime caratteristiche di fondo, seppur ribaltate.

Cominciamo dalla prima questione. Marx mette in luce a più riprese il legame fra Gewalt e Herrschaft, Macht, Staat: l’idea dello Stato come «violenza concentrata e organizzata» ritorna continuamente, seppur con differenti sfumature, all’interno dell’itinerario marxiano. In particolare, l’intero Capitale, come rileva Balibar (Balibar 2001a, 1284 [63]), può essere definito come una sorta di analitica della Gewalt: il capitale, fin dal suo sorgere, presenta tale elemento come sua struttura costitutiva, e lo Stato, forma politica adeguata all’assetto capitalistico, è carico di una violenza immediata all’interno e all’esterno (colonialismo) e di una violenza mediata, nella dimensione giuridica e politica. Il capitolo XXIII del Capitale, incentrato sull’accumulazione originaria, mostra in modo estremamente incisivo come alle origini del processo capitalistico si trovi una gewaltsame Expropriation der Volksmasse, e quindi una lacerazione violenta. Viene così decostruito il mito liberale della sua origine “idillica” nella proprietà privata individuale: se si esamina la storia in modo disincantato, non si può non vedere che essa è caratterizzata «dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza (Gewalt)» (Marx 1867, 742 [778])[4]. La wirkliche Geschichte appare contraddistinta, in ultima istanza, dalla Gewalt, a differenza di quanto sostenuto, in modo nient’affatto innocente, dagli esponenti dell’economia politica. Nel capitolo XXIV, poi, si fornisce un quadro vivido della Disziplin impartita dal capitale ai lavoratori salariati, in parte per mezzo della forza brutale in parte per via giuridica, vale a dire mediante leggi (cfr. Marx 1867, 765 [800]). L’accumulazione originaria si sostanzia così di «una serie di metodi violenti (gewaltsame Methoden)» (cfr. Marx 1867, 790 [824]), che concernono sia la violenza fisica, sia una sorta di Gewalt riflessa, relativa a quelli che Althusser definiva gli «apparati ideologici di Stato» (Althusser 1995). In questa storia altra (rispetto a quella “ufficiale”), proposta da Marx, il capitale viene interpretato criticamente, mostrando che esso «viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro» (Marx 1867, 788 [823]): «La storia di questa espropriazione (Expropriation) degli operai è scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco» (Marx 1867, 742 [779]).

Tale Gewalt si inscrive perfettamente nella struttura del modo di produzione capitalistico: siccome quest’ultimo è dominato dal denaro e dalla sua accumulazione, «la potenza sociale (die gesellschaftliche Macht) diventa potenza privata (Privatmacht) della persona privata» (Marx 1867, 146 [164]). Anche nei Grundrisse si insiste spesso sul fatto che il denaro costituisce una soziale Macht, che prende addirittura le sembianze della “vera comunità” (Marx 1857-1858, 149 [I, 183])[5], dando vita al paradosso secondo cui un dispositivo di dominio si trova «nella tasca», sulla base di uno “scambio” fra sfera privata e sfera sociale: «Il suo potere sociale (gesellschaftliche Macht), così come il suo nesso con la società (Gesellschaft), egli lo porta con sé nella tasca» (Marx 1857-1858, 90 [I, 97]). Ma, in questo modo,
 

il carattere sociale dell’attività [… si presenta] qui come qualcosa di estraneo (Fremdes), di oggettivo (Sachliches) di fronte agli individui; non come loro relazione (Verhalten) reciproca, ma come loro subordinazione (Unterordnen) a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti (gleichgültigen Individuen aufeinander). (Marx 1857-1858, 91 [I, 97-98])

 
Il denaro, quindi, si configura come struttura sociale, e, nello stesso tempo, come fattore di isolamento individuale, dal momento che sottomette i singoli a una soziale Macht, che è però sachliche e fremde: sachliche, in quanto materializzata in una cosa, fremde, in quanto si erge contro gli individui come una forza che li sovrasta e li domina[6]. Tale soziale Macht viene definita anche fremde Gewalt; ad esempio, per indicare il medesimo problema, nell’Ideologia tedesca Marx ed Engels affermano:
 

La potenza sociale (die soziale Macht), cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui […] non come la propria potenza unificata (vereinte Macht), ma come un potere estraneo (fremde […] Gewalt), […] che essi non possono più dominare. (Marx, Engels 1846, 34 [24])[7]

 
La soziale Macht, materializzata in un oggetto, il denaro, costituisce una fremde Gewalt, una violenza-potere che sovrasta gli individui, impedendo loro la possibilità di instaurare rapporti altri rispetto a quelli legati al denaro e alla sua accumulazione: «sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nell’immaginazione, perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali (zufällig); nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva (sachliche Gewalt)» (Marx, Engels 1846, 76 [55]). D’altronde, nella successiva critica dell’economia politica, la nozione di capitale come «lavoro morto», che succhia come un vampiro il «lavoro vivo» (Marx 1867, 247 [267]), si muove nella stessa direzione: emerge l’idea di una soggezione violenta, non soltanto nel senso della forza brutale, ma anche in quello, apparentemente più tenue, del dominio astratto e impersonale, aspetti perfettamente “catturati” dal termine Gewalt. Al riguardo Balibar (2001a, 1284 [63]) definisce il Capitale come «un trattato sulla violenza strutturale istituita dal capitalista»: ci si trova di fronte ad una vera e propria «fenomenologia della sofferenza» (Balibar 2001a, 1285 [64]), a tal punto da poter utilizzare entrambe le formule, «violenza dell’economia, economia della violenza» (Balibar 2001a, 1284 [63]). Se la prima espressione ci indica chiaramente il fatto che il modo di produzione capitalistico si fonda su una violenza strutturale, la seconda espressione rimanda alla necessità di un approfondimento ulteriore. La formula «economia della violenza» richiama il problema dell’uso politico della violenza, sulla base dell’idea secondo cui la violenza non costituisce un puro effetto delle leggi economiche, ma può essere adoperata, fatta esplodere o calibrata (Michaud 1978, 157-162)[8].

In precedenza ho sottolineato un aspetto che occorre riprendere, vale a dire che lo Stato, nel suo complesso, si presenta come elemento adeguato allo sviluppo capitalistico, e quindi allo sfruttamento della forza-lavoro in esso insito. Ho messo in luce il carattere di violenza-potere dello Stato, secondo Marx vera e propria konzentrierte und organisierte Gewalt der Gesellschaft (Marx 1867, 779 [814]), aggiungendo che la celebre definizione weberiana si rivela tutt’altro che incompatibile con questa posizione, dal momento che segno distintivo di tale Gewalt rispetto ad altre Gewalten è proprio la legittimità. Si tratta della violenza, della forza, del potere, ma con il marchio della legittimità. Tale impostazione permette di individuare un’omologia tra l’espropriazione capitalistica e l’espropriazione derivante dai meccanismi dello Stato moderno. Occorre tener presente questo parallelismo, ma senza cadere nell’equivoco di interpretarlo come una sorta di identità, ovvero senza mai sovrapporre fino in fondo i due piani, quello economico e quello politico, e quindi senza dedurre il secondo dal primo, sulla base del rigido determinismo adottato da una parte del marxismo. D’altronde, seppur con varie difficoltà, l’analisi marxiana del bonapartismo fornisce una complicazione a tale questione, dal momento che tenta di interpretare il problema del possibile autonomizzarsi dello Stato rispetto ai rapporti economici: la relazione tra l’“economico” e il “politico” si presenta tutt’altro che lineare. Ad esempio, nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx sottolinea che, con l’ascesa al potere di Luigi Bonaparte, venne sostenuto il «potere sociale (gesellschaftliche Macht)» della borghesia, ma negandone il «potere politico (politische Macht)»: economicamente essa rimase la herrschende Klasse, ma a prezzo di una completa cessione a Bonaparte del dominio politico (Marx 1852, 154 [117]). Friedrich Engels si trovò di fronte a una difficoltà analoga, nel momento in cui si mise a esaminare l’età di Bismarck nel testo Die Rolle der Gewalt in der Geschichte (scritto nel 1895 e mai pubblicato), che avrebbe dovuto far parte dell’Anti-Dühring. Balibar si sofferma a lungo su tale opera, che presenta un’ampia trattazione del problema della Gewalt (Balibar 2001a, 1270-1279 [49-59]): il suo interesse è anche legato al fatto che in Marx questa nozione, pur giocando un ruolo decisivo, non viene mai affrontata sistematicamente.

Nel testo indicato la connessione con la questione del bonapartismo, e quindi dell’autonomia dello Stato, viene enunciata chiaramente: Bismarck viene caratterizzato come un Luigi Bonaparte «in abiti prussiani» (Engels 1887-1888, 426 [42]), che, con la sua gestione autoritaria e centralistica, svolse l’importante compito di far diventare la Germania uno Stato nazionale, condizione necessaria per uno sviluppo capitalistico in senso pieno (Engels 1887-1888, 411 [16])[9]. Qui emerge, in primo luogo, il legame fra struttura capitalistica e dimensione statale. Ma a questo “classico” tema della tradizione marxista, si aggiunge un altro problema, derivante dalla sempre possibile frattura fra il detentore della politische Macht (o Herrschaft) e la classe borghese: Engels, riprendendo per molti versi l’analisi marxiana del bonapartismo, sottolinea che Bismarck «dissipò violentemente (gewaltsam) le illusioni liberali della borghesia, ma appagò le sue esigenze nazionali» (Engels 1887-1888, 429 [47]). La via prescelta fu di rafforzare la soziale Herrschaft della borghesia, ma annientandone la politische Herrschaft (Engels 1887-1888, 413 [21]): Bismarck assecondò tale classe, decisiva per la questione nazionale e per la crescita economica, ma tenendo saldamente ancorato a sé il potere politico. Così Bismarck appare a Engels come «un prussiano rivoluzionario dall’alto (preußischer Revolutionär von oben)» (Engels 1887-1888, 433 [55]): «rivoluzionario», in quanto condusse la Germania alla formazione dello Stato nazionale e, conseguentemente, fornì un impulso allo sviluppo capitalistico, condizione di possibilità della lotta di classe proletaria, e quindi del comunismo (Engels 1887-1888, 460 [104])[10]. In questo processo Bismarck adoperò la Gewalt, assolutamente necessaria per dare vita ad una revolutionäre Umgestaltung: anche la Diktatur risultava in qualche misura inevitabile, in un paese disunito e non ancora capitalistico in senso pieno (Engels 1887-1888, 431 [50-51])[11]. Il suo limite consisteva piuttosto nel fatto che condusse la rivoluzione “dall’alto”, in modo verticistico: «Piuttosto che sul popolo (Volk) egli ha fatto assegnamento sulle manovre condotte dietro le quinte» (Engels 1887-1888, 456, [97]).

Tale analisi engelsiana presenterebbe alla propria base uno schema di filosofia della storia (Balibar 2001a, 1275-1277 [56-58]), come risulta evidente dall’individuazione della successione Stato nazionale-sviluppo capitalistico-lotta di classe-comunismo. Nel caso della Germania, si trattava appunto di superarne l’arretratezza politica e economica, spingendola risolutamente verso la struttura capitalistica: sia il modo di produzione capitalistico, sul piano economico, sia lo Stato, sul piano politico, esercitano una funzione rivoluzionaria, in quanto abbattono una serie di privilegi precedenti, ponendo l’assetto presente nelle condizioni propizie per una rivoluzione proletaria. Per quanto tale impostazione colga alcuni aspetti rilevanti, la sua assunzione “sistematica” si rivela alquanto problematica, fondandosi su un’idea teleologica della storia. Nel testo indicato Engels valorizza il cancelliere, in quanto interprete di tale necessità, per un verso capitalistica, per l’altro nazionale, facendo di esso un rivoluzionario, seppur “dall’alto”. Giustamente Balibar si domanda se tale espressione non risulti fuorviante: «Una Revolution von oben è una rivoluzione? Il termine ‘rivoluzione’ non è irrimediabilmente equivoco, proprio nella misura in cui esso implica un riferimento a diversi tipi di Gewalt, che non si inseriscono in un unico schema di lotte di classe?» (Balibar 2001a, 1274 [53]). Sarebbe l’utilizzo di moduli di filosofia della storia a permettere a Engels di considerare il regime bismarckiano rivoluzionario, attribuendo alla rivoluzione uno statuto ambiguo: verrebbe così accettata acriticamente l’autorappresentazione di Bismarck come “rivoluzionario dall’alto”.

Ma esaminiamo come tale elemento si ripercuota in merito alla questione della Gewalt: oltre al rischio di una deduzione troppo immediata del “politico” dall’“economico” (se il “politico” si muove nella direzione opposta dell’“economico”, va incontro a una sicura sconfitta, come nel caso di Luigi XVI; se si dirige nel senso dello sviluppo capitalistico, come nel caso di Bismarck, va incontro a una sicura vittoria), il problema maggiore è costituito dal fatto che la categoria di Gewalt risente dell’ambiguità del concetto di rivoluzione, e quindi viene totalmente giustificata, se risulta funzionale alla modernizzazione della Germania (come nell’azione politica di Bismarck). Rimane aperta la questione del rapporto tra la Gewalt capitalistica, con il suo carattere brutale (Engels 1887-1888, 446 [79]), e quella proletaria. Il primo tema affrontato, ovvero il nesso di tale categoria con il modo di produzione capitalistico e con la struttura statuale, pur presentando zone d’ombra e difficoltà (si pensi alla non-linearità del nesso fra Stato politico e classe borghese), rivela tratti piuttosto chiari, nel momento in cui individua nella Gewalt un elemento centrale ai fini della comprensione delle dinamiche economiche e politiche. Appare, invece, assai complesso il problema della relazione fra la critica di tale violenza-potere e la delineazione di un altro concetto (e di un’altra pratica) di Gewalt. Si tratta di esaminare se si possa rinvenire, in Marx e in Engels, un’accezione “positiva” di Gewalt, e, in caso affermativo, se essa si presenti come un mero ribaltamento di quella capitalistica, o se esista una dissimmetria tra le due modalità indicate.

Per approfondire la questione, riprendiamo l’analisi dello scritto Die Rolle der Gewalt in der Geschichte di Engels: «In politica ci sono solo due forze (Mächte) decisive, il potere organizzato dello Stato (die organisierte Staatsgewalt),  l’esercito, e il potere non organizzato (die unorganisierte Gewalt), la forza elementare delle forze popolari» (Engels, 1887-1888, 431 [51]). Qui vengono individuate due diverse modalità di Gewalt: alla violenza-potere legale, istituzionale, organisierte, ne viene contrapposta una di altro tipo, unorganisierte. Ma la direzione intrapresa sembrerebbe conforme o, in qualche modo, compatibile con i principi dell’anarchismo e del sindacalismo rivoluzionario (ad esempio, Sorel), e quindi con la valorizzazione dell’elemento spontaneista versus la struttura statuale. D’altronde, lo stesso percorso engelsiano appare in contraddizione con tale prospettiva: basti fare riferimento, ad esempio, all’importanza attribuita al problema dell’organizzazione della classe operaia. Al riguardo Balibar rileva la presenza di una difficoltà teorica da parte di Engels e, talvolta, di Marx, i quali oscillerebbero in modo ambiguo fra l’anarchismo bakuniano e lo “statalismo” lassalliano (Balibar 2001a, 1274 [54])[12]. Da questo punto di vista, non risiede nell’alternativa organizzazione-spontaneismo la differenza specifica fra i due tipi di Gewalt. Anche nella «Teoria della violenza» dell’Anti-Dühring si affaccia, in polemica con Dühring, la possibilità di individuarne un altro ruolo rispetto a quello capitalistico:
 

che la violenza (die Gewalt) abbia nella società ancora un’altra funzione, una funzione rivoluzionaria, che essa, secondo le parole di Marx, sia la levatrice (Geburtshelferin) di ogni vecchia società gravida di una nuova, che essa sia lo strumento con cui si compie il movimento della società (die gesellschafliche Bewegung), e che infrange forme politiche irrigidite e morte, di tutto questo in Dühring non si trova neanche una parola. (Engels 1878, 171 [176-177])

 
La violenza-potere presenta una strutturale duplicità, proprio in quanto non costituisce una sorta di primum metafisico ma uno strumento, come l’intera analisi dell’Anti-Dühring tende a dimostrare (Engels 1878, 148 [153])[13]: essa può essere adoperata anche dalla classe operaia per difendere i propri diritti contro la classe dominante borghese. Ad esempio, nello scritto Sull’azione politica della classe operaia, Engels afferma: «La rivoluzione è il più alto atto della politica […]. Si dice che ogni azione politica significa riconoscere ciò che esiste. Ma se ciò che esiste ci fornisce i mezzi per protestare contro ciò che esiste, l’impiego di questi mezzi non è un riconoscimento dell’esistente» (Engels 1871, 415 [290-291]). Se è chiaro che la violenza possiede una valenza ancipite, e quindi, pur venendo generalmente utilizzata dalla classe borghese, può essere fatta propria anche dal proletariato, non è però altrettanto chiaro se la Gewalt proletaria risulti o meno asimmetrica rispetto a quella borghese.

Per indagare ulteriormente tale problema, ritorniamo a Marx, facendo riferimento innanzitutto al passo del Capitale richiamato da Engels: «La violenza è la levatrice di ogni vecchia società (der Geburtshelfer jeder alten Gesellschaft), gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica (ökonomische Potenz)» (Marx 1867, 779 [814])[14]. Tale riflessione rischierebbe di legittimare la convinzione secondo cui la violenza in sé presenti una funzione propulsiva. Ovviamente si può fornire un’interpretazione differente del passo, valorizzandone gli aspetti espansivi, e in primis il riconoscimento della produttività dei conflitti sociali, secondo una visione dinamica della sfera politica: in ogni caso, rimarrebbe il rischio di approdare a una sorta di vitalismo della violenza, che appare in contraddizione con i segni distintivi della critica dell’economia politica. Sulla base dei principi di quest’ultima, infatti, la Gewalt non può mai costituire un primum né una prospettiva verso cui tendere, dovendo venir indagata a partire dalle condizioni materiali del suo darsi. Ma questa non sarebbe l’unica accezione marxiana di Gewalt a creare difficoltà.

Un altro aspetto problematico è rappresentato dall’assunzione di una categoria di Gewalt sostanzialmente omogenea rispetto a quella sottoposta a critica, seppur in un’ottica ribaltata. Un esempio significativo di tale impostazione è contenuto nel capitolo VIII del Capitale, dedicato alla lotta fra le due classi per la regolazione della giornata lavorativa: «Qui ha dunque luogo un’antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Tra diritti uguali (zwischen gleichen Rechten) decide la forza (die Gewalt)» (Marx 1867, 249 [269])[15]. Ci si trova di fronte a una simmetria fra le due classi: ciascuno dei “soggetti” in lotta detiene il proprio Recht, e a risultare vincitrice è inevitabilmente la classe dotata di maggiore Gewalt. Qui le due classi costituiscono due eserciti in guerra, una guerra condotta all’interno dello Stato: d’altronde la «lotta multisecolare» (Marx 1867, 294 [306]) fra di esse costituisce un vero e proprio Bürgerkrieg (Marx 1867, 316 [335])[16]. Per quanto esista un elemento di forte sbilanciamento, consistente nel fatto che l’una è la classe dominante e l’altra quella dominata, la topografia complessiva appare simmetrica: in uno scenario di questo tipo, anche la violenza-potere proletaria rappresenta la “risposta” dei dominati ai dominanti. Tale questione, però, si rivela più complessa rispetto al punto precedentemente analizzato (il vitalismo della violenza), dal momento che, nella regolazione della giornata lavorativa, la lotta stessa cambia i termini della questione, spostando continuamente i piani del discorso e della pratica politica. Già a partire dall’Ideologia tedesca emerge il fatto che la classe riveste un carattere intrinsecamente politico, non potendo mai venir ipostatizzata fino in fondo né dal punto di vista sociologico né da quello ontologico: «I singoli individui formano una classe solo in quanto devono condurre una lotta (Kampf) comune contro un’altra classe» (Marx, Engels 1846, 54 [54])[17]. L’idea secondo cui la classe esiste, in prima istanza, nella dimensione della pratica, e in particolare nella lotta, può mettere in discussione il riconoscimento di un’omologia nel rapporto fra borghesia e proletariato, visto che, nel Kampf, si costituiscono e si trasformano costantemente le relazioni fra gli individui e le classi, con le loro simmetrie e asimmetrie. Nonostante tale elemento, porre al centro del ragionamento una Gewalt che decide “fra diritti uguali”, rischierebbe di non far uscire dal paradigma sottoposto a critica, rimandando a un orizzonte di forza e di efficacia nell’uso di essa, scenario inevitabilmente “prigioniero” della logica capitalistica.

Un discorso analogo si può fare per la Situazione della classe operaia (1844) di Engels, testo in cui si mette in luce, con tratti hobbesiani, il carattere di bellum omnium contra omnes della concorrenza moderna, con la sua capacità di produrre una separazione radicale fra due classi:
 

questa guerra (Krieg), come dimostrano le statistiche dei delitti, diviene di giorno in giorno più violenta (heftiger), più accanita, più implacabile; i nemici (Feindschaft) si dividono gradualmente in due grandi schiere che lottano l’una contro l’altra: da una parte la borghesia, dall’altra il proletariato. (Engels 1845, 359 [362])

 
In questo contesto, intrinsecamente segnato dalla Gewalt, la spaccatura in classi sembra configurare una perfetta simmetria: ci si trova di fronte a due “eserciti” in lotta, ciascuno dei quali reclama il proprio Recht, per quanto sulla base di una struttura di dominio di una classe sull’altra. Lo sbocco a tale condizione di estrema conflittualità è rappresentato dalla rivoluzione, che non può non essere «violenta (gewaltsam)» (Engels 1845, 472 [479])[18]. Anche qui sembra risultare un quadro simmetrico: alla violenza dei dominanti i dominati devono reagire con altrettanta Gewalt, per far valere i propri diritti, calpestati nella situazione presente. L’opera engelsiana fa però emergere elementi ulteriori rispetto a tale rappresentazione: si faccia riferimento, ad esempio, all’idea secondo cui «il comunismo è al di sopra del contrasto (Gegensatz) tra proletariato e borghesia» (Engels 1845, 506 [514])[19]. La nozione (e la pratica) di comunismo si rivela irriducibile alle linee politico-militari del conflitto fra due classi: esso non può mai essere “catturato” fino in fondo dalle logiche anche simmetriche del loro scontro. Già questa considerazione spinge il ragionamento in una direzione non subalterna al modello oggetto di critica, dal momento che rimanda alla possibilità di una Gewalt che si situi «al di sopra del contrasto tra proletariato e borghesia». Il richiamo al Gegensatz tra le due classi non permette di cogliere fino in fondo il concetto di comunismo, dal momento che quest’ultimo rappresenta un movimento destrutturante nei confronti degli assetti costituiti, compresa l’articolazione classista della società.

Ma in Marx, ancora più che in Engels, si può rinvenire una declinazione di Gewalt che non costituisce una mera risposta della violenza-potere borghese. Il problema consiste nel fatto che, mentre in Engels è possibile individuarne una trattazione in qualche modo “sistematica”, in Marx ciò non accade. Per quanto si trovino vari riferimenti a tale concetto, e per quanto, in particolare, il Capitale possa essere interpretato come una vera e propria “fenomenologia” della Gewalt, non esiste un’analisi complessiva di quest’ultima. Occorre ritornare al tema della lotta fra classe operaia e classe borghese, per tentare di fornire una diversa impostazione al discorso. Innanzitutto, in Marx (e in Engels) si possono individuare, seppur non in modo sistematico, due accezioni di proletariato: la prima è quella appena esaminata, che si pone in modo simmetrico rispetto alla classe borghese. Ma è presente anche un’altra declinazione di tale concetto, asimmetrica rispetto a quella borghese, e il cui stesso statuto di classe appare problematico e incerto. Mentre la classe borghese è classe in senso pieno, in quanto difende determinati, particolari interessi, il proletariato costituisce una classe non-classe, in quanto tende alla propria dissoluzione, e quindi al superamento dell’orizzonte classista. Nell’Ideologia tedesca è presente una formulazione radicale della questione: «Questa sussunzione degli individui sotto classi determinate non può essere superata (aufgehoben) finché non si sia formata una classe che non abbia più da imporre alcun interesse particolare di classe contro la classe dominante» (Marx, Engels 1846, 75 [54])[20]. Nell’analisi dell’opera indicata, si potrebbe applicare il ragionamento svolto per la classe ad altre categorie, quali individuo e comunità: come esiste uno “scarto” fra proletariato e classe borghese, allo stesso modo gli «individui come individui (Individuen als Individuen)» si pongono in radicale distonia rispetto agli «individui come membri di una classe (Individuen als Klassenmitglieder)» del contesto presente, e la «comunità reale (wirkliche Gemeinschaft)» teorizzata non può che comportare la rottura della «comunità apparente (scheinbare Gemeinschaft)» capitalistica, fondata sulla sottomissione individuale a un potere sociale oggettivo (Basso 2008, 95-136). Il fatto che ci si trovi di fronte a una frattura, non mediabile dialetticamente, fra individuo, comunità e classe nella prospettiva delineata, rispetto a tali nozioni nella loro declinazione “capitalistica”, appare assai rilevante ai fini dell’indagine sulla violenza-potere.

D’altronde molti anni più tardi, nella Critica al programma di Gotha, Marx esprime chiaramente la netta discontinuità fra lo scenario borghese e quello proletario, dalla questione del lavoro – non «fonte di ogni ricchezza e civiltà», ma elemento da eliminare (Marx 1875, 15-16 [7-9]) – al concetto di uguaglianza – sottoposto a critica, in quanto presuppone una misura uguale per soggetti che uguali non lo sono affatto (Marx 1875, 20-21 [16-17]). In questo senso non può che risultare inadeguata la pura sostituzione, al dominio borghese, del dominio proletario, dal momento che occorre mettere in discussione i termini stessi del problema, in direzione di un superamento dell’orizzonte salariale e giuridico presente. Così nelle Lotte di classe in Francia lo sguardo di Marx, di fronte al conflitto per il droit au travail, di per sé elemento “socialdemocratico”, è volto alla trasformazione radicale della struttura sociale:
 

il diritto al lavoro (das Recht auf Arbeit) è nel senso borghese un controsenso, un meschino, pio desiderio; ma dietro il diritto al lavoro sta il potere (die Gewalt) sul capitale […], e quindi l’abolizione (die Aufhebung) del lavoro salariato, del capitale e dei loro rapporti reciproci. (Marx 1850, 42 [51])

 
Qui non ci troviamo di fronte a un’omologia con la violenza-potere della società capitalistica: si tratta di mettere in crisi il dispositivo di dominio politico che ne sta a fondamento. Il “movimento politico” operaio (Marx, 1871b, 332 [410]) presenta l’apparente paradosso, secondo cui una parte, il proletariato, riveste una funzione universale: tale universalità non è però “pacificata”, neutrale, identificandosi con la radicale dissoluzione dell’articolazione classista della società. Un ulteriore problema è costituito dal rapporto fra il concetto di Gewalt operaia e quello di rivoluzione e, all’interno di quest’ultima, dalla differenza fra la rivoluzione borghese e quella proletaria. Per Marx, la seconda rivela una sua specificità rispetto alla prima, anche sul piano della violenza-potere: «la rivoluzione proletaria fu […] immune dagli atti di violenza (Gewalttaten) che abbondano nelle rivoluzioni, e ancor di più nelle controrivoluzioni delle ‘classi superiori’» (Marx 1871a, 331 [22]). Nonostante tale elemento, rimane controversa la questione della relazione fra la Gewalt proletaria e la costruzione della struttura politica, della forma-Stato: il rischio consiste nell’assumere surrettiziamente il modello della rivoluzione borghese nella delineazione della rivoluzione proletaria[21].

L’articolo di Balibar possiede il grande merito di mostrare le ambivalenze esistenti in Marx e in Engels, soffermandosi sulle questioni che rimangono aperte, talvolta a causa di un’estrema complessità e articolazione del discorso, talvolta a causa di ambiguità gravide di conseguenze negative: lo scopo è di pervenire a una “relativizzazione” del punto di vista marxista (cfr. Balibar 2001a, 1291 [71]). In rapporto al tema della Gewalt, la critica complessiva è l’incapacità di comprendere «il legame tragico che congiunge ‘dal di dentro’ politica e violenza in un’unità di opposti anch’essa sommamente ‘violenta’» (cfr. Balibar 2001a, 693 [46]. Il tentativo consiste nell’operare uno scarto rispetto a tale orizzonte di Gewalt, rifiutandone gli assiomi apparentemente indiscutibili, e in particolare mettendo in discussione ogni semplificazione del problema a una sorta di guerra fra due “eserciti”, la classe borghese e la classe operaia. Nei Quaderni dal carcere Antonio Gramsci mette in luce che
 

i paragoni tra l’arte militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come stimoli al pensiero […] nella guerra militare, raggiunto il fine strategico, distruzione dell’esercito nemico e occupazione del suo territorio, si ha la pace […]. La lotta politica è infinitamente più complessa. (Gramsci 1929-1935, 120-122)

 
Qui emerge la consapevolezza dei rischi insiti in un’indebita sovrapposizione o, addirittura, in un’identificazione fra dimensione militare e dimensione politica. Un filone del marxismo ha insistito, a partire da un’impostazione “realistica”, sull’importanza di un confronto serrato con la concezione di von Clausewitz in merito al nesso politica-guerra. Non si tratta di negare la rilevanza di tale riferimento, anche per la comprensione del legame indicato, ma di evidenziare la necessità di una frattura rispetto ad esso, pena il rischio di risultare del tutto subalterni all’orizzonte bellico: da questo punto di vista, emerge l’esigenza di un déplacement rispetto al contesto sottoposto a critica, al fine di poter pervenire all’individuazione di una Gewalt al di là della Gewalt (Balibar 2001a, 1279 [58]). Anche i lavori di Balibar sull’Europa (in particolare, Noi cittadini d’Europa?) sono animati dall’insoddisfazione nei confronti di una concezione che, alla politica di potenza, contrapponga un’altra politica di potenza, seppur in chiave ribaltata[22]. Per Balibar la posta in gioco consiste in una politica della civiltà, in grado di scomporre, disaggregare le simmetrie esistenti, così come il contrasto tra violenza e non-violenza (Balibar 2001a, 696 [49]). La violenza deve venir indagata nella sua materialità, non costituendo il male, ma nemmeno l’oggetto di una nuova teodicea: sostenere tale posizione «non equivale quindi necessariamente a cancellare la questione di una politica della violenza; al contrario, significa rilanciarla su altre basi» (Balibar 2001a, 1306 [85]), al fine di «incivilire la rivoluzione, la rivolta e l’insurrezione» (Balibar 2001b, 150). Risultano così sottoposte a critica non tutte le accezioni di Gewalt, bensì quelle declinazioni che vedono in essa una sorta di fondamento, sia nel senso dell’esaltazione della violenza spontanea e insurrezionale, sia nel senso, più prossimo all’esperienza dei paesi del socialismo reale, della costruzione di uno Stato comunista, in opposizione agli Stati occidentali capitalisti, in realtà condividendo con essi molto più di quanto possa apparire a prima vista[23]. Ma, se la Gewalt si rivela irriducibile al riferimento alla violenza vera e propria, connettendosi con le strutture di dominio della società borghese, risulta difficile concepire la “politica della civiltà” senza surrettiziamente ricadere in una semplificazione della nozione di Gewalt a pura violenza, a cui bisognerebbe reagire mediante una pratica politica assolutamente priva di brutalità. L’individuazione, da parte di Balibar, dell’ambivalenza della Gewalt sfocia nella delineazione di una rivoluzione “mite”, che «scarta gli estremi» (Balibar 2001c, 27)[24].

In merito al confronto fra Marx e Gandhi (Balibar 2001a, 1306-1307 [85])[25] – e tra Lenin e Gandhi – (Balibar 2004), questione rilevante sollevata da Balibar, mi limito a rilevare che la critica marxiana nei confronti della Gewalt capitalistica non può condurre a una assunzione a priori di non-violenza, in quanto quest’ultima è inevitabilmente subalterna nei confronti della Gewalt dei dominanti. Si tratta di interpretare lo svolgersi degli eventi a partire dalle fratture che li intersecano, e non esaminandone “il lato buono”: come appare evidente dalla Miseria della filosofia, la storia va attraversata dal «lato cattivo» (Marx 1847, 140 [78-79])[26], muovendosi in radicale dissenso rispetto a quei filantropi, i quali vogliono «conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza l’antagonismo (Widerspruch) che li costituisce e ne è inseparabile» (Marx 1847, 143 [81]). Il pacifismo è sorretto dall’idea di fratellanza di tutti gli uomini, impensabile all’interno della prospettiva marxiana, nella quale la fraternité viene sottoposta a critica in quanto «idillica astrazione dai contrasti di classe» (Marx 1850, 21 [19]). Decostruire la nozione indicata allontanandosi da ogni “funebre” inno alla violenza non significa fare un inno alla non-violenza, bensì cogliere la necessità di riarticolare la questione della Gewalt, concependola sulla base di una radicale frattura rispetto alla «violenza concentrata e organizzata» dello Stato, e quindi riconoscendo in essa né una soluzione né uno spettro, ma un problema aperto.
 
 
 
Note al testo
 
[1] Il presente contributo costituisce la versione italiana, aggiornata e lievemente modificata, dell’articolo The Ambivalence of “Gewalt” in Marx and Engels: On Balibar’s Interpretation, “Historical Materialism”, 2, 2009, pp. 215-236. L’analisi di Balibar è incentrata sulla categoria indicata in Marx ed Engels, e poi, in modo più cursorio, nello sviluppo successivo del marxismo e di correnti in qualche modo legate ad esso: vengono presi in considerazione Sorel, Bernstein, Lenin, Gramsci, l’operaismo italiano (Tronti, Negri), Adorno, Fanon, Reich, Bataille, Benjamin, Gandhi. Mi soffermerò sulla parte dell’articolo di Balibar dedicata a Marx e Engels. Tra le precedenti trattazioni, da parte di Balibar, della questione della violenza, si veda soprattutto Balibar (1996; 1997). Più di recente: Balibar (2010b).
[2] Si prenda in considerazione, in particolare, Faber, Ilting, Meier (1982) e Duso (1999). Sulle varie declinazioni del concetto di Gewalt, anche in relazione al dibattito filosofico-politico e politologico contemporaneo: Heitmeyer, Soeffner (2004).
[3] Cfr. in particolare: «La violenza è per sua natura strumentale; come tutti i mezzi, ha sempre bisogno di una guida e di una giustificazione per giungere al fine che persegue […] Il potere non ha bisogno di giustificazione, essendo inerente all’esistenza stessa delle comunità politiche». (Arendt 20022, 55-56)
[4] Si veda la citazione riportata in calce all’articolo. Cfr. Balibar (2001a, 1286 [66]). Sull’accumulazione originaria: Balibar (1965, 296-305). Sul nesso accumulazione-violenza-diritto: Negri (1992, 289-290).
[5] Cfr.: «Esso stesso, il denaro (das Geld), è la comunità (das Gemeinwesen), né può sopportarne altra superiore».  
[6] Sulla rilevanza del tema del dominio sociale e astratto: Postone (1993).
[7] Rispetto alla versione indicata, ho reso il termine Macht con «potenza» e Gewalt con «potere» (nell’edizione seguita essi vengono tradotti in modo capovolto): entrambi i concetti stanno ad indicare la struttura del potere, ma, come sottolinea Guastini (1974, 287), Gewalt nel pensiero marxiano connota maggiormente «il potere (politico) nelle sue articolazioni istituzionali», mentre qui Macht, pur conservando un forte elemento di costrizione, è frutto di una Vereinigung, assumendo una funzione soziale (con la profonda ambivalenza di tale caratterizzazione).
[8] Cfr.: «Partie de la considération de la violence de l’Etat comme force au service de la classe dominante […], elle [la réflexion de Marx] a dû aller dans le sens d’un repérage toujours plus raffiné des mécanismes d’exercice et de dissimulation d’une domination d’autant plus efficace qu’elle ne met pas forcément en jeu une violence ouverte». (Michaud 1978, 157)
[9] «L’unità tedesca era diventata una necessità economica». Cfr. anche Engels (1887-1888, 453 [ 91]).
[10] «Il servizio che in questo modo Bismarck ha reso al partito socialista rivoluzionario è indescrivibile e meritevole di ogni ringraziamento». (Engels 1887-1888, 460 [104])
[11] «Essa [la borghesia tedesca …] esigeva una trasformazione rivoluzionaria (eine revolutionäre Umgestaltung) della Germania che si poteva attuare solo con la violenza (Gewalt), quindi solo con una effettiva dittatura (tatsächliche Diktatur)». (Engels 1887-1888, 431 [50-51])
[12] Sull’oscillazione, da parte di Marx, fra la posizione bakuninana e quella lassalliana: Basso (2012, 174-190). Per un’analisi della critica allo “statalismo” di Lassalle: Löwy (1970, 245-251).
[13] «L’esempio puerile che Dühring ha inventato espressamente per dimostrare che la violenza (die Gewalt) è il ‘fatto fondamentale della storia’, dimostra dunque che la violenza è solo il mezzo e il fine è invece il vantaggio economico (der ökonomische Vorteil)». (Engels 1878, 148 [153])
[14] Cfr. Balibar (2001a, 1280 [59-60]).
[15] Si veda Balibar, (2001a, 1285-1286 [65]).
[16] Tra i tanti passi incentrati sulla questione del Bürgerkrieg, si veda Marx (1847, 180-182 [120-121]), in cui la lotta di classe tra borghesia e proletariato viene rappresentata come una «guerra civile», come una «rivoluzione totale».
[17] Cfr. Balibar-Wallerstein 19962 (203-240): «La lotta di classe e le classi stesse, anche e soprattutto in quanto concetti ‘economici’, sono sempre stati concetti eminentemente politici, ma che esprimono potenzialmente una rifondazione del concetto tradizionale di politica ufficiale» (220). Sulla nozione di lotta di classe si veda Balibar (1976, [(184-185)]: «Il marxismo non invoca mai la lotta fra le classi come una risposta, una soluzione, ma sempre anzitutto come un problema: fare l’analisi concreta di un processo storico concreto, significa cercare e trovare le forme, non indovinate in anticipo, della lotta delle classi».
[18] «L’unica via d’uscita possibile rimane una rivoluzione violenta (eine gewaltsame Revolution), che certamente non mancherà». (Engels 1845, 472 [479])
[19] Sulla nozione di comunismo: Tosel (1996).
[20] Sullo statuto del proletariato: Balibar (1994, 60): «Il concetto di proletariato non è tanto, in realtà, quello di una ‘classe’ particolare, isolata dall’insieme della società, quanto quello di una non-classe, la cui formazione precede immediatamente la dissoluzione di tutte le classi e inizia il processo rivoluzionario»; cfr. anche Balibar (1993, 151), e Rancière (1995).
[21] Cfr. Krahl (1998, 193ss), secondo cui Marx considera le rivoluzioni borghesi, e in particolare la Rivoluzione francese, come punto di riferimento per le rivoluzioni proletarie, con tutti i problemi derivanti da tale impostazione.
[22] Cfr. Balibar, (2001b, [149]): «L’esistenza di una violenza istituzionale generalizzata ripropone, inevitabilmente, la questione della contro-violenza: alla contro-rivoluzione preventiva non bisognerebbe forse opporre, simmetricamente, la rivoluzione? Alla contro-insurrezione, l’insurrezione?». Si veda anche Balibar (2003, 71), in cui si evidenzia la «necessità di contrapporre oggi all’egemonismo, non lo sviluppo di un nuovo polo di potenza (economico, militare, diplomatico), ma un’‘antistrategia’ in grado di disaggregare le simmetrie e le polarizzazioni istituite dalla globalizzazione».
[23] Si veda l’analisi di Badiou (1985, 23-107), in particolare le pagine 28-30.
[24] Cfr.: «La civiltà in questo senso non è certo una politica che sopprima la violenza: ma ne scarta gli estremi, in modo da […] permettere la storicizzazione della violenza stessa». Sul rapporto democrazie-emancipazione: Balibar (1992), Balibar (2010a)
[25] Sullo statuto della non-violenza in Gandhi: Collotti Pischel (1989, 73), che mette in luce la radicale diversità della prospettiva gandhiana rispetto al marxismo in rapporto sia all’analisi della modernizzazione sia alla questione delle classi: Gandhi «non chiamò mai le masse indiane alla lotta di classe e alla rivoluzione […] perché il principio dell’uguaglianza sociale esulava dalla sua ottica».
[26] «E’ il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta».
 
 
 
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