Francesco Toto
Nella riflessione hobbesiana la frontiera tra l’animale e l’umano è un confine poroso, che congiunge e separa. Da un lato, Hobbes prende le distanze da una visione dell’umano come una regione della natura separata dalle altre, e include tra i tratti che l’uomo condivide con gli altri animali non solo la sensazione indotta dall’azione dei corpi esterni, l’immaginazione o memoria derivante dall’attenuarsi della sensazione, il «discorso mentale» costituito dalla successione più o meno regolata delle immagini, l’esperienza accumulata attraverso la stratificazione e la connessione delle memorie, ma anche la previsione del futuro a partire dall’esperienza che chiamiamo prudenza, l’immaginazione occasionata da parole o altri segni volontari che chiamiamo intelligenza, e persino quell’avvicendamento di desideri e avversioni che termina nella volontà e determina l’azione, ricevendo perciò il nome di deliberazione[1]. Dall’altro lato, il filosofo non manca di mettere in evidenza differenze relative tanto alla sfera della natura quanto a quella dell’artificio. Sul piano naturale la diversità principale è rappresentata da un particolare tipo di discorso mentale, che parte dall’immaginazione di una cosa per ricercare «tutti i possibili effetti che essa è in grado di produrre», e che a differenza di quello che muove da un effetto dato o desiderato in direzione delle cause o dei mezzi in grado di produrlo non è «comune agli uomini e alle bestie»[2]. In primo luogo, questo percorso mentale che va dall’immaginazione delle cose a quella delle loro conseguenze possibili si collega alla «singolare passione» della curiosità, o «desiderio di conoscere il perché e il come» che distingue «l’uomo […] dagli altri animali»[3]. In secondo luogo, la ragione per la quale la «concupiscenza mentale» della curiosità è «difficilmente riscontrabile» in altri esseri viventi risiede nel fatto che questi ultimi, a differenza dell’uomo, sono «dotati soltanto di passioni sensuali come la fame, la sete, […] l’ira», e «il predominio dell’appetito per il cibo e degli altri piaceri del senso toglie la cura di conoscere»[4]. La curiosità manifesta dunque uno iato: da una parte abbiamo gli animali, che proprio perché assorbiti nella ricerca dei «piaceri sensibili» suscitati dalla «sensazione di un oggetto presente» sono affrancati dalle ansie suscitate dalla previsione del futuro; dall’altra gli uomini, che proprio perché impegnati nell’esplorazione dei piaceri mentali suscitati dalla «prefigurazione del fine» e liberati dai confini del presente si trovano assoggettati alla paura e alla speranza, all’«ansietà» e alla progettualità, e non si accontentano perciò di godere degli oggetti desiderati «una sola volta e per un singolo istante», ma vogliono «assicurarsi per sempre l’accesso al desiderio futuro»[5]. In terzo luogo, la solidarietà tra il desiderio di conoscenza e l’inquietudine costituisce il «seme naturale» della religione, i cui «frutti», non a caso, «non si trovano che nell’uomo», e grazie ai quali l’uomo riesce a mitigare il perpetuo timore per le incognite della fortuna attraverso l’immaginazione di una «causa prima ed eterna di tutte le cose» in grado di piegare il corso della natura a favore di chi le testimonia un culto appropriato[6].
Questo primo insieme di proprietà distintive non è privo di rapporti con un secondo, che appartiene questa volta all’ordine dell’artificio ed articola assieme linguaggio, razionalità e istituzioni. Dopo aver ricordato che «l’uomo eccelle sugli altri animali» in virtù della sua attitudine a indagare le conseguenze delle cose, Hobbes fa riferimento alla ragione – in quanto facoltà di ridurre queste stesse conseguenze a regole generali – come a «un altro grado della stessa eccellenza»[7]. A differenza di sensazione, memoria o prudenza, però, la ragione «non è […] nata con noi, né acquisita con la sola esperienza», ma acquisita e potenziata con «l’educazione e la disciplina», ed appartiene dunque non alle facoltà «inerenti» alla natura umana, ma alle facoltà artificiali dalle quali le facoltà naturali possono essere «migliorate al punto di distinguere gli uomini da tutti gli altri esseri viventi»: in quanto inestricabilmente connessa alla sfera convenzionale del linguaggio[8]. «Se il discorso è peculiare dell’uomo», sostiene Hobbes, allora deve esserlo anche la ragione, perché non c’è «nessun ragionamento senza discorso», e una ragione «fondata sul retto uso del discorso» è dunque inseparabile tanto dalla definizione consensuale dei nomi quanto dalla loro concatenazione discorsiva in affermazioni o argomentazioni capaci di trascendere la particolarità delle sensazioni[9]. A questo carattere artificiale della razionalità e del linguaggio è infine circolarmente connessa la possibilità di colmare il deficit di socievolezza da cui il genere umano è afflitto a differenza di quella degli «animali politici». «Il consenso di quelle creature animali è naturale, quello degli uomini solo per patto, cioè artificiale»[10], ma il linguaggio attraverso il quale gli uomini dovrebbero accordarsi sui loro diritti e i loro doveri dipende dalla definizione consensuale e dunque convenzionale dei significati. La convivenza pacifica tra gli uomini è vincolata all’osservanza delle leggi naturali pensate come «precett[i] o regol[e] general[i] scopert[e] dalla ragione», ma la validità di tutte queste leggi, e in particolare di quella che prescrive il rispetto dei patti, è a sua volta subordinata all’istituzione, attraverso un patto, di un potere in grado di determinarne il loro significato e farle rispettare[11].
Chiara nelle sue grandi linee, la riflessione hobbesiana sulle frontiere tra animale ed umano manifesta così alcune oscillazioni articolate attorno a un’indeterminazione principale. L’identificazione della ragione con «un altro grado della stessa eccellenza» legata alla previdenza presuppone infatti che tra l’uomo e l’animale si dia una discontinuità e una cesura di ordine naturale. In questo senso l’artificio del linguaggio e della ragione, come anche delle regole di condotta che essa consente di scoprire o delle istituzioni chiamate a custodire queste regole, si limita ad estendere e approfondire un solco che lo precede e lo fonda, quello spalancato dalla curiosità e dall’eccedenza del desiderio rispetto al semplice bisogno. Quando sostiene che attraverso l’invenzione della parola e del linguaggio «le facoltà naturali possono essere migliorate al punto di distinguere gli uomini da tutte le altre creature viventi», al contrario, Hobbes presuppone che la specificità dell’uomo non derivi dalle «virtù […] naturali […] che un uomo ha sin dalla nascita», perché da questo punto di vista «gli uomini differiscono poco gli uni dagli altri e dagli animali»[12]. In questo senso non esiste dunque nessuna transizione dall’animale all’umano, ma solo una produzione dell’umano a partire da fattori artificiali, convenzionali e in ultima istanza istituzionali, ipoteticamente dati.
Nelle pagine che seguono non intendo tornare su questa oscillazione dei testi tra coltivazione e la produzione dell’umano, tra continuità e discontinuità rispetto all’animale, ma spostare l’attenzione su un aspetto più nascosto del discorso hobbesiano, rappresentato dalla complicità che unisce l’interrogazione sulla specificità della natura umana all’analisi dei rapporti di riconoscimento sul piano antropologico, morale e politico. In questo mi concentrerò innanzitutto sulle nozioni di gloria e di onore, per passare poi a chiarire il ruolo che attraverso questi concetti il riconoscimento gioca nella determinazione di conflitto e della socializzazione, nella destabilizzazione e nella conservazione dei poteri politici. Risulterà in questo modo chiara la funzione propriamente sistematica attribuita da Hobbes al riconoscimento in quanto problematico punto di sutura tra dimensione antropologica, etica e politica, territorio terzo rispetto alla dicotomia tra individuo e comunità, tra natura e artificio.
- Il potere, la gloria e l’onore
La ricostruzione hobbesiana dei rapporti di riconoscimento ruota attorno ai concetti strettamente connessi di gloria ed onore, ma legati uno a una dimensione innanzitutto infra-soggettiva e l’altro a una più immediatamente intersoggettiva. Il trattamento del concetto di gloria subisce notevoli mutamenti nel corso della produzione hobbesiana[13]. Tutti questi mutamenti non giungono tuttavia a coinvolgere l’aspetto fondamentale e invariante della concezione hobbesiana della gloria, al quale è legata la portata antropologica di questa passione: negli Elements of Law essa è definita come «quella passione che deriva dall’immaginazione o concetto del nostro potere», nel De cive come il gaudio che nasce dal «contemplare […] la propria potenza» o dalla «stima delle proprie forze», nel Leviathan come «la gioia che deriva dall’immaginare il proprio potere e la propria abilità»[14]. La centralità antropologica della passione della gloria è sempre associata al rapporto dell’uomo col potere. «L’amore per il potere è naturalmente radicato nell’animo umano»[15]. Il «desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro» occupa il «primo posto» tra le passioni umane, che al «desiderio di potere» possono infatti «tutte ridursi»[16]. Questo primato dipende dal fatto che la felicità non può dunque consistere nel «continuo progresso del desiderio da un oggetto a un altro» senza coincidere con l’appagamento del desiderio di conquistare un potere sempre maggiore[17]. La felicità umana non si lascia mai schiacciare sul semplice godimento presente, richiedendo sempre anche la sicurezza del godimento futuro. Se però il potere «consiste nei mezzi di cui dispone al presente per ottenere un apparente bene futuro», desiderare un qualunque bene presente o futuro significa sempre desiderare i mezzi per assicurarsi il godimento di quel bene e i mezzi per assicurarsi questi mezzi, vale a dire «mezzi […] sempre maggiori»[18]. «Ogni concetto del futuro è il concetto di un potere in grado di produrre qualcosa» e «chiunque […] si aspetti un piacere futuro deve concepire insieme qualche potere che egli abbia in sé stesso, grazie al quale quel piacere può essere conseguito»[19]. La gloria può dunque affermarsi come la passione in grado di riassumere in sé tutte le altre perché il desiderio di potere è tutt’uno col desiderio di gloria, e la soddisfazione di questo desiderio è tutt’uno con la felicità[20]. Se la speranza è il desiderio unito alla «convinzione del conseguimento dell’oggetto», e la «speranza costante» equivale a una «fiducia in noi stessi» pensata come confidenza nei mezzi di cui disponiamo attualmente per garantirci la soddisfazione futura dei nostri desideri, allora la gloria in cui si risolve la felicità è tutt’uno con questa fiducia, con la «stima di sé» in quanto immaginazione del proprio potere[21].
Il rapporto del soggetto con sé stesso dischiuso dalla passione della gloria chiama in causa due tra i tratti distintivi dell’umano. Innanzitutto, esso manifesta una nascosta complicità con la «singolare passione» della curiosità: le conseguenze delle cose sono tutt’uno con il loro potere, e l’uomo che gode del proprio potere è un uomo che gode dell’immaginazione delle proprie azioni future e delle loro conseguenze. Al tempo stesso, il suo rapporto con la curiosità fa della gloria un banco di prova privilegiato dell’eccedenza tipicamente umana dei piaceri mentali rispetto ai piaceri sensibili, del desiderio rispetto al bisogno. Gli Elements e il De Cive tendono ad accentuare una eterogeneità che il Leviathan si propone piuttosto di mitigare, quella tra l’utile e la gloria. Nondimeno, tutto il discorso hobbesiano testimonia dell’impossibilità di pensare il divario tra questi poli nel segno della cesura. Il nesso col potere non emancipa infatti la gloria dalla sfera dei piaceri sensibili, ma espande questa sfera attraverso la mobilitazione della memoria e dell’attesa: la gloria è il godimento presente suscitato dalla prefigurazione del fine o del godimento futuro grazie alla rappresentazione dei mezzi[22], e l’umano è anche da questo punto di vista non l’altro dell’animale, ma una sua complicazione. La constatazione della centralità antropologica della gloria lascia ancora aperto un interrogativo. Questa fondamentale passione sembra configurare una soggettività essenzialmente ripiegata su sé stessa, sul problema di un’ermeneutica del potere. «I segni mediante i quali conosciamo il nostro potere sono le azioni che da esso procedono»[23]. Il discrimine principale appare da questo punto di vista di natura epistemologica. Da una parte si ha una gloria che può essere assimilata alla «magnanimità» e alla «giusta» stima o fiducia di sé proprio perché fondata sull’«esperienza delle proprie azioni passate» e «di un potere sufficiente a raggiungere il proprio fine», «su una vera conoscenza di sé stessi», sulla «coscienza di possedere grandi capacità», sul «giusto senso del proprio valore»[24]. Dall’altra parte si ha una vanagloria che «consiste nel fingere e nel supporre in noi stessi delle abilità che sappiamo di non possedere» e nel «fantasticare su azioni non compiute come se fossero state compiute»[25]. Questa «troppa stima di sé» può essere generata sia dalle «notevoli lenti di ingrandimento» con le quali l’amore di sé spinge a osservare sé stessi, sia dalla valutazione delle proprie «capacità sulla base dell’adulazione altrui», ma in ogni caso «inclina all’ostentazione», è «di ostacolo alla ragione», e nelle sue manifestazioni più violente finisce per sconfinare nella follia[26]. L’interrogativo lasciato aperto dall’identificazione della gloria con il godimento di un potere reale o immaginario riguarda la natura strettamente riflessiva di questa passione[27]. Per quale ragione Hobbes decide di assegnare alla gloria un nome classicamente riservato a una fama o reputazione che coinvolge sempre uno spettatore differente dall’attore stesso? Come può la vanagloria nascere dall’adulazione e accompagnarsi a quell’ostentazione che è a sua volta sintomatica di un «bisogno di lode»[28]? Su quali elementi è fondata l’opposizione della gloria non solo a «umiltà» e «depressione», vale a dire alla tristezza che nasce dalla constatazione della propria impotenza, ma anche a una vergogna che consiste nell’attribuirsi qualcosa di disonorevole[29]? E perché la gloria sembra spesso ridotta al «trionfo dell’animo di chi crede di essere onorato»[30]? Per rispondere a queste domande e comprendere in che modo il rapporto del soggetto con sé stesso sia per Hobbes costitutivamente intrecciato al rapporto con l’altro occorre passare alla considerazione dell’onore, della solidarietà tra potere e riconoscimento che esso rende manifesta, dell’inseparabilità tra l’immagine che il soggetto ha di sé e l’immagine che gli altri hanno di lui.
La concezione dell’onore è soggetta nel corso della produzione hobbesiana a variazioni anche più significative di quelle presentate dalla definizione della gloria[31]. Come nel caso della gloria, tuttavia, neppure queste variazioni maggiori coinvolgono il nucleo costituito dal riferimento al potere: in tutta la produzione hobbesiana l’onore è e resta un «riconoscimento del potere», un «tenere in grande stima il potere», un’«opinione del potere»[32]. Interrogando il rapporto tra gloria ed onore si nota allora che il riferimento al potere è comune, ma il potere preso in considerazione dal soggetto che si gloria è il suo, mentre quello considerato dal soggetto che onora è il potere di un altro. Gloria e onore assumono cioè il loro senso l’una nell’orizzonte possibilmente monologico dell’interiorità, l’altro in un orizzonte intrinsecamente dialogico nel quale la compenetrazione tra la dimensione intima dell’opinione e la sfera pubblica dell’azione o della parola definisce un terreno di confronto in cui l’attore e lo spettatore prendono l’uno il posto dell’altro e il desiderio di potere o di gloria diviene inseparabile dal desiderio di onore. «In senso stretto e per sua propria natura», è vero, «l’onore è segreto e interiore», consiste in un «atto interiore», in un’«intima convinzione»: in quanto valutazione dell’altro a partire dall’interpretazione dei segni di potere rappresentati delle azioni e dei gesti esso consiste in uno di quei «pensieri segreti» che prendono forma innanzitutto «all’interno del proprio spirito»[33]. Questo «senso stretto» è però complicato da un senso allargato nel quale l’onore viene invece a coincidere con quello che Hobbes chiama “culto”. Se «le nostre volontà seguono le nostre opinioni, e le nostre azioni seguono le nostre volontà», allora le «azioni esteriori» costituiscono dei «segni naturali» delle opinioni di cui rappresentano delle conseguenze: l’onore si manifesta esteriormente nelle azioni in generale e negli atti linguistici in particolare, e queste manifestazioni esterne, che sono «comunemente chiamate onore» costituiscono la pratica del culto[34].
L’articolazione di interno ed esterno posta in essere dal culto assegna ai rapporti di riconoscimento legati all’onore un’indubitabile funzione strategica, assente dall’orizzonte problematico di natura ancora essenzialmente epistemologica che legava la gloria alla certezza riflessiva di sé e del proprio valore. «L’onore diviene identico al culto», perché «si dice che onoriamo le persone alle quali mostriamo […] di tenere in grande stima la potenza», ma le azioni che costituiscono il culto sono esplicitamente e intenzionalmente compiute al fine di essere interpretate dal destinatario quali segni dell’onore e rappresentano dunque il modo in cui «si è soliti blandire i potenti e renderseli propizi», il modo in cui si tenta di «guadagnarsi il favore con buoni uffici […] e qualsivoglia altra cosa piaccia a coloro da cui cerchiamo di ottenere qualche beneficio»[35]. Il culto si afferma così come la tecnica attraverso la quale è possibile trarre un vantaggio non attraverso lavorazione di «cose […] a noi soggette», come accade quando si coltiva un terreno per godere dei suoi frutti, ma di cose che «non sono a noi soggette e rispondono a noi secondo la loro volontà», come accade quando «agi[amo] sulla volontà degli uomini in funzione dei nostri fini, non con la forza ma col compiacerli»[36]. Da questo punto di vista esso coincide senz’altro col «prezzo [che] si sarebbe disposti a dare per l’uso del loro potere», vale a dire «la loro protezione e il loro aiuto», ma il pagamento di questo prezzo viene operato non solo nella forma di «lodi» o altri «riconoscimenti di potere» di natura simbolica (come «l’avvicinarsi in modo dignitoso, il tenere la distanza, il dare la strada»), ma anche mediante l’offerta del proprio potere e nella forma dell’obbedienza, della fiducia, del dono[37]. Questo aspetto strategico non coinvolge tuttavia solo colui che offre testimonianza di onore attraverso il culto, ma anche chi riceve questa testimonianza. «Poiché gli uomini credono che sia potente chi vedono onorato, cioè stimato potente, dagli altri, accade che l’onore venga accresciuto dal culto; e che grazie alla stima della potenza si acquisti una potenza vera», e «gli uomini [che] si compiacciono del culto resogli», sia esso «sincer[o] o meno», sono uomini spinti dal desiderio di onore a dare pubblica mostra del proprio potere e a valutare più o meno adeguata la stima proposta da coloro che richiedono il loro aiuto o la loro protezione[38].
Si scorge così il rapporto che unisce l’onore alla gloria, il potere al suo riconoscimento, la problematica epistemologica della certezza di sé a quella pratica delle relazioni strategiche con il proprio simile. Il «vero valore» di un soggetto o del suo potere «non super[a] mai quello stimato dagli altri», testimoniato dal prezzo che questi sono disposti a pagare. Al tempo stesso, il vero onore e il vero culto coincidono con una «valutazione del potere» che è alta non in assoluto, ma in «riferimento al prezzo che ciascuno attribuisce a sé stesso», e sono dunque autenticati unicamente dall’accoglienza positiva di colui a cui sono rivolti[39]. Attore e spettatore si offrono reciprocamente potere ed onore: l’uomo che agisce nella speranza che la propria azione sarà interpretata come segno del suo grande potere è un attore che trova nell’apprezzamento dello spettatore e nella sua disponibilità a pagare un prezzo elevato l’unica possibile conferma del proprio valore; analogamente, l’uomo che si dedica al culto nella speranza di vederlo accolto come un segno del proprio apprezzamento e come un prezzo sufficiente a garantirsi l’uso del potere dell’altro è sempre anche un attore che si rivolge alla persona onorata come lo spettatore dal quale il culto dovrà essere valutato. L’intersoggettività dell’onore non è esterna alla riflessività della gloria, ma la forma che quest’ultima non può fare a meno di assumere in un contesto relazionale nel quale il rapporto con sé stessi si rivela inseparabile dal rapporto con l’altro, e nel quale non solo il soggetto non può conquistare la certezza di sé o del proprio potere in cui consiste la gloria al di fuori dell’onore che gli viene testimoniato, ma il potere di cui si gloria è sempre anche il potere che gli viene messo a disposizione da chi gli offre il proprio riconoscimento: il potere che gli viene conferito vuoi dall’aiuto o dalla protezione di colui cui egli paga il prezzo dell’onore vuoi dall’obbedienza o dalla fiducia che gli viene accordata da colui che lo onora[40].
Il discorso sull’onore finisce così per intensificare ed estendere la meditazione sulla specificità dell’umano già avviata dal discorso sulla gloria. In primo luogo, l’onore mobilita la stessa anticipazione delle conseguenze e la stessa brama di potere manifestate dalla gloria, con la differenza che le conseguenze che l’uomo si trova a dover anticipare sono ormai innanzitutto le ripercussioni delle proprie azioni o parole sui pensieri, i sentimenti, le volontà e le azioni dei suoi simili, e il desiderio di potere è sempre desiderio del desiderio, del riconoscimento e del potere dell’altro: il soggetto desideroso di gloria ed onore è un soggetto intrinsecamente relazionale[41]. In secondo luogo, lo scambio di poteri ed onori iscrive questa anticipazione in una dimensione linguistica (sebbene non necessariamente verbale) che è anch’essa caratteristica dell’uomo: se onorare una persona in rapporto al potere di cui le sue azioni sono dei segni significa a sua volta fare qualcosa che quella persona possa ritenere «segno di onore», allora l’onore e il culto presuppongono la capacità degli uomini di accordarsi attorno all’interpretazione del senso delle loro azioni o parole e quella di queste ultime di farsi valere quali segni esterni di stati interni attraverso i quali «molte persone» tentano di «trasmettersi reciprocamente […] ciò che esse concepiscono»[42]. In quanto è essa stessa un atto linguistico, la definizione convenzionale dei segni e del loro significato va intesa non già come origine artificiale del linguaggio, ma come strumento di perfezionamento delle naturali dinamiche comunicative che la precedono e la rendono possibile, e che trovano nei rapporti di riconoscimento legati all’onore e al culto la loro realizzazione paradigmatica. Ogni circolazione comunicativa dei segni presuppone che destinatore e destinatario possano mettersi l’uno al posto dell’altro. «La natura del culto consiste nell’essere un segno di onore interno; ma è segno soltanto ciò che rende noto qualcosa agli altri; e quindi è segno d’onore soltanto quello che sembra tale agli altri»[43], in modo tale che il culto ha senso solo a condizione che chi lo pratica e chi lo riceve siano in grado di comprendersi reciprocamente. «Il culto consiste nell’opinione di coloro che osservano: infatti, se a costoro le parole e le azioni con cui intendiamo onorare sembrano ridicole e volte al dileggio, allora esse non sono culto, in quanto non costituiscono segni d’onore; e non costituiscono segni d’onore poiché un segno è tale non per colui che lo fa, ma per colui al quale è rivolto, ossia per lo spettatore»[44], ma lo spettatore è comunque chiamato a interpretare l’intenzione dell’attore non meno di quanto l’attore sia chiamato ad anticipare l’interpretazione dello spettatore. È per questo che il potere umano non si determina mai in funzione di un aspetto meramente fisico, ma sempre in un orizzonte semiotico[45]. Infine, la struttura intersoggettiva dei rapporti di riconoscimento fondati sulla corrispondenza di potere e onore investe non solo le relazioni umane, ma anche i rapporti reali o immaginari tra uomo e Dio, vale a dire quella dimensione religiosa di cui non c’è traccia negli altri animali. Il concetto di culto è un concetto generale e applicabile a qualunque rapporto di onore, ma deliberatamente costruito per applicarsi in particolare al rapporto col divino. L’infinita potenza di Dio impone a chiunque la riconosca di rendere onore attraverso il culto interno ed esterno per ottenere la ricompensa della sua protezione. Resta ancora da analizzare l’intreccio tra la dinamica del riconoscimento e le ultime due specificità dell’umano, la razionalità morale e quella politica. Per farlo occorre ora concentrarsi sul ruolo di gloria ed onore nella genesi del conflitto e della socializzazione, nella dissoluzione e nella conservazione delle istituzioni.
- Il riconoscimento tra conflitto e socializzazione
La decostruzione della definizione aristotelica dell’uomo come «animale politico» costituisce un momento essenziale della riflessione antropologica di Hobbes e una premessa fondamentale della tesi secondo la quale la politica e la socializzazione che essa rende possibile appartengono alla sfera dell’artificio. Ognuna delle successive riformulazione della critica contro la tesi della naturale socievolezza dell’uomo accorda però un ruolo di spicco alla questione dell’onore. La società umana non può essere una società naturale perché per gli uomini, a differenza degli animali politici, «la gioia consiste nel confrontarsi con gli altri» e «non può avere sapore nulla che non sia eminente»: non stimando «come bene quasi nient’altro che ciò in cui si trova […] qualcosa di distinto e di superiore», essi lottano per la «precedenza all’interno della propria specie» e sono dunque «continuamente in competizione fra loro per l’onore e la dignità»[46]. La necessità propriamente umana di questa lotta per il riconoscimento è determinata innanzitutto da una diffusa – se non universale – tendenza alla sopravvalutazione di sé[47]. Hobbes non spiega mai le ragioni di questa tendenza, che appare tuttavia saldamente ancorata al principio dell’amore di sé e al fatto che «pensar bene della propria potenza, meritata o immeritata, è piacevole» perché «se si giudica falsamente la cosa è tuttavia piacevole, giacché le cose che piacciono quando sono vere piacciono anche quando sono immaginarie»[48]. Il potenziale conflittuale di questa «falsa stima delle proprie forze» è ad ogni modo abbastanza chiaro. Con «ingegno feroce», i vanagloriosi che sopravvalutano sé stessi si trovano a ritenersi «superior[i] agli altri», a volere «che solo a [loro] tutto sia lecito», ad arrogarsi «un onore maggiore degli altri», ad aspettarsi dunque «la precedenza e la superiorità sui loro compagni non soltanto quando sono uguali nel potere, ma anche quando sono inferiori»[49]. Al tempo stesso, «per costume innato considerano le proprie azioni, negli altri, come se fossero riflesse in uno specchio, scambiando la sinistra per la destra, e la destra per la sinistra», e «si rimproverano a vicenda [la loro] ferocia» condannando «negli altri quello che approvano in sé stessi»[50]. Questa specularità impone la necessità della lotta perché la deformazione prospettica di cui sono vittime non si limita a impedire ai vanagloriosi di scorgere l’uno nella ferocia dell’altro il riflesso fedele della loro stessa pretesa di superiorità, ma li spinge inoltre a svalutarsi l’un l’altro e a sentirsi svalutati, a ingigantire le offese e gli insulti da cui si sentono vessati e a sminuire quelli di cui sono imputati, esponendoli perciò a una pressione che può trovare sfogo solo nella vendetta[51].
Da un lato, dunque, la «falsa stima di sé» genera una «naturale inclinazione […] a provocarsi a vicenda»[52]: se «ogni piacere e ogni ardore dell’animo consiste nel trovare qualcuno confrontandoci col quale possiamo trarre un sentimento più alto di noi stessi», e se però «ogni uomo pensa bene di sé e non ama veder altrettanto negli altri», è allora «impossibile non mostrare qualche volta l’odio e il disprezzo reciproco», non «provocarsi l’un l’altro mediante parole e altri segni di disprezzo e avversione»[53]. Dall’altro lato, questi segni sono «per l’animo la cosa più molesta» e «provocano più di ogni altra cosa alla lotta» o «allo scontro», e la «falsa stima di sé» inclina a interpretare qualunque gesto – «una parola, un sorriso, una divergenza di opinioni» – come «segno di disistima»[54]: «gli uomini vanagloriosi», infatti, «sono più inclini degli altri a interpretare come disprezzo l’ordinaria familiarità della conversazione»[55]. A queste condizioni, la combinazione tra una tendenza a offendere e la tendenza a sentirsi offesi deve degenerare nel ciclo potenzialmente infinito delle vendette, e «la competizione per acquisire […] onore […] o altro potere» in «rivalità, inimicizia e guerra», per il semplice fatto che ogni offesa invendicata è o appare un’offesa meritata, e chi «riceve parole di spregio o vari oltraggi di lieve entità […] teme che, se non si vendicherà, cadrà in disprezzo e conseguentemente sarà esposto ad analoghi insulti da parte di altri»[56]. Badando che l’altro «nutra per lui la stessa stima che egli nutre per sé stesso», dunque, il soggetto offeso «preferisce arrischiare la vita piuttosto che restare invendicato», perché la vendetta rappresenta l’unico modo «per non sembrare idoneo o soggetto al disprezzo degli altri» ed «estorcere una stima più grande da quelli che lo disprezzano e da tutti gli altri»: la sopraffazione violenta rende incontestabile la sua superiorità sul rivale nell’atto stesso di farlo pentire dell’oltraggio e di mettere in guardia gli altri dal seguirne l’esempio[57]. In un contesto nel quale l’identità di ogni individuo e il valore sociale riconosciuto al suo potere risulta inseparabile dall’opinione interna degli altri e dalla manifestazione pubblica di questa opinione attraverso atti e parole, la lotta per il riconoscimento costituisce la forma nella quale gli uomini si trovano costantemente chiamati a negoziare la loro identità e il loro valore sociale cercando un compromesso accettabile tra l’immagine che hanno di sé e l’immagine che gli altri si fanno di loro. Il conflitto generato dalla natura comparativa del potere e dell’onore, dalla divergenza delle opinioni, dall’autostima tendenzialmente eccessiva suscitata dall’amor proprio, appare superabile solo attraverso l’intervento di un fattore esterno che interrompa il ciclo delle vendette: «la gloria […] che deriva dall’immaginazione o concetto del nostro potere […] è chiamata orgoglio da coloro che ne sono urtati, giusto senso del proprio valore dagli altri», ma, poiché «non si può distinguere la retta ragione dalla falsa se non paragonandola con la propria», ognuno deve interpretare la propria vanagloria come un «giusto senso del proprio valore», quella degli altri come orgoglio, e battersi fino alla morte per imporre l’immagine che lui ha di sé e degli altri infrangendo quella che gli altri hanno di loro stessi e di lui[58].
Questa analisi del legame tra il riconoscimento e la lotta, che sembra evocare l’intervento della «ragione dello Stato» quale unica chance di pacificazione, presenta tuttavia un cono d’ombra. Sostenendo che «la virtù consiste nell’essere socievoli verso coloro che vogliono essere socievoli e temibili verso coloro che non vogliono esserlo» e che l’essere temibili consiste in «azioni di onore», è vero, Hobbes identifica l’onore con la principale «virtù della guerra», e sembra ridurre il riconoscimento a un semplice vettore di conflitto[59]. Quando però ci si chiede se le cose stiano veramente così ci si trova costretti ad ammettere che il desiderio di riconoscimento è certo chiamato in causa dai testi hobbesiani in qualità di possibile ostacolo al rispetto delle leggi di natura e alla pace, ma questa prima funzione non ne rimuove mai una seconda, nella quale lo stesso desiderio si trova assegnato non solo il ruolo di vettore di socializzazione, ma anche quello di oggetto di regolazione da parte della legge naturale e di possibile incentivo al rispetto di questa legge. La potenza socializzatrice del riconoscimento appare obliquamente in una molteplicità di contesti. Pur essendo chiaro che non ama «naturalmente» il proprio simile e non cerca «per natura» dei soci, è tuttavia non meno chiaro che l’uomo preferisce «frequentare coloro dalla cui società possono derivare a lui […] onore e utile» e «favorisc[e] quelli da cui [gli] proviene onore e gloria piuttosto che gli altri», in modo tale che «ogni riunione spontanea è conciliata dal bisogno reciproco o dal desiderio di gloria»[60]. «Ogni società si forma […] per amore di sé e non dei soci», ma questo amore di sé include a pari titolo sia l’utilità legata ai piaceri dei sensi che la gloria e l’onore legati al piacere dell’animo, e la ricerca di «stima e onore presso i soci» costituisce dunque un movente non secondario della formazione di sia pur instabili legami sociali[61]. Una piccola società come la famiglia appare interamente strutturata attorno alla connessione di utilità e gloria. Questa connessione è fondamentale nella struttura egualitaria del rapporto sessuale, nel quale ognuno dei partner può trovare nell’altro una fonte tanto di utilità (il piacere dei sensi che ricevono l’uno dall’altro) quanto di gloria (il piacere della mente che nasce dalla consapevolezza del potere di dare piacere all’altro e dell’onore che ne deriva)[62]. Il riconoscimento è però non meno importante nel rapporto ineguale tra genitori e figli, o tra padroni e servi: il genitore o il padrone gode «di tutti i segni esterni con cui i superiori sono soliti essere onorati dagli inferiori» anche quando ha reso i figli ed i servi propri pari attraverso l’emancipazione o la manomissione, ed è dalla loro grandezza che «riceve di riflesso […] il più grande onore», perché è in essi che trova non solo «la sua difesa», ma anche «il suo onore»[63].
La dinamica dello scambio di poteri ed onori disegna così una modalità di socializzazione più fondamentale di quella contrattuale e fattore di composizione delle potenze individuali. Secondo una logica pienamente sviluppata solo nel Capitolo X del Leviathan ma già abbozzata nelle opere precedenti, tutti i tipi di potere elencati da Hobbes costituiscono altrettante forme attraverso le quali colui che offre il proprio aiuto o al contrario minaccia qualche danno si assicura la collaborazione di coloro che lo onorano o ne riconoscono il potere. A partire da una semplice premessa, secondo la quale avere servi o amici è potere perché amicizia e servitù costituiscono due forme di «riunione delle forze», Hobbes costruisce un complesso sistema di corrispondenze tra le forme di potere ed onore. Da una parte si ha l’enumerazione dei poteri: «la fama di potere è essa stessa potere perché porta con sé l’adesione di coloro che hanno bisogno di protezione»; «è […] potere qualsiasi qualità che faccia amare o temere un uomo da molti, oppure la fama di possedere una tale qualità, perché è un mezzo per procurarsi l’assistenza o il servizio di molte persone»; «il successo è potere perché genera fama di saggezza o di fortuna, procurando il timore o la fiducia altrui»; «la reputazione di prudenza […] è potere perché affidiamo il governo di noi stessi più volentieri ad uomini prudenti». Dall’altra parte, si ha la rassegna degli onori attraverso i quali gli uomini testimoniano il proprio riconoscimento del potere: «obbedire equivale a onorare perché nessuno obbedisce a chi si pensa non abbia potere per aiutare o per nuocere»; «fare grandi doni a qualcuno significa onorarlo perché equivale a comprarne la protezione e a riconoscerne il potere»; «essere solleciti nel favorire il bene di un’altra persona, così come adulare, significa onorare perché è segno del fatto che se ne cerca la protezione e l’aiuto»[64]. La logica nascosta di questa lista di poteri e di onori è abbastanza chiara: attraverso l’accordo sul prezzo che si è disposti a pagare o a ricevere per il potere o l’onore dell’altro la dinamica del riconoscimento realizza una forma egualitaria o gerarchica di associazione o di «riunione di poteri», nella quale la potenza e la soddisfazione di ognuno degli associati sono incrementate dalla connessione con quello degli altri[65]. Questa forma di accordo è più generale e originale di quella del patto, che la presuppone e la sfrutta: la rimodulazione dello scambio informale di poteri ed onori nello scambio formalizzato di diritti e doveri non si limita a mobilitare la stessa materia (i poteri degli individui) e lo stesso medium (le parole e le azioni in quanto segni esterni dell’opinione o della volontà interna), ma è inseparabile da quella fiducia che compariva già nel Capitolo X a titolo di «segno di onore» e che è inseparabile dal riconoscimento della giustizia[66].
Sebbene l’efficacia del riconoscimento nella produzione di rapporti sociali appaia di per sé stessa indipendente da qualunque fattore morale, questa produzione non è tuttavia priva di rapporti con la dimensione della morale[67]. In primo luogo, il desiderio di riconoscimento incontra infatti la morale come principio di una regolamentazione che non ne limita, ma al contrario espande, le possibilità di soddisfazione. La regolazione da parte della morale introduce infatti una modalità di ricerca della gloria e dell’onore diversa da quella legata alla sopravvalutazione di sé, nella quale la possibilità di una soddisfazione universale del desiderio di riconoscimento appare subordinata al superamento di ogni vocazione competitiva e gerarchica e alla conseguente conversione del desiderio di superiorità in desiderio di uguaglianza. Poiché «non si stima che in una condizione di perpetuo disprezzo la vita stessa valga la pena di essere goduta» e i segni di disprezzo provocano quindi alla lotta, la pace e la legge naturale finalizzata alla sua protezione esigono che «nessun uomo rimproveri, insulti, derida, o in alcun modo manifesti il suo odio, disprezzo, o disistima» vuoi «con atti, parole, contegno o gesti» vuoi «con l’espressione del volto o con il riso»[68]. Gli arroganti che pretendono di essere riconosciuti superiori da coloro che avanzano la medesima pretesa possono trovare una sempre precaria soddisfazione del loro desiderio solo nella lotta e nella vittoria, mentre i moderati che rinunciano all’orgoglio e all’arroganza di rivendicare per sé un potere, un onore, un diritto o un valore che non sono disposti ad accordare ad altri si rapportano al riconoscimento non più come a un bene scarso di cui il superiore può godere solo privandone l’inferiore, ma come a un bene la cui sicurezza può viceversa essere goduta solo in comune e ad eguali condizioni[69]. La centralità del nesso tra riconoscimento dell’eguaglianza e legge naturale travalica del resto il confine delle singole leggi da cui sono vietati l’insulto, l’orgoglio, l’arroganza: è la «somma» stessa della legge naturale a consistere infatti nel pensarsi al posto dell’altro e nel non fare a un altro ciò che non si vorrebbe fosse fatto a sé, laddove il decentramento richiesto da questa «formula compendiosa» è non solo lo stesso che abbiamo già visto esser richiesto dai rapporti di onore, ma, più alla radice, finalizzato a garantire il riconoscimento «dell’eguaglianza naturale» contro gli ostacoli frapposti dalla «maggior parte delle passioni»[70]. Il riconoscimento dell’uguaglianza appare così come la condizione nella quale uomini capaci di mettersi l’uno al posto dell’altro esigono di essere stimati unicamente alle stesse condizioni alle quali sono disposti a stimare e gli altri sono disposti a stimarli, vale a dire in ragione della conformità delle loro azioni a quelle leggi naturali che costituiscono gli unici criteri di riconoscimento universalmente validi proprio per il carattere intrinsecamente non discriminatorio che li distingue: a differenza di quello accordato ad esempio alla ricchezza o alla nobiltà il riconoscimento della virtù è non solo universalmente accessibile, ma in grado di favorire azioni coerenti con il comune interesse per la pace[71].
Il desiderio di riconoscimento mostra così di rapportarsi alla morale non solo come oggetto di regolazione, ma anche come la passione in grado di rendere la ricerca del potere e dell’onore inseparabile da una qualche conformazione alle leggi di natura. Se «lodare […] è onorare, perché nulla è apprezzato quanto la bontà», e se però «pochi fanno cose lodevoli senza amare le lodi», allora questo «desiderio di lode innato alla natura umana»[72] si afferma quale punto di incontro tra il particolarismo dell’amore per l’onore e il potere e l’universalismo della virtù[73]. Alcuni passi sembrano presupporre il carattere semplicemente esterno ed estrinseco della virtù promossa dal desiderio di riconoscimento. «Gli scribi o i farisei osservano accuratamente la legge con i fatti esterni, ma solo per la gloria», e «quando qualcuno compie «tutte le sue azioni conformemente al comando della legge, ma non per la legge stessa, bensì per […] per la gloria, costui è ingiusto»: colui che compie un’azione giusta non necessariamente è anche una persona giusta, ma l’ingiustizia della persona presuppone comunque la capacità del desiderio di riconoscimento di promuovere almeno la conformità delle azioni esterne alla legge[74]. A questa prima direzione di pensiero sembrano riconducibili i luoghi secondo i quali la ricerca dell’onore può essere sufficiente ad arginare la crudeltà, e la «speranza di guadagnarsi la reputazione di persona caritatevole o magnanima» – congiunta o meno alla fiducia di ottenere quella gratitudine che «costituisce un tributo di onore e viene generalmente intesa come retribuzione» – a incitare alla benevolenza[75]. Altri passi, tuttavia, sembrano estendere l’efficacia del desiderio di riconoscimento fino a farne il motore della giustizia non solo delle azioni esterne, ma delle persone stesse. Da un lato, la «giustizia dei costumi» è quella che nasce da una certa nobiltà o eccellenza […] (rara da trovarsi) per cui l’uomo disdegna di guardare, per rendere soddisfatta la propria vita, alla frode e alla rottura delle promesse»[76]. Dall’altro, questa eccellenza è manifestamente imparentata con quella «generosità», altrettanto rara, che spinge a rispettare i patti in vista di una «certa gloria […] o un qualche vanto che consegue dal manifestare di non aver necessità di tradire la parola data»[77]. Questa eccellenza o nobiltà è inoltre la stessa che si può scorgere all’opera nell’emulazione. L’emulazione, infatti, è «il dolore che scaturisce dal fatto che uno si vede sorpassato o superato da un proprio concorrente», tra l’altro «nel campo dell’onore», «insieme con la speranza di eguagliarlo o superarlo»; poiché però l’onore può nascere dalla lode indirizzata alla virtù questa competizione può diventare un fattore di pace e concordia, come accade ad esempio nel caso di quell’«emulazione rispetto a chi farà maggiori benefici» che rappresenta «la gara più nobile e utile che si possa immaginare»[78]. E non è certo un caso se l’altra ragione che già nello stato di natura può spingere a rispettare la legge naturale in generale e quella che impone il rispetto dei patti in particolare consiste nell’identificazione di questo rispetto con il principio del culto naturale attraverso il quale l’uomo onora Dio riconoscendone il suo potere e dando prova sia della propria obbedienza che della propria speranza di intercettarne il favore attraverso la pratica della virtù[79].
La possibilità che il riconoscimento egualitario e non competitivo che sta al cuore della morale hobbesiana e dell’insieme dei suoi precetti non sia subordinato all’intervento di una razionalità esterna alla dinamica affettiva, ma trovi al contrario una precisa risorsa passionale nel desiderio di gloria ed onore, rende evidente come il discorso sul riconoscimento intrecci un ulteriore filo della riflessione antropologica hobbesiana, relativo allo statuto artificiale o convenzionale della socializzazione e della razionalità o moralità che essa presuppone. Prima di realizzarsi nella forma artificiale del patto che istituisce lo Stato e prima di essere protetta dai premi e dai castighi distribuiti dal sovrano la razionalità della legge naturale e della sua osservanza, che definisce la moralità caratteristica dei rapporti interumani, costituisce il presupposto e la posta in gioco della lotta per il riconoscimento. La lotta per il riconoscimento è sempre anche lotta per i criteri di valutazione delle condotte e per l’applicazione di questi criteri, giacché «la medesima azione viene lodata da alcuni e biasimata da altri» e «quello che uno loda, cioè chiama buono, viene biasimato dall’altro come cattivo»[80]. Questa stessa lotta, però, non può fare a meno di presupporre l’esistenza di criteri universalmente validi, perché nonostante ogni disaccordo ulteriore tutti «consentono nel lodare le virtù»[81]. La razionalità della legge naturale costituisce un’esigenza interna del desiderio di potere e di riconoscimento in quanto condizione di possibilità dei vincoli di solidarietà da cui è rafforzato il potere dei soci non meno del riconoscimento universalmente valido cui gli individui non possono fare a meno di ambire. La specificità dell’umano appare dunque connessa alla sfera del riconoscimento non solo perché il desiderio da cui è ecceduta l’immediatezza del bisogno animale è innanzitutto quello del riconoscimento e perché la previdenza in cui si esprime questo eccesso si identifica in primo luogo con un’aspettativa circa l’opinione e i sentimenti dei propri simili, ma perché la razionalità morale caratteristica dell’uomo trova nel desiderio di riconoscimento un fattore di per sé stesso non razionale di promozione di condotte virtuose e coerenti con le necessità della ragione. Questa capacità del desiderio di imporsi quale incentivo passionale di pratiche morali convenienti con ragione e socializzazione non riabilita certo la lettura aristotelica dell’uomo come un animale politico, perché lo sforzo costante di Hobbes resta comunque quello di mostrare come le disposizioni sociali tendano, in assenza di istituzioni in grado di proteggerle, a essere sopraffatte da disposizioni di segno inverso, ma conferma l’idea che l’artificio della società civile non deve essere pensato nel segno di una sospensione delle inclinazioni naturali dell’uomo, ma come contenimento dell’aspetto conflittuale delle inclinazioni naturali e come potenziamento dell’aspetto cooperativo delle stesse[82]. Resta allora da considerare l’efficacia propriamente politica del riconoscimento.
- Il riconoscimento tra crisi e conservazione dello Stato
L’interpretazione del riconoscimento come vettore ad un tempo di conflitto e di socializzazione mostra che l’idea hobbesiana dello stato di natura come guerra di tutti contro tutti costituisce un’idea-limite, finalizzata non già a negare ogni possibilità di legami sociali indipendenti dalla forma pattizia e dall’istituzione di un potere sufficiente a garantire il patto che lo fonda, quanto piuttosto a denunciare l’intrinseca instabilità di ogni associazione sprovvista di garanzie istituzionali. Il Capitolo X del Leviathan testimonia dell’immediata e neanche troppo larvata politicità dei rapporti di sociali favoriti dal riconoscimento, evidente ad esempio nel potere garantito dagli amici o dai servi e nel tributo d’onore rappresentato dalla loro fiducia o obbedienza. Questo legame tra il desiderio di riconoscimento e l’interna politicità del sociale conferma che Hobbes, non foss’altro per la propria concezione dell’obbedienza come segno di onore e di riconoscimento del potere, non può pensare la fondazione e il funzionamento dell’istituzione nei termini di una rottura e di una discontinuità radicali rispetto alle dinamiche naturalmente connesse al desiderio di riconoscimento, ma solo come un loro riorientamento. Il patto rappresenta senz’altro la forma artificiale nella quale gli individui cedono al sovrano il diritto all’uso delle loro forze. Nessun patto, però, è valido in assenza di un potere in grado di imporne il rispetto, e la sovranità è inseparabile dalla capacità di imporsi come il «maggior potere umano», e dunque dal fatto che gli individui siano effettivamente disposti a testimoniarle il loro onore attraverso l’obbedienza e la concessione dell’uso dei loro poteri: neanche lo Stato sfugge alla legge secondo la quale ogni potere umano è sempre anche il potere accordato dagli altri in ragione del loro apprezzamento[83]. Subordinando la sovranità al riconoscimento dei cittadini, che non hanno ragione di obbedire a un potere oggetto di disprezzo per via della sua incapacità di suscitare paura od amore, questo rinvio della dimensione giuridica a un presupposto fattuale esige di prendere in considerazione il modo in cui il riconoscimento agisce nel territorio dei rapporti esplicitamente politici.
Poiché l’invarianza della natura umana istituisce un’innegabile continuità tra stato di natura e stato civile, tra l’antropologia soggiacente alla condizione di ipotetica assenza di ogni potere politico e quella che opera all’interno dello Stato, non stupisce che la rilevanza politica del riconoscimento sia legata innanzitutto alla generazione dei conflitti che mettono a repentaglio la pace. Le pagine dedicate alla critica della democrazia sono in questo senso paradigmatiche. La democrazia è caratterizzata dall’eguale partecipazione di tutti i cittadini alla cosa pubblica, ma «l’unico motivo […] per il quale si preferisce dedicarsi agli affari pubblici piuttosto che a quelli privati è che si vede in essi un’occasione di esercitare la propria eloquenza, con cui acquistare fama di intelligenza e prudenza»: «dove tutti trattano gli affari pubblici, tutti possono sfoggiare pubblicamente la propria prudenza, scienza, eloquenza»[84]. Il primo problema posto alla democrazia da questa centralità del riconoscimento è allora rappresentato dal sacrificio della verità sull’altare della gloria: «per farsi ammirare» coloro che tengono un discorso in un’assemblea «ritengono necessario […] renderlo elegante e gradevole a chi l’ascolta con l’eloquenza», la cui specificità consiste appunto nel mirare «non […] alla verità, ma alla vittoria», e nel procedere dunque non «da principi veri, ma […] da opinioni comunemente accolte»[85]. Un secondo problema è rappresentato dal fatto che la «lotta incerta per la vanagloria» tende a convertirsi in «inimicizie certissime», e che la democrazia sembra in grado di sublimare e forse arginare la guerra, ma mai di sopprimerla. In democrazia, infatti, ci troviamo tutti, prima o poi, a «veder anteporre al nostro parere quello di uno che disprezziamo» e a «veder trascurata di fronte a noi la nostra sapienza», ma anche in questo tipo di conflitto, come in ogni altro, «il vinto odia il vincitore e […] tutti coloro che hanno accolto il suo parere come se avessero disprezzato il suo giudizio e la sua sapienza»[86]. L’ultimo e più grave problema è costituito dal modo in cui – in questo contesto di inimicizia diffusa – il riconoscimento popolare favorisce la formazione di centri di potere alternativi rispetto a quello dello Stato, capaci di influenzare la determinazione della volontà popolare e di estendere la propria influenza a detrimento del bene pubblico[87]. Non solo «l’eloquenza è potere, perché fa sembrare prudenti», ma «la reputazione di prudenza» è essa stessa potere, «perché affidiamo più volentieri il governo di noi stessi a uomini prudenti»[88]. «In una democrazia», inoltre, «quanti sono i demagoghi, cioè gli oratori influenti presso il popolo […], tante sono le persone che hanno figli, parenti, amici, adulatori da arricchire»: «ciascuno desidera non solo rendere la propria famiglia quanto più possibile illustre e potente […], ma anche legare a sé gli altri, con benefici, per rafforzarsi», non potendo dunque consolidare la propria posizione di potere e di prestigio contro i rivali se non indirizzando la volontà dello Stato a fini particolaristici[89]. Attraverso la formazione di vincoli di fedeltà più solidi di quelli che uniscono i singoli alla totalità dello Stato la dinamica del riconoscimento riduce così la democrazia alla maschera di un’oligarchia bellicosa, nella quale dal conflitto dei leader per il potere e la gloria nascono le fazioni, «e dalle fazioni la sedizione e la guerra civile»[90].
Quelli messi in luce da questa critica della democrazia sono per Hobbes dei meccanismi universali che tendono a minare le fondamenta di qualunque comunità politica. «La mancanza […] dell’umiltà [necessaria] per sopportare di perdere l’asprezza violenta e ingombrante della loro presente grandezza» costituisce infatti uno dei principali fattori che rendono «traballanti» gli edifici politici[91]. Gli effetti deleteri della vanagloria non esentano affatto coloro che in uno Stato aristocratico o monarchico sono inclusi nel processo deliberativo: «non esiste assemblea convocata per consigliare nella quale non siano alcuni che ambiscano a essere stimati eloquenti nonché esperti di politica, e che danno i loro consigli preoccupati non già della proposta avanzata, ma dell’applauso alle loro variopinte orazioni»[92]. Anche negli Stati non democratici, inoltre, «le persone che hanno un’alta opinione della loro saggezza in materia di governo sono disposte all’ambizione», perché «l’onore dovuto alla loro saggezza andrebbe perduto senza un impiego pubblico»[93]. «Tutti aspirano per natura agli onori e alla fama, ma soprattutto coloro che sono meno presi dalla cura per le cose necessarie»: «god[endo] di molto ozio», quelli che «credono di essere più saggi degli altri» e vedono perciò l’assenza di cariche come un insulto non solo «non possono desiderare nulla più di un esito infelice delle decisioni pubbliche», grazie al quale emergere su coloro che sono stati loro ingiustamente preferiti, ma «mostrano quanto la loro virtù potrebbe giovare allo Stato nuocendo ad esso, se non possono farlo in altro modo»[94]. Nella sua «asprezza violenta e ingombrante» il desiderio ambizioso di riconoscimento tende dunque in ogni sistema politico a configurarsi come desiderio del sommo potere e del sommo onore legati alla sovranità, e a coincidere per ciò stesso con la contestazione delle forme di sovranità costituite: «coloro che hanno una grande e falsa opinione della loro saggezza» tendono infatti ad arrogarsi «il diritto di biasimare le azioni di chi governa e di metterne in discussione l’autorità, sconvolgendo le leggi con i loro pubblici discorsi come se nulla fosse un crimine se non ciò che […] loro […] prevedono che tale sia»[95]. Il desiderio di riconoscimento gioca una parte importante nella determinazione della principale forma individuale di contestazione, rappresentata dal crimine. «Una delle passioni che più frequentemente sono causa di crimine è la vanagloria, che consiste in una insana sopravvalutazione del proprio valore»[96]. «Coloro che si attribuiscono un grande valore a causa dell’ampiezza della loro ricchezza», «di una parentela numerosa e potente» o «di grande reputazione fra la moltitudine» tendono infatti a credere che «le pene previste dalle leggi […] non dovrebbero essere loro inflitte con lo stesso rigore con cui vengono somministrate alla gente […] oscura e semplice compresa sotto il nome di volgo», e hanno anzi «il coraggio di sfidare la legge contando di conculcare il potere cui spetta di farla eseguire» e di «sfuggire alla punizione»[97]. Questo coraggio e questa sfida costituiscono un’implicita negazione dell’autorità sovrana perché la presunzione di poter fare affidamento «sulla forza, sulle ricchezze o sulle amicizie per resistere a coloro che debbono far eseguire la legge […] è la radice da cui germoglia, a ogni occasione e a ogni tentazione, il disprezzo di tutte le leggi» e del potere preposto alla loro esecuzione[98]. Attribuirsi un potere in grado di resistere alla pubblica autorità significa manifestare disprezzo verso il potere sovrano, negare l’onore che deve essergli tributato attraverso l’obbedienza e affermare che chiunque sia dotato di sufficiente a resistere possa anteporre «il proprio appetito» alla legge e all’interesse pubblico che in essa si esprime[99].
La vera potenza politica del desiderio di riconoscimento si manifesta però non tanto nel malcontento invidioso degli ambiziosi esclusi dal potere sovrano e dall’onore che esso comporta e nelle forme individuali di contestazione generate da questo malcontento, quanto nelle crisi di più ampia portata connesse alle forme di contestazione collettive che si accendono quando l’ambizione dei pochi incontra o produce lo scontento dei molti. Si pensi in tal senso al caso del sedicente tirannicidio. Per Hobbes «regno e tirannide non sono forme diverse di Stato», ma due nomi che i sudditi danno a una medesima forma statuale a seconda che se ne sentano o meno rappresentati, si riconoscano o meno nell’istituzione: «se i cittadini pensano che un re […] esercita bene il suo potere lo chiamano re, altrimenti tiranno» e allo stesso uomo, per quanto in entrambi i casi «legittimamente innalzato al potere», viene dato «il nome di re in segno di onore, e di tiranno in segno di disprezzo»[100]. Il fallimento del re nell’intercettare il riconoscimento dei cittadini consente però l’erosione dell’autorità sovrana da parte di autorità concorrenti. Nel vuoto di adesione e di riconoscimento che accerchia le istituzioni «la popolarità di un suddito potente» finisce per rappresentare una malattia pericolosa, perché «la fama di un ambizioso» e «l’«ammirazione per le [sue] virtù» possono non solo distogliere «il popolo (che dovrebbe ricevere il proprio movimento dall’autorità del sovrano) […] dall’obbedienza», ma «trascinarlo fino a prestare [ad altri] un’obbedienza o un onore appropriatamente tributabili soltanto al sovrano»[101]. Quando uomini ambiziosi «che godono di grande reputazione» e autorità denunciano un potere come tirannico presentando il tirannicidio come lecito e «degno della massima lode» la forza di questa denuncia e il desiderio di questa lode possono essere così grandi da spingere i sudditi ad assumersi «la responsabilità di uccidere i loro re»[102] anche a costo della loro stessa vita. «Chi può allettare i sudditi […] con un premio così grande può indurre quelli che sono bramosi di gloria a osare e fare qualsiasi cosa»: «cosa cercavano i Deci e gli altri romani che si votarono alla morte, e mille altri che si gettarono in pericoli incredibili, se non l’onore presso i posteri»[103]? L’efficacia politica del riconoscimento nell’erosione dell’autorità costituita e nella formazione di nuove autorità manifesta così una portata che eccede il caso particolare del tirannicidio e la associa al più generale problema della sedizione. Nonostante tutti i torti, gli insulti e i tormenti dai quali coloro che «male sopportano lo stato di cose presente» ritengono di essere vessati, una rivolta rimane impossibile in assenza di una «speranza di vincere» che dipende a sua volta dalla congiunzione di una molteplicità di fattori: il numero, gli strumenti, la fiducia reciproca, ma soprattutto l’unione sotto un capo che li «infiammi e li inciti» e al quale tutti obbediscano «spontaneamente», vale a dire «non perché obbligati […], ma per stima della virtù e prudenza militare»[104]. È dunque proprio sullo sfondo di questo rischio di sedizione che Hobbes può assimilare a una «grave colpa» il «parlar male del rappresentante sovrano […] mettendone in discussione […] il potere o usandone irriverentemente il nome in qualsiasi modo possa cagionarne il disprezzo del popolo e l’allontanamento dell’obbedienza di quest’ultimo (nella quale risiede la sicurezza dello Stato)»[105].
Proprio l’inclinazione dei rapporti di riconoscimento di promuovere la formazione di centri di potere in conflitto l’uno rispetto all’altro e capaci di contendere allo Stato il monopolio della forza fisica e simbolica eleva la loro competente regolamentazione al rango di uno dei diritti e doveri essenziali della legislazione dell’amministrazione, inseparabile dalla sua funzione di garante della pace. La forma fisiologica assunta a criterio di questa regolazione è chiaramente indicata da Hobbes. Come il potere del sovrano dovrebbe essere identico alla somma di tutti i poteri dei sudditi e maggiore di quello di ognuno,
così anche l’onore del sovrano dev’essere maggiore di quello di ognuno o di tutti i suoi sudditi, giacché nella sovranità è la fonte dell’onore. […] Come al cospetto del padrone i servi sono uguali e affatto spogli di ogni onore, così sono i sudditi al cospetto del sovrano; e, benché, quando sono fuori della sua vista, brillino alcuni di più e altri di meno, tuttavia in sua presenza non brillano più delle stelle in presenza del sole[106].
La sovranità è fonte di ogni onore civile, vale a dire dell’onore che i cittadini sono pubblicamente obbligati a riconoscere, e come tale esige che quanto ad onore tutti i cittadini siano uguali al cospetto della superiorità del solo sovrano. È proprio questa sua qualità di «fonte dell’onore» ad assegnare al sovrano il compito di riorientare in chiave verticale e centralizzata rapporti di riconoscimento di per sé orizzontali e policentrici[107]. La prima forma di questo orientamento è rappresentata dall’emanazione delle leggi civili chiamate a determinare in modo univoco quella legge naturale che abbiamo visto rappresentare il criterio morale di riconoscimento che tutti presuppongono universalmente condiviso, ma il cui senso è oggetto di contesa e di manipolazione. «Tutte le controversie» attorno al valore delle persone «nascono dalla diversità delle opinioni […] circa il mio e il tuo, il giusto e l’ingiusto, […] l’onesto e il disonesto, […] che ciascuno valuta in base al proprio giudizio», e proprio per questo un aspetto imprescindibile della sovranità consiste nel «produrre e rendere pubbliche delle regole o misure comuni a tutti con cui ciascuno possa conoscere cosa debba dire suo e cosa altrui, cosa giusto e cosa ingiusto, cosa onesto e cosa disonesto», e alle quali ognuno possa appellarsi come canone universalmente accolto di distribuzione del riconoscimento[108]:
considerando quanto gli uomini siano per natura prodighi nel valutare sé stessi, quanto loro prema ricevere l’altrui rispetto e quanto poco valutino gli altri – donde in continuazione sorgono fra loro competizione, contese, fazioni e, in ultimo, la guerra […] – è necessario che ci sia[no] […] dei parametri ufficiali per la definizione del valore degli uomini che hanno ben meritato o possono ben meritare dello Stato[109].
L’obbedienza e la disobbedienza alla determinazione della legge naturale offerta dalla legge civile possono e devono senza dubbio essere premiate o punite con strumenti che non chiamano direttamente in causa la sfera del riconoscimento. Consapevole però che il riconoscimento rappresenta una causa specifica e di per sé stessa sufficiente delle forme locali o globali di contestazione dell’autorità sovrana e della formazione di autorità ulteriori, Hobbes non manca di indicare in una «legislazione concernente l’onore»[110] atta a regolare l’accesso al bene simbolico della stima uno degli aspetti fondamentali di una politica del diritto mirante alla limitazione non necessariamente violenta del dissenso e alla costruzione di forme attive di adesione all’ordine costituito.
Poiché non si può estirpare dall’animo degli uomini l’ambizione e la brama di onori non rientra tra i doveri di chi ha il potere adoperarvisi. Ma, comminando con fermezza pene e ricompense, possiamo fare sì che gli uomini sappiano che la via verso l’onore non è quella che passa per il biasimo del governo presente, per le fazioni, per il favore popolare; ma proprio quella opposta. Sono buoni cittadini quelli che osservano le deliberazioni dei padri, le leggi e i diritti. Se vedessimo che costoro sono costantemente innalzati agli onori da chi amministra il potere supremo, mentre i faziosi vengono puniti e disprezzati, l’ambizione di obbedire sarebbe maggiore di quella di osteggiare[111].
La distribuzione pubblica di onore e ignominia si impone così come lo strumento attraverso il quale lo Stato giunge a sfruttare in ordine al consolidamento del proprio potere e della propria autorità la stessa ambizione di potere ed onore che abbiamo visto tendere alla loro distruzione. «Il pregio pubblico» di una persona coincide «col valore attribuitole dallo Stato», ma questo valore «è significato da cariche di comando, incarichi giudiziari, pubblici impieghi»[112]. Fissando «l’ordine della posizione sociale e il rango che ognuno deve occupare», come anche «i segni di rispetto che i sudditi debbono tributarsi l’un l’altro negli incontri pubblici o privati», lo Stato può includere i cittadini nell’esercizio del potere pubblico e nell’onore connesso a questo esercizio o escluderli da essi, trasformando il desiderio di riconoscimento che rischia di sfociare nella contestazione o nella sedizione in un desiderio – «massimamente efficace a incoraggiare gli uomini a servire lo Stato o a dissuaderli dal recargli danno» – di inclusione nella macchina amministrativa[113]. Nella stessa direzione dell’incentivo costituito della speranza nei pubblici impieghi va il disincentivo dell’ignominia, intesa come «l’inflizione di qualcosa che è male in quanto reso disonorevole dallo Stato o la privazione di qualcos’altro che è bene in quanto è inteso come onorevole ancora dallo Stato»[114].
L’utopia hobbesiana della pace, come utopia di uno Stato capace di unificare nel proprio potere e nella propria volontà la totalità dei poteri e delle volontà dei cittadini, può realizzarsi solo come utopia di uno Stato capace di promuovere questa unificazione attraverso l’imposizione di criteri di riconoscimento universalmente riconosciuti, utopia di rapporti di riconoscimento tra i cittadini e tra cittadini e Stato interamente conformi alla decisione sovrana. Questa soluzione manifesta tuttavia una intrinseca fragilità. «Onorare coloro che un’altra persona onora significa onorare quella stessa persona come segno di approvazione del suo giudizio»[115], ma questo significa che lo Stato può imporre ai cittadini i propri criteri di riconoscimento e spingerli a onorare coloro che esso stesso onora solo a condizione di essere già oggetto del loro onore. Nelle pagine precedenti abbiamo visto come il discorso hobbesiano sul riconoscimento riesca a tessere in una trama unitaria tutti i fili precedentemente intrecciati dall’interrogazione antropologica sui confini tra l’animale e l’umano. La brama di potere e di gloria in cui può essere riassunta la totalità delle aspirazioni umane mobilita l’eccedenza del desiderio rispetto alla semplice autoconservazione, l’esplorazione del mondo dei possibili istigata da questa eccedenza, le risposte religiose alle ansie suscitate da questa esplorazione, la circolazione in senso lato linguistica dei segni di potere e di onore, la moralità destinata a regolare questa circolazione, le regole giuridiche che dovrebbero integrare desideri, aspettative morali e religiose in una precisa cornice istituzionale. Il problema di questo compimento politico del discorso antropologico è legato all’incapacità dell’artificio politico di sussumere sotto di sé la spontaneità dei rapporti di riconoscimento. Il concetto di riconoscimento contribuisce a sciogliere in chiave lineare il circolo all’interno del quale rischiava di chiudersi la riflessione sulla specificità dell’umano: lo Stato non è chiamato a creare dal nulla il linguaggio e la razionalità che definiscono l’umano nella sua differenza dall’animale e rendono possibile il patto sul quale esso stesso si fonda, ma a perfezionare la circolazione di segni e la normatività che operano già nei rapporti di riconoscimento che costituiscono uno dei tratti distintivi dell’umanità. Dato che il potere dello Stato è sempre quello che gli viene accordato dai cittadini che lo onorano attraverso l’obbedienza, il funzionamento dello Stato presuppone dei rapporti di riconoscimento che può certo contribuire a riorientare in una direzione o nell’altra, ma che non è esso stesso a porre, ai quali è esso stesso sottomesso, e dai quali è continuamente esposto al pericolo di essere travolto[116]. L’analisi del discorso sul riconoscimento lascia così apparire quello che costituisce il vero rimosso della teoria politica di Hobbes, che non manca tuttavia di riaffiorare rapsodicamente nei suoi testi. La struttura orizzontale e policentrica del riconoscimento non può essere irrigimentata da quella verticale e concentrica della sovranità. «Il potere dei potenti non si fonda che sull’opinione e la credenza del popolo»[117]: il nesso tra potere sovrano e riconoscimento popolare non solo non si lascia riassorbire nella forma giuridica della rappresentanza, ma, per ciò stesso, impedisce di ridurre la democrazia a una forma di governo tra le altre, facendone velatamente la sostanza di ogni politica[118].
Tavola delle Abbreviazioni
DC = Hobbes, Th., 1839a
DH = Hobbes, Th, 1839b
EL = Hobbes, Th, 1969a
Lev. = Hobbes, 1839b
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Note al testo
[1] Cf. Lev., pp. 19, 23, Hobbes (1841, p. 244).
[2] Lev., pp. 21-22.
[3] Lev., p. 46.
[4] Lev., pp. 46, 22. Sulla curiosità e sulla sua capacità di ridefinire la specificità umana al di là del classico dualismo tra passione e ragione vedi Paganini (2012).
[5] Lev., pp. 44, 79, 87.
[6] Lev., pp. 84-97.
[7] Lev., p. 37.
[8] Lev., pp. 24 e 38.
[9] Lev., pp. 32, 31, 60. Sul nesso tra curiosità, linguaggio e razionalità vedi Marrama (2016).
[10] DC, V, 6.
[11] Lev., pp. 104, 103 e 111.
[12] Lev., p. 56. Questa inclinazione “discontinuista” è stata particolarmente accentuata da Pettit (2008), secondo il quale la specificità dell’umano è interamente legata alla “trasformazione” dell’uomo da parte dell’invenzione del linguaggio. Contro questa lettura vedi Tabb (2014).
[13]Negli Elements e nel De cive la definizione della gloria chiama in causa una valenza immediatamente comparativa e competitiva che scompare invece dalla definizione presente nel Leviathan. Se nelle opere degli anni ’40 la gloria «consiste nel confronto e nella superiorità, e non spetta a nessuno quando spetta a tutti», perché deriva bensì dall’immaginazione del nostro potere, ma di questo potere solo in quanto «superiore al potere di colui che contrasta con noi» (EL, IX, 1, DC, I, 2), nell’opera del ’51 la definizione di questa passione cancella ogni esplicito accenno alla superiorità. Analogamente, gli Elements e il De cive separano nettamente i piaceri dei sensi e i piaceri dell’animo, assimilano questi due distinti campi affettivi a quello dell’utile e della gloria, e concepiscono la gloria come la passione nella quale tutti i piaceri dell’animo «consistono» o «in ultimo si riferiscono», mentre il Leviatano ridimensiona l’opposizione pur ancora operativa tra i due generi di piacere senza lasciare traccia dell’opposizione tra la sfera dell’utile e quella della gloria. Cfr. EL, IX, 1, dove la gloria compare non a caso come prima tra le passioni, e DC, I, 2. Sulla coppia oppositiva utile/gloria vedi ad esempio DC, I, 2, DC, III, 22. L’evoluzione della concezione hobbesiana del tema della gloria costituisce uno degli assi portanti della lettura proposta da Strauss (1936), che spiega la centralità riconosciuta alla gloria nei primi scritti e la relativa marginalizzazione operata dal Leviathan a partire dalla transizione dall’abbandono dell’antropologia aristocratica in favore di quella borghese. Su questa evoluzione vedi McNeilly (1968:137-155), che sottolinea la scomparsa del carattere essenzialmente relazionale attribuito alla gloria nei primi scritti, e D’Andrea (1997:92-102), che sottolinea l’emancipazione della gloria dal desiderio di superiorità. Pur tendendo per altro verso ad attribuire al significato e al ruolo della gloria una relativa stabilità nel corso di tutta la produzione hobbesiana, Slomp (2000:90-92) riconosce che nel Leviathan la gloria non è più il “genere” di tutte le passioni, ma solo una “specie”.
[14]EL, IV, 1, DC, I, 4, DC, XV, 12, Lev., p. 46.
[15]Lev., p. 463.
[16]Lev., pp. 78 e 60.
[17]Lev., pp. 78-79, EL, VII, 7.
[18]Lev., pp. 69, 79.
[19]EL, VIII, 3. Sul nesso potere/futuro vedi D’Andrea (1997:63,68) e Altini (2012:172-173). Sull’accumulazione tendenzialmente infinita di potere vedi Lazzeri (1998:61-65).
[20]Questo rapporto è riconosciuto da Corsa (2013) in rapporto però non alla gloria, ma alla sua sola forma ben fondata (la magnanimità). In realtà è vero, come osserva Slomp (2000:44), che gloria e felicità sono esplicitamente intercambiabili solo nel cosiddetto Anti-White, ma la connessione tra i due concetti resta implicitamente operante in tutte le opere successive.
[21]Lev., p. 45, DH, XII, 9.
[22]Esiste senz’altro una relativa autonomia della sfera delle passioni riconducibili alla gloria rispetto alla sua origine nel dominio dei piaceri dei sensi: Hobbes sembra stabilire una proporzionalità inversa tra l’attaccamento ai piaceri dei sensi e il desiderio di gloria, giunge occasionalmente ad ammettere che questo desiderio possa essere più forte persino della paura della morte (cfr. EL, X, 3, Lev.., p. 124, EL XIV, 4 e XVI, 11). L’impossibilità di ridurre un ambito a un altro non equivale però alla loro separazione.
[23]EL, VIII, 5.
[24]Lev., p. 46, DH, XII, 6, EL, IX, 20, Lev, p. 81, EL, IX, 1.
[25]Lev, p. 47, EL, IX, 1. Su questa gloria ben fondata, assimilata da Hobbes alla magnanimità, vedi Benardete (2013:47-52).
[26]DH, XII, 9, Lev, p. 154, Lev., p. 81, Lev., p. 61. Sul legame tra vanagloria e follia vedi Weber (2007:118).
[27]La natura innanzitutto riflessiva della gloria è passata spesso inosservata tra gli interpreti, che tendono a sovrapporre troppo immediatamente la gloria e l’onore. Vedi ad esempio Weber (2007:62-63), dove la gloria come soddisfazione del proprio potere collassa sulla gloria come godimento dei segni di riconoscimento del potere ricevuti dagli altri.
[28]DH, XI, 13.
[29]EL, IX, 2, Lev., p. 47.
[30]DC, XV, 13.
[31]Negli Elements, dove il discorso sull’onore si inscrive in prima battuta nell’analisi dei piaceri del senso e dell’immaginazione e viene ripreso in un secondo momento nella discussione della religione, «onorare un uomo […] significa concepire o riconoscere che quell’uomo ha una superiorità o eccesso di potere su colui che lotta o si mette a confronto con lui» (EL, VIII, 5). Nel De Cive, nel quale la trattazione tematica dell’onore è invece concentrata all’interno del solo capitolo dedicato al «Regno di Dio per natura», l’onore «non è altro che l’opinione della potenza altrui congiunta con la bontà», si accompagna all’amore suscitato dalla bontà e alla speranza o alla paura evocate dalla potenza, si esprime nella lode e nell’attribuzione di una potenza presente e sicura (DC, XV, 9). Il Leviathan recupera infine l’ordine degli Elements espandendone gli argomenti. L’esposizione del «Regno di Dio per natura» contenuta nel Capitolo XXXI continua ad attestarsi sulle posizioni del De cive, ma definendo l’onore come un’«alta valutazione» del potere di un uomo, il fondamentale Capitolo X espunge tanto la valenza immediatamente comparativa presente negli Elements quanto il riferimento alla bontà e alla lode operante nel De cive (Lev., p. 71). Sull’evoluzione del concetto di onore in Hobbes vedi il primo capitolo di Bagby (2009). A partire dal fatto che la traduzione inglese del De cive viene pubblicata nello stesso anno del Leviathan Bagby tratta, a mio parere scorrettamente, le due opere come contemporanee. Ugualmente infondata mi sembra l’idea che nella transizione dagli scritti giovanili l’atteggiamento hobbesiano verso l’onore si inasprisca al punto di diventare «interamente negativo» (ivi, p. 41). Al contrario, il Leviatano riconosce all’onore un ruolo ancora più importante rispetto alle opere precedenti.
[32]EL, VIII, 5, DC, XV, 9, Lev., p. 74.
[33]Lev., pp. 524, 293, 292 e 58, EL, VIII, 5.
[34]EL, XII, 6, DC, XV, 9, Lev., pp. 292 e 524-525. Il concetto di “culto” viene considerato dagli interpreti quasi esclusivamente nella sua accezione specificamente religiosa. Vedi Terrel (1994:305-308), Bagby (2007:68-70), Krom (2011:44-46). Quella religiosa costituisce però una declinazione estremamente particolare del culto: nella sua applicazione ai rapporti interumani il culto costituisce un vettore di cooperazione, perché implica un vantaggio e un incremento di potenza sia per chi lo rende che per chi lo riceve, mentre nel rapporto tra uomo e Dio questa reciprocità è interrotta dall’infinita potenza di Dio.
[35]DC, XV, 9, Lev, p. 293.
[36]Lev., p. 293.
[37]Lev., pp. 70-1 e 293, EL, VIII, 6. Macpherson (1962:60-64) si richiama al passo del Capitolo X del Leviathan sul valore degli individui e sul prezzo delle loro prestazioni per affermare che Hobbes estende il modello della relazione mercantile all’insieme dei rapporti umani. Marcucci (2017) mostra però che gli stessi passi pongono in primo piano la questione del valore sociale delle qualità personali e della loro riconoscibilità. Per una critica a mio avviso appropriata a Macpherson vedi Frost (2008: 149-50).
[38]DC, XV, 13, Lev., p. 523. Da notare come la distinzione tra sincerità e ipocrisia perda buona parte del proprio valore in rapporto al riconoscimento del potere: onorare ipocritamente qualcuno è impossibile, perché solo il riconoscimento del potere può spingere ad onorare.
[39]Lev., p. 71.
[40]Sul meccanismo di accrescimento del potere attraverso il suo riconoscimento vedi Lazzeri (1998:66-70) e Field (2014), che parla in questo senso di una «costituzione» sociale del potere, sottolineando il modo in cui nel Leviathan scompare il radicamento del potere nella dimensione delle «facoltà» naturali del corpo o della mente. Diversamente da quanto sostenuto da Read (1991), non dunque ha senso parlare del potere, neppure nella finzione dello stato di natura, nei termini di un gioco a «somma zero»: il potere non è qualcosa che uno può possedere solo a condizione che un altro se ne trovi privato, ma qualcosa che ognuno dei due soggetti della cooperazione mediata dal riconoscimento vede aumentato dalla collaborazione dell’altro.
[41]Sull’interdipendenza connessa al desiderio di gloria vedi Slomp (2000:110-111).
[42]Lev., pp. 72 e 26.
[43]DC, XV, 17.
[44]Lev., p. 294.
[45]Su questo punto resta fondamentale la discussione della “semiologia del potere” contenuta in Zarka (1995:86-123). Sostenendo che «i poteri naturali […] non esistono come poteri se non attraverso i segni che li significano nello scambio» e che «il potere è certo il significato dei segni o significanti, significanti che lo fanno esistere come potere» (ivi, pp. 90-91), Zarka sembra tuttavia considerare come in ultima istanza irrilevante quella «fisica del potere» che pure per Hobbes costituisce il sostrato materiale della dinamica semiotica.
[46]EL, XIX, 5, DC, V, 5, Lev., p. 141. Sulla trattazione hobbesiana degli «animali politici» vedi Reale (1992), che offre una ricognizione completa dei passi dedicati a questo tema e delle loro complesse implicazioni.
[47]Gli interpreti hanno talvolta negato la possibilità di leggere il desiderio di riconoscimento come una causa specifica di conflitto, ulteriore rispetto all’autoconservazione. Vedi ad esempio Gauthier (1969:18). Contro questo tipo di lettura vedi Slomp (2007:187-192).
[48]Lev., p. 154, DH, XI, 12.
[49]DC, IP, 4.
[50]DC, II, 1 e prefazione.
[51]Vedi Foisneau (2016:87-88), dove si legge che «lo scarto tra la rappresentazione che mi faccio della mia potenza e i segni del riconoscimento (o di assenza di riconoscimento) da parte dell’altro suscita un malinteso permanente, il cui esito non può essere che conflittuale».
[52]DC, I, 12.
[53]DC, I, 5, EL, XIV, 4.
[54]Lev., p. 101.
[55]DC, III, 12, Lev., p. 124, DC, I, 5, Lev., p. 244. Questa dinamica generale, nella quale la vanagloria si rivela inseparabile dal conflitto, diventa particolarmente chiara attraverso una sua esemplificazione particolare. «Ritenendosi sapienti, vogliono apparire tali a tutti», «pretendon[d]o di essere più saggi degli altri, […] vogliono insegnare agli altri ed essere considerati maestri», in modo tale che «suscita odio non solo il contraddire, ma il semplice fatto di non essere d’accordo», perché «non essere d’accordo con qualcuno significa infatti accusarlo tacitamente d’errore, e non essere d’accordo su molte cose è lo stesso che ritenerlo uno sciocco». Cfr. DC, VI, 11, DC, XIII, 11, DC, I, 5.
[56]Lev., pp. 79, 245.
[57]Lev., pp. 101, 124, DH, XII, 4. Va notato che il pentimento è indice del riconoscimento del potere del rivale prima ancora che dell’ingiustizia della propria azione, e che solo a questa condizione può dare soddisfazione in quanto segno di onore. Va anche osservata una relativa indeterminazione del pensiero hobbesiano, che in alcuni contesti dipinge il vanaglorioso come consapevole della propria impotenza ed incline a preferire il disonore ai pericoli, mentre in altri contesti sembra presupporre un’illusione di potenza e una conseguente disponibilità ai pericoli della vendetta. Sulla genesi della lotta per il riconoscimento vedi Lazzeri (1998:75-76).
[58]EL, IX, 1, DC, II, 1.
[59]EL, XVII, 9, EL, XIX, 2. In questo senso Gert (1996:162) può affermare che tra le tre fonti del conflitto indicate da Hobbes nel Leviathan unicamente la diffidenza o paura, ma non la competizione o gloria, può svolgere un ruolo positivo nella costruzione della pace. Vedremo che le cose non stanno così, perché anche competizione e gloria possono svolgere una importante funzione socializzatrice.
[60]DC, I, 2, DC, IX, 15.
[61]DC, I, 2. La lettura di questi passi alla luce non solo della critica di una socievolezza naturale che essi pure senza dubbio contengono, ma anche della potenza socializzatrice della gloria è stata ostacolata dalla sopravvalutazione della dimensione intrinsecamente competitiva della gloria. Anche ammesso che negli Elements e nel De Cive la gloria «non può essere acquisita se non a spese degli altri», e che «condividerla è distruggerla» (Herbert 1989:147-148), questo carattere esclusivo non impedisce alla gloria di disporre i competitors a intrattenere rapporti descrivibili come una società: i contendenti non possono godere simultaneamente della gloria, ma possono tuttavia egualmente godere della speranza di ottenerla, e grazie a questo godimento tollerare la compagnia degli altri. Su questi passi ha richiamato l’attenzione Weber (2007:87-89).
[62] Cfr. EL, IX, 15: la fruizione relativa alla concupiscenza «è in parte un piacere sensuale, in parte un diletto mentale; infatti, essa è costituita da due appetiti, insieme di dar piacere e di averne, e il diletto che gli uomini traggono dall’esser dilettevoli non è sensuale, ma un piacere o una gioia della mente, consistente nell’immaginazione del potere di piacere, che essi posseggono in tanta misura». Per una discussione del tema della sessualità in Hobbes e una rassegna del più recente dibattito anglofono vedi Boucher (2016).
[63] DC, IX, 8, DC, IX, 15, Lev., p. 165, DC, X, 5.
[64]La lista di poteri ed onori di cui ho offerto uno stralcio è contenuta in Lev., pp. 69-73.
[65]Questo aspetto spesso negletto del pensiero hobbesiano non è passato inosservato a Frost (2008:146-148), dove si legge che «il risultato della ricerca di potere non è il conflitto, ma piuttosto […] la cooperazione» e «attraverso la relazione ogni individuo aumenta il suo potere».
[66]Sulla fiducia vedi Lev., p. 72 e Lev., p. 111. L’importanza del Capitolo X del Leviathan nella definizione di una nuova ontologia sociale e di una dinamica non contrattualista dell’associazione è stata messa in luce da Field (2014).
[67]È dunque vero, come sostiene Bagby (2009:41), che nel Leviathan Hobbes accentua l’autonomia dei rapporti di onore rispetto alla sfera morale, ma non è vero che questa autonomia sfocia in una completa separazione.
[68]EL, XVI, 11, DC, III, 12, Lev, p. 124.
[69]EL, XVII, 1 e 2, DC, III, 13 e 14, Lev., pp. 125 e 126.
[70]EL, XVII, 9, DC, III, 26, Lev., p. 128. Il ruolo di questo riconoscimento dell’uguaglianza in rapporto all’insieme delle leggi naturali e dei rapporti morali è chiaramente enunciato da Reale (1992, pp. 247-250), che vede nell’uguaglianza lo «sfondo di ogni possibile moralità» e il «nucleo essenziale della filosofia morale di Hobbes».
[71]La possibilità di questa modalità egualitaria di riconoscimento costringe ad abbandonare la tesi largamente diffusa secondo la quale, come afferma ad esempio Carnevali (2010, p. 55), la teoria hobbesiana si concentrerebbe «su un solo aspetto del bisogno di riconoscimento, quello in cui si esprime la competizione per il potere e la superiorità di status».
[72]Cfr. però DC, I, 2: «Se poi qualcuno trova in sé motivo di gloriarsi non può trarre nessun giovamento», per quanto riguarda la stima di sé, «dalla società altrui». Cfr. anche DH, XI, 13: «Avere fiducia in sé è bello, giacché è segno di un animo conscio del proprio valore. L’ostentazione è brutta, giacché nasce dal bisogno di lode». In questi passi Hobbes sembra rinunciare all’universalità del desiderio di lode per cedere all’ideale “cartesiano” di un soggetto capace di trovare in sé stesso le ragioni di una giusta stima di sé. L’affinità tra la gloria o la magnanimità hobbesiana e la generosità cartesiana è stata osservata da Pacchi (1987).
[73]Lev., p. 72, DC, praef., p. 74, DC, X, 9.
[74]DC, IV, 21.
[75]Lev., pp. 80, 45, 109. Sulla capacità del desiderio di gloria di favorire il rispetto della legge naturale che vieta la crudeltà, cioè di «infliggere un male senza ragione» (Lev., p. 124) vedi ad esempio DC, V, 2: «Così nei tempi antichi era una regola di vita, quasi un’economia, […] vivere di rapina, che in quello stato di cose non era […] privo di gloria per chi lo praticava con valore, ma senza crudeltà. Era infatti costume prendersi le altre cose, ma risparmiare la vita […]. Ciò tuttavia non va inteso come se vi fossero costretti dalla legge di natura, ma perché si preoccupavano della propria gloria, e di evitare che l’eccessiva crudeltà fosse presa per un segno di paura».
[76]Lev., p. 121.
[77]Lev., p. 124. A partire da questi passi Strauss (1936, trad. it.:161-162) riconosce per un istante un possibile legame tra gloria e giustizia, che però esclude subito dopo. Nel quadro della propria analisi del concetto di magnanimità Corsa (2013, § 3) sottolinea persuasivamente questo rapporto, senza tuttavia mai domandarsi perché esso venga relegato ai margini del discorso di Hobbes. Su questo stesso tema vedi anche Krom (2011:97-102).
[78]EL, IX, 12, Lev., pp. 48 e 80.
[79]DC, XV, 12, Lev., pp. 297 e 114-115.
[80]DC, p. 66, DC, II, 31.
[81]DC, II, 32.
[82]In questo senso non nego l’importanza che Hobbes conferisce alla nozione di artificio e alla dimensione dell’artificiale, limitandomi ad affermare che l’artificio non può essere inteso in Hobbes come il non-naturale, ma al contrario come una modalità specifica di funzionamento della natura. Per una diversa lettura del problema vedi Prokhovik (2005), che sostiene invece una lettura costruttivista del pensiero hobbesiano.
[83]Su questo punto vedi Frost (2008:159-162).
[84]DC, X, 15, DC, X, 9.
[85]DC, X, 11.
[86]DC, X, 9, DC, X, 12.
[87]Flathman (2002:141) afferma che «una democrazia», per Hobbes, «è una massa governata dal peggior tipo di aristocrazia, “l’aristocrazia degli oratori”». Vedi anche Van Mill (2001:177).
[88]Lev., p. 70.
[89]DC, X, 6.
[90]DC, X, 6, DC, X, 12.
[91]Lev., p. 262.
[92]Lev., p. 217.
[93]Lev., p. 81.
[94]DC, XII, 10, DC, XIII, 12.
[95]Lev., p. 244.
[96]Lev., p. 243.
[97]Lev., pp. 244 e 243.
[98]Lev., p. 248.
[99]Lev., p. 249.
[100]DC, VII, 3.
[101]Lev, pp. 270-271 e 276.
[102]DC, XII, 3, Lev., pp. 179-80 e 267.
[103]DC, XVIII, 14.
[104]DC, XII, 11.
[105]Lev., p. 277.
[106]Lev, p. 153.
[107]Sul rapporto tra dimensione orizzontale e verticale del riconoscimento vedi Marcucci (2017).
[108]DC, VI, 9.
[109]Lev., p. 151.
[110]Ibidem.
[111]DC, XIII, 12.
[112]Lev., p. 71.
[113]Lev, p. 151.
[114]Lev., p. 258. Sulla necessità dell’«onore civile» conferito dal sovrano in ordine alla difesa dello Stato ha insistito Boyd (2015).
[115]Lev., p. 71.
[116]Pur essendo d’accordo con Read (1991:520) quando sostiene che il potere sovrano esiste solo nella misura in cui sia accettato dai sudditi, non mi pare si possa sostenere che il potere sovrano dipenda dall’impotenza dei sudditi: al contrario, i sudditi possono onorare il sovrano obbedendogli e accordandogli l’uso del proprio potere solo nella misura in cui riconoscono che questo onore, questa obbedienza e questa cessione contribuiscono al loro potenziamento e ne costituiscono il giusto «prezzo».
[117]Hobbes (1969, p. 16).
[118]Non sono in questo senso d’accordo con la conclusione di Marcucci (2017), secondo la quale «la dinamica antropologica del riconoscimento» è infine «surdeterminata dal potere sovrano grazie alla rappresentazione, che annulla di fatto l’elemento mobile e processuale dei conflitti di riconoscimento»: a prescindere dalle intenzioni di Hobbes, il suo sistema non ammette un reale assorbimento del riconoscimento da parte della rappresentazione.