Miriam Aiello
La teoria sociale di Pierre Bourdieu ha costituito un importante e unanimemente riconosciuto contributo alla sociologia del XXI secolo. Se l’accademia italiana risulta gravata da un notevole ritardo nella ricezione dell’opera di questo autore, è altrettanto vero che le più sollecite ricezioni anglosassoni e financo quella francese appaiono segnate da appropriazioni parziali e frammentarie (Paolucci 2011: 144-5). In conseguenza di ciò, gli aspetti più propriamente filosofici dell’opera bourdieusiana sono finora rimasti sostanzialmente sprovvisti di una tematizzazione esplicita e sistematica. Una simile tematizzazione si rende tanto più urgente nella misura in cui il mancato riconoscimento dello spessore filosofico di questo autore induce alla scotomizzazione della sua opera e talvolta al fraintendimento del suo pensiero, che spesso investe proprio le categorie più delicate e di più sottile costruzione.
Come ovvio, questo contributo non ambisce a una ricostruzione integrale del significato filosofico dell’opera di Bourdieu, ma si propone semplicemente di lasciare emergere la fecondità e la densità di un concetto particolarmente caro al sociologo e spesso incompreso: l’habitus. La tesi che la presente ricostruzione presuppone – ma che purtroppo in questa sede non sarà possibile dimostrare – è che nella storia dell’idea di habitus, di cui una buona anche se parziale disamina sta in Sparrow, Hutchinson (ed.) (2013), l’elaborazione di Bourdieu, pur nell’apparente localizzazione sociologica, costituisca l’esito filosofico più avanzato. Infatti, a differenza di tutti gli usi precedenti, più o meno episodici o collaterali e, tuttavia, costitutivi, del concetto, Bourdieu ha senz’altro il merito di averne condensato i vari tratti in un’accezione più sistematica.
Tacendo, per limiti di spazio, sulla pluralità di fonti che agiscono nella formulazione bourdieusiana (seguendo il dettato dell’autore occorrerebbe includere almeno Hegel, Husserl, Mauss) questa operazione di revisione e ricostruzione passa attraverso una saldatura metodologica rilevante: la strutturalizzazione di un concetto a cui precedentemente è stato attribuito il carattere di uno stato, di una condizione che dispone alla virtù e alla ponderazione pratico-morale (secondo la linea storico concettuale che muove dalla hexis aristotelica), o a delle inferenze conoscitive (secondo la tradizione empiristica del habit). Posizionando la questione nel merito dell’opposizione epistemologica al cuore delle scienze sociali, «l’alternativa tra struttura e individuo, che fa bella mostra di sé in tante dissertazioni accademiche, è insufficiente in quanto la struttura è sia nell’individuo sia nell’oggettività», (Bourdieu 2013b: 160). Ora, la comprensione di una simile strutturalizzazione dell’habitus implica un’esplicitazione preliminare di alcuni nodi metodologici cruciali per una pre-comprensione dell’autore.
1.1 Premessa metodologica
Nel solco della tradizione della filosofia della prassi e della lezione dialettica in sociologia, in Bourdieu ciò che viene preliminarmente assunto è che si dia sistematicità dei e nei fenomeni sociali e individuali; e che tale sistematicità abbia luogo entro due differenti domini:
A) entro un’oggettività di primo ordine, data «dalla distribuzione delle risorse materiali e dei mezzi di appropriazione di beni e valori socialmente rari (delle specie di capitale)» (Bourdieu, Wacquant 1992: 16), entro cioè un sistema dell’estensività imperniato sull’esistenza fisica materiale e su quella quasi-fisica della collocazione sociale;
B) entro un’oggettività di secondo ordine che esiste «sotto forma di schemi mentali e corporei che funzionano come matrice simbolica delle attività pratiche, dei comportamenti, modi di pensare, sentimenti e giudizi degli agenti sociali» (Bourdieu, Wacquant 1992: 16) entro cioè un sistema dell’intensività psichica e dell’esistenza simbolica, in un sistema che è spaziale solo per analogia: non materiale, non divisibile eppure capace di produrre effetti materiali, ‘divisibilmente sensibili’ per parafrasare Marx: e questo è il dominio degli habitus.
Per l’autore tra questi due domini domini eterogenei vi è una corrispondenza sistematica e di tale corrispondenza sistematica, non meno che della sistematicità interna a detti domini, la scienza sociologica è tenuta a rendere conto.
L’oggettività a cui fa riferimento Bourdieu è un’oggettività costruita. Non si deve intendere infatti un’oggettività immediatamente data e disponibile allo sguardo teorico, qual è l’oggetto ambito dai positivismi di ogni segno o ciò che si accoglie della realtà in seguito a quella che Bourdieu chiama ‘abdicazione empiristica’ (Bourdieu 2001). L’oggettività che Bourdieu tematizza è il prodotto di una doppia rottura epistemologica da consumare dentro e contro i momenti oggettivistici e soggettivistici dell’analisi sociale. Essa è il risultato del sovraimprimersi di: una rottura (preliminare) con il senso comune (e con il senso comune scientifico), in quanto si nega all’esperienza immediata e alle sue componenti una qualsiasi priorità e rilevanza esplicativa, dunque una rottura che cela una parziale adesione all’epistemologia strutturalistica; una rottura dallo strutturalismo come tale, che dimentica di concepire l’oggetto reale «come attività sensibile umana, prassi» (in Bourdieu 2003b: 173), dunque una rottura che cela una parziale adesione al presupposto metodologico di matrice soggettivista (o, per onorare la simmetria che il cenno marxiano esigerebbe, idealistica) per il quale le rappresentazioni immediate dei soggetti hanno un valore effettuale, ma che non perde il risultato conseguito dalla prima rottura. Questa seconda rottura si inscrive sul prodotto della prima senza obliterare quest’ultima.
Un’oggettività di questo tipo si qualifica come non positiva, non data in natura. La verità presente nella familiarità del mondo, nell’immediatezza del suo senso, esibita dal senso comune è il prodotto di una mediazione onnipervasiva e continua. Essa è parvenza, ma parvenza vera. In ogni caso l’oggettività di cui Bourdieu ricerca i criteri di costruzione sembra prendere le mosse dalla presa in carico di una suggestiva affermazione hegeliana per la quale non v’è «nulla né cielo, né nella natura, né nello spirito, né dovunque si voglia che non contenga tanto l’immediatezza quanto la mediazione» (Hegel 1978: 65).
In questo denso quadro, l’habitus assume un valore a) metodologico, in quanto contrassegna una struttura dotata di priorità epistemologica sulla sostanza, sull’individuo, b) epistemologico, in quanto costituisce un vettore di conoscenza e di conoscibilità di una classe determinata di fenomeni, c) ontologico, in quanto denota una struttura di realtà causalmente responsabile di tale classe determinata di fenomeni e d) sociologico, in quanto questa classe determinata di fenomeni è specificata nel dominio sociale. Questa operazione è atipica nel contesto strutturalista nel quale la priorità epistemologica delle strutture riduceva la realtà individuale a un effetto o un’istanza della struttura, a sua volta distorta in super-Sostanza attaverso la conversione della regolarità in regola (Bourdieu 2003b). L’habitus, dunque, è l’esito di un pensiero iper-strutturalista: si qualifica come una struttura interna all’individuo che rappresenta la struttura della società a partire dal suo punto di vista senza in ciò costituirsi in realtà solipsistica e relativista.
L’operazione bourdieusiana mira a restituire alla dimensione individuale un protagonismo relativo, cioè avvertito dei vincoli esterni che gravano su di essa. Questa operazione passa attraverso una ridefinizione dell’ontologia di fondo e nella costruzione di operatori epistemologici a essa adeguati. Secondo Bourdieu, infatti, nessuna filosofia adeguata della praxis è possibile se non si include nel modello teorico la variabile individuale; e tuttavia, non è sufficiente limitarsi a presupporre che nell’identità numerica di ciascun agente abiti una soggettività intenzionale e libera; né, però, ci si può arrestare alla postura “critica”, secondo cui sull’agente gravano inappellabilmente gli orientamenti e i vincoli strutturali pre-ordinati a ogni sua possibile articolazione pratica. Occorre, allora, mettere in campo un impianto categoriale adeguatamente complesso, in base al quale la dimensione intersoggettiva e sociale risulti configurata nel modo seguente. L’identità numerica di ciascun agente si associa a:
- una posizione in un sistema di posizioni sociali dotate di gravità specifica ed esteriori l’una all’altra;
- un sistema di disposizioni pratiche e trasponibili da contesto a contesto che sono interiori l’una all’altra, ovvero intensive;
- un set di proprietà ricorsive e capaci di effettualità.
Ne risulta la ridefinizione dell’oggetto sociologico secondo le seguenti categorie analitiche:
- l’insieme delle relazioni e tensioni tra le posizioni produce un oggetto detto campo;
- il sistema delle disposizioni pratiche interne all’agente è una «struttura strutturata predisposta a funzionare come una struttura strutturante» (Bourdieu 2003), denominata habitus;
- l’insieme di tali proprietà è il prodotto di un’accumulazione ed è predisposto a funzionare come mezzo di accumulazione ulteriore, ed è detto volume complessivo di capitale.
In breve, nel pensiero di Bourdieu «lo spazio delle posizioni sociali si ritraduce in uno spazio delle prese di posizione attraverso lo spazio delle disposizioni (o habitus)» (Bourdieu 2009: 20).
Il fatto che questo contributo non si occuperà in alcun modo, se non collateralmente, delle nozioni di campo e di capitale non deve indurre a pensarlo come animato da un isolazionismo metodologico (tanto più incomprensibile se applicato a un autore che del relazionismo metodologico fa la sua cifra distintiva), ma dall’esigenza di gettare luce sulla multidimensionalità di un concetto tanto noto, quanto poco conosciuto. Queste indicazioni generali sui princìpi che ispirano l’autore stanno esattamente a guida e orientamento del lettore nel processo di esplicitazione di questa nozione.
1.2 Premessa genealogica
Una stratigrafia vera e propria prevederebbe due compiti: la disposizione cronologicamente ordinati degli strati in analisi e l’esposizione delle relazioni che essi intrattengono. Tuttavia, il singolare percorso intellettuale del sociologo ha sempre reso difficile agli interpreti una ricognizione della genesi dell’habitus. Quasi tutta la letteratura rinviene la gestazione del concetto di habitus nella fase etnologica dell’autore degli anni ’60. Per Gebauer e Krais «l’esperienza algerina segna il passaggio di Bourdieu dalla filosofia all’etnologia alla sociologia, ed è in questo cambiamento di prospettiva che si avvia anche l’elaborazione del concetto di habitus» (Krais, Gebauer 2009: 19). Anche secondo Paolucci «è in Algeria che iniziano a prendere corpo i temi gli interrogativi e i concetti (quello di habitus, in primo luogo) che costituiscono l’architettura della sociologia bourdieusiana» (Paolucci 2011: 17). In queste letture, molto correttamente, si attribuisce all’esperienza sul campo – in questo caso martoriato dalla guerra – dell’Algeria un ruolo determinante per la delineazione della teoria dell’habitus. In particolare proprio la particolare congiuntura storica di choc des civilizations di affermazione di un’economia capitalistica in un contesto precapitalistico di produzione ha lasciato emergere il carattere tendenziale e inerziale delle strutture cognitive dei cabili rispetto alle sollecitazioni imposte dagli “imperativi dell’economia moderna” (Paolucci 2011: 19): questo tema della non riducibilità della pratica e delle rappresentazioni degli agenti alle strutture immediate del condizionamento costituisce, come si vedrà, uno dei tratti inalienabili dell’idea di habitus bourdieusiana.
Tuttavia, il termine habitus negli scritti di Bourdieu compare esplicitamente per la prima volta in un contesto teorico completamente diverso e cioè nella Postface del 1967 alla sua traduzione in francese di Gothic Architecture and Scholasticism di Erwin Panofsky. In questo testo del 1950 era tematizzata da Panofsky la profonda unità di stile, il comune modus operandi, che caratterizzava tra le produzioni umane di epoca medievale, dalle opere e dall’architettura dell’arte gotica alle elaborazioni intellettuali del pensiero scolastico. Nella rielaborazione di Bourdieu l’habitus menzionato da Panofsky esprimeva nel cuore dell’individuale il collettivo «in forma di cultura […] nel senso dell’habitus che collega l’artista alla collettività e al suo tempo e, senza che questi se ne accorga, indica la direzione e l’obiettivo del suo progetto, apparentemente unico nel suo genere» (in Gebauer, Kreis 2009: 24). Tale habitus ha dunque un valore generativo, strutturante, che attivamente produce e imprime senso alla realtà.
Non bisogna concepire però questi due bacini di elaborazione come concorrenti o rigidamente separati, cioè secondo la tesi storiografica di Gebauer e Krais (2009: 23-4) per cui Bourdieu reperisce il lato “strutturato” dell’habitus in Algeria e il lato “strutturante” nell’elaborazione del pensiero di Panofsky. Ma al contrario bisogna sforzarsi di pensare nei vari momenti della condensazione concettuale una sostanziale compresenza di entrambi i motivi teorici. O, in altre parole, incorporando pienamente la lezione bourdieusiana, bisognerebbe domandarsi se, rispetto alla teorizzazione dell’habitus, il ruolo gestazionale svolto dall’esperienza etnologica in Algeria e dai successivi studi di sistematizzazione non sia stato in qualche modo favorito da una propensione intellettuale maturata dall’autore in un periodo precedente, e segnatamente quello dei suoi studi filosofici presso la ENS. In altre parole, se l’esperienza sul campo etnologico e sociologico non abbia incontrato delle preesistenti disposizioni teoretiche dell’autore e, se sì, quali esse siano.
- Il nucleo formale del concetto di habitus
Nell’opera matura di Bourdieu le nozioni di habitus-campo-capitale costituiscono un apparato concettuale integrato. Storicamente, nel percorso teorico di Bourdieu, la nozione di habitus è stata quella a comparire per prima. Benché il suo continuato utilizzo nel tempo abbia conosciuto una proliferazione di versioni e applicazioni, il nucleo concettuale dell’idea di habitus è rimasto sostanzialmente identico, unitario e coerente in ciascuno di esse. In questo paragrafo cercheremo di esplicitare tale nucleo e di sistematizzare varianti e definizioni supplementari in un’unica esposizione.
Una delle definizioni di habitus più canoniche proposte dalla letteratura è quella che lo descrive come un “sistema di disposizioni” pratiche e, di qui, come una “struttura strutturata predisposta a funzionare come struttura strutturante”. Ma è possibile accettare questa definizione come preliminare e utile alla discussione della teoria dell’habitus solo a patto di produrre dei necessari supplementi d’analisi nel merito dei sintagmi proposti.
La definizione “sistema di disposizioni” è sintatticamente isomorfa a quella di “sistema di posizioni” con cui Bourdieu qualifica il campo[1]. Ma lo stesso termine ‘sistema’ per definizione non denota alcunché di immediatamente evidente. Già in seguito a questa prima stringata analisi, l’idea di un supposto ‘sistema di disposizioni’ si profila come pìù problematica del previsto. È detto, infatti, ‘sistema’ una configurazione di elementi interconnessi che svolgono una funzione unitaria, nel senso che contengono un principio di unità, implicando con ciò che a una variazione del singolo elemento corrisponda una variazione di tutti gli altri, sia nel senso di alterazione generale (evoluzione o mutamento), sia nel senso di compensazione, aggiustamento e ritorno all’omeostasi (conservazione). In breve, l’idea di sistema richiama un’unità funzionale irriducibile di un molteplice.
Come suggerisce Bourdieu, la scelta della parola ‘disposizione’
Risulta particolarmente appropriata per esprimere ciò che designa il campo dell’habitus (definito come sistema delle disposizioni). Infatti, esso esprime in primo luogo il risultato di un’azione organizzatrice presentando quindi un senso delle parole molto vicino a quello di struttura; per altro, designa anche un modo di essere, uno stato abituale (in particolare del corpo) e nello specifico una predisposizione, una tendenza, una propensione o un’inclinazione (Bourdieu 2003b: 206, n.39).
Dunque una disposizione è più di una semplice proprietà puntualmente definita o secondo la tassonomia invalsa nell’ontologia analitica, non è una proprietà monadicamente semplice perché contiene nella sua definizione la relazione ad altri elementi, innanzitutto al tempo. Essa è un tratto risultante da un’organizzazione (sia intriseca ‘naturale’, sia come in questo caso estrinseca, ‘storica’) che dispone le ‘parti’ in una struttura unitaria e determinata a inclinarsi durevolmente, e che è dotata di una tonalità modale, in quanto congloba il tempo e gli stati differenziali che esso congiunge in modo continuo.
È allora possibile ridefinire provvisoriamente un sistema di disposizioni come una configurazione di disposizioni che è sistematica, ovvero unitaria e al contempo connotata da un’interconnessione delle ‘parti’ di cui è costituita volta a realizzare la funzione della pratica[2]. Tale sistema nella sua specificità funzionale non costituisce un dato primitivo, ma è un prodotto storico realizzato nel tempo e realizzantesi nel tempo.
Ma le disposizioni sono proprietà di tipo particolare: proprietà, appunto, disposizionali. Tali proprietà ‘denotano’ una virtualità intrinseca capace di estrinsecarsi in un fenomeno al verificarsi di certe condizioni; proprietà, dunque, che presuppongono nella propria definizione uno stimulus e delle condizioni di manifestazione che attivano la loro tendenza (Bigaj 2010). Per esempio, fragilità è la proprietà disposizionale propria di tutti quegli oggetti dotati di una struttura molecolare particolare tale per cui se l’oggetto è interessato da un urto sufficiente con un altro corpo, allora tale struttura molecolare risulta alterata in qualche punto e tale alterazione coincide con l’effetto fenomenico della rottura o dell’incrinatura dell’oggetto. Ma la proprietà della fragilità resta propria dell’oggetto anche in assenza di qualsivoglia urto, dunque in assenza di stimuli e di condizioni di manifestazione. Queste disposizioni sono allora proprietà che si situano per definizione nel mezzo tra pura potenza e puro atto. Il prefisso contiene il nome della proprietà manifestata nell’atto, i suffissi –ibile, -abile, -ile rammentano la condizionalità entro cui la proprietà è disciplinata.
Anche se, com’è ovvio, lo specifico ambito della pratica impedisce una perfetta tracciabilità delle identità delle disposizioni, è preferibile trattare l’habitus con il rigore ontologico implicato dalla sua stessa definizione. Sicché diremo che l’habitus consiste in un sistema di proprietà disposizionali, di capacità, inclinazioni, predisposizioni, che dati dei setting di condizioni (se) è capace di estrinsecare modi d’agire determinati (allora). Ma dal momento che un modo può esser tale e riconosciuto come tale solo perché sono dati o presupposti modi alternativi altrettanto possibili che ne staccano la specificità, ogni sistema deve esibire una differenza complessiva da tutti gli altri.
La differenza deriva dal fatto che gli attori sociali non sono indiscernibili. Dunque l’impenetrabilità del loro corpo e l’impossibilità di occupare ‘simultaneamente’ le stesse coordinate spaziali, garantiscono loro una inalienabile micro-differenziazione. Come si vedrà, un certo livello di generalizzazione però è utile e anzi necessario parlare di classi di habitus, biunivocamente associate a classi di condizioni di esistenza, cioè vincoli e possibilità esistenziali e socio-economiche simili.
Dopo aver dato un quadro dell’ontologia soggiacente all’idea di habitus e al suo carattere formale, è opportuno chiarire i termini della sua genesi e giustificare la sua natura storica. Se infatti per l’ontologia pura, visto il suo statuto disciplinare, la domanda sulla naturalità o la storicità delle disposizioni, è priva di qualsiasi interesse, per un’ontologia della realtà sociale essa è determinante e cruciale.
- Genesi e strutturazione dell’habitus da un punto di vista sociologico
L’habitus discende in modo predominante da un’interiorizzazione inconscia (e in particolare da quella che avviene durante la prima infanzia e la socializzazione primaria), che è insieme psichica e corporea, delle opportunità, e delle costrizioni comuni ai membri di uno status o di una classe sociale. In altre parole, «le strutture che sono costitutive di un tipo specifico di ambiente (per esempio le condizioni materiali d’esistenza caratteristiche di una condizione di classe) e che possono essere colte empiricamente sotto forma di regolarità associate a un ambiente socialmente strutturato producono degli habitus» (Bourdieu 2003b: 206). È nell’esposizione del corpo e della psiche a dette strutture e alle regolarità a queste immanenti che avviene il movimento di «interiorizzazione dell’esteriorità» (Bourdieu 2003b: 206), il quale presiede alla formazione di disposizioni pratiche, organizzate in schemi cognitivi e corporei, che, in virtù della natura modale sopra menzionata, coincidono con l’esclusione di altre disposizioni possibili. Gli agenti sociali in virtù del proprio habitus tendono a produrre forme d’azione, schemi percettivi e valutativi che esprimono le strutture di socializzazione esperite nella prima infanzia. Questa produzione a mezzo dell’«esteriorizzazione dell’interiorità» (Bourdieu 2003b: 206) è il fondamento della riproduzione del senso, della legittimazione e dell’efficacia delle strutture oggettive: questa riproduzione è basata sulla produzione attiva degli agenti, che nella mediazione dell’habitus hanno introiettato le necessità immanenti al proprio ambiente di vita.
La varietà degli habitus è biunivocamente associata alla varietà delle condizioni di esistenza che lo producono, di cui la classe sociale costruita è l’indicatore statistico (formulato a posteriori) più esemplificante (cfr. Bourdieu 2001: 107-9). Gli habitus in quanto configurazioni sistematiche di proprietà sono espressione delle differenti condizioni d’esistenza, ovvero delle condizioni e dei condizionamenti a cui è soggetta una classe sociale, dove il termine ‘classe’ è sinonimo di ‘classe di condizionamenti’ che insistono su posizioni sociali molto prossime tra loro e dunque simili, raccoglibili in un oggetto teorico detto classe.
Dunque, operando in qualità di residuo attivo dell’‘imprinting’ delle iniziali condizioni d’esistenza, il funzionamento dell’habitus implica un calcolo inconscio di ciò che è possibile, impossibile o probabile conseguire a partire dalla posizione occupata. Tali condizioni oggettive dislocate in un’esteriorità distributiva di proprietà si manifestano nell’incorporazione individuale sotto forma di aspirazioni e aspettative determinate. In quanto portatore di un habitus, l’agente sociale frequenta il presente e si anticipa il futuro nei termini fornitigli dall’esperienza pregressa. Tuttavia, il funzionamento dell’habitus opera secondo una dinamica attiva che non va, perciò, assimilata a modalità passive di interpretazione del comportamento pratico (induzione comportamentale, meccanismo di stimulus–response, routine, conformismo culturale) o viceversa alle modalità calcolanti della rational choice. L’habitus produce un certo senso pratico che anticipa l’agente verso un certo corso dell’azione, senza con ciò determinarlo univocamente. La disposizionalità dell’habitus è spontaneità condizionata, non meno che distributività probabilistica.
- Livelli di efficacia esplicativa
Noto come costrutto puramente sociologico, raramente viene esplorata dell’habitus la multidimensionalità, che consente a questo concetto di inserirsi in molti livelli di analisi del pensiero filosofico-sociale: dalla teoria dell’azione, al rapporto tra conscio e inconscio, dall’ontologia sociale a una teoria sulla formazione delle preferenze.
In un passaggio, poco valorizzato, de La distinzione, Bourdieu sottolinea che l’habitus esprime un rapporto reale tra due domini di natura diversa (economico-sociale/rappresentativo-individuale), e lo esprime in modo intelligibile. Esso costituisce una ‘formula’ che connette e unifica, sul piano dell’esteriorità, le configurazioni distributive di proprietà; sul piano dell’interiorità dell’individuo, la molteplicità delle pratiche (percezioni, valutazioni, azioni) a cui esso dà luogo in un principio disposizionale sufficiente.
Il rapporto che si stabilisce nella realtà tra le caratteristiche pertinenti della condizione economica e sociale (le dimensioni e la struttura di capitale considerate sincronicamente e diacronicamente) e gli aspetti distintivi, legati alla posizione a essa relativa nello spazio degli stili di vita, diventa un rapporto intellegibile solo grazie alla costruzione dell’habitus, in quanto formula generatrice che consente di spiegare sia le pratiche e i prodotti classificabili, sia i giudizi, anch’essi classificati, che costituiscono queste pratiche e queste opere in un sistema di segni distintivi. Parlare dell’ascetismo aristocratico dei professori o della pretenziosità della piccola borghesia, non significa solo descrivere questi gruppi con una delle loro proprietà, anche se si trattasse di quella più rilevante; ma significa cercare di nominare il principio generatore di tutte le loro proprietà e di tutti i loro giudizi sulle loro proprietà o su quelle degli altri. Necessità incorporata, trasformata in atteggiamento generatore di pratiche dotate di un senso e di percezioni capaci di dare un senso alle pratiche in tal modo generate, l’habitus, in quanto atteggiamento generale e trasferibile, attua un’applicazione sistematica e universale, che si estende al di là dei limiti di ciò che è stato acquisito in modo diretto, della necessità insita nelle condizioni di apprendimento: è grazie a esso che le pratiche di un soggetto (o dell’insieme dei soggetti che sono il risultato di condizioni simili) sono al tempo stesso sistematiche, perché sono il risultato dell’applicazione di schemi identici (o reciprocamente convertibili), e sistematicamente distinte dalle pratiche costitutive di un diverso stile di vita (Bourdieu 2001: 174-5).
Descrivere i fenomeni sociali in termini di habitus, significa aderire a un’epistemologia in cui la statica contiene la dinamica. In primo luogo, infatti, l’habitus è una formula che esprime un rapporto tra due dimensioni oggettive di natura eterogenea: l’ordine delle condizioni socio-economiche date e l’ordine dei risultati della pratica degli agenti versati in tali condizioni; questa formula contiene la legge di corrispondenza tra la distribuzione delle pratiche e la distribuzione delle relative condizioni di produzione. In secondo luogo, in quanto sistema di disposizioni – cioè di proprietà che hanno un rapporto articolato con la dimensione temporale e che non sono descrivibili in termini di statica – l’habitus contiene un nocciolo dinamico che lo rende principio esplicativo della totalità pratiche e delle percezioni, perché contiene anche la legge della successione delle pratiche. L’habitus ha dunque una doppia natura: esso è “formula” espressiva e “principio” al contempo.
Ora tale principio di dinamica racchiuso nell’habitus è descrivibile nei livelli, diversi e tuttavia intimamente connessi, di una «filosofia dell’azione designata talvolta come disposizionale» (Bourdieu 2009: 7):
- incorporazione;
- anticipazione dell’esperienza;
- attribuzione probabilistica;
- spontaneità: antimeccanicismo metodologico e isteresi.
La dinamica descritta a questi quattro livelli opera secondo due modalità:
- Oggettivamente inconscia;
- Soggettivamente illusiva.
Il dominio operativo dell’habitus, vale la pena ricordarlo, si situa in una:
- ontologia sociale della totalità: totalità che l’habitus riproduce all’interno della sua fisionomia sistematica a partire dal particolare punto di vista occupato nello spazio sociale.
L’habitus è alla base della formazione delle scelte: sottende dunque una
- teoria delle preferenze e del gusto.
Nella prospettiva qui proposta è solo attraverso l’esplicitazione progressiva di questi aspetti che è possibile una comprensione dell’habitus come struttura parimenti individuale e collettiva che contribuisce attivamente a produrre «l’efficacia di ciò che lo determina» (Bourdieu, Wacquant 1992:129). Inoltre, un lavoro preparatorio di questo genere si presta a mettere alla prova del dialogo interdisciplinare l’affermazione di Bourdieu secondo cui «la teoria dell’habitus non ha solo il merito […] di rendere ragione in maniera più adeguata della logica reale delle pratiche (soprattutto economiche) che la teoria dell’azione razionale semplicemente distrugge. È una matrice di ipotesi scientifiche che hanno avuto diverse verifiche empiriche, e non solo nelle mie ricerche» (Bourdieu Waquant 1992: 98)
4.1 Incorporazione e analogie dell’esperienza: schemi cognitivi e corporei tra psicologia e violenza simbolica
Bourdieu attribuisce alla dimensione corporea un ruolo centrale: il corpo è la “cinghia di trasmissione” delle ingiunzioni che provengono dai contesti sociali, il ricettacolo di dette ingiunzioni, il luogo in cui si struttura l’habitus e la realtà attraverso cui l’habitus ri-esteriorizza gli schemi maturati.
Tuttavia, al fine di sgomberare preventivamente il campo dell’analisi da possibili fraintendimenti, bisogna necessariamente rilevare che Bourdieu non fornisce mai una teoria pura del corpo e della corporeità, né indaga con strumenti diversi dall’analisi filosofico-concettuale o sociologica, i concreti processi biologici e cognitivi attraverso cui l’habitus si sedimenta e agisce nei corpi. Pertanto la centralità del corporeo resta cruciale e mantiene un ruolo di orientamento dell’analisi rilevante solo e fintantoché non venga sovrainvestita da missioni intellettuali che non può strutturalmente supportare.
Tuttavia, un raffronto utile ad approfondire il processo dell’incorporazione è costituito dalla lettura dell’ontogenesi psicologica dell’individuo fornita da Jean Piaget: essa, infatti, esibisce rilevanti consonanze con la teoria dell’habitus; inoltre, entrambi gli autori sottoscrivono uno strutturalismo genetico che ha come proprio assunto metodologico la suscettibilità di ogni assetto strutturale alla strutturazione attiva e passiva: capacità dunque di strutturare e di essere strutturato. Dice Piaget: «if the character of structured wholes depends on their laws of composition, these laws must of their very nature be structuring: it is the constant duality, or bipolarity, of always being simultaneously structuring and structured that accounts for the success of the notion of law or rule employed by structuralists» (Piaget 1970b: 10). Il modello dell’habitus come struttura insieme strutturata e strutturante che agisce mediante l’applicazione di «schemi incorporati, costituitisi nel corso della storia collettiva e che vengono poi acquisiti nel corso della storia individuale» (Bourdieu 2001: 467) è senz’altro compatibile con la concettualizzazione piagetiana del processo conoscitivo come ‘dialettica’ tra la strutturazione operativa e semantica degli schemi cognitivi e corporei e dal conseguente effetto strutturante dell’ambiente esterno sugli schemi categoriali.
L’elaborazione piagetiana del concetto psicologico di schema costituisce un importante contributo nella misura in cui precisa e aggiorna le precedenti versioni di tale nozione. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, la nozione di schema, infatti, per il tramite del pensiero fenomenologico e della Gestalt Psychologie dall’originale accezione kantiana evolve nei termini di una nascente psicologia cognitiva. Gli schemata, da Otto Selz, a Henry Head, a Frederic Bartlett, si presentano come delle rappresentazioni astratte dell’ambiente (fisico o “logico”), depositate nella memoria atte a integrare l’esperienza futura nei tratti dell’esperienza passata, con funzioni sia di categorizzazione, sia interpretazione degli stimoli, sia di produzione dell’output pratico. Nonostante alcune sensibili differenze, questi autori concepiscono gli schemi in un modo complessivamente convergente: questi costituiscono delle strutture organizzate e attive con funzioni di integrazione dell’esperienza, di unificazione e continuità cognitiva.
Andando ad aggiornare queste elaborazioni dal punto di vista di una teoria dell’apprendimento, Piaget ritiene che alla base dell’esperienza di interazione tra individuo e ambiente vi siano due fondamentali dinamiche: l’assimiliazione e l’adattamento. Sulla base dell’ipotesi per cui ogni persona è dotata in partenza di un insieme di strutture cognitive distinte in schemi d’azione e strutture logiche[3], Piaget denota con il termine assimilazione il processo attraverso cui il soggetto applica a nuove situazioni schemi d’azione preesistenti, rendendole in ciò simili alle situazioni che esso era già in grado di affrontare precedentemente. L’assimilazione è dunque un processo di generalizzazione di una ‘regola’ a nuovi segmenti di realtà e a nuovi stimoli. E Bourdieu con l’idea di trasferimento analogico dei patterns dell’habitus non si distanzia particolarmente da questo impianto. L’altra dinamica detta adattamento insorge quando, di fronte configurazioni ambientali che non si lasciano sussumere dagli schemi, l’interazione spinge a una revisione di tali schemi. Lo sviluppo del bambino è per Piaget conchiuso in questa doppia dinamica dell’assimilazione di nuove configurazioni ambientali agli schemi e della revisione degli schemi a fronte di configurazioni ambientali che ne richiedano il mutamento. Nello sviluppo a lungo termine dell’individuo le due dinamiche tendono all’equilibrio. In ciò si vede bene come lo strutturalismo genetico piagetiano nasca come tentativo di mediazione tra l’innativismo razionalista e l’empirismo ambientale. Indubbiamente, l’habitus esperisce fasi del genere. La differenza sta nel fatto che per Bourdieu queste non sono fasi socialmente neutrali, che investono il singolo individuo biologico, ma sono fasi di un collettivo individualizzato e fatto corpo, che promuovono dunque riproduzione sociale nel caso dell’assimilazione e, una fase di isteresi, nel caso dell’adattamento, cioè un fenomeno che, come si vedrà, non ha niente di pacifico, ma al contrario è costituito da refrattarietà al cambiamento, da smarrimento e conflitto.
L’idea che più di ogni altra sembrerebbe accomunare la tradizione degli schemata, Piaget e Bourdieu è quella per cui i livelli più alti del pensiero simbolico (tassonomie, categorizzazioni) scaturiscono dalla dimensione fisica dell’azione corporea e consistono di strutture interiorizzate e isomorfiche alla realtà. Bourdieu darebbe a questa idea, implemendandola nell’operatore habitus, «the flesh of a sociological account of the differential distribution of socially structured realities with which different class fractions are faced» (Lizardo 2004: 384). Dunque, Bourdieu “sociologizzerebbe” il concetto di operazioni interiorizzate prodotte dall’esperienza della realtà e vedrebbe nell’habitus il luogo in cui sono allocati questi sistemi di disposizioni durevoli e trasferibili che sono al contempo prodotti da e produttori di strutture oggettive. Anche se l’obiettivo dello studio di Omar Lizardo appena citato è quello di indicare una diretta influenza del pensiero di Piaget su Bourdieu – operazione storiograficamente fallimentare, vista la pluralità delle influenze che insistono sull’idea di schema e possibilmente sull’appropriazione bourdieusiana di tale nozione – è utile percorrerne alcuni nodi rilevanti nella misura in cui favoriscono l’intellegibilità dell’idea di habitus da un punto di vista non strettamente sociologico.
Secondo questo studioso è possibile confrontare la nozione di habitus come ‘contenente’ il campo con l’idea piagetiana di processo conoscitivo che implicante la costruzione di sistemi delle trasformazioni corporee e mentali isomorfiche alla realtà. Il concetto di isomorfismo denota la proprietà per cui due strutture complesse possono essere tracciate l’una nell’altra, in modo tale che per ciascuna parte di una struttura vi sia nell’altra una parte corrispondente, laddove per corrispondente si intende che le due parti svolgono una funzione simile nelle loro rispettive strutture di appartenenza (Lizardo 2004: 385). Effettivamente, quando Bourdieu sostiene che le strutture incorporate sono isomorfiche o omologhe alle strutture oggettive sta esattamente utilizzando questa nozione matematica di corrispondenza sollecitata da Lizardo. È infatti in questo senso che lo studioso invita a intendere Bourdieu quando ad esempio sostiene che «pars totalis, ogni tecnica del corpo è predisposta a funzionare secondo il paralogismo della pars pro toto e quindi a evocare l’intero sistema di cui fa parte» (Bourdieu 2003b: 244-5).
Anche se l’idea di schemi corporei non origina propriamente in Piaget, ma nella teoria del neurologo inglese Henry Head, secondo il quale «such schemata modify the impressions produced by incoming sensory impulses in such a way that the final sensation of [body] position, or of locality, rises into consciousness charged with a relation to something that has happened before» (Head 1920: 606), come specifica Piaget:
To my way of thinking, knowing an object does not mean copying it—it means acting upon it. It means constructing systems of transformations that can be carried out on or with this object. Knowing reality means constructing systems of transformations that correspond, more or less adequately, with reality. They are more or less isomorphic to transformations of reality. The transformational structures of which knowledge consists are not copies of the transformations in reality; they are simply possible isomorphic models among which experience can enable us to choose (Piaget 1970a: 15).
Si vede che l’uso del termine isomorfico non denota la produzione di una copia del mondo esterno – o per Bourdieu del campo – tracciata dalla mente individuale, ma lo sviluppo di un set sistematico di procedure flessibili e trasponibili, di trasformazioni mentali e corporee che sono «simultaneously a model for as well as a model of reality, and which imply and correspond to that reality» (Lizardo 2004: 385). In questo quadro, di nuovo, per Lizardo l’idea comune a Piaget e Bourdieu è quella per cui il corpo da un lato costituisce il luogo e la fonte prima di schemi flessibili di operazioni di generalizzazione attraverso la traslazione analogica, dall’altro venga progressivamente bloccato attraverso una prolungata ripetizione in contesti d’azione socialmente prodotti. Come per Bourdieu, la credenza non è dunque solo il fenomeno cognitivo, correlativo della proposizione ‘credo che p’, ma anche e soprattutto un fenomeno corporeo; per Bourdieu per il sociologo è esattamente nella fissazione di determinati portamenti del corpo e nell’addomesticamento temporale della sua condotta (attraverso la soddisfazione differita) che si opera la «persuasione clandestina di una pedagogia implicita, capace di inculcare tutta una cosmologia, un’etica, una metafisica, una politica attraverso delle ingiunzioni insignificanti come ‘stai dritto’ o ‘non tenere il coltello con la sinistra’» (Bourdieu 2003b: 245): alla determinazione della fisionomia degli schemi corporei sono affidati i «principi fondamentali dell’arbitrarietà culturale». Ma, più in generale, per Bourdieu è da rimarcare come gli schemi pratici,
Inducendo un’identità di reazione in una diversità di situazioni e imprimendo la stessa postura al corpo in differenti contesti, possono produrre l’equivalente di un atto di generalizzazione, il quale, al contrario, non può in se stesso essere spiegato senza ricorso a concetti. Questa generalità attivata e non rappresentazionale scaturisce ‘senza pensare la somiglianza indipendentemente dal somigliante’ come dice Piaget, senza quindi basarsi sulla costruzione dell’idea astratta di somiglianza, e dispensa da tutte le operazioni richieste dalla costruzione del concetto. (Bourdieu 2003: 89).
Questa capacità di pensare con il corpo e di maturare attraverso quest’ultimo una conoscenza non concettuale ha in Bourdieu un ruolo cruciale. È esattamente in questa conoscenza, attiva perché perseguita attraverso la rispondenza spontanea del corpo all’ambiente sociale, ma che è anche «cogitatio caeca vel symbolica» (Bourdieu 2003a) in quanto esente dalla concettualizzazione, che si articola in primo luogo l’adesione degli agenti alla realtà sociale, alla percezione naturalizzante della data configurazione di forze sociali, cioè della doxa come mutua complicità tra strutture oggettive e strutture incorporate, e in secondo luogo la credenza degli agenti nella legittimità degli ordini strutturali socialmente prodotti. Quando sia l’ordine oggettivo, sia l’ordine soggettivo sono in equilibrio, la realtà e la società sono percepite dagli agenti come dati naturali, non problematici: eppure questo meccanismo produce e riproduce assetti di credenza e pattern di azione che sono in ultima analisi arbitrari: riproduce dunque una realtà fondata sull’inculcazione originaria di gerarchie di valore arbitrarie (Bourdieu, Passeron 2006), denominata da Bourdieu violenza simbolica.
La violenza simbolica […] è quella forma di violenza che viene esercitata su un agente sociale con la sua complicità. […] Gli agenti sociali, in quanto sono agenti di conoscenza, anche quando sono sottoposti a determinismi, contribuiscono a produrre l’efficacia di ciò che li determina, nella misura in cui strutturano ciò che li determina. Ed è quasi sempre negli aggiustamenti tra i fattori determinanti e le categorie di percezione che li costituiscono come tali che si instaura l’effetto di dominio. […] Chiamo ‘misconoscimento’ il fatto di accettare quell’insieme di presupposti fondamentali, pre-riflessivi, che gli agenti sociali fanno entrare in gioco per il semplice fatto di prendere il mondo come ovvio, e di trovarlo naturale così com’è perché vi applicano strutture cognitive derivate dalle strutture di quello stesso mondo […] che vengono assunte tacitamente e che non hanno bisogno di venir inculcate. Per questo l’analisi dell’accettazione dossica del mondo, frutto dell’immediato accordo tra strutture oggettive e strutture cognitive, è il vero fondamento di una teoria realistica del dominio e della politica. Di tutte le forme di “persuasione occulta” la più implacabile è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose (Bourdieu, Wacquant 1992: 129).
L’habitus come struttura strutturata e strutturante, basata sullo sviluppo di schemi cognitivi e corporei trasferibili, si declina attraverso questi come seconda natura al contempo naturata, cioè storia fatta natura, e naturante, capace, cioè, di rendere naturale ciò che è storico.
4.2 Le anticipazioni dell’esperienza: tra necessità e spontaneità
Nel titolo di questo paragrafo quello che potrebbe figurare come un altisonante richiamo a Kant esprime, in realtà, un tratto definitorio delle operazioni dell’habitus. In precedenza è stata infatti esposta una meccanica basilare: l’habitus, costituito in un sistema di disposizioni da una prolungata esposizione alle strutture sociali, vede definite le proprie disposizioni sul modello fornito dalle regolarità di cui ha avuto esperienza e tende a produrre pratiche oggettivamente adattate e adatte alle condizioni che lo hanno prodotto.
Nella proposizione in cui Bourdieu sostiene che «troviamo la sistematicità nell’opus operatum perché essa si trova già nel modus operandi: essa non sta nell’insieme delle «proprietà” […] né nelle pratiche […] se non per il fatto di trovarsi già nell’unità sintetica originaria dell’habitus» (Bourdieu 2001: 178-9) si intravede un rilevante lascito kantiano: l’habitus si qualifica come condizione formale di ogni pratica, in quanto le preforma, secondo gli schemi di percezione precedentemente descritti, e le unifica.
Ma l’habitus è informato, nella sua operatività logica e in una forma sicuramente impura, da un ulteriore motivo kantiano: le anticipazioni della percezione. Nella celebre seconda proposizione fondamentale dell’intelletto puro Kant spiega che «ogni conoscenza con cui mi è possibile conoscere e determinare a priori ciò che appartiene alla conoscenza empirica, io posso chiamarla un’anticipazione» (Kant 2004: 243) e che «tutte le sensazioni, come tali, sono date, è vero, solo a posteriori, ma la loro peculiarità, il fatto cioè che esse hanno un grado, può essere conosciuta a priori» (Kant 2004: 250), laddove per grado Kant intende una “quantità intensiva” o «grado di influsso sui sensi» (Kant 2004: 243) posseduta da ogni realtà nell’apparenza. Tacendo qui della sottesa teoria del grado, quello che preme sottolineare è l’esistenza di una quantità di realtà, che in questo caso è una quantità di necessità, che esiste prima della sua manifestazione e apprensione. Analogamente,
Le condizioni del calcolo razionale non sono praticamente mai date nella pratica: il tempo è contato, l’informazione è limitata, ecc. E tuttavia gli agenti fanno, molto più spesso che se si affidassero al caso, ‘la sola cosa da fare’. Questo perché, abbandonandosi alle intuizioni di un senso pratico, che è il prodotto dell’esposizione durevole a condizioni simili a quelle nelle quali essi sono situati, anticipano la necessità che è immanente nel funzionamento del mondo (Bourdieu, 2013a: 42-3).
In quanto le disposizioni sottendono regolarità precedentemente esperite, l’estrinsecazione delle disposizioni dell’habitus si traduce in un’anticipazione di “mosse” pratiche che sottendono l’apprendimento passato, l’insieme delle costrizioni e delle possibilità di cui l’agente ha fatto esperienza. L’azione non è desumibile completamente dalla puntualità congiunturale della situazione, cioè non è meccanicamente necessitata dall’interazione o dal gravame delle strutture; l’azione particolare è legata al fatto che l’agente è già disposto ad agire in quel preciso modo, secondo la spontaneità condizionata dell’habitus, che nella lettura del presente orienta l’agente alle possibilità agibili.
L’attività pratica, nella misura in cui ha un senso, quando è sensata, ragionevole, generata cioè da habitus che siano stati aggiustati sulle tendenze immanenti del campo, trascende il presente immediato attraverso la mobilitazione pratica del passato e l’anticipazione pratica del futuro inscritto nel presente allo stato di potenzialità oggettiva (Bourdieu, Wacquant 1992: 103).
Nello stato puntuale di ogni agente si veicola tutta la necessità di cui l’agente è il prodotto e, pertanto, l’habitus – in quanto è principio di unità e di generazione delle pratiche nella storia, nonché prodotto di una storia d’apprendimento delle regolarità del campo e di assecondamento di queste – , agisce grazie all’anticipazione inconscia delle proprie ‘mosse’, o meglio sottraendoci al lessico della metafora del gioco, delle sue proprie possibilità in funzione dell’esperienza pregressa. L’esperienza passata e sedimentata nell’habitus, nella misura in cui questa ha potuto convertirsi da effetto esterno in struttura determinante interna, inclina a, preseleziona esiti, con la conseguenza di imprimere una distribuzione di probabilità alle opzioni pratiche possibili.
Questa modalità probabilistica di trascendimento del presente, o delle sollecitazioni puntuali e immediate, merita un supplemento di indagine.
4.3 La distribuzione probabilistica come correlato di un determinismo “impuro”
La disposizionalità dell’habitus si qualifica non solo come spontaneità condizionata, ma anche come distributività probabilistica. L’habitus, in quanto struttura strutturata, è strutturante e può dunque orientare le risposte del corpo, solo perché effettua un calcolo non consapevole che assegna un diverso valore di probabilità alle possibilità oggettivamente inscritte nel presente, vincolando così a tale valore la realizzazione di una pratica determinata.
Le pratiche possono risultare oggettivamente aggiustate alle possibilità oggettive – poiché tutto avviene come se la probabilità a posteriori o ex post di un avvenimento, che è conosciuta a partire dall’esperienza passata, comandasse la probabilità a priori o ex ante che le è soggettivamente attribuita -, senza che gli agenti procedano al minimo calcolo e persino a una stima più o meno cosciente delle possibilità di riuscita (Bourdieu 2003b: 209).
Questo carattere probabilistico è il tratto che si presta meglio a specificare il determinismo impuro che permea il pensiero bourdieusiano, la determinazione che agisce in modo mai pienamente univoco, secondo una necessità più ipotetica che assoluta.
Anche nel caso in cui gli habitus degli agenti siano perfettamente armonizzati e la concatenazione delle azioni e delle reazioni sia interamente prevedibile dall’esterno l’incertezza sul risultato dell’interazione rimane, fino a quando la sequenza non sia portata a termine. Tale incertezza – che trova il proprio fondamento oggettivo nella logica probabilistica delle leggi sociali – è sufficiente a modificare non solo l’esperienza della pratica ma anche la pratica stessa (Bourdieu 2003b: 290).
E, come è noto, è proprio in questo genere di incertezza che si incuneano tutte le riflessioni di Bourdieu sul nesso tra epistemologia e riflessività.
4.4 Antimeccanicismo metodologico: l’isteresi come perno della dimostrabilità scientifica dell’habitus
Ricapitolando, l’habitus manifesta un funzionamento duplice, come “struttura strutturante”, principio di divisione e valutazione delle pratiche all’interno della quotidiana incorporazione delle situazioni sociali, e come “struttura strutturata”, ovvero come prodotto dell’incorporazione delle pregresse divisioni in classi sociali, in cui è inscritta tutta la struttura del sistema di condizioni e di posizioni differenziali, realizzata nell’esperienza soggettiva di una collocazione. Di fatto le disposizioni dell’habitus predispongono attraverso la distribuzione non calcolata di probabilità – e dunque senza determinare univocamente – gli attori a selezionare forme di comportamento che hanno tante più probabilità di successo quanto più sono tarate sulle risorse a loro disponibili (capitale) e sull’esperienza passata. Il meccanismo che soggiace a questo processo è quello di un continuo, inconscio aggiustamento dell’azione alle possibilità effettive di movimento per la posizione in quel momento occupata dall’agente. In altre parole, l’habitus spinge continuamente a “rifare di necessità virtù”, sospingendo a «scelte» adatte alla condizione di cui è il prodotto.
Basandosi su queste caratteristiche, molti critici hanno spesso liquidato il concetto di habitus, bollandolo come espressione di una “circolarità” cattiva. Questa obiezione, in realtà, è un passaggio necessario che Bourdieu ha coscientemente incorporato nella costruzione del concetto di habitus. Gli habitus in quanto sistemi di proprietà che intrattengono con la dimensione temporale un rapporto bidimensionale sono caratterizzati da un carattere inerziale rispetto alle condizioni puntuali che è definito da Bourdieu isteresi. Il termine denota un comportamento particolare esibito da alcuni tipi di sistemi fisici, termodinamici ed elettromagnetici, e successivamente osservato in campo biologico ed economico. Tutti questi utilizzi sono sostenuti da una idea unitaria e univoca che vede nell’isteresi la congiunzione di due aspetti: essa designa innanzitutto il ritardo con cui un sistema reagisce a delle sollecitazioni, dall’altro il fatto che la reazione dipenda dallo stato assunto in precedenza dal sistema stesso. Detto in termini più formali, una grandezza derivata non dipende solo dai valori assunti in modo puntuale dalle grandezze da cui risulta, ma anche dai valori che queste avevano assunto in precedenza.
Trasferito alla teoria sociale, il parametro dell’isteresi permette di rendere conto del perdurare di schemi d’azione precedenti a fronte di mutate condizioni di esistenza. L’isteresi è il carattere con cui l’habitus si rende manifesto: essa costituisce solitamente il perno della dimostrabilità scientifica dell’habitus, tratto utilizzato per contro-obiettare alle obiezioni che vogliono l’habitus come nozione ecceitistica ed ex post, dunque circolare.
Ma in questo senso, è opportuno specificare che non si tratta affatto di un carattere secondario, di un orpello tattico e scientizzante: esso consente un ribaltamento totale delle prospettive metodologiche in campo, in quanto descrive una condizione che falsifica in una sola mossa oggettivismo e soggettivismo nella loro comune cifra meccanicista. A questo proposito, Bourdieu argomenta che,
Paradossalmente, proprio il fatto che questo accordo immediato tra habitus e campo (soprattutto economico) si verifica molto frequentemente fa sì che si sia spesso indotti a negare la realtà dell’habitus e a contestare l’utilità scientifica della nozione. (Per dare piena forza a una critica possibile, si potrebbe dire che la teoria dell’habitus potrebbe combinare le scorciatoie della spiegazione attraverso la virtù dormitiva – perché fa delle scelte piccolo-borghesi? Perché ha un habitus piccolo-borghese! – e quella della spiegazione ad hoc […]). Di fatto tutte le volte che l’habitus incontra condizioni oggettive, identiche o simili a quelle di cui è il prodotto si trova a essere perfettamente adeguato senza che ci sia stata nessuna ricerca consapevole e intenzionale; possiamo anzi dire che l’effetto dell’habitus è in qualche maniera ridondante rispetto all’effetto di campo. In questo caso la nozione può sembrare meno indispensabile, nonostante abbia il pregio di evitare una interpretazione in termini di azione razionale che il carattere «ragionevole» dell’azione sembra imporre. […] Ci possono essere però dei momenti di sfasatura, in cui i comportamenti diventano inintelligibili se non si fa intervenire l’habitus con la sua propria inerzia, la sua isteresi: penso al caso che mi è capitato di osservare in Algeria, quando la gente si è bruscamente trovata in un «cosmo capitalista» con habitus «precapitalistici». Penso anche alle situazioni storiche di tipo rivoluzionario nelle quali il cambiamento delle strutture oggettive è così rapido che gli agenti che hanno delle strutture mentali plasmate da tali strutture risultano «superati», agiscono controtempo e controsenso, pensano in qualche modo a vuoto, un po’ come i vecchi dei quali si dice, molto giustamente, che sono sfasati, o Don Chisciotte. Insomma la tendenza a perseverare nel loro essere, che i gruppi devono tra l’altro al fatto che gli agenti che li compongono sono dotati di disposizioni durevoli, capaci di sopravvivere alle stesse condizioni economiche e sociali che le hanno rese possibili, può essere all’origine sia del disadattamento che dell’adattamento, della rivolta come della rassegnazione. L’aggiustamento preventivo dell’habitus alle condizioni oggettive è solo un caso particolare (senz’altro il più frequente) e bisogna evitare di universalizzare inconsciamente il modello del rapporto quasi circolare di riproduzione quasi perfetta che può valere solo come caso limite in cui le condizioni di produzione dell’habitus e le condizioni del suo funzionamento sono identiche od omotetiche. […] Una delle ragioni per cui non si può non ricorrere alla nozione di habitus è che essa permette di prendere in considerazione e di spiegare la costanza delle disposizioni, dei gusti, delle preferenze che mette tanto in imbarazzo l’economia neomarginalista (diversi economisti hanno dovuto constatare che la struttura e il livello delle spese non vengono influenzati dalle variazioni a breve termine dei redditi e che le spese per i beni di consumo sono caratterizzate da una forte inerzia in quanto dipendono da atti di consumo anteriori). Ma essa consente anche di costruire e comprendere in maniera unitaria dimensioni della pratica che vengono spesso studiate in ordine sparso, da una stessa scienza come la nuzialità o la fecondità, o anche da scienze diverse, come l’ipercorrettismo linguistico, la scarsa fecondità e la forte propensione al risparmio della piccola borghesia in ascesa (Bourdieu, Wacquant 1992: 96-8).
Questa lunga citazione si presta a enucleare una pluralità di motivi teorici. La tesi di Bourdieu è che sia lo strutturalismo, sia l’interazionismo costituiscano delle filosofie meccanicistiche, cioè fondate su un’idea della determinazione diretta di una sostanza (che sia una struttura, che sia un individuo) sull’altra: questa cifra comune non è altro che il correlato di quella comune tara sostanzialistica e anti-relazionale frequentemente diagnosticata da Bourdieu in queste posizioni epistemologiche (Bourdieu 2001, 2003a, 2003b, Bourdieu, Wacquant 1992). In effetti, l’esperienza ordinaria induce al pensare che vi sia un accordo immediato tra azioni e condizioni, che propriamente ciò che accade sia riconducibile all’interazione diretta di individui, nel caso delle posizioni soggettivistiche, o alla produzione diretta di istanze individuali da parte delle strutture. Queste tradizioni costituiscono delle letture assolutamente opposte che tuttavia mirano a rendere conto dello stesso fenomeno, ovvero la sostanziale corrispondenza che si dà tra sistema delle credenze soggettive e condizioni sociali di riferimento. Tuttavia, sostiene Bourdieu, tale “genere” di pensiero della determinazione, di cui queste tradizioni sono “specie”, si rivela incapace di rendere conto del mismatching che, a determinate congiunture o fratture storiche, o, nel caso del gap generazionale, esito di trasformazioni continue e cumulative, emerge tra credenze, pratiche e condizioni al contorno.
Il meccanicismo di cui queste visioni di avvalgono si configura allora come un caso particolare, anche se più frequente, di un principio più generale, capace di rendere conto di una durevolezza che l’approccio meccanicista non riesce a contemperare. Nel momento, infatti, in cui vengano meno le condizioni dell’interazione diretta (come ad esempio nelle rivoluzioni politiche, o nelle transizioni economiche) non si genera un gap inintellegibile, il vuoto di principio, ma appare la legge del continuo. L’habitus che funziona in condizioni normali come operatore di pratiche ridondanti rispetto all’effetto di campo appare nella sua intrinseca tendenzialità, che deve alle pregresse condizioni di produzione e di adattata pratica, e si manifesta nella sua realtà strutturata. Questa epifania dell’habitus autorizza il ribaltamento assiologico a cui alludevamo in precedenza: il meccanicismo da norma (o evidenza) si scopre eccezione normale.
Principio generatore durevolmente costruito di improvvisazioni regolate (principium importans ordinem ad actum), l’habitus produce delle pratiche che nella misura in cui tendono a riprodurre le regolarità immanenti nelle condizioni oggettive della produzione del loro principio generatore, adattandosi però alle esigenze iscritte a titolo di potenzialità oggettiva nella situazione direttamente affrontata, non si lasciano dedurre in modo diretto né dalle condizioni oggettive, puntualmente definite come somma di stimoli, che possono sembrare averle attivate in modo diretto, né dalle condizioni che hanno prodotto il principio durevole della loro produzione. Quindi tali pratiche non si possono giustificare se non a condizione di mettere in relazione la struttura oggettiva che definisce le condizioni sociali di produzione dell’habitus che le ha generate con le condizioni dell’attivazione di tale habitus, cioè con la congiuntura che, salvo una radicale trasformazione, rappresenta uno stato particolare di questa struttura (Bourdieu 2003b: 212-3).
La somma degli stimoli, siano essi strutture o interazioni sociali, a ben vedere, ha solo l’apparenza di principio dell’azione. Questa somma costituisce sì il trigger che occasiona, ma ciò che occasiona le è ontologicamente estraneo e non è mai interamente deducibile da essa.
Parlare di habitus di classe […] significa allora ricordare, contro ogni forma di illusione occasionalista, che consiste nel ricondurre direttamente tutte le pratiche a proprietà inscritte nella situazione, che le ‘relazioni interpersonali’ non sono mai se non in apparenza delle relazioni da individuo a individuo e che la verità dell’interazione non risiede mai nell’interazione stessa. […] Cosa che dimenticano la psicologia sociale e l’interazionismo o l’etnometodologia, quando riducendo la struttura oggettiva della relazione tra gli individui in contatto alla struttura congiunturale della loro relazione in una situazione o in un gruppo specifici, intendono spiegare tutto ciò che avviene all’interno di una situazione sperimentale o osservata tramite le caratteristiche sperimentalmente controllate della situazione quali la posizione relativa dei partecipanti nello spazio o la natura dei canali utilizzati. […] Non esistono forme di interazione, neppure tra quelle in apparenza più adatte a essere descritte [nel] linguaggio del ‘trasferimento intenzionale nell’altro’ quali la simpatia, l’amicizia e l’amore, che […] non siano ancora dominate, tramite l’armonia degli habitus […] dalla struttura oggettiva delle relazioni tra le condizioni e le posizioni (Bourdieu 2003b: 224-5).
L’apparente deducibilità dalla somma degli stimoli, manifestata dalle pratiche prodotto da un habitus armonizzato alle sue condizioni, non è espressione di una risposta comportamentale adeguata e puntuale, ma della spontaneità con cui l’habitus performa pratiche la cui probabilità di successo e di adeguatezza era già stata stimata nelle esperienze passate e costituita in disposizioni. L’habitus mette in relazione attraverso la pratica non solo i due ordini distributivi delle proprietà socio-ontologiche economiche e simboliche, ma anche questi due ordini della realtà storica, l’ordine della necessità sedimentata in condizioni economiche e sociali e l’ordine puntuale e immediato della situazione come insieme delle forze che insistono sull’agente. Ma non vi è un’interazione diretta data dall’attivazione dell’esterno sull’interno o viceversa. Vi è un tessuto di mediazione complessa, legata da funzioni non lineari che è essenzialmente depositata nei corpi degli agenti: tale mediazione è espressa dall’habitus e dalla spontaneità irriducibile alle determinazioni dirette da esso manifestata.
In questo rapporto reale,
La pratica è al contempo necessaria e relativamente autonoma rispetto alla situazione considerata nella sua immediatezza puntuale perché è il prodotto della relazione dialettica tra una situazione e un habitus, inteso come un sistema di disposizioni durature e trasferibili che, integrando tutte le esperienze passate, funziona in ogni momento come matrice delle percezioni, delle valutazioni e delle azioni, e rende possibile il compimento di compiti infinitamente differenziati, grazie al trasferimento analogico di schemi che permettono di risolvere i problemi aventi la stessa forma e grazie alle correzioni incessanti dei risultati ottenuti, che sono esse stesse prodotte in modo dialettico da quei risultati (Bourdieu 2003b: 211).
Se la pratica si compone delle due componenti vettoriali di necessità e relativa autonomia dalle sollecitazioni puntuali, essa deve essere una risultante in costante rifrazione rispetto al piano sincronico d’incidenza. Tuttavia il novum, l’eccedenza, risulta immediatamente reincorporata e va ad annettersi e a precisare le disposizioni o le configurazioni condizionali entro cui queste sono disciplinate. L’habitus è pertanto un sistema di disposizioni continuamente acquisitivo e cumulativo.
Tuttavia, come l’idea stessa di continuità suggerisce, tutti i movimenti continui hanno un’andatura infinitesimale il cui limite deve essere chiarito. Pertanto, dev’essere inoltre considerato come carattere assolutamente imprescindibile dell’habitus quel fenomeno che cade sotto l’etichetta assai poco allettante di ‘invecchiamento sociologico’[4]. Esso si qualifica come sempre in un’aspettualità duplice: da una parte la maggior pregnanza delle prime esperienze entro determinate condizioni, dall’altra la refrattarietà progressiva che limita fortemente la capacità dell’agente non solo di accordare le proprie pratiche a fronte di mutate condizioni d’esistenza (accomodamento), ma anche di incorporare l’esteriorità conferendogli il un ruolo ristrutturante o re-inclinante di qualche tipo.
Le stime pratiche conferiscono un peso eccessivo alle prime esperienze nella misura in cui sono le strutture caratteristiche di un tipo determinato di condizioni di esistenza che, attraverso la necessità economica e sociale che esse fanno pesare sull’universo relativamente autonomo delle relazioni familiari o per meglio dire attraverso delle manifestazioni propriamente familiari di tale necessità esterna (per esempio, divieti, preoccupazioni, lezioni di morale, conflitti, gusti, etc.), producono le strutture dell’habitus che sono a loro volta all’origine della percezione e della valutazione di qualsiasi ulteriore esperienza (Bourdieu 2003b: 210).
Ma se, con quanto finora detto, accade che l’illusione dell’immediatezza propria del senso comune, che dà luogo alle fallacie meccanicistiche, anche a quelle che rifiutano il senso comune, sia alla fine l’eccezione normale, si è costretti a chiedersi quale sia il rapporto con l’esplicitazione conscia.
4.5 Il livello inconscio-oggettivo: i “rapporti occasionali” tra habitus e coscienza
In precedenza si è accennato all’idea che l’habitus operi inconsciamente e tuttavia tale modalità richiede di essere precisata, nella misura in cui tale caratteristica si presenta da un lato come contro-intuitiva per il senso comune, vista l’efficacia e la padronanza pratica effettivamente dimostrata dagli agenti; dall’altro in contrasto con il rilievo metodologico attribuito da Bourdieu all’esperienza ordinaria soggettiva degli agenti.
Come si è visto nel paragrafo precedente l’aggiustamento immediato tra habitus e campo è solo una delle forme possibili di azione anche se è di gran lunga la più frequente. Ciò avviene perché
‘Noi siamo empirici – diceva Leibniz, e con ciò intendeva dire pratici – per i tre quarti delle nostre azioni’. Gli orientamenti suggeriti dall’habitus possono essere accompagnati da calcoli strategici di costi e benefici che tendono a portare a un livello cosciente le operazioni che l’habitus compie secondo la propria logica (Bourdieu, Wacquant 1992: 98).
Il piano cosciente-personale che computa riflessivamente sulle opzioni agibili credendo di esserne il principio efficiente, come si vede, è un piano che sfila in parallelo e con occasionalità rapsodica, rispetto alla continuità delle operazioni che l’habitus svolge a un livello subpersonale. Ma l’idea è appunto che l’operatività dell’habitus trascenda per definizione ogni possibile appropriazione conscio-strategica di segmenti di pratica. Infatti,
Principio di generazione e di strutturazione di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente “regolate” e “regolari” senza essere affatto il prodotto dell’obbedienza a delle regole, oggettivamente adattate al loro scopo, senza porre l’intenzione cosciente di fini e il dominio intenzionale delle operazioni necessarie per raggiungerli e, dato tutto questo, collettivamente orchestrate senza essere il prodotto dell’azione organizzatrice di un direttore di orchestra. Proprio allorquando appaiono come determinate dal futuro, vale a dire dai fini espliciti ed esplicitamente posti di un progetto o di un piano, le pratiche prodotte dall’habitus in quanto principio generatore di strategie, che permettono di far fronte a situazioni impreviste e continuamente rinnovate, sono determinate dall’anticipazione implicita delle loro conseguenze, cioè dalle condizioni passate della produzione del loro principio di produzione cosicché esse tendono sempre a riprodurre le strutture oggettive di cui sono in ultima analisi il prodotto (Bourdieu 2003b: 212-3).
L’habitus e le regolarità a cui esso dà luogo conferiscono una verticalità temporale e prospettica all’insieme delle pratiche più o meno ordinarie promosse da un agente, inducendogli un senso pratico, solo parzialmente esprimibile dalla coscienza ordinaria.
Se non è assolutamente da escludersi che le risposte dell’habitus si accompagnino a un calcolo strategico che tende a realizzare in modo quasi conscio l’operazione che l’habitus realizza in un altro modo, cioè una stima delle possibilità che presuppone la trasformazione dell’effetto passato in avvenire scontato, rimane il fatto che esse si definiscono in primo luogo rispetto a un campo di potenzialità oggettive immediatamente inscritte nel presente, cose da fare o da non fare, rispetto a un avvenire che, all’opposto del futuro come ‘possibilità assoluta’ (absolute Möglichkeit) nel senso di Hegel, progettato dal progetto puro di una ‘libertà negativa’, si propone con un’urgenza e una pretesa di esistere che esclude la deliberazione. Le stimolazioni simboliche, cioè convenzionali e condizionali, che agiscono solo a condizione di incontrare degli agenti condizionati a percepirle, tendono a imporsi in modo incondizionato e necessario quando il fatto di inculcare l’arbitrario abolisce l’arbitrarietà dell’inculcare e dei significati inculcati. Il mondo di urgenze, di fini già realizzati, di oggetti dotati di un ‘carattere teleologico permanente’, secondo l’espressione di Husserl, come gli strumenti, di gradini da seguire, di sentieri già tracciati, di valori fatti cose, che è quello della pratica, può accordare solo una libertà condizionata – liberet si liceret – abbastanza simile a quella dell’ago magnetizzato che, come immagina Leibniz, proverebbe piacere a rivolgersi verso nord. Se di solito si osserva una correlazione molto stretta tra le probabilità oggettive costruite scientificamente […] e le aspirazioni soggettive (le ‘motivazioni’), ciò non significa che gli agenti aggiustino in modo conscio le proprie aspirazioni alla valutazione precisa delle proprie opportunità di riuscita, a guisa di un giocatore che regolasse il proprio gioco in funzione di un’informazione completa sulle proprie possibilità di vincita, come si presuppone esplicitamente quando, dimenticando il ‘tutto avviene come se’, si agisse come se la teoria dei giochi o il calcolo delle probabilità, entrambi costruiti contro le disposizioni spontanee, costituissero delle descrizioni antropologiche (Bourdieu 2003b: 207-8).
L’automatismo generativo che abolisce il ‘come se’ descrive una memoria subpersonale del corpo che eccede la memoria personale e cosciente. Il campo delle potenzialità oggettive e dei rispettivi valori di probabilità è in un relazione di mutua complicità con l’habitus che è in grado di avvertirne praticamente la conformazione specifica. L’oblio di questo fondamentale ‘come se’ è all’origine della naturalizzazione assiomatica dell’economia basata sull’utilità attesa e delle teorie a questa ancillari.
4.6 Il livello illusivo-soggettivo: habitus e confabulazione tra urgenza e misconoscimento
La complessa configurazione ontologica dell’azione in termini di habitus fonda un risultato teorico di estrema rilevanza critica: infatti l’agente percepisce come libere azioni in larga parte obbligate dalla necessità strutturale derivante dall’occupazione di un preciso punto nello spazio sociale dei rapporti di forza, dal possesso di una determinata combinazione di varietà di capitali e di disposizioni pratiche acquisite nell’esperienza. Come visto in precedenza, l’habitus sospinge l’agente a scelte adatte alle condizioni di cui è il prodotto: il peculiare preadattamento dell’habitus alle proprie condizioni di produzione, nell’eccezione normale di un sostanziale prolungamento di quest’ultime, «opera di continuo la trasformazione delle necessità in strategie, delle costrizioni in preferenze, e al di fuori di qualsiasi determinazione meccanica, produce l’insieme delle ‘scelte’ costitutive di stili di vita classificati e classificanti» (Bourdieu 2001: 181). L’accento della nostra attenzione deve porsi sulla peculiare trasformazione che converte i limiti impersonali che gravano sull’agente e restringono le sue possibilità pratiche in forme di preferenza libera, autonoma e soggettiva. In altre parole, bisogna prendere sul serio le virgolette che cingono la parola “scelte”. In questo quadro la scelta si qualifica come atto di appropriazione retrospettivo: questo atto può determinarsi come l’illusione di aver scelto qualcosa che non si ha scelto, ma a cui si era comunque sospinti, o, viceversa, come l’illusione di aver rifiutato qualcosa da cui si era comunque esclusi: tutte le analisi sociologiche di Bourdieu mettono a tema essenzialmente questi due modi in cui il sense of one’s place (Bourdieu 2001: 473), il senso pratico dei “limiti”, prende corpo: l’amor fati, cioè, l’esatta adesione delle speranze soggettive alle possibilità effettive e pertanto scelta – obbligata – del proprio destino , e il “non fa per noi”, il respingimento soggettivo di ciò che non è oggettivamente praticabile, un sour grapes-effect, per così dire. Con una formula più efficace, «il più delle volte la necessità si realizza perché gli attori sociali sono portati a realizzarla, cioè perché prendono gusto per ciò a cui sono comunque condannati» (Bourdieu 2001: 186). È esattamente in questo quadro che va collocata «l’illusione della mutua elezione o della predestinazione sociale», in quanto scaturisce dalla «mancanza di conoscenza delle condizioni sociali, dell’armonia dei gusti estetici o delle inclinazioni etiche» venendo così «percepita come l’attestazione di affinità ineffabili che essa fonda» (Bourdieu 2003b: 225).
Nella misura in cui gli agenti non padroneggiano mai e mai compiutamente i principi della loro azione, queste forme irriflesse e automatiche di appropriazione e razionalizzazione delle pratiche sono forme di confabulazione. La confabulazione è un fenomeno che è in primo luogo di pertinenza della letteratura neuropsicopatologica, in quanto sintomo caratteristico di molte sindromi ed esito di varie forme di lesione cerebrale. Ma la confabulazione riguarda anche i feedback di soggetti normali entro certe condizioni e compiti sperimentali (Nisbett, Wilson 1977). William Hirstein (2005: 19-21) fa il punto della casistica delle accezioni riconosciute del fenomeno confabulatorio, distinguendone tre: 1) mnemonica: le confabulazioni sono storie atte a coprire un vuoto nella memoria; 2) linguistica: le confabulazioni si esprimono nella forma di storie o di enunciazioni false, 3) epistemica: le confabulazioni sono un tipo di affermazioni epistemicamente malfondate e che il confabulatore non sa essere malfondate, laddove tale tipo di confabulazione insorge all’interno di un malfunzionamento del processo epistemico di revisione ed espressione.
Ora, entro in nostri scopi, interessa la possibilità di caratterizzare il resoconto dell’agente socialmente determinato in termini di confabulazione, possibilmente secondo questi tre concetti: dal momento che, stante il funzionamento dell’habitus, l’agente non è in grado di appropriarsi in modo completo delle sue azioni e delle condizioni di produzione e di necessitazione delle proprie scelte. Come abbiamo visto, l’habitus dispone di una memoria cognitiva e corporea subpersonale che eccede la memoria cosciente e personale di cui l’agente dispone per richiamare e gestire i suoi processi di scelta e azione. I resoconti confabulatori suppliscono, dunque, senz’altro, all’indisponibilità della memoria propria dell’habitus. Questi resoconti coscienti si articolano in spiegazioni linguistiche ragionevoli che si esprimono in termini di preferenza, di rifiuto, e come vedremo di autobiografismi finalistici. Questi resoconti difettano sistematicamente della conoscenza delle condizioni sistematiche che stanno alla base delle azioni di cui sono resoconti: c’è nell’esperienza sociale una sistematica malfondazione della coscienza ordinaria rispetto alle condizioni che ne determinano la specifica fisionomia e le specifiche tendenze. In proposito,
Se, contro tutte le forme di meccanicismo, bisogna riaffermare che l’esperienza comune del mondo sociale è una forma di conoscenza, non per questo diventa meno importante rendersi conto, contro l’illusione della generazione spontanea della coscienza a cui finiscono per ridursi tante teorie sulla “presa di coscienza”, che la prima forma di coscienza è misconoscimento, cioè riconoscimento di un ordine che è insidiato anche nei cervelli (Bourdieu 2001: 177).
La considerazione generale che Hirstein trae da un esame generale delle istanze confabulatorie come fenomeni epistemici è la seguente:
Confabulation involves absence of doubt about something one should doubt […]. It is a sort of pathological certainty about ill-grounded thoughts and utterances. The phenomenon contains important clues about how humans assess their thoughts and attach either doubt or certainty to them. Our expressions of doubt or certainty to others affect how they hear what we say. In the normal social milieu, we like people to be certain in their communication, and strong social forces militate against doubting or pleading ignorance in many situations (Hirstein 2005: 4).
Pertanto, è possibile che la confabulazione rifletta esattamente «the need that people have to assess their current situation and act on it quickly, without pausing to consider all possibilities» (Hirstein 2005: 5-6): esattamente quell’“urgenza che esclude la deliberazione” di cui è stata precedentemente esplicitata la natura e la rilevanza ai fini della pratica. Per Hirstein la scaturigine di questo errore narrativo si colloca nel processo che dalle rappresentazioni combinate fornite da memoria e percezione conduce all’espressione attraverso un atto “creativo”:
The representations that we are aware of come from two fundamental sources: perception and memory. The brain also has processes that can take these basic representations and combine them, compare them, check them, and even claim them, i.e., the processes that we know as thinking, deciding, planning, asserting, and so on. Confabulation arises from a creative act that produces the claim itself. In the confabulator, these creative processes produce claims with unacceptably low truth probabilities (Hirstein 2005: 182).
Laddove tale valore di probabilità inaccettabilmente povero è costituito nel caso dell’agire sociale dal “misconoscimento” che è il correlato della conoscenza particolare indotta dal senso pratico propulso dall’habitus.
Per concludere questa breve escursione nella scienza della mente vale la pena ricordare un passaggio di Daniel Dennett, autore che ha posto la confabulazione come pratica costitutiva e costituente dell’identità del Sé.
Our fundamental tactic of self-protection, self-control, and self- definition is not spinning webs or building dams, but telling stories, and more particularly concocting and controlling the story we tell others — and ourselves — about who we are. And just as spiders don’t have to think, consciously and deliberately, about how to spin their webs, and just as beavers, unlike professional human engineers, do not consciously and deliberately plan the structures they build, we (unlike professional human storytellers) do not consciously and deliberately figure out what narratives to tell and how to tell them. Our tales are spun, but for the most part we don’t spin them; they spin us. Our human consciousness, and our narrative selfhood, is their product, not their source. These strings or streams of narrative issue forth as if from a single source — not just in the obvious physical sense of flowing from just one mouth, or one pencil or pen, but in a more subtle sense: their effect on any audience is to encourage them to (try to) posit a unified agent whose words they are, about whom they are: in short, to posit a center of narrative gravity (Dennett 1991: 418).
Analizzando quella forma particolare di espressione che è il discorso su se stessi, Bourdieu coglie l’insorgere della cosiddetta illusione biografica, ovvero quell’ «l’inclinazione a farsi ideologi della propria vita selezionando certi eventi significativi in funzione di un’intenzione globale e istituendo fra l’uno e l’altro delle connessioni atte a giustificarne l’esistenza e a renderli coerenti, come quelle implicite nel porli come cause, o, più spesso, come fini» (Bourdieu 2009: 72). Per Bourdieu la narrazione autobiografica è invariabilmente motivata dall’intenzione di conferire un senso, «di scoprire una logica retrospettiva e insieme prospettiva, una consistenza e una costanza, collegando con relazioni intellegibili, come quella tra effetto e causa efficiente». Quest’esigenza è una delle articolazioni possibili della domanda affatto estranea al pensiero filosofico che si interroga circa «l’esistenza di un io irriducibile alla rapsodia delle sensazioni singole» (Bourdieu 2009: 73-4). Nel mondo sociale «che tende a identificare la normalità con l’identità intesa come costanza rispetto a se stesso di un essere responsabile, ossia prevedibile o almeno intellegibile, nel senso in cui lo è una storia ben costruita» (Bourdieu 2009: 74), l’habitus in quanto principio di unificazione delle pratiche e delle rappresentazioni solo parzialmente penetrabile dalla coscienza costituisce l’endoscheletro di quella continuità che l’esigenza autobiografica può compensare e razionalizzare solo narrativamente.
Ciò che le “scelte”, la confabulazione epistemico-sociologica e l’illusione biografica hanno in comune è il misconoscimento, cioè la mancata o errata conoscenza delle possibilità alternative, di altre premesse, e l’urgenza di dover fornire resoconti coerenti e coadiuvanti l’identità, contro la minaccia della disgregazione del sé e dello sfaldamento della superficie sociale dell’agente. Questa assenza di dubbio, promossa dagli automatismi e dall’anticipazioni degli habitus, sottende l’ignoranza delle condizioni di produzione dell’habitus, che sono le stesse condizioni entro cui la necessità preincorporata nell’habitus è disciplinata.
4.7 Un’ontologia sociale della totalità
Nella celebre introduzione a Dialettica e positivismo in sociologia, Adorno, in difesa della tradizione dialettica di sociologia, ebbe a esprimersi così:
L’interpretazione dei fatti guida alla totalità, senza che questa sia essa stessa un fatto. Non vi è nessun fatto sociale che non abbia il suo posto e il suo significato in quella totalità. Essa è preordinata a tutti i singoli soggetti, poiché questi anche in se stessi ubbidiscono alla sua pressione, e rappresentano la totalità nella loro stessa costituzione monadologica, anzi, soprattutto in essa. In questo senso la totalità è l’essere supremamente reale. Ma poiché è il principio della relazione sociale degli individui tra loro che si maschera affinché i singoli non lo possano riconoscere, è insieme anche parvenza, ideologia (Adorno 1972: 21).
Similmente per Bourdieu, l’esperienza sociale ordinaria promuove una conoscenza e un misconoscimento simultanei, un’attività e una passività rispetto all’esperienza, che sappiamo essere il correlato individuale dell’intero sistema dei sistemi di posizioni e dei sistemi di disposizioni associati a ogni posizione. Nelle percezioni e nelle pratiche di ciascun agente indipendentemente dalla sua propria coscienza e dalla sua volontà, “che lo sappia o no, che lo voglia o no”, è depositato l’intero sistema delle relazioni sociali, l’intera distribuzione delle proprietà materiali, l’intero sistema dei rapporti di forza tra posizioni, l’intero sistema delle correlate disposizioni pratiche, l’intera struttura del dominio. Nella misura in cui l’habitus che produce pratiche particolari e realizzate a partire da una collocazione particolare esprime l’intero sistema dell’esteriorità: esso ‘tende al tutto, ma confusamente’ perché nell’esperienza ordinaria la riflessività che produce coscienza del contenuto interno delle proprie espressioni non è data. L’esperienza ordinaria è la forma più tipica della “dialettica tra condizioni e habitus” che è «il fondamento di quell’alchimia che trasforma la distribuzione del capitale, risultato di un rapporto di forze, in un sistema di differenze percepite, di caratteristiche distintive, cioè in distribuzione di capitale simbolico, capitale legittimo, non riconosciuto nella sua verità oggettiva» (Bourdieu 2001: 177). Così in Bourdieu «ogni dimensione dello stile di vita “simbolizza con” le altre […] e le simbolizza» (Bourdieu 2001: 179), in quanto ogni pratica si inserisce in un sistema di interrelazione oggettiva delle differenze e, a sua volta, l’habitus incorpora e codifica le differenze in relazione alla propria. Nel semplice di un habitus collocato in una posizione, dunque in un allocamento intensivo di disposizioni e inclinazioni condizionali alla pratica, appare il ‘composto’ che gli è esterno. Oltre a ciò, per ciascuna dimensione dello stile di vita unificate dall’habitus, questo vi sottende una doppia funzionalità, principio di produzione delle pratiche e principio di percezione, valutazione, classificazione delle pratiche in generale e dunque per converso della propria. E veniamo, finalmente, al passaggio considerato più tipicamente illustrativo:
Struttura strutturante che organizza le pratiche e la loro percezione, l’habitus è anche struttura strutturata: principio di divisione in classi logiche, che organizza la percezione del mondo sociale, è a sua volta il prodotto dell’incorporazione della divisione in classi sociali. Ogni condizione viene definita in modo inscindibile dalle sue caratteristiche intrinseche e dalle caratteristiche relazionali che derivano dalla sua posizione nel sistema delle condizioni che è anche un sistema di differenze, di posizioni differenziali, cioè da tutto ciò che la distingue da tutto il resto che essa non è e in particolare da tutto ciò con cui essa è in contrasto: l’identità sociale si definisce e si afferma nella differenza. Ciò significa che negli atteggiamenti dell’habitus si trova inevitabilmente iscritta tutta la struttura del sistema delle condizioni, che si realizza nell’esperienza di una condizione collocata in una posizione particolare di questa struttura […]. In quanto sistema di schemi generatori di pratiche, che esprime in modo sistematico la necessità e le libertà inerenti alla condizione di classe, e la differenza costitutiva di quella posizione, l’habitus coglie le differenze di condizione, che percepisce sotto forma di differenza tra pratiche classificate e classificanti (in quanto prodotte dall’habitus), in base a criteri di differenziazione, i quali, essendo a loro volta il prodotto di queste differenze, sono a esse oggettivamente conformi e tendono quindi a percepirle come naturali (Bourdieu 2001: 175-7).
In Bourdieu la collocazione socio-economica determina la prospettiva e la prospezione della pratica, tanto nel suo opus operatum quanto nelle condizioni del modus operandi. Questo sistema di classificazione, che è il risultato dell’incorporazione della struttura dello spazio sociale, che si impone attraverso l’esperienza di una posizione particolare all’interno di questo spazio stesso, costituisce, nei limiti imposti dalle possibilità e dalle impossibilità economiche (che esso, con la sua logica, tende a riprodurre), la ragione del fatto che le pratiche si uniformino alle regolarità insite in una condizione.
4.8 Habitus come gusto: la formazione sociale delle preferenze
Come si è detto l’habitus opera attraverso un calcolo non razionale, ma ragionevole e di natura eminentemente inconscia. Se si sposta il fulcro dell’attenzione da una generale teoria dell’azione al fronte delle pratiche di scelta e di consumo culturale, questo calcolo esibisce due funzioni essenziali. L’habitus costituisce sia il principium generationis, lo «schema generatore», di pratiche oggettivamente classificabili – che si manifestano sotto la specie di necessità incorporate, effetto del dispiegamento di condizioni d’esistenza oggettive -, sia il principium divisionis di queste, il modus internalizzato di percepire classificare e valutare tali pratiche: essendo tanto l’atteggiamento produttivo di pratiche e di atteggiamenti pratici, quanto simultaneamente l’operatore che implicitamente le valuta e le ordina in modo gerarchico e ricorsivo ogni qual volta produce la propria. Infatti l’habitus produce di volta in volta espressioni di gusto, giudizi di valore che definiscono la posizione delle proprie pratiche rispetto alle altre: atti proposizionali verbalmente espressi o implicitamente ritenuti sotto soglia di coscienza e lì tuttavia attivi.
Nell’ambito del consumo e dell’appropriazione culturale, nella dimensione racchiusa dallo stile di vita, l’habitus funziona come gusto, laddove il gusto è «l’operatore pratico della trasmutazione delle cose in segni distinti e distintivi, e delle distribuzioni continue in contrasti discontinui: esso innalza le differenze iscritte nell’ordine fisico dei corpi all’ordine simbolico delle distinzioni significanti» (Bourdieu 2001: 180-1). I gusti, cioè le preferenze espresse, costituiscono l’espressione necessaria delle differenze connesse a posizioni che nello spazio sociale si escludono mutuamente,
Non a caso quando debbono giustificarsi si affermano in forma tutta negativa, attraverso il rifiuto opposto a gusti diversi: in materia di gusti, più che in qualsiasi altra, ogni determinazione è negazione; ed indubbiamente i gusti sono innanzitutto dei disgusti, fatti di orrore o di intolleranza viscerale […], per gli altri gusti, cioè per i gusti degli altri. Dei gusti e dei colori non si discute: non perché in natura esistono tutti i gusti, ma perché praticamente ogni gusto si sente fondato per natura e praticamente lo è dal momento che è habitus, il che porta a respingere gli altri nello stato scandaloso di ciò che è contro natura (Bourdieu 2001: 53-4).
Il rapporto tra queste due funzioni simultanee, di produzione e di valutazione, presiede alla costituzione dell’immagine del mondo sociale, dello spazio degli stili di vita. All’origine della topologia delle tre maniere fondamentali della distinzione sociale (cioè i consumi distinti, pretenziosi e volgari tracciati dettagliatamente ne La distinzione) Bourdieu colloca un passaggio cruciale:
Il vero principio delle differenze riscontrate nell’ambito del consumo è la contrapposizione tra gusti di lusso (o di libertà) e i gusti del necessario: i primi sono la peculiarità degli individui che sono il prodotto di condizioni materiali di esistenza definite dalla distanza dalla necessità, dalla libertà o dalla agiatezza, che assicura il fatto di possedere un capitale; i secondi esprimono, nel loro stesso adeguamento, le necessità di cui sono il risultato. È per questo che i gusti popolari per i cibi più nutrienti e più economici […] possono venir dedotti dalla necessità di produrre la forza-lavoro al minor costo possibile, necessità che come indica la sua stessa definizione, s’impone al proletariato. L’idea stessa di gusto, che è tipicamente borghese, perché presuppone la libertà assoluta di scegliere, è così strettamente legata all’idea di libertà, che si fa fatica anche soltanto a concepire il paradosso di un gusto del necessario. E questo, sia quando lo si dimentica completamente, facendo della pratica un prodotto diretto della necessità (gli operai mangiano fagioli perché non possono permettersi nient’altro), trascurando il fatto che il più delle volte la necessità si realizza perché gli attori sociali sono portati a realizzarla, cioè perché prendono gusto per ciò a cui sono comunque condannati; sia che lo si tratti come un gusto di libertà, dimenticando i condizionamenti di cui è il risultato, e riducendolo così a una preferenza patologica e morbosa per le cose di (prima) necessità, una sorta di indigenza congenita, che funziona da pretesto per un razzismo di classe che accomuna il popolo al crasso e al grasso; scarpe grosse, grandi fatiche, risate grossolane, scherzi grossolani, crasso buon senso, amenità grossolana, grassezza rubiconda (Bourdieu 2001: 185-6).
Questo brano è utile a ricollocare la formazione delle preferenze di consumo culturale entro le condizioni sociali di produzione dell’habitus, opponendosi tanto all’innatismo del gusto estetico legittimo connesso alla posizione borghese, privilegiata nella sua “distanza dalla necessità”, quanto all’atteggiamento che deduce linearmente le pratiche dalle condizioni materiali di riferimento (da un reddito alto o basso, per esempio) senza interpellare la partecipazione attiva degli agenti.
- Due brevi conclusioni
Al termine di questa disamina, preme ribadire due semplici punti che, secondo chi scrive, qualificano l’originalità filosofica della nozione di habitus e vincolano un’eventuale elaborazione del concetto in chiave politica.
L’habitus, definito nei termini di un’ontologia delle disposizioni ed esplorato nella multidimensionalità dei suoi correlati psicologici, aiuta a comprendere la regolarità e la predittibilità iscritte nel comportamento umano, anche in assenza di strutture di condizionamento. Il condizionamento e le regolarità a questo immanenti sono interiorizzati e agiti spontaneamente: il condizionamento esterno può essere efficace sull’“interno” dell’individuo solo perché è stato preliminarmente mediato e appropriato da questo e agito spontaneamente come se fosse legge interna.
L’habitus è oggettivamente di classe nella misura in cui sussume la relativa omogeneità delle pratiche di un gruppo o una classe socio-economica accumunata da condizioni di esistenza simili, a prescindere dalla presenza di una corrispondente coscienza di classe.
In conclusione, la nozione di habitus, in quanto si colloca al crocevia di molteplici dimensioni della pratica individuale e sociale, costituisce sia un promettente costrutto a vocazione interdisciplinare in vista di una teoria unificata della azione umana, sia una chiave di accesso, in termini di una possibile “antropologia dell’emancipazione”, per la comprensione dell’«effetto peculiare» che la «presa di coscienza» produce nell’esplicitazione del dato e nella sospensione dell’adesione immediata a questo stesso dato, inducendo la separazione della «conoscenza dei rapporti probabili e il riconoscimento di questi stessi rapporti, di modo che l’amor fati possa anche trasformarsi in odium fati» (Bourdieu 2001: 250).
Note al testo
[1] Nel quadro di una traslazione ontologica delle relazioni tra i sistemi menzionati si riscontra un analogo isomorfismo intercorrente relazioni spaziali tra parti mutuamente esterne, da un lato, e le relazioni nelle parti colte nell’internità, dall’altro.
[2] Per questo motivo quella che appare come un’innocente scelta di sostituzione terminologica, cioè l’uso frequente nella letteratura della parola ‘insieme’ in luogo di ‘sistema’, conduce a un’alterazione concettuale rilevante. L’espressione insieme di disposizioni denota infatti una congerie di proprietà priva di legami di co-variabilità interni, non informativa sul suo principio di unità, priva di un principio d’unità funzionale, cioè un’unità puramente estrinseca e convenzionale, che allontana dalla messa a tema del rapporto tra i due ordini d’oggettività a cui Bourdieu invita .
[3] Questa concezione, in particolare, ha fornito paradossalmente il fianco alla formulazione moderna dell’ipotesi logicista del pensiero umano.
[4] Che tra l’altro non è lontano, quantomeno nella sua fenomenicità, dall’invecchiamento cognitivo strettamente inteso.
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