Antropologia, progettualità neo-liberale, Soggetto. Un dialogo con Adelino Zanini

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Pierluigi Marinucci – Adelino Zanini

 

meta_113-1D.: Affrontare il tema delle relazioni tra antropologia ed economia richiede una ri­flessione preliminare: in merito cioè a quanto questo complesso viluppo di rela­zioni abbia innanzitutto trovato esplicazione ”progettuale” nel campo epistemologico delle scienze umane, intese in chiave necessariamente e sufficientemente ampia da inclu­dere nel loro alveo concettuale anche la disciplina economica.

 

R.: Per quanto concerne lo statuto delle scienze umane, c’è un prima e un dopo Fou­cault (mi sia permesso di richiamare direttamente ciò che ho scritto nel mio libro de­dicato al filosofo francese). Egli ci ha insegnato, infatti, come nel caso di tali scienze non vi sia “discorso” capace di restituire, attraverso un’unità architettonica formale, la totalità della propria sto­ria. Il ricorso storico-trascendentale (l’individua­zione di una fondazione originaria) e quello empirico (la ricerca del fondatore) ap­paiono, ri­spettivamente, tautologici ed estrinseci. Ciò che, ad esempio, permette di individuare un discorso come “economia politica”, non è l’unità di un oggetto, non è una strut­tura formale, un’architettura concettuale o una scelta filoso­fica fondamen­tale, ap­punto; è piuttosto l’esistenza di regole di formazione per tutti i suoi oggetti, per tutte le sue operazioni, per tutti i suoi concetti, per tutte le sue opzioni teori­che. È per que­sto che un’episteme non è la somma di conoscenze di un’epoca, bensì lo scarto, le di­stanze, le opposizioni, le differenze, le relazioni dei suoi molteplici di­scorsi scienti­fici. Essa non è una grande teoria sottostante, ma uno spazio di disper­sione: non è uno stadio generale della ragione; è un com­plesso rapporto di sposta­menti succes­sivi.

In breve, le scienze umane non sono so­vrapponibili alla biolo­gia, all’economia, alla fi­lologia; piuttosto, ne interro­gano i loro versanti esterni, il “fuori” che le distin­gue: ciò che le rende possibili è infatti una certa situazione di prossimità nei riguardi della biologia, dell’economia, della filologia (o della lingui­stica); non esistono che nella misura in cui vengono a situarsi a fianco di queste, o piuttosto sotto di esse, nel loro spazio di proiezione.

Nello specifico, il fatto che l’uomo costituisca l’unica specie per la quale la produ­zione, la distri­buzione e il consumo dei beni hanno assunto l’importanza che sap­piamo, non serve a spie­gare perché la scienza economica – pensabile certamente solo attraverso la formula­zione di leggi che rappresentano i comportamenti degli individui – sia parte delle scienze umane. Una tale spiegazione, infatti, emerge solo là dove l’oggetto di queste ultime non è quell’uomo che da sempre lavora, scambia, con­suma, ma quell’essere che, dall’interno delle forme di produzione che ne gover­nano l’intera esistenza, forma la rappresentazione dei propri bisogni, della società tramite cui, con cui o contro cui li appaga, fino a poter da ultimo darsi la rappresen­tazione dell’economia stessa. Qui e solo qui è possibile osservare una scienza eco­nomica – che nel suo evolversi si sa­rebbe voluta “pura”, artefice e padrona delle proprie leggi, dei propri specifici lin­guaggi – lungo il suo “versante esterno”, nel “fuori” che ne interroga le pra­tiche, non già in ciò che sono, ma in ciò che non ces­sano di essere quando lo spa­zio della rap­presentazione si schiude. Questo ci dice Foucault.

Ciò detto, la meta-narrazione economica si è costituita pur sempre nella ricerca di una fondazione originaria, anche quando ha provato a dubitare delle proprie ambi­zioni scientifiche, non ha quasi mai dubitato della possibilità di escludere il “fuori”, ossia, d’individuare un’origine che autorizzasse a ragionare di scienza naturale (comprensiva di azione, rappresentazione, meta-rappresentazione di un soggetto ra­zionale), piuttosto che di scienza umana o, nel caso specifico, sociale. I richiami pos­sibili sarebbero molti. Non c’è il solo interesse di L. Walras per il modello fisico.

 

D.: È dunque rilevabile uno scivolare della dottrina economica su posizioni pro­gres­sivamente più ”scientifiche” – svanendo quindi la venatura ”morale” – proprio lad­dove i suoi enunciati e il suo apparato concettuale dovrebbero esprimere una cre­scente attenzione alla complessità antropologica?

 

R.: Anzitutto, è bene ricordare che la dottrina economica ha una storia “breve”, ri­spetto alla quale, lo slittamento semantico del termine oikonomia, la lunghissima evoluzione che conduce dal governo dell’oikos a quello della civil society, lo speci­fico governamentale delle Polizeiwissenschaften, la messa a tema del “governo della popolazione”, etc., non sono semplici presupposti, poi superati, appunto, dall’imporsi di un paradigma: quello liberale. Va poi ricordato che in Smith la dimensione etica e quella economica poggiano entrambe su di un presupposto antropologico. Il quale, del resto, rappresenta, in realtà, ciò che, pur presente, mancherà, ben presto, il suo obiettivo. Non tanto perché il “sonno antropologico” foucaultiano non abbia avuto anche in questo caso un ruolo, quanto perché il soggetto economico, con il venir meno di quello che Foucault definisce l’ordine di rappresentazione dell’analisi delle ricchezze, ha ben presto richiesto una meta-rappresentazione o, più banalmente, una autolegittimazione; quella stigmatizzata, ad esempio, da Karl Polanyi. Il quale ri­corda come le motivazioni economiche non abbiano mai costituito per l’uomo l’unico incentivo al lavoro. Onore, orgoglio, senso civico e do­vere morale, rispetto di sé e comune decenza erano spesso, in passato, elementi caratte­rizzanti il la­voro; né fame né profitto hanno mai rappresentato da soli i moventi economici. I morsi della fame non si sono mai tradotti, automaticamente, in un incentivo a produrre, giacché la produzione non è un affare individuale, bensì collettivo. L’homo oeconomi­cus è perciò un’astrazione e la sua trasformazione in uomo “reale” è frutto del riduzioni­smo economico, la cui tenuta scientifica è garantita in quanto sia garantito il deter­minismo e, ancor prima, una sorta di individualizzazione che fa dei rapporti sociali delle relazioni naturali. Ora, l’individualizzazione è la scommessa con cui ci si “salva” da ogni tentazione antropologica. Nei fatti, il “sonno antropologico” è già dissolto con Ricardo. Con Walras e Pareto diviene una superflua chimera. Certo, ac­canto al “puro” economico non manca lo spazio per una dottrina di politica sociale, ma essa non è riconosciuta e legittimata come un “fuori”: è solo un’appendice.

 

D.: Stai dicendo che nel corso della sua storia l’economia politica tende ad ab­bando­nare la zavorra delle presupposizioni antropologiche relative a quello che l’illuminismo chiamava “uomo in generale”, a favore di un individualismo che am­mette in linea di principio solo singolarità, ma nessuna cornice universale in grado di contenerle e di connetterle? Ossia, che l’economia politica, in fondo, accoglie e promuove la “morte dell’uomo” e il suo divenire “obsoleto”, molto prima che que­sto processo sia riconosciuto dalle teorie critiche contemporanee?

 

R.: Diciamo, anzitutto, che via via che gli apparati concettuali si specializzano, le grandi presupposizioni teoriche assumono un significato sempre meno significativo. Si tratta di un processo che non riguarda la sola economia – “evento” e “narrazione”, insieme. Quando si dica, ad esempio, che l’economia attuale non pone al centro gli interessi dei più (“uomo” o “persona”, “uomini e donne”), altro non si dice che una banalità: non perché non sia vero, ma perché la verità è a volte ovvia e inu­tile. Cer­tamente, l’“uomo in generale” fu dapprima collocato alla base di un ragiona­mento secondo cui l’ordre naturel avrebbe trovato conferma in un’argomentazione razio­nale che coglieva in esso la solida base per l’ordine sociale. È la Naturform der ge­sellschaftlichen Produktion da Marx demolita. Nel momento in cui al centro fu po­sta la figura del consumatore edonista – e dunque una teoria soggettiva del valore – l’individualismo metodologico divenne però un processo autofondantesi, accanto al quale potevano convivere le più encomiabili e oneste preoccupazioni per le sorti dei meno fortunati: la “cornice”. Non andrei oltre, però. Per l’economia politica dive­nuta Economics (nel rispetto delle originali intenzioni marshalliane), la domanda: L’homme est-il mort? sarebbe apparsa semplicemente impenetrabile (anche allo “he­geliano” Marshall …). Poi, certo, la crisi dei fondamenti non risparmiò niente e nes­suno. La scena viennese ne fu la culla; Schumpeter che cita a ragion veduta Mach è un fatto; nella scena cantabrigense, accanto a Keynes, troviamo Ramsey, Wittgen­stein. Tuttavia, le grandi e suggestive interpretazioni devono essere filologica­mente attrezzate; in quanto solo sintomatiche, han fatto il loro tempo. Simplex sigillum veri – appunto.

 

D.: L’homo oeconomicus è per la teoria economica una realtà da creare e solo poi da comprendere? E in che misura il mutamento dell’idea di uomo presupposta dall’economia politica, da Adam Smith alle teorie neoclassiche, può essere com­preso in rapporto al mutato ruolo sociale della scienza economica, vale a dire del suo sempre più intenso coinvolgimento in quella che, dietro la maschera del libero mercato, appare come una vera e propria governamentalizzazione della realtà so­ciale? In questo scenario, come si alternano e si combinano istanze di ”scientificità” prescrittiva e istanze performative?

 

R.: L’homo oeconomicus è il perno teorico di una disciplina che pensa se stessa dopo aver raggiunto determinati esiti. Porta con sé l’invenzione di una “paternità” e di una “origine” (entrambe smithiane). Nel miglior dei casi, e solo in essi, è una semplifica­zione argomentativa relativamente innocente – penso a Hannah Arendt. In quanto tale, però, è anche una meta-rappresentazione e, se vogliamo mantenere il riferimento all’interpretazione di Foucault, potremmo dire che già con Ricardo l’homo oeconomicus non è colui che rappresenta i propri bisogni, ma colui che tra­scorre la propria vita nello sfuggire all’imminenza della morte. Egli è perciò un es­sere finito, e il problema della fi­nitudine soppianta l’analisi della rappresentazione circolare della ricchezza. Con Ri­cardo, un’antropologia della finitudine scalza la mathesis quale scienza generale di tutti gli ordini possibili. Apre però la strada – questo Foucault non lo dice – ad una ben più ambiziosa rappresentazione, possibile proprio a partire dalla “carenza”, dalla “rarità”. In breve, l’homo oeconomicus si qualifica come l’agente economico perfettamente razio­nale, informato, libero di scegliere, che deve misurarsi con risorse per definizione scarse: il consumatore della tradizione marginalistica. Che in questa tradizione, ciò che è descrittivo sia anche prescrittivo è piuttosto evidente. La normatività dell’enunciato dell’equilibrio economico generale walrasiano è uno dei punti più discussi dalla lette­ratura. Che qui si possa individuare anche un’istanza performativa, mi pare lo si possa sostenere se – lasciando in pace il buon Walras – guardiamo all’odierna assiomatica economica e alla sua cecità…

 

 

D.: Appunto. Ai fini di una posizione critica nei confronti dell’economia e della so­cietà, il rapporto specifico con l’antropologia ne valorizza gli aspetti dissonanti e re­attivi, spesso ponendosi obliquamente rispetto al soggetto economico-politico libe­rale: acquisendone cioè i tratti dinamici – vitalistici, eudaimonistici –, scorporandoli però dai suoi effetti finali, soprattutto in termini di generalità sociale.

 

R.: Sono gli esiti di una governamentalizzazione che ha saputo e potuto inglobare di­versi elementi, attivi e reattivi, tipici della fuoriuscita da una società del welfare, a cui ha corrisposto – e qui, indirettamente, la lezione di Foucault qualche equivoco l’ha creato – un appello generico ad un “altro” pensiero economico: quello ordolibe­rale.

 

D.: A proposito di Foucault e della sua analisi del pensiero ordoliberale, inscritta nella più generale cornice della “biopolitica”, occorrerebbe domandarsi se alcuni aspetti – aporetici, quando non strutturalmente predisposti all’equivoco, come tu ac­cennavi – non vadano ricollocati altrimenti rispetto alla mappatura foucaultiana. In particolare, un tema portante in Nascita della biopolitica è quello della ”demoltipli­cazione della forma-impresa”, come fenomeno specifico della socializzazione neo-li­berale. In esso come in molti altri emerge la natura ambivalente dell’ipotesi ordoli­berale. D’altro canto stupisce come Foucault concentri la sua attenzione sui pensa­tori liberali tedeschi limitandosi alla sola cerniera storica degli anni intorno alla se­conda guerra mondiale. La tradizione politico-economica tedesca, in cui pure sa­rebbe naturale inscrivere la vicenda di Ordo, è so­stanzialmente omessa da Foucault.

 

R.: Partiamo dall’ultima parte della domanda. La mappatura foucaultiana ha un obiet­tivo proprio, che non è quello di fare la storia dell’ordoliberalismo. Si tratta di lettura, diciamo così, autorale – come lo sono il Kant o il Nietzsche di Heidegger – che si svolge, e non è poco, ancora dentro gli anni ’70 del secolo scorso. Ciò detto, alcune critiche specifiche non hanno certamente mancato il bersaglio: penso ad esempio a quelle di J.-Y. Grenier e A. Orléan e relative alla comprensione effettiva della scena politica tedesca postbellica. Tuttavia, io parlavo di possibile equivoco in­di­rettamente creato, intendendo, in particolare, il fatto che quel Foucault ha finito per essere ado­perato in mille salse di sapore diverso, sino al punto di giungere ad attri­buirgli una “conver­sione” al neoliberalismo. Egli, invece, ci stava insegnando che l’ordoliberalismo, a differenza del liberalismo classico, era frutto di una tradizione in cui non c’era spazio alcuno per l’anarchico laissez-faire; anzi, per gli ordoliberali, non si governa mai ab­bastanza, quantunque, non si governi a causa del mercato ma per il mer­cato. Il neoli­beralismo – dice Foucault – non si pone sotto il segno del lais­sez-faire, bensì sotto il segno di una vigi­lanza, di un’attività e di un inter­vento perma­nente. Dunque, uno stato sotto la sorveglianza del mer­cato, an­ziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato. Ciò che nella specifica temperie di fine anni ’70 era anche finalizzato a mettere in que­stione lo ste­reotipo di un “modello tedesco” totalita­rio, anziché ispirato a quella go­vernamentalità neoliberale che – secondo il filosofo fran­cese –, a partire dal secondo dopoguerra, si era am­pia­mente diffusa, dalla Fran­cia gi­scardiana agli Stati Uniti (pur, in questo caso, su di un terreno già predisposto).

Poi, ci si può chiedere se l’ordoliberalismo come dottrina, con le sue molte sfac­cettature, possa effettivamente aiutare a “fondare”, per così dire, nascita e sviluppo della biopolitica. Lo storico potrebbe sollevare problemi diversi e considerevoli, ine­renti non solo all’intera e complessa tradizione della Wirtschaftspolitik tedesca, ai le­gami espliciti o alla semplice subordinazione silenziosa dell’ordoliberalismo degli anni Trenta nei confronti del Nazismo (penso al bel lavoro di Dieter Haselbach), ma potrebbe anche esprimere non pochi dubbi circa i modi in cui Foucault interpreta Keynes. O, meglio, non lo interpreta, adottando, sostanzialmente, cliché a tratti imba­razzanti. Ma ciò era funzionale a un’idea davvero importante: quella di governa­mentalità. Piaccia o meno.

Alla quale – vengo ora alla prima parte della domanda – è funzionale, allo stesso modo, quanto tu osservi circa la “demoltiplicazione della forma-impresa”, la quale costituisce, all’interno del corpo sociale, la posta in gioco della politica neoliberale. Si tratta di fare del mercato, della concorrenza, e dunque dell’impresa, quella che Foucault chiama la puis­sance de la société, la quale poggia sulla molteplicità e la dif­ferenziazione delle imprese – ossia, degli indi­vidui, imprenditori di se stessi, e delle dise­guaglianze che li caratterizzano. Ovviamente, più que­sta mol­tiplicazione si svi­luppa, più l’azione go­vernamentale è forzata a lasciar corso a que­sto moltiplicarsi, più le fri­zioni aumen­tano; tuttavia, sulla base di una premessa forte e chiara: non si governa a causa del mercato, ma per il mercato.

Non sarà necessario dire che per Foucault ciò non prefigura un modello di Wirt­schaftsordnung in quanto tale; significa “solo” che l’individuo è (costretto ad essere) imprenditore di se stesso. E a tal fine egli afferma che l’homo oeconomicus a cui l’ordoliberalismo guarda non è l’homme de l’échange, ma l’homme de l’entreprise, non il consuma­tore, ma l’imprenditore. Affermazione che può sembrare falsa, qua­lora si abbia a mente quanto Walter Eucken intende per Wettbewerbs­ord­nung. E tut­tavia, di nuovo, non è propriamente così – a patto, ovviamente, che si interroghi la lettura “autorale” di Foucault come una riscrittura (come si interroga il Nietzsche di Heidegger), utile a comprendere una bio-politische Ordnung, non l’oggetto di cui il filosofo francese è incidentalmente interprete. Di qui in poi, certamente, il termine biopo­litica ha iniziato a significare … “troppe cose”. È divenuto un mot-clé a tratti persino irritante…

 

D.: Vorrei ripartire da una notazione in merito ad una delle sfaccettature del com­plesso prisma ordo-liberale, per estendere la sollecitazione al più generale campo della critica dell’economico. Mi riferisco cioè alla questione della differen­ziazione sociale, dei margini della sua autentificazione in termini di verità, natural­mente fon­data e realmente legittimata.

Volgendo lo sguardo alla cultura politica e teorica marxista, il perno fondamen­tale che lega insieme piano epistemologico e prassi politico-trasformativa è quello del disvelamento, dello “scarto” tra realtà e mistificazione. Credo sia questa una questione decisiva; mi pare che lo spazio di questa declinabilità sia contenuto tra due operatori speculari: un massimo di valutatività soggettiva (penso ad alcune componenti della vicenda operaista) e un massimo di descrittivismo fun­zionalistico – e qui si potrebbe tentare un parallelo paradossale, ma forse non del tutto sperico­lato, tra alcuni linguaggi marxisti particolarmente ”deterministici” e la predilezione programmatica di Foucault per il modo di funzionamento del potere, più che per gli oggetti specifici presi all’interno di questa relazione.

Lungi dal fare una mappatura complessiva della questione, per quello che per­tiene soprattutto il retroterra teorico di un’azione politica, come giocano questi due fattori nella composizione di una teoria critico-trasformativa ? La relativa crisi delle teorie critico-trasformative è imputabile in qualche misura ad un complessivo assor­bimento di queste nell’orizzonte teorico a-valutativo (sociologizzante, descrittivo, etc.) a scapito del momento demistificante?

 

R.: Il Marx leggendo il quale anch’io sono cresciuto era certamente un Marx dia­let­tico – non vi si sottraeva affatto l’operaismo. Diverso sarebbe il discorso se si do­vesse discutere di quale rapporto con Hegel si trattasse – ma non è questo ad essere qui d’interesse, credo. Interesserebbe forse più ragionare di filosofie del sospetto, della menzogna della “realtà”; ma anche in questo caso si sposterebbe la questione qui essenziale. Che è, per Marx, l’arcano della forma merce, la quale rimanda agli uo­mini, come in uno specchio, i caratteri sociali del loro proprio lavoro come se essi fossero caratteri oggettivi (gegenständliche Charaktere), proprietà sociali naturali, in modo che il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo diviene un rapporto sociale tra cose. Sin qui Marx, poi cominciano i marxismi. La distinzione da te pro­posta ha un suo sostanziale fondamento; la ritrovi, ad esempio, entro la breve storia di “Quaderni rossi” – determinismo a parte, però. Con il quale, del resto, non vedo possibilità alcuna di stabilire un legame con l’analisi foucaultiana dei poteri. Ancor­ché si sia voluto vedere in Foucault un esponente del grande strutturalismo francese, di determinismo non mi pare possibile parlare. Proprio il fatto di interrogare più le relazioni che non gli oggetti rende impensabile un tale sospetto.

Va poi detto, in generale, che un certo funzionalismo è stato molto utile per com­prendere le cose. E anche per svolgerne una critica non più solamente filosofica. La migliore sociologia italiana è stata indispensabile per la formazione politica di più di una generazione tra anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Il secolo scorso è però termi­nato con una sconfitta secca di ogni pensiero che avesse nel (non)-lavoro un riferi­mento critico-sociale. Eppure, l’arcano della forma merce ha lo stesso valore verita­tivo, ma non c’è un soggetto che se ne appropri – o forse dovrei dire che possa farlo (quantunque questo “sguardo” sia irrimediabilmente “occidentale”). Resta la critica, non c’è trasformazione: meglio, le trasformazioni avvengono dall’alto. E anche la critica è così depotenziata. Più che di sociologizzazione, però, parlerei di eticizza­zione. Che è molto peggio.

 

D.: Per concludere, prenderei spunto da un dettaglio del tuo discorso per toccare un ultimo punto. Parlavi, infatti, di una secca sconfitta di ogni pensiero che abbia avuto nel (non)-lavoro un riferimento critico-sociale. Non voglio tornare sull’alternativa tra lavoro e non-lavoro, tra liberazione del lavoro e liberazione dal lavoro, che ha avuto un ruolo importante nelle discussioni interne alle diverse sini­stre. Il punto che mi interessa è piuttosto il fatto che, mentre perdeva posizioni sul piano della realtà, negli ultimi decenni il lavoro ha simultaneamente perso impor­tanza anche sul piano della critica. Penso ad esempio al modo in cui la critica del consumismo o della mercificazione (che tende per altro ad assumere i tratti del di­scorso ‘etico’ di cui parlavamo poco sopra) ha contribuito a spostare l’attenzione dal piano della produ­zione a quello della circolazione. Penso anche, per fare un al­tro esempio, al dibattito sul “reddito di cittadinanza”. Ti volevo dunque chiedere quale sia lo spazio che bi­sogna riconoscere al lavoro in un discorso sul rapporto tra antropologia e politica: in quale modo gli sconvolgimenti che hanno avuto luogo in questo campo (la preca­rizzazione, certo, ma anche la disoccupazione o la sotto-oc­cupazione di massa) hanno contribuito non solo a produrre una nuova antropologia, ma anche all’emergenza di nuove forme – spesso discutibili – della critica? Ed è poi vero che dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva? 

 

R.: Spesso si è parlato e si parla di fuoriuscita dalla società del lavoro, intendendo con essa un vero e proprio mutamento antropologico, oltre che sociologico. Niente di più vero, ma anche di più contraddittorio: è mutata la tipologia del lavorare, entro una globale divisione inter­nazionale del lavoro; sono mutati i tipi di subordinazione e le forme di reddito ad essi legate; in molti casi il processo lavorativo si è interamente “cognitivizzato” e/o “fe­minilizzato”, etc. Bene, comunque sia, né il lavoro si è libe­rato, né ci si è libe­rati dal lavoro. Anzi. Il concetto foucaultiano di biopolitica trova qui un fruttuoso impiego nella lettura post-operaista, in particolare, ove si ragiona di “vite messe al lavoro”. Qui sorge altresì un paradosso, perché nel momento in cui il re è nudo – o, come spesso si dice, quando la sussunzione reale diviene sussun­zione di un’intera vita messa al lavoro –, il lavoro sembra scomparso dagli schermi. Si in­vocano, certa­mente, alcune buone ragioni per ricordare come il quadro sociolo­gico sia profonda­mente mutato. Già agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, il Censis coniò l’espressione “famiglia lunga”, per dar conto della capacità di assorbi­mento della vecchia struttura nei confronti del sovver­timento del mercato del lavoro. Nel corso di trent’anni, le cose sono notevolmente cambiate – in peggio. Inizial­mente, le spinte alla fuoriuscita dalla società del lavoro erano per lo più determinate dagli esiti di un ventennio di lotte sociali; poi venne l’automazione (il LAM a Mira­fiori), etc.

Il lavoro non ha affatto perso importanza sul piano della realtà, perché si lavora diversamente ma non meno; in luoghi e spazi diversi, spesso “senza orario” e senza tutele: né presenti, né future. Ha invece perso il ruolo che aveva rispetto alla “cri­tica”. Si potrebbe dire – se il termine non fosse notoriamente ambiguo – che non è più “rappresentabile”. Di sociologia (non sempre buona) della precarizzazione ce n’è sin troppa, ma spesso è solo stanca ripetizione del già molte volte detto. Però, non mi convince affatto la distinzione, anch’essa alquanto vetusta, tra produzione e circola­zione. È un nobile cliché marxiano: ma che significa, oggi? Dovremmo forse ambire a restaurare la scomparsa centralità di un soggetto produttivo (la classe operaia) che, pur massicciamente presente a livello planetario, ha smarrito il “ruolo” liberatorio as­segnatole, starei per dire il proprio “concetto” – occidentale, è bene ricordarlo? Do­vremmo perciò guardare con diffidenza al “reddito di cittadinanza”, perché poco ri­spettoso di un’ideologia lavorista? L’angelo di Ben­jamin: … Das, was wir den Fort­schritt nennen, ist dieser Sturm.

Le forme della “critica” stanno dentro questa tempesta, che ha persino generato una nuova antropologia del precario. C’è addirittura un’estetica della precarizza­zione, ormai. C’è poi un “mestiere della critica”, una “metafisica della critica”, una “critica della cri­tica”, ma senza un soggetto che esprima un’egemonia potenziale. Persino l’operaismo, alla fine, ha do­vuto riconoscere di aver trascurato Gramsci – seppur, in anni tumultuosi, di quell’idea, a torto o meno, non sapessimo che far­cene. Wo aber Gefahr ist,… Mi piace credere che Hölderlin avesse ragione. Ma forse tu pen­savi ad Heidegger …

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