Valerio Carbone
Abstract: Husserl is strongly opposed to the naturalization of consciousness. Any kind of reductionism is for the philosopher a shame. Krisis explain how science was born as the realization of the human spirit and how the gradual development of technical disciplines brought to a stronger and stronger abstraction from the physical world. For this reason, the problem of going back to the origin is fundamental, a problem that, however, overlaps with that of going back to experience. To go back to experience, to the feeling, to the beginning, means then to consider the empathic matrix of things. The perceptive knot, for Husserl, is always tied to the rational one: from this perspective the question of whether sciences are good or bad becomes an ethical debate. In redefining the problem of the “bad” in terms of “empathy”, the psychologist Baron-Cohen tried to investigate why some people become able to commit cruelties. The “empathic erosion” is defined then as a kind of “disease of perception”, which could develop because of emotions, feelings and thoughts that corrode, for exemple the desire for revenge, the feeling of resentment, hatred, fear, etc. The intuition of the connection between erosion and “transformation of people into objects” is a classical philosophical problem though: the husserlian problem of inter-subjectivity. When our empathy turns off there is no Other, there can be no inter-subjectivity. When our empathy turns off – as for example happened to the Nazi scientists – then exists only the world of the “I”, of a consciousness exposed only to the world of intentional exclusivity of subject-object. In this state we can relate only to people as transformed into things. The Lebenswelt is then set aside, abandoned to the logical and yet cold reasons of scientific technicism.
Abstract: Husserl si oppone strenuamente alla naturalizzazione della coscienza. Qualsiasi tipo di riduzionismo è per il filosofo oltraggiosa. Krisis spiega come la scienza sia nata in quanto realizzazione dello spirito umano e come la progressiva tecnicizzazione metodica delle discipline abbia portato a una graduale astrazione dal mondo fisico. Per questo rimane fondamentale il problema del ritorno all’origine, che non a caso coincide con il ritorno all’esperienza. Ritornare all’esperienza, al sentire, al patire significa pertanto riconsiderare la matrica empatica delle cose. Il nodo percettivo, in Husserl, è sempre legato a quello relazionale: in questo la questione sulla bontà o meno delle scienze assume una visione etica. Ridefinendo infatti il problema del “male” in termini di “empatia”, lo psicologo Baron-Cohen ha voluto esaminare perché alcune persone diventino capaci di crudeltà. L’”erosione empatica” è definita come una specie di “malattia della percezione” che può svilupparsi a causa di emozioni, stati d’animo o ragionamenti corrosivi, come il desiderio di vendetta, il portare risentimento, l’odio cieco, la paura, eccetera. L’intuizione del legame fra erosione di fondo e “trasformazione delle persone in oggetti” è però un classico problema filosofico: il problema husserliano dell’intersoggettività. Quando la nostra empatia è spenta non esiste l’altro e non può esserci intersoggettività. Quando la nostra empatia è spenta, – come accaduto, ad esempio, agli scienziati nazisti, – per noi esiste il solo modo dell’“Io”, di una coscienza che si espone al mondo nell’esclusività intenzionale del soggetto-oggetto: in tale stato, ci possiamo rapportare soltanto alle cose o alle persone trasformate in cose. La Lebenswelt è così messa da parte, tra parentesi, abbandonata alle “ragioni” logiche ma fredde del tecnicismo scientifico.
La psicologia scientifica si vuole scienza oggettiva e sistematica, che dunque può essere sottoposta a verifica e falsificazione. La ricerca psicologica limita le possibilità che le informazioni acquisite possano basarsi su delle convinzioni personali, su opinioni o stati d’animo. Si basa inoltre sul metodo scientifico, quell’approccio tipicamente galileiano che permette di ottenere informazioni accurate e che si articola schematicamente nelle seguenti quattro fasi: 1) la concettualizzazione del problema, 2) la raccolta di dati tramite l’osservazione, 3) la compilazione di conclusioni oggettive (ipotesi e teorie), quindi 4) il controllo dei risultati emersi dalla ricerca e la verifica compiuta dell’intera teoria.
Lo “scienziato della natura”, alias lo psicologo, opera infatti – dirà Husserl – una modificazione del suo sguardo al fine di eliminare astrattivamente l’intero strato dei significati culturali, come anche tutto ciò che sembra rimandare alla mera soggettività. Quest’astrazione operata dalla scienza è tuttavia legittima dal momento in cui esistono dati e regole proprie riguardanti il puro manifestarsi di questo strato dell’esperienza. Tra le strutture della nostra esperienza spirituale e le concettualità di cui si servono le scienze vi è comunque un parallelismo (Natur und Geist, 1927). Pur tuttavia “natura” e “spirito” corrispondono, per il filosofo, a due differenti ambiti di esperienza e si radicano in quelle che Husserl definisce “due ontologie regionali differenti”: alla base della natura sta il concetto di “causalità”, alla base dello spirito quello di “motivazione” (Idee II, p. 177).
Questi due ambiti dovrebbero non confondersi come invece stava accadendo, ai tempi, nella prospettiva della psicologia obiettiva.
Quando di fatto Wilhelm Wundt fondò a Lipsia il primo laboratorio di psicologia sperimentale (1879), il suo intento fu quello di applicare il metodo delle scienze della natura alla speculazione sull’umano[1]. Si trattava di un laboratorio in cui si continuarono a studiare i medesimi problemi che da anni venivano indagati nell’ambito della fisiologia. Eppure l’importanza della ricerca di Wundt stava nel fatto di aver stabilito, per la prima volta, l’indipendenza istituzionale della psicologia, “scienza dell’esperienza umana immediata”, rispetto alle altre scienze biologiche. Nonostante questo primato, lo psicologo di Manheim non fu propriamente un innovatore: egli seppe piuttosto sistematizzare, all’interno della sua immensa opera, – gli Elementi di psicologia fisiologica (Grundzüge der physiologischen Psychologie), la cui prima stesura è del 1873-74, – quelle concezioni e tutti i risultati di carattere vagamente psicologico emersi sia nel passato sia nell’epoca a lui contemporanea nell’ambito di discipline tanto distanti quanto la filosofia e la fisiologia, l’etica e l’evoluzionismo darwiniano.
Husserl si oppone strenuamente alla naturalizzazione della coscienza. Qualsiasi tipo di riduzionismo è per il filosofo oltraggiosa.
Già nel primo volume delle Idee difatti scrive: “L’esistenza della natura non può condizionare l’esistenza della coscienza, poiché la natura stessa si rivela essere un correlato di coscienza ed esiste solo in quanto si costituisce in connessioni soggette a regole” (p. 127). All’interno della Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (postuma[2]), come vedremo, il discorso diventa assai più preciso.
Se si seguisse pedissequamente l’ideologia positivista e il discorso proprio delle scienze, secondo Husserl si finirebbe appunto per considerare la nostra esperienza prescientifica (quella che fa capo al mondo-della-vita) come l’espressione di un fuorviante soggettivismo. Il Positivismo insiste sul fatto che la realtà autentica sia soltanto quella offerta dal pensiero obiettivo delle scienze naturali. Ciò equivale ad affermare che l’esperienza ci restituisce soltanto la parvenza del mondo, mentre la scienza ne determina il vero essere. Questa falsificazione è definita da Husserl “obiettivismo moderno” e riproduce il delirio di onnipotenza del paradigma scientifico del tempo: l’idea che il mondo sia un ordine geometrico senza riferimento all’esperienza.
Non a caso il fenomenologo costata come anche la scienza sia nata come la realizzazione dello spirito umano (Crisi).
La “crisi” cui fa riferimento il titolo dell’opera è la crisi stessa della spiritualità europea. Husserl menziona a più riprese l’abisso in cui la cultura del vecchio continente sembra essere caduta negli ultimi decenni: catastrofi militari, sociali, economiche e politiche, di fronte alle quali la scienza non riesce più a fornire una risposta di senso convincente. Non si tratta, dunque, di una critica all’efficacia tecnica delle scienze europee, né ai risultati raggiunti dal progresso tecnologico: se di crisi delle scienze si può parlare, il fallimento del paradigma scientifico è in relazione al senso che la scienza dovrebbe rivestire per la stessa esistenza umana.
Così Husserl, pur non accettando l’irrazionalismo antiscientista e il relativismo filosofico di alcuni suoi allievi (pensiamo a Heidegger), si scaglia parimenti contro l’ideale scientifico propugnato dal Positivismo: la riduzione della scienza a mera indagine sui fatti, un’indagine metodologica che esclude qualsivoglia riflessione sul tema dirimente della soggettività e dunque del rapporto io-mondo. Gli scienziati, dal momento in cui sono diventati esperti specialisti da laboratorio, dal momento in cui hanno costretto la ragione a una semplice esposizione delle ovvietà matematiche dell’evidenza, hanno decretato l’incontrovertibile tralignamento della funzione storica e antropologica del logos occidentale, manifestatosi originariamente nella razionalità teleologica della filosofia greca. Il Positivismo di fatto decapita la filosofia, alienando dalla ragione quella funzione pratica ed emancipativa che essa dovrebbe sempre impersonare ai fini dell’esistenza umana. È una questione di telos: la scienza non può realizzarsi che in una progressiva auto-comprensione, in una chiarificazione delle proprie possibilità e dei propri limiti.
A questo tema specificatamente filosofico è dedicata la prima sezione dell’opera (§§ 1 – 7), – ricavata da una conferenza che Husserl tenne a Praga nel 1935, – La crisi delle scienze quale espressione della crisi radicale di vita dell’umanità europea:
Adottiamo come punto di partenza il rivolgimento, avvenuto allo scadere del secolo scorso, nella valutazione generale delle scienze. Esso non investe la loro scientificità bensì ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l’esistenza umana. […] Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso e del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso. […] La mera scienza dei fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto (pp. 35-36).
La critica al “vuoto obiettivismo” delle scienze europee porta Husserl a ragionare riguardo a un sapere che, nella sua stessa pretesa di scientificità, palesa un che di paradossale. La psicologia, infatti, non soltanto figura ai suoi occhi come una nemesi perfetta della nascente fenomenologia, piuttosto riproduce l’ennesima provocazione della metodicità scientifica. Semplice a dirsi, poiché il contenuto di questa “scienza paradossale” non è mai riducibile alla semplice obiettivazione: l’oggetto del suo studio è verosimilmente un oggetto non oggettuale, siccome riguarda un contenuto mentale soggettivo[3]. Pertanto, – insiste Husserl, – qualunque tentativo di ridurre i dati psicologici a verità scientifiche obiettive ed evidenti, finirebbe per snaturare gli stessi contenuti presupposti dall’autentica analisi psicologica, invalidandone, di fatto, i risultati.
La medesima analisi, – che aveva portato alcuni pensatori quali Comte e Wundt (quest’ultimo criticato esplicitamente da Husserl nella terza parte della Krisis) a negare alla psicologia il rango di scienza, – è invece funzionale al discorso husserliano riguardo alla fondazione-legittimazione di una psicologia filosofica e fenomenologica. Pertanto Husserl, nella seconda parte dell’opera in questione, L’origine del contrasto moderno tra obiettivismo fisicalistico e soggettivismo trascendentale (§§ 8 – 27), e poi ancora nei paragrafi della sezione B della terza parte, La via d’accesso alla filosofia trascendentale fenomenologica a partire dalla psicologia (§§ 56 – 73), rivendica la distanza incommensurabile sussistente tra l’obiettivismo scientifico, – all’interno del quale include pure la scienza “inesatta” della psicologia moderna, – e l’approccio fenomenologico alla coscienza, l’unico sistema autenticamente psicologico (siccome idoneo a rivelare la natura trascendentale e intenzionale degli atti psichici).
Occorre ricordare quanto la riduzione eidetica e quella trascendentale, in Husserl, non soltanto si spendano nel rendere possibile un’analisi non empirica e non psicologica della soggettività e dell’esperienza, ma come esse occorrano altresì per distinguere i vari campi dell’essere, cioè dire quelle “ontologie regionali” che rappresentano le diverse regioni della realtà che a loro volta le diverse scienze (e i diversi punti di vista) cercano di determinare teoreticamente. Per questo Husserl è fortemente interessato a proporre un’opera di chiarificazione dei concetti e tra i concetti, come pure tra l’ambito predicativo-scientifico e quello antepredicativo-esperienziale. Tuttavia la riduzione alla legge di causalità era allora preponderante e minacciava sempre maggiormente le cosiddette “scienze dello spirito” [Geisteswissenschaften]. Soltanto i neokantiani, tra i filosofi accademici, si opponevano dichiaratamente a tale riduzionismo. La loro opposizione era però conforme a un mero ordine metodologico. Per Husserl, la questione si radica invece molto più nel profondo e sottende delle differenze strutturali, di ordine ontologico. “A partire da quale modo di apparizione dei fenomeni una scienza dello spirito può legittimamente darsi? – si chiede. – Che tipo di esperienza è la nostra esperienza della natura?”. E ancora: “Che tipo di esperienza riesce a darsi nello psichico?”. Secondo Husserl, infatti, la scienza naturale può sorgere solo sulla base di un’idea essenziale della natura che si costituisce nella coscienza, in un’appercezione fondamentale che “determina preliminarmente che cos’è l’oggetto delle scienze naturali e che cosa non lo è, e quindi determina che cosa è natura e che cosa non lo è nel senso delle scienze naturali” (Idee II, p. 7). Il fenomenologo va alla ricerca delle strutture fondamentali, di quelle strutture che ci permettono di comprendere le differenze oggettive interne al loro modo di darsi. Cioè dire: il fenomenologo intercetta le connessioni essenziali di vissuti puri, e questo perché la fenomenologia – in quanto ‘filosofia prima’ – è quel terreno originario su cui fioriscono tutte le evidenze di ordine ontologico.
Il mondo dell’esperienza (antepredicativa) rappresenta, secondo la prospettiva fenomenologica husserliana, un a-priori cui sono legate e l’intera costruzione mentale e la fondazione di qualsivoglia scienza obiettiva naturale (siccome le scienze sono pur sempre delle manifestazioni umane)[4].
Non a caso la seconda parte della Krisis (§§ 8 – 27) si apre con una lunga investigazione genealogica mediante la quale Husserl rintraccia le origini della scienza moderna nella proposta normativa galileiana. Con il metodo sperimentale si attua una vera e propria “matematizzazione simbolica della natura”, in cui per la prima volta la realtà viene ricondotta a una complessità geometrico-matematica. L’affermazione di Galileo secondo cui Dio avrebbe scritto le leggi di natura in simboli matematici è evidentemente un’affermazione rivoluzionaria, – conferma Husserl, – un’affermazione che lava via, in un solo colpo di spugna, la vecchia geometria euclidea e l’idea stessa che le scienze matematiche siano applicabili solamente a situazioni circoscritte e a possibilità determinate.
Ora, secondo la prospettiva della fisica moderna, ogni corpo è percepibile soltanto in quanto “corpo geometrico ideale”, cosicché pure il concetto di spazio non potrebbe essere concepito se non attraverso la forma geometrica cui inerisce.
La natura restituiteci dalla scienza è allora diversa dalla natura immediatamente intuibile, quella della Lebenswelt, del mondo-della-vita; è piuttosto una formazione storica, un modello di mondo obiettivo e misurabile, seppure svuotato di senso, un universo razionale idealizzato entro cui la nostra spiritualità si fonda, entrando però in crisi. Il vertice della rivoluzione scientifica – il punto più alto toccato dalla razionalità occidentale – ha paradossalmente significato, per Husserl, l’inizio stesso della crisi dell’umanità europea. Per questo Galileo viene definito “un genio che scopre e insieme occulta”:
Galileo, lo scopritore della fisica e della natura fisica – oppure, per rendere giustizia ai suoi predecessori: colui che aveva portato a compimento le scoperte precedenti – è un genio che scopre e insieme occulta. Egli scopre la natura matematica, l’idea metodica, egli apre la strada a un’infinità di scopritori e di scoperte fisiche. Egli scopre, di fronte alla causalità universale del mondo intuitivo, ciò che da allora in poi si chiamerà senz’altro (in quanto sua forma invariante) legge causale, la “forma a priori” del “vero” mondo (idealizzato e matematico), la “legge della legalità esatta”, secondo la quale qualsiasi accadimento della “natura” – della natura idealizzata – deve sottostare a leggi esatte. Tutto ciò è una scoperta e insieme un occultamento, anche se fino ad oggi l’abbiamo considerato una pura e semplice verità (pp. 81-82).
La progressiva tecnicizzazione metodica delle scienze ha dunque portato a una graduale astrazione dal mondo fisico: dalla matematica pura, – concretamente legata alle cose, – si è passati quindi alla matematica delle intuizioni pure, al riduzionismo simbolico, alle formule vuote di senso che ipostatizzano il proprio sistema, adattando al mondo-della-vita un abito ideale ben confezionato, quello delle cosiddette verità obiettivamente scientifiche[5].
Per questo, per Husserl, rimane fondamentale il problema del ritorno all’origine, che non a caso coincide con il ritorno all’esperienza e a quel mondo immediato in cui gli esseri umani vivono e in cui le cose accadono.
L’a-priori universale (il mondo dell’esperienza pura) comprende al suo interno un a-priori estetico-trascendentale (che produce il sentimento del mondo) e un a-priori analitico-trascendentale (che riproduce la struttura analitica del mondo e il suo carattere di varietà matematica definita). “Ciò che per la scienza naturale è la costruzione di una cosa, a partire dalle molecole e dagli atomi, è già in ogni modo prefigurato, come possibilità, nella cosa intuitiva, in quanto una cosa è possibile in quanto aggregato di cose connesse secondo un vincolo causale” (Idee II, p. 54). Esiste dunque un’esperienza diretta della natura: è una forma di coscienza antepredicativa su cui si basa ogni sapere della natura. La scienza idealizza e astrae (per Husserl sono due cose differenti), allontanandosi progressivamente dalle prime evidenze dell’intuizione.
Vincenzo Costa ci ricorda che, secondo Husserl, i grandi a-priori che interessano e determinano l’ontologia della natura sono quattro. Essi sono: 1) la spazio-temporalità, 2)lo stile induttivo, 3) la probabilità oggettiva e 4) la causalità[6]. Se qualcosa esiste, deve infatti occupare un luogo nello spazio e un punto nel tempo. Senza spazio-temporalità non esisterebbero né la fisica, né le scienze matematiche. Tuttavia, nella nostra esperienza quotidiana, la natura non è limitata agli oggetti disposti nello spazio-tempo. Noi la esperiamo come qualcosa dotato di uno stile induttivo, di una certa coerenza e regolarità. La problematizzazione della natura, – com’è tipico del metodo sperimentale, – passa attraverso l’attesa e la previsione. Questo stile induttivo appartiene allo stesso modo di darsi della natura, cioè alla nostra esperienza di essa, alla sua determinazione ontologica. La fisica diventa fenomenologia Þ La forza dell’attesa, dell’induzione immediata cresce dunque in virtù del continuo riempimento delle attese precedenti. Il peso di una credenza cresce con l’affermarsi della coscienza di una regola.
Così Husserl scriveva infatti all’interno delle Lezioni sulla sintesi passiva: “Se un qualsiasi oggetto (a) – un suono, per esempio – si dà in una continua fusione di nuove fasi impressionali, se in questo divenire originario vi è dunque il decorso, che corrisponde a certe condizioni essenziali, di un collegamento continuo, allora è immediatamente co-presente un orizzonte di futuro, cioè un orizzonte di attesa” (p. 246). E ancora: “In base a ciò che è avvenuto e che in quanto tale è cosciente ritenzionalmente, dobbiamo “attenderci” che giunga qualcosa di nuovo dello stesso stile” (p. 246)[7].
Come detto, esiste un’esperienza diretta della natura, una forma di coscienza antepredicativa su cui, storicamente, sono stati poi costruiti tutti i saperi e tutte le scienze naturali. Il fenomenologo ha allora il dovere morale d’intraprendere un’opera di chiarificazione, un’investigazione a ritroso (oggi diremmo una reverse engineering[8]) per ricercare il senso originario delle attività umane, perduto nella trasmissione storica. Lo scopo è di evitare quella “tradizionalizzazione passiva” (Vincenzo Costa) che compromette le generazioni umane e che le trascina, mediante il linguaggio e la comunicazione, in uno stato di crisi.
Husserl sa che tutti i messaggi, i valori, le tradizioni possono essere veicolati e accolti anche in modo passivo, senza che nessun senso scaldi cioè il cuore degli esseri umani. Le parole possono diventare codici, regole, procedure incapaci di riattivare il proprio significato originario. La “crisi” è appunto questa reiterazione di segni passiva che dimentica l’origine, il telos, il proprio significato profondo. Così anche la ragione europea, – alienando il senso delle sue origini greche, – finisce per fraintendere se stessa, ponendosi come una mera ragione strumentale capace solo di misurare, matematizzare, sistematizzare il reale, senza più comprenderlo.
Il discorso sulla famosa Appendice III della Krisis s’inserisce esattamente a tal proposito. Husserl dimostra infatti come questo processo di progressiva astrazione del senso non avrebbe potuto compiersi – e non potrebbe compiersi in futuro – senza la diffusione del linguaggio, senza cioè la praticità dell’operare per segni e, dunque, senza la corrispettiva riproduzione di opere scritte (disegni geometrici, modelli algebrici, eccetera) e l’abituale trasmissione delle conoscenze acquisite.
Come tutti i prodotti culturali nati dal lavoro umano, esse rimangono obiettivamente conoscibili e disponibili anche senza che la formazione del loro senso debba venire esplicitamente rinnovata; in base a un’incarnazione sensibile, per es. attraverso la lingua e la scrittura, esse vengono colte appercettivamente e trattate operativamente. In modo analogo fungono i “modelli” sensibili, tra i quali rientrano in particolare quei disegni che durante il lavoro vengono continuamente schizzati sulla carta (p. 56).
Questa teoria linguistica – l’idea che il segno possa custodire (o misconoscere) il significato oggettivo e originario di una qualsiasi conoscenza e, semmai, tramandarlo nel rimando ideale a esso – è tanto affascinante quanto problematica.
Da una parte infatti Husserl sembra ritornare ai medesimi assunti di un piccolo testo scritto in età giovanile (Semiotica o Sulla logica dei segni – ndr – del 1890 è completamente incentrato sull’idea del rinvio); d’altra parte, però, appare chiaro come questo “sogno panlinguistico e intersoggettivo” rechi in sé un inestricabile paradosso siccome l’affascinante praticità dell’operare per segni sottende, di fatto, anche la corrispettiva distanza che il segno mantiene dal proprio significato. Come a volere ribadire: la crisi non è qualcosa di accidentale ma in questo modo diventa una condizione umana imprescindibile e inevitabile.
Pertanto, seppure accettassimo la versione husserliana di un’umanità definita “comunità entropatica e linguistica” (p. 387), – se insomma rivedessimo la medesima essenzialità simbolica dell’ambiente-mondo per com’è declinato all’interno dell’Appendice III, – come potremmo parimenti immaginare che un ritorno all’origine, al logos depurato, al telos della ragione greca[9], coincida con il superamento della crisi? In altre parole, se la crisi è data proprio dalla simbolizzazione e dall’allontanamento del senso, come possiamo contemporaneamente affermare che il senso viene tramandato intersoggettivamente in maniera simbolica? È evidente che qui, non soltanto due ordini del discorso sono entrati in conflitto, ma che l’unico modo per dirimere la faccenda sarebbe quello d’affermare la costitutiva insuperabilità di quella stessa crisi di senso che Husserl vorrebbe invece oltrepassare[10]. Naturalmente l’incompiutezza, la struttura eterogenea e la non sistematicità dell’opera non ci sono d’aiuto, come non ci sono d’aiuto le cattive interpretazioni rispetto all’ultimo Husserl.
L’incarnazione nella lingua, – si parla di Sprachlieb, “corpo linguistico” (Crisi, p. 384), – mediante cui il senso profondo, il mondo-della-vita, si trasmetterebbe storicamente e universalmente nell’orizzonte di una co-umanità intersoggettiva e intergenerazionale attraverso la comunicazione e la scrittura, rimane così l’ideale ingiustificato dell’ultima parte di quest’opera capitale. Ciò nonostante l’Appendice III, – nota anche come Origine della geometria, – è una sezione ricca di suggestioni e di spunti importanti che hanno ispirato, tra le altre, le riflessioni di pensatori quali Jacques Derrida (proprio sul tema della scrittura[11]) e Maurice Merleau-Ponty (riguardo al “significato gestuale”).
Nonostante tutte le difficoltà del caso, è però utile rilevare come in quest’Appendice III, Husserl risolva il nodo fondamentale dell’origine: la geometria funge qui, nell’economia del testo, da particolare-universale per la riscoperta della prassi nativa e costitutiva della scienza in generale. La geometria – sottolinea Husserl – si presenta a noi come una tradizione ereditata di cui tuttavia ignoriamo quotidianamente l’atto fondativo. Il vero filosofo-chiarificatore non deve però limitarsi nell’indagare questo problema da un punto di vista storico-filologico, non deve cioè compilare l’ennesima storiografia di grandi matematici; bensì ha il compito d’individuare il senso stesso – originario e ideale – della geometria (qui nell’esempio) per come si è manifestato storicamente e per com’è stato finora trasmesso.
Infatti il senso della geometria è stato incarnato primariamente da un’operazione spirituale, un intento intrapersonale, una chiara realizzazione all’interno della soggettività del suo primo inventore.
Eppure l’operazione spirituale che costituisce l’inizio della geometria, – sebbene avvenuta nella soggettività individuale, – rappresenta un trascendimento del soggetto: l’esistenza della stessa non è un’esistenza di ordine psichico, piuttosto qualcosa di obiettivamente valido, un’obiettività ideale data una sola volta “per chiunque”. Per questo la geometria è sempre la stessa, in ogni lingua, in tutte le sue possibili traduzioni e, in quanto formazione culturale (ideale), essa è sempre linguisticamente esprimibile.
La questione centrale del testo è appunto quella che concerne il passaggio dell’idealità geometrica dalla sua origine intrapersonale nello spazio coscienziale dell’anima del primo inventore alla sua obiettività ideale.
Il grimaldello di Husserl è abbastanza efficace: questo passaggio avviene per mezzo della linguisticità umana, attraverso la quale, come visto, l’idealità s’incarna nel suo corpo proprio linguistico. Proprio il linguaggio rappresenta allora la stessa condizione di possibilità della scienza, giacché senza un’esprimibilità linguistica qualsiasi formazione culturale rimarrebbe imprigionata nell’orizzonte psichico del suo primo “inventore”.
Come sappiamo, per Husserl, nell’esistenza del mondo possiede sempre un particolare rilievo l’orizzonte costituito dagli altri esseri umani (siano essi presenti, passati o futuri). La lingua in generale rientra appunto in quest’orizzonte, nell’orizzonte costituito dalla co-umanità:
L’umanità che costituisce per ogni uomo l’orizzonte del noi, è per lui la comunità di una possibilità di pronunciarsi in un modo che normalmente è del tutto comprensibile; e in questa comunità può parlare di ciò che obiettivamente essente nel mondo circostante della sua umanità. Tutte le cose hanno un nome, tutte le cose sono, in un senso vasto, denominabili, sono cioè esprimibili linguisticamente (pp. 385-6).
La lingua disegna l’ambiente-mondo condiviso, poiché nomina le cose del mondo. L’obiettività si costituisce nella comprensione linguistica vicendevole, nella comunicazione relazionale, mediante cui il prodotto originario e l’atto di produzione possono essere compresi attivamente e continuamente riprodotti (in una specie di rimemorazione archetipica e metafisica). Questa stessa obiettività, di primo acchito, sembra essere però vincolata all’attualità della comunicazione di una determinata collettività immersa in una specie di “giuoco linguistico”. Eppure è la possibilità stessa della scrittura – siccome comunicazione virtuale – a permetterci di superare i limiti del nostro mondo, e così le relative forme di vita: la scrittura permette infatti l’obiettivizzazione risolutiva, la massima autonomia dalla soggettività, poiché perpetua quell’orizzonte comunitario in maniera universale e intergenerazionale[12].
L’idealità, potremmo dire, non riesce a liberarsi mai del tutto se non incorporandosi all’interno di un segno.
Mediante la registrazione scritta si attua, tuttavia, una modificazione del modo d’essere originario: nelle proposizioni geometriche, difatti, l’evidenza geometrica si sedimenta e il lettore può renderla di nuovo evidente. Ma il senso sedimentato, che dunque può essere riattivato in qualsiasi momento, corre il rischio di non esserlo affatto e cadere in questo modo nella disgrazia dell’oblio. Il segno scritto, – ma a questo punto anche il linguaggio tout court, – diventa pertanto il luogo stesso della crisi[13].
Perché il senso possa essere adeguatamente riattivato, è quindi compito dello scrittore – avverte Husserl – cadenzare bene le parole, sceglierle con cura. Una responsabilità non soltanto contenutistica, ma anche formale:
Attraverso un controllo dell’univocità dell’espressione linguistica e di quei risultati che vanno espressi univocamente, attraverso una scelta accurata delle parole, delle proposizioni, dei nessi verbali. È un compito che incombe ad ogni singolo […] Ciò inerisce dunque alla peculiarità della tradizione scientifica e all’ambito della corrispondente comunità degli scienziati, la quale è una comunità conoscitiva che vive nell’unità di una responsabilità comune (p. 389).
La scienza non dovrebbe pertanto costituire un’eredità in sé compiuta, – nella forma di proposizioni documentate e di complessi grammaticalmente unitari, – piuttosto riconoscersi come una “formazione di senso vivente e produttivamente progressiva”, che dispone di risultati già acquisiti da amministrare e tramandare eticamente.
L’irriducibilità dell’etica al segno linguistico, alla fredda scrittura della logica, al logos scientifico costituisce la donazione di senso più preziosa di un grande altro pensatore del tempo: Ludwig Wittgenstein[14]. Rimandando alla nota la considerazione su ciò che la scienza – e il linguaggio scientifico – può dire o non dire secondo il genio di Wittgenstein, vorrei riprendere il filo di Husserl sotto un altro punto di vista, e ragionare su alcune implicazioni etiche sottese al discorso fenomenologico, utili per delineare, finalmente, una teoria compiuta dell’empatia [Einfühlung] e dell’intersoggettività[15].
Cavalcherò ora la suggestione di questo crinale etico interno alla fenomenologia avvalendomi delle considerazioni di Simon Baron-Cohen[16], psicologo accademico ed esperto di problematiche concernenti lo spettro autistico, che in questi ultimi anni ha saputo bene ridefinire il nodo dell’empatia riprendendo temi ad alto contenuto filosofico.
Nella sua prima opera importante, L’autismo e la lettura della mente (1995), Baron-Cohen risolve i problemi dell’autismo nelle difficoltà empatiche, presentando una definizione cognitiva dell’empatia. Il lavoro che a noi maggiormente interessa, però, è il più recente La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà (2011) in cui i risultati scientifici sono avvalorati da rilevanti considerazioni di valore etico.
Ridefinendo il problema del “male” in termini di “empatia”, Baron-Cohen esamina perché alcune persone diventino capaci di crudeltà, e lo fa indagando il modo in cui una perdita del naturale sentimento empatico abbia inevitabilmente questa conseguenza. “I nazisti avevano trasformato gli ebrei in paralumi”, – è questo l’esordio shock del testo, – ciò significa, nondimeno, da un punto di vista squisitamente filosofico, trasformare le persone in oggetti. Il primo discorso intenzionale (quello tipicamente brentaniano), come sappiamo, sottende una naturale predisposizione della mente a “parlare” tramite gli oggetti, marcando l’incommensurabile distanza soggetto-oggetto all’interno del processo conoscitivo. Franz Brentano, da cui l’indagine fenomenologica dello stesso Husserl prende primariamente spunto, presenta un sistema psichico assai più inflessibile di quello che tenterà di costruire il suo allievo filosofo. Il “protopsicologo” di Boppard, infatti, stabilisce che tutti i fenomeni di coscienza sono intenzionali e che dunque soltanto l’intenzionalità caratterizzi in maniera essenziale, specifica e definitoria l’ambito del coscienziale[17]. Non perdiamo di vista questo punto.
Alcuni scienziati nazisti – continua Baron-Cohen – avevano condotto particolari “esperimenti d’immersione” allo scopo di studiare le forme estreme dell’adattamento umano. Naturalmente quegli scienziati si erano avvalsi di ebrei e di altri detenuti prelevati dal campo di concentramento. Furono ricerche del tutto immorali, è evidente, rese però possibili dal fatto che quei professionisti, non necessariamente sadici e crudeli per natura, avessero saputo “spegnere” i naturali sentimenti di compassione per un altro essere umano che soffre. Ciò che quegli scienziati avevano perso di vista nei loro esperimenti così crudeli era proprio l’umanità dei loro soggetti[18], quella soggettività[19] sacrificata al bene superiore della ricerca medica. È questo il tema hegeliano del riconoscimento.
Il grande ideale della razionalità illuministica (Adorno–Horkheimer docent) è la stessa ragione biecamente strumentale che Husserl condannava ai tempi della Crisi. È stato un male estremamente banale quel male che ha contraddistinto le più grandi tragedie della storia dell’umanità[20].
Parlare dell’insolubile problema del male in termini fenomenologici è forse un azzardo. Proviamo, tuttavia, – seguendo il ragionamento di Baron-Cohen, – a sostituire il termine “malvagità” con il concetto di “erosione empatica”. L’erosione empatica è una forma di “malattia della percezione” (definizione mia) che può svilupparsi a causa di emozioni, stati d’animo o ragionamenti corrosivi, come il desiderio di vendetta, il portare risentimento, l’odio cieco, la paura, eccetera. Non è un volo pindarico della psicologia, neppure un vezzo delle scienze cognitive: l’intuizione del legame fra erosione di fondo e trasformazione delle persone in oggetti – fa presente ancora Baron-Cohen – risale al filosofo austriaco (poi naturalizzato israeliano) Martin Buber, non a caso un campione dell’intersoggettività.
Buber pubblica il suo libro più famoso nel 1958. Il testo, L’io e il tu, contrappone il modo di essere-nel-mondo tipico della relazione autentica Ich-Du (Io-Tu, per l’appunto) al modo strumentale Ich-Es (Io-Esso). Se dunque il primo modo mette in relazione il soggetto con un’altra persona considerata kantianamente come “fine in sé”, il modo Io-Esso mette in campo un rapporto esclusivamente strumentale, in cui il soggetto si confronta con un’altra persona o con un oggetto per usarli in vista di qualche scopo. Quando la nostra empatia è spenta non esiste l’altro e non può esserci intersoggettività. Quando la nostra empatia è spenta, – come accaduto agli scienziati nazisti, – per noi esiste il solo modo dell’“Io”, di una coscienza che si espone al mondo nell’esclusività intenzionale del soggetto-oggetto: in tale stato, ci possiamo rapportare soltanto alle cose o alle persone trasformate in cose. La Lebenswelt è così messa da parte, tra parentesi, abbandonata alle circonvoluzioni del solipsismo.
La ragione strumentale – quella scientifico-calcolante per intenderci – detiene comunque un primato pratico. Quando infatti una persona è focalizzata sul perseguimento dei propri interessi, quando è concentrata soltanto sulle proprie azioni, essa si trova potenzialmente in uno stato di scarsa empatia. Non per questo diventa malvagia. Nella migliore delle ipotesi vive in un mondo tutto suo; in ogni caso non ha attenzione per il mondo-della-vita. Vive di rappresentazioni, di segni, di oggetti da modellare nel modo più efficace e produttivo. È questo, tuttavia, uno stato transitorio e propedeutico per la realizzazione dei propri obiettivi specifici. Non c’è niente di sbagliato, altrimenti neppure le Ricerche filosofiche e tutta la pragmatica del “secondo Wittgenstein” avrebbero motivo di esistere.
Baron-Cohen ci dice che esiste empatia“quando smettiamo di focalizzare la nostra attenzione in modo univoco (single-minded), per adottare invece un tipo di attenzione “doppia” (double-minded)” (p 13). Perché focalizzare la propria attenzione “in modo univoco” significa prestare attenzione soltanto alla propria mente, ai propri pensieri e alle proprie percezioni; mentre un’attenzione “doppia” indica la compresenza dell’altro-in-quanto-tale all’interno della propria prospettiva[21].
Essere in grado di entrare in empatia significa essere in grado di comprendere con precisione la posizione dell’altra persona, identificarla con un “dove si trova” […] L’empatia evita il rischio di fraintendimenti e di problemi di comunicazione, consentendo di capire che cosa potrebbe intender l’altra persona (pp. 15-16).
L’empatia è ancora – per Baron-Cohen – la capacità d’identificare ciò che qualcun altro sta pensando e provando, e dunque di reagire ai quei pensieri e ai quei sentimenti con un’emozione rispondente e appropriata. Questo ci indica come nell’empatia convivano sempre due momenti fra loro interconnessi: il riconoscimento e la risposta[22]. Anche nella tradizione fenomenologica, – pensiamo a proposito alle riflessioni di Alfred Schütz sulla Lebensformen o della stessa Edith Stein riguardo al concetto d’immedesimazione, – l’empatia è vissuta, del resto, come una “sintonizzazione percettiva” della coscienza. Al tempo stesso, – come vedremo, – un atto empatico è una “pura esperienza intersoggettiva”, la consonanza di uno stare al mondo. Torniamo a Husserl: “Tutto ciò che vale per me, vale anche, a quanto ne so, per tutti gli altri uomini, che mi sono alla mano nel mio mondo circostante. Sperimentandoli come uomini, li comprendo e li accetto come “io”, quale io sono, e riferentisi ciascuno al suo mondo circostante naturale: in maniera tale però che concepisco il loro e il mio mondo circostante come un solo e medesimo mondo oggettivo, che si diversifica soltanto nel modo con cui giunge alla coscienza di ciascuno di noi. Con tutto questo, noi ci intendiamo con i nostri simili e poniamo assieme una realtà oggettiva spazio-temporale, quale nostro comune mondo esistente, a cui noi stessi apparteniamo” (Idee I, p. 61).
Di fatto, contrariamente a Baron-Cohen e alla prospettiva della psicologia contemporanea, la fenomenologia – proprio in quanto “scienza” squisitamente filosofica – vede nell’empatia un evento che non riguarda esclusivamente la vita (psichica ed emotiva) tra conspecifici. Il nostro Husserl conosceva personalmente lo psicologo renano Theodor Lipps e aveva letto le sue opere sul godimento estetico. A parere di quest’ultimo, in effetti, gli atti empatici si radicherebbero all’interno di un romantico, arcaico e immediato stare al mondo, quasi rappresentassero l’intima propaggine di un richiamo estetico all’unità perduta, “una risposta disarmata alla moltitudine di lacerazioni psichiche cui l’esistenza costringe gli individui” (Lucantoni, 2013). Il sentimento estetico estende il mito dell’empatia, e dunque il meccanismo neurofisiologico dell’empatizzazione-immedesimazione, all’atteggiamento proprio di un essere umano percipiente. Come accade tutt’oggi, – analizzeremo le posizioni del neuroscienziato indiano Vilayanur Subramanian Ramachandran, – anche all’epoca di Husserl e della fenomenologia, esistevano studi incrociati tra la psicologia e la storia dell’arte.
Nell’anno 1906, ad esempio, un Lipps già lontano dallo spettro cocente dello psicologismo dà alla luce un’opera fondamentale (Ästhetik. Psychologie des Schönen und der Kunst), in cui tenta di spiegare il modo rispetto al quale la contemplazione dell’oggetto d’arte, nella sua forma essenziale, richieda sempre la com-partecipazione emotiva dell’osservatore sotto forma di “giustapposizione mimetica della propria postura corporea”. Lipps spiega quest’atteggiamento plastico-mimetico nell’esempio di uno spettatore che si ritrova a fissare una colonna reggente un architrave, e che viene dunque indotto all’immedesimazione: allo stesso modo della colonna, quell’osservatore accentuerà inconsapevolmente la propria stazione eretta per sopportare la pressione di un analogo, fantasmagorico architrave. Quest’idea di un corpo plastico-mimetico-percipiente è la nemesi (non ancora fenomenologica) del corpo geometrico-ideale proposto dalle Naturwissenschaft.
Naturalmente i successivi sviluppi della psicologia dell’empatia vedranno un radicale e progressivo distacco dalle posizioni “romanticheggianti” di Theodor Lipps. Lo psicologo tedesco spingerà infatti la sua tesi sull’immedesimazione in una direzione molto criticata[23]® Quando un io si trova correlato in un atto empatico con un altro io, – parafrasando Lipps, – cioè dire, quando un io intenziona con estrema pienezza il vissuto altrui, potrà accadere che i confini della soggettività originale si disciolgano sino a venire meno, e che l’io intenzionante si fonda completamente nell’io intenzionato, dando luogo a una vera e propria unipatia percettiva[24]. Vedremo come per Husserl, l’empatia si risolva piuttosto in una “presentificazione” dell’altro.
L’immediatezza fenomenologica dell’esperienza empatico-percettiva, – sia essa relata al vissuto di un conspecifico, oppure declinata secondo un’estasi mondana, – si contrappone in ogni caso alla mediatezza artificiale delle scienze (europee) della natura. Concludiamo questa stravagante panoramica sulle “scienze del male” restituendo nuovamente la parola al nostro Husserl.
Come detto, uno dei grandi a-priori che determinano l’ontologia della natura è la spazio-temporalità; un altro è la causalità. Riprendiamo questo punto. Se qualcosa esiste, di fatto, occorre che quella cosa esista in un luogo dello spazio e un punto del tempo. Questo perché la natura si trova nello spazio, occupa una posizione e ne riempie una porzione con la sua estensione. Inerisce inoltre alla sua essenza la possibilità stessa della quiete o del moto, non prescindendo neppure dalla dipendenza alle circostanze che, di fatto, caratterizza ogni tipo di corpo materiale (geometrico-ideale). Secondo la “reverse engineering” della fenomenologia, la ragione del pensiero scientifico si sarebbe edificata rispetto a quelle “strutture dell’apparire” dell’ontologia della natura materiale stessa secondo cui la condizione di possibilità di una cosa reale consisterebbe nell’essere originariamente posta in connessioni causali con tutte le altre cose dell’ambiente circostante. Pertanto la fisica rappresenta la scienza per antonomasia, l’incarnazione perfetta di quest’ontologia: soltanto la fisica, infatti, cerca di determinare in maniera matematicamente precisa tutte quelle connessioni causali che i corpi intrattengono all’interno di un dato ambiente. Le scienze della natura, – fin dagli albori della civiltà europea, – si sono sviluppate nella misura in cui hanno saputo cogliere questo modo di essere della natura (finché hanno elaborato e raffinato dei metodi sempre più precisi per conoscere quelle cose) senza presupporre, allo stesso tempo, il principio ontologico rilevatisi nella nostra esperienza pre-scientifica del mondo.
Le scienze, tuttavia, non si sono sempre limitate a proseguire e a sviluppare le indicazioni reperite dall’esperienza, perché spesso hanno dimenticato l’esperienza, assoggettando il mondo e la vita al tecnicismo dei propri linguaggi specialistici, burocratici e procedurali. Nelle scienze della natura emergerebbe dunque un aspetto idealizzante, astrattivo e al tempo stesso costruttivistico, capace di proiettare sul mondo dell’esperienza un vestito vuoto fatto di fantasmi a forma d’idea[25]. Se dunque è vero che tra scienza ed esperienza esiste un salto, una discontinuità pura e strutturale, – una diversa “ontologia regionale”, come c’insegna Husserl, – è egualmente vero che troppo spesso questa discontinuità è sfociata, all’interno di quel fiume carsico che è la storia, in una frattura netta: una crisi di senso.
Perché il linguaggio – in quanto logos – non sarebbe quel male assoluto che queste scienze, corrotte e distratte, ci vogliono restituire in tempo di crisi: il Linguaggio esprime sempre, di per sé, le medesime strutture dell’esperienza antepredicativa.
La vita degli esseri umani, ovvero di quegli esseri viventi contraddistinti dalla linguisticità[26], si distingue dalla vita di tutti gli altri esseri viventi proprio per la discorsività logica del pensiero. Come dire: perché l’essere umano sa di vivere. È questa l’interpretazione patosofica di Aldo Masullo che, a riguardo di Husserl, cita spesso il verbo greco “páskein” (una delle cui radici è “path”). “Páskein” significa appunto “vivere”. Ma a differenza di altri verbi greci che specificano per lo più il “vivere fisicamente” o il “vivere in senso biologico”, “páskein” indica un “vivere” in senso transitivo. Indica cioè la vita come “capacità di provare, avvertire, prendere consapevolezza”. Vivere l’esperienza. Infatti “path” è anche radice di pathos, cioè patimento, ma non nel senso ordinario (e cristiano) di dolore, piuttosto in quello più ampio del provare. Masullo contraddistingue così il termine “paticità”, come capacità propria dell’essere umano. Paticità è appunto vivere provando, vivere assaporando, vivere godendo. La parola stessa “filosofia” – continua ancora Masullo – deriva non a caso da “sofos”, letteralmente: “colui che annusa, che assaggia, che sa distinguere i sapori e gli odori”. Di fatto, proprio da questa capacità di distinguere odori e sapori, – e di metterli in relazione fra loro, – nascerebbe il logos, la Logica, il pensiero nella sua forma più sviluppata. Non si può quindi tentare di conoscere l’uomo (e le sue manifestazioni) se non partendo dalla presa d’atto dell’esperienza quotidiana. Questo è anche il senso – ancora secondo Masullo – della stessa fenomenologia husserliana[27], sebbene nel suo limite cartesiano. L’ipoteca è quella del sempre citato cogito ergo sum: una costruzione metafisica che ha il compito di mettere al riparo da tutte le altre metafisiche, – eccolo il “senso antimetafisico” husserliano non colto da Derrida, – come da ogni prodotto ideologico diverso, interessandosi esclusivamente al pensare, alla mera coscienza-in-atto, insomma a una “logica della conoscenza”.
La fenomenologia possiede allora una ragione storica precisa, un compito costitutivo, una missione e un senso filosofico profondo (che Husserl dichiara sin dalla Quarta ricerca logica). Siccome ‘scienza rigorosa’, e in quanto ‘filosofia prima’, la fenomenologia ha il dovere morale di sapersi contrapporre a tutte le “scienze del male”, – come mi sono divertito ad apostrofarle sulla falsariga del testo di Baron-Cohen, – riconducendo cioè le forme logiche del pensiero e del linguaggio alle medesime strutture da cui sono nate originariamente e che sono state in seguito obliate dal finto progresso della tecnica.
[1] Le teorie psicologiche wundtiane sarebbero oggi del tutto improponibili, soprattutto a causa della loro spiccata componente spiritualistica: quel “volontarismo” che si sottrae a un’indagine scientifica capace di falsificarlo. Per Wundt, tutti i processi psichici umani passano attraverso una progressione di quattro fasi specifiche: 1 – la stimolazione; 2 – la percezione, ovvero il passaggio dalla sensazione all’esperienza psichica; 3 – l’appercezione, cioè dire la fase durante la quale l’esperienza cosciente viene identificata e sintetizzata nella mente (circa 0,1 secondi secondo gli esperimenti wundtiani sui tempi di reazione). L’ultima fase del processo (4) è il cosiddetto “atto di volontà”, connotato da libero arbitrio e vissuto come serie di stati d’animo organizzati in una specifica successione temporale. La questione delle associazioni mentali – che sottende l’intero processo conoscitivo – Wundt la eredita dichiaratamente dall’associazionismo della filosofia empirica anglosassone. Dalla psicofisica di Weber e Fechner, come anche dagli studi sul metodo sottrattivo dei tempi di reazione (Helmhotz e Donders), Wundt eredita invece i metodi di misurazione. Ma la vera innovazione presente nella sua opera è propriamente il principio che sarà poi basilare per le future sistematizzazioni psicologiche: il cosiddetto principio del “parallelismo psicofisico”, principio secondo cui i processi mentali e i processi fisici di un organismo sono sempre paralleli ® I primi non causano i secondi, né viceversa; al contrario: a un cambiamento degli uni corrisponde sempre un cambiamento anche degli altri. Così, anche se da un lato Wundt vuole contrapporsi alla tradizionale psicologia introspezionistica di derivazione hobbesiana, – che insiste nel mettere gli eventi mentali in relazione diretta a stimoli oggettivamente misurabili, – egli finisce per conferire all’introspezione stessa la qualifica di metodo scientifico psicologico privilegiato. Per la stesura di questa nota ho utilizzato il testo di Paolo Legrenzi Storia della psicologia (1980).
[2] La Krisis raccoglie una serie d’appunti su cui Husserl lavorò tra il 1935 e il 1938. Il manoscritto principale (§§ 1 – 73) risale probabilmente al biennio 1936-37 e l’occasione della sua prima stesura è da considerarsi la rielaborazione dell’intervento tenuto alla conferenza del Wiener Kulturbund dal titolo La filosofia nella crisi dell’umanità europea (Vienna, 7 maggio 1935). Malgrado questo, anche se i primi ventisette paragrafi videro la via della pubblicazione già nel 1936, il resto dell’opera (la terza sezione, le tre dissertazioni e le ventinove appendici) comparirà soltanto tra il 1938, – anno della morte dell’autore, – e il 1954, dopo un accurato lavoro di sistemazione da parte di Eugen Fink, prima allievo e poi collaboratore del filosofo. In precedenza, le prime due sezioni dell’opera (§§ 1 – 27) furono pubblicate nel primo volume della rivista “Philosophia” a Belgrado, poiché a Husserl, in quanto ebreo, era da tempo inibita qualsiasi possibilità di pubblicazione nella Germania nazista. Già dal 1935, anno della promulgazione delle leggi di Norimberga, al fenomenologo viene revocata l’autorizzazione all’insegnamento e negata la possibilità di partecipare a qualsiasi associazionismo filosofico. Viene presto proibita anche la diffusione delle sue opere, costringendo l’autore a un triste isolamento culturale che lo accompagnerà sino alla morte.
[3] Ancora nella seconda parte della Krisis, Husserl dedica alcuni importanti paragrafi a Cartesio: difatti, il pensatore francese, – pur rimanendo impigliato nella disgiunzione tra res cogitans e res extensa, – rimane il primo filosofo ad aver ripercorso il problematico dualismo tra oggettivismo e soggettivismo coscienziale. Vedremo come Galileo, considerando l’universo in base alla geometria, o meglio in base a ciò che appare sensibilmente (ed è perciò matematizzabile), aveva astratto qualsivoglia ambito spirituale dal calcolo scientifico. Quest’astrazione ha quindi preparato il campo al dualismo filosofico inaugurato da Cartesio: se la natura scientificamente razionale è ridotta a un mondo di corpi geometrici, allora il mondo-in-sé della sfera psichica non può che scindersi dalla medesima corporalità del soggetto. La caratteristica dell’obiettivismo, infatti, è quella di muoversi all’interno di un mondo già dato dall’esperienza, e di perseguire l’ovvietà delle verità evidenti, ciò che è incondizionatamente valido per ogni essere razionale; il trascendentalismo psicologico afferma invece che il senso del mondo-della-vita si costituisce in una qualche dimensione prescientifica e ha una verità in sé esperibile ma non evidentemente dimostrabile. Queste due tendenze s’incarnano nel pensiero di Cartesio. Cartesio, in effetti, pur concependo la sua filosofia come “matematica universale”, nelle Meditazioni metafisiche (1641), – proprio nel proposito d’investigare i fondamenti radicali del razionalismo, – avvia una riflessione che soverchierà il senso nascosto dell’obiettivismo: la delucidazione dell’ego cogito, quale fondamento immediato e apodittico della conoscenza. Qualsiasi passaggio epistemologico, secondo quest’assunto, non può che giungere, del resto, all’evidenza dell’io. Paradossalmente, ciò che Cartesio mette in atto è un’inconsapevole epoché scettica, che pone in questione l’universo delle precedenti convinzioni scientifiche, legittimando la validità del mondo-della-vita a prescindere da qualsiasi asserzione obiettivistica: Se io sospendo le prese di posizione rispetto all’essere o al non-essere del mondo, se mi astengo da qualsiasi validità d’essere che si riferisca al mondo, con quest’epoché non mi è negata qualsiasi validità d’essere. Io, io che opero l’epoché, non rientro tra i suoi oggetti. […] Io sono necessariamente, perché sono colui che la opera (p. 105). Secondo Husserl, tuttavia, Cartesio fraintende la scoperta della dimensione trascendentale della coscienza. Difatti egli “abiura” la propria epoché, definendo il mondo-della-vita una mera “sostanza pensante”, e non accorgendosi perciò che essa rappresenta il presupposto universale del darsi di ogni fenomeno. In Cartesio prevalgono dunque gli interessi obiettivistici. Così la psicologia viene presto declinata secondo il naturalismo fisicalistico dell’ordine geometrico (Locke, Leibniz, Spinoza, ecc.). Eppure le scepsi di Berkeley e di Hume riescono nuovamente a riqualificare il motivo egotico cartesiano: Cartesio era ancora distante dal pensare che l’intero mondo potesse essere un cogitatum costituito dalla sintesi universale di cogitationes molteplici e fluenti; Berkeley e Hume, scagliandosi contro i modelli della razionalità, contro la matematica e la fisica, e riducendo dunque ogni attestazione scientifica a un’accessoria funzione psicologica, si pongono invece, per la prima volta, nella prospettiva trascendentale. A questo punto Kant non può che rendersi conto, attraverso lo stesso Hume, dell’abisso che si pone tra le pure verità di ragione e l’obiettività metafisica: le cose appaiono siccome dati sensibili, ma si presentano alla Ragion-pura tramite delle forme critiche a priori. Kant, insomma, riconverte la soggettività conoscitiva quale sede originaria di ogni formazione di senso obiettiva, radicalizzando così qualsiasi egotismo. La sovraordinazione kantiana dell’intelletto rispetto al momento percettivo-intuitivo, l’estrema valorizzazione dell’io-legislatore quale donatore di senso per il mondo circostante e l’impossibilità di un’autocoscienza e di una riduzione del soggetto a “fenomeno” decretano, in ogni caso, il fallimento del criticismo trascendentale.
[4] Per questo Husserl insiste nel ritornare all’esperienza, nell’immergersi sempre e nuovamente in quel mondo in cui tutti (compreso lo scienziato) viviamo.
[5] (§ 9) Husserl individua tre momenti storici determinanti per l’emersione della matematizzazione tipica della scienza moderna: [1] la costituzione della geometria nell’antica Grecia che ha permesso una prima idealizzazione dei corpi mediante la rappresentazione simbolica (il punto, la retta, ecc.); [2] l’applicazione delle operazioni di misurazione alla realtà fisica (che ha astratto i corpi dalla propria effettualità); [3] la compiuta aritmetizzazione della geometria (la mathesis universalis di Leibniz) che concretizza così la misurazione di tutte quelle variabili fisiche invisibili o astratte.
[6] “Qualsiasi essere ha un’estensione temporale; ha una propria durata, e si articola, saldamente, insieme con la sua durata, nel tempo obiettivo” (Idee 2, p. 32).
[7] Per questo punto e le relative citazioni dalle opere husserliane ho utilizzato il già segnalato testo di Vincenzo Costa: la monografia Husserl (Carocci Editore).
[8] Se decidessimo di sommare il numero ‘1’ e il numero ‘3’, il risultato sarebbe evidentemente ‘4’. Questo conteggio, talmente banale, rappresenta una semplice operazione “progettata in avanti” (forward engineering). Se invece qualcuno ci portasse soltanto il risultato (sempre ‘4’) dicendoci di averlo ottenuto sommando due numeri interi, e se poi noi volessimo scoprirne gli addendi originali, la questione si dimostrerebbe paradossalmente di difficile risoluzione. Quando infatti si va “all’indietro”, alla ricerca di una “possibile” soluzione (reverse engineering) se ne ritrova sempre più di una. ‘4’, infatti, può essere il risultato di due somme ‘2 + 2’ oppure ‘1 + 3’ (o addirittura – considerando anche l’ordine degli addendi – ‘3 + 1’): qual è quella giusta? Le scienze dell’uomo sono sistematicamente costituite da problemi mal definiti, e questo perché la natura (di cui l’uomo fa parte) ci mostra spesso, solamente il punto di arrivo ma non le operazioni che lo hanno progressivamente determinato. La fenomenologia – in quanto opera di chiarificazione del senso originario – sembra essere pensata e costruita, in questo senso specifico e rispetto al metodo, dallo stesso Husserl come un’antesignana perfetta delle moderne scienze cognitive. Per la stesura della presente nota, cito e ringrazio il testo di Paolo Legrenzi, Prima lezione di scienze cogntive (2002).
[9] Il rivolgimento greco è stato contraddistinto dalla rottura verso il precedente vivere diretto e ingenuo nel mondo. L’atteggiamento mitico primitivo (che aveva preceduto la razionalità filosofica dei Greci) è infatti caratterizzato dall’identificazione tra il proprio mondo con la verità. Al contrario, ciò che caratterizza la coscienza filosofica alla sua origine in Grecia è, secondo Husserl, l’indagine stessa di una verità cosmologica assoluta, valida per tutti. Questa grande rivoluzione “ha prodotto” l’Occidente, dove l’atteggiamento mitico, per la prima volta, è venuto meno. L’Occidente ha scoperto la differenza tra la rappresentazione del mondo e il mondo reale (Crisi, p. 344). Per i Greci, infatti, la verità non è un dato ma un fine da raggiungere e verso cui tendere. Ciò che però caratterizza la razionalità occidentale è proprio la pretesa di universalità degli enunciati, il che conferisce “a qualsiasi verifica fattuale e a qualsiasi verità il carattere di una mera approssimazione, riferita appunto all’orizzonte infinito” (Crisi, p. 366-7). Allo stesso tempo, tuttavia, quest’eterna tensione teleologica ha decretato la stessa autoreferenzialità della ragione, il fatto che tutto debba essere sempre giustificato discorsivamente per avere legittimità universale (valori, morali, universo, Dio, eccetera). La coscienza teleologica dell’Europa è sempre una “coscienza di mancanza” (secondo la definizione di Vincenzo Costa). Secondo Husserl, la causa del fallimento di una cultura razionale non coincide però nell’essenza stessa del razionalismo (il criticismo) ma nella sua manifestazione più esteriore e superficiale: il naturalismo, il razionalismo strumentale, l’obiettivismo. È chiaro come la critica del filosofo sia ancora rivolta verso la psicologia scientifica, la fisiologia e le scienze della natura che impongono l’ordine causale, non rispettando, in questo modo, lo Spirito umano, il suo senso, il suo telos, il suo destino. Eppure il filosofo riesce facilmente a cadere in contraddizione dicendo che solo nell’umanità europea si è “rivelata quell’entelechia che è propria dell’umanità come tale” (Crisi, p. 44). L’eurocentrismo husserliano risulta, infatti, inadeguato e spesso stucchevole, oltre che terribilmente naïf. Certamente Husserl crede in un’umanità sola, singola e armonica, eppure vede ancora nell’Europa (non in senso geografico ma storico) il “luogo di senso” privilegiato. L’umanità è unica e universale, per questo la comunicazione fra le diverse culture mondane – con tutti i limiti e le problematiche sopra descritte – rimane fondamentale per il senso intersoggettivo di qualsiasi esperienza. I limiti di un linguaggio non possono certamente significare limiti del mondo. C’è comunicazione (e contaminazione reciproca) – insiste costantemente Husserl – dal momento che ci si riconosce fenomenologicamente (dunque intuitivamente, empaticamente, immediatamente) in quanto esseri umani, corpi vivi percipienti che abitano uno stesso ambiente-mondo condiviso. Ponendosi a confronto con qualsiasi altra, ogni cultura si modifica; così le culture si trasformano a vicenda entrando in una storicità di ordine superiore. Anche l’Europa, – o, se preferiamo, lo spirito europeo incarnato primordialmente nella Grecia, – venuto a contatto con le altre culture della sua epoca e poi con le culture successive, ha modificato la sua storia singolare sino ad avviare un processo elettivo all’interno della Grande storia universale. Viviamo sempre in un mondo fattuale circoscritto, tuttavia, in quanto “effetti della fondazione greca”, siamo guidati da un ideale universale che eccede i singoli mondi storici: l’“europeizzazione”, l’ideale di un’“Europa allargata” (Crisi, p. 333) è il senso dell’impostazione – poco convincente – dell’universalismo husserliano che rischia di assottigliarsi nell’ennesima bieca globalizzazione “da uomo occidentale”. Ciò che invece rimane valido, a mio avviso, è l’idea fenomenologica che sta alla base del ragionamento Þ Affinché non si perda il senso della storia (che è poi il senso stesso dell’umanità, dell’uomo inteso sempre come fine e mai come mezzo) occorre avvertire quando una ripetizione passiva di segni stereotipati e tradizionali produce un occultamento dell’apertura originaria. La fenomenologia trascendentale si configura allora come un esercizio umano privilegiato, una sana abitudine filosofica, l’unica terapia atta alla riscoperta del senso profondo del mondo, contro il rischio dell’oblio, della crisi, della spersonalizzazione. Ringrazio gli spunti e le riflessioni di Vincenzo Costa, fondamentali per la stesura di questa nota.
[10] Sembra che l’unica “soluzione” plausibile sia costatare come il “senso” si debba tramandare unitamente alla sua crisi, giacché la trasmissione sarebbe possibile soltanto nella concretazione del segno. Il linguaggio, – appiattito nell’ordine comunicativo dell’indicazione segnica, – rappresenterebbe pertanto il luogo canceroso di qualsiasi crisi del senso. Sarebbe dunque contraddittoria la presunta pretesa husserliana di uscire dalla crisi rimanendo all’interno di un orizzonte linguistico.
[11] Introduction à “L’origine de la géométrie” de Edmund Husserl, 1962; trad. it. di C. Di Martino, Introduzione a Husserl “L’origine della geometria”, Jaca Book, Milano 1987/2008. Ma anche: La voix et le phénomène. Introduction au problème du signe dans la phénoménologie de Husserl, 1967; trad. it. e cura di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book, Milano 1968/2001.
[12]Husserl dà grande importanza al fatto che i nostri saperi siano il prodotto di una tradizione e trasmissione culturale. Tuttavia, – memore dell’atteggiamento fenomenologico della sospensione trascendentale, – è anche consapevole che il rischio più grande dell’essere umano sia quello di assumere pedissequamente e acriticamente qualsiasi assunto obiettivo. Non bisogna perdere di vista il fatto che ognuno debba apprendere i contenuti della propria tradizione senza per questo lasciarsi “sedurre” dalla praticità dei segni. Questo discorso, – che riguarda ogni essere umano nella propria singolarità, – non è immediatamente intuitivo poiché ciascuno esperisce la propria esistenza all’interno di una comunità storicamente formata. Questo passaggio, il salto dal piano soggettivo al piano intersoggettivo-universale, è probabilmente il tema sotteso alla Crisi delle scienze europee, – passaggio accennato esplicitamente soltanto in § 73 e nelle relative appendici XXIV, XXV, XXVI, XXVII e XXVIII, – è il tema della storicità. In effetti, la sedimentazione del significato incarnato nel segno del linguaggio-scrittura, – contenuto specifico dell’Appendice III, – richiama già di per sé l’idea di un’entelechia universale della soggettività. L’idea della storia che interessa Husserl non è infatti la historia rerum gestarum, bensì il punto di vista intenzionale: la dimensione temporale a noi più prossima, il presente; non però il presente quotidiano, piuttosto la Lebenswelt presentificata dalla riduzione trascendentale, il presente vivente in cui svelare la rimemorazione del senso. Per questo, l’essere umano (europeo-occidentale) raccontato dalla Krisis non può che immergersi nell’immanenza della propria entelechia, quel fine incarnato nella razionalità del mondo greco antico cui necessariamente fa capo: riscoprire cioè il valore e la funzione regolativa del logos. Fare della fenomenologia una ‘filosofia della storia’, – evitando allo stesso tempo qualsiasi idealismo e, per quanto possibile, di scadere in un gretto universalismo kantiano, – significa, anzitutto, per Husserl, rendere la storia “percepibile” [wahrnehmen ® prendere il vero], riconoscendo al suo interno l’autodatità costitutiva dei fenomeni, e di conseguenza chiarificare la propria “missione” individuale. È un compito che parte dal soggetto. Il dovere morale di ognuno, in effetti, non è mai quello di ereditare delle proposizioni, bensì di comprenderle criticamente, interpretarle, evitando così i pregiudizi e operando abitualmente attraverso l’epoché. La storia del mondo nasconde e custodisce le proprie verità, occultando nel segno il proprio senso. Il fine della storia intersoggettiva e universale (ma da realizzare soggettivamente) sarà perciò di rintracciare quel logos velato, discernendolo ermeneuticamente tra le maglie della crisi.
[13] Come già osservato del resto in Semiotik, Husserl è consapevole della pericolosa tendenza insita all’operare per segni: il significante rischia infatti di essere ipostatizzato a discapito del proprio significato. In altre parole, in questa crisi di senso della civiltà europea, Husserl ammonisce riguardo all’attitudine specifica del progresso scientifico, solito a operare con simboli e nozioni ereditati dalla tradizione storica, simboli e nozioni di cui non si rintracciano comunque né il significato né la costituzione. La risultante di questo “progresso” è un uso strumentale della ragione, un’indagine che, – direbbero i francofortesi, – lungi dal considerare kantianamente l’umanità come fine, si manifesta soltanto attraverso il dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura.
[14] La Conferenza sull’etica del 1930 è un documento di rara bellezza filosofica e rappresenta il vertice di tutti i discorsi sull’indicibile fatti dal pensatore austriaco. L’etica era infatti, secondo George Edward Moore, “la ricerca generale su ciò che è bene” (Principia ethica, 1903); così per lo stesso Wittgenstein: “L’etica è la ricerca su ciò che ha valore; o su ciò che è realmente importante, o sul significato della vita, o su ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta, o sul giusto modo di vivere” (p. 7). Tuttavia Wittgenstein, definizioni a parte, non sembra intenzionato a parlare di ciò su cui, – stando almeno alle famose asserzioni conclusive del Tractatus logico-philosophicus (1921), – si deve sempre tacere. Prende parola solamente per ribadire la sua convinzione che dell’etica non si possa proferire, e che l’atteggiamento etico va esperito nel mondo, mostrato nelle pratiche, affidato al silenzio. Come per Husserl, anche per Wittgenstein le parole rimangono semplici strumenti, capaci di contenere e trasmettere significati o informazioni. Le parole denominano i fatti, mentre l’etica permane qualcosa di “sovrannaturale”. Non a caso i concetti dell’etica sono sempre utilizzati in modo assoluto, – fa notare Wittgenstein, – con un riferimento costante alla vita in quanto tale, al mondo in quanto tale. Quest’universalità, tuttavia, urta contro la strutturale contingenza dei fatti mondani, giacché le parole possono sempre riferirsi soltanto alla relatività di asserzioni fattuali. Nondimeno questa frizione decreta il carattere impronunciabile dell’etica: si ripropone cioè, a mio avviso, il medesimo limite (linguistico) delineato nel Tractatus. Tuttavia l’irriducibilità dell’etica al segno linguistico vuole anche significare un limite umano ben più profondo: l’impossibilità di codificare ciò che si può soltanto sentire. Per questo, non può esistere una teoria che legiferi concretamente riguardo all’etica, semmai è l’etica a prevedere una modificazione interna del proprio mondo: una nuova visione delle cose, una condotta che mostri ciò che è in sé impronunciabile, uno sguardo aperto sul mondo-della-vita. L’etica non è mai assimilabile neanche ad alcun assunto scientifico: una spiegazione obiettiva consta sempre di una riformulazione logica, che inerisce all’ambito di ciò che può essere soltanto dimostrato, – e non mostrato, – che è pronunciabile e razionalizzabile. Eppure, anche se tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, – ripete Wittgenstein in un altro passaggio, – i problemi della nostra vita non sarebbero neanche sfiorati. Questo perché lo sguardo delle scienze è uno sguardo esclusivamente calcolante. Vedere il mondo in senso etico significa invece, propriamente, viverlo come un miracolo, cogliere in esso l’esserci del mondo: non come il mondo è, ma che esso è. “Posso certo meravigliarmi che il mondo attorno a me sia così. Se per esempio avessi una tale esperienza mentre guardo il cielo azzurro, potrei meravigliarmi del suo essere azzurro invece che coperto di nubi. Ma non è questo che voglio dire. Mi sto meravigliando del cielo comunque esso sia. Si potrebbe essere tentati di dire che mi sto meravigliando di una tautologia” (p. 14).
[15] È proprio in virtù del concetto di Paarung – e sull’insistenza con cui Husserl tenta di definire le nozioni di “empatia” e “intersoggettività” – che preferisco, nonostante tutto, continuare a utilizzare il filosofo moravo come interlocutore privilegiato per la mia ricerca. In realtà la mia prospettiva fenomenologica sarebbe saldamente imperniata sullo spostamento d’accento merleau-pontiano e sulla corrispettiva fondazione dell’io-posso in luogo dell’io-penso intenzionale. Ciò che comincerà a emergere, – probabilmente già da questo paragrafo che forse avrebbe dovuto prendere il nome di Fondazione fenomenologica dell’etica, – è infatti una teoria pratico-comportamentale e al tempo stesso psichica della fenomenologia percettologica: un’estEtica. Per quanto concerne invece la discussione recente sugli sviluppi relativi all’empatia e all’intersoggettività nella fenomenologia husserliana (e sul tema proprio della Paarung come dimensione preegoica e pretetica) rimando alle opere di Natalie Depraz (Alterity and Facticity, con Dan Zahavi, Dordrecht, Kluwer, 1998; On Becoming Aware: Steps to a Phenomenological Pragmatics, con Francisco Javier Varela e Pierre Vermersch, Amsterdam: John Benjamins, 2003).
[16] Terminato il PhD presso l’University College London sotto la supervisione della neuroscienziata tedesca Uta Frith, Baron-Cohen diviene coautore (nel 1985) di un primo, importante studio che riporta l’autismo a un ritardo nello sviluppo di una teoria della mente e a un certo grado d’incapacità nello sviluppare consapevolezza di cosa possa esserci nella mente di un altro essere umano (incapacità poi definita “mind-blindness”, o “cecità mentale”). L’elaborazione di una teoria della mente da parte del bambino è infatti fondamentale per acquisire la capacità di sostenere interazioni sociali e per lo stesso sviluppo dell’empatia. Nei suoi studi, Baron-Cohen ha dunque teorizzato un’insufficiente “joint attention” (la capacità di condividere le esperienze, osservando oggetti o eventi, oppure seguendo uno sguardo o un gesto di puntamento) come fattore predisponente dell’autismo. È stato quindi il primo a dimostrare il ruolo centrale della corteccia orbito-frontale e dell’amigdala nella teoria della mente. Intorno alla fine degli anni Novanta, sviluppa inoltre la “empathizing–systemizing theory”, teoria secondo la quale il diverso bilanciamento di capacità empatica (preponderante nelle donne) e di sistematizzazione (preponderante negli uomini) permette di comprendere le tipiche differenze psicologiche tra i generi. In quest’ambito, l’autismo (la mente sistematizzante) rappresenta una forma estrema di “cervello calcolante maschile”, con capacità di empatia deficitaria, associata a una capacità di sistematizzazione superiore.
[17] Per Husserl, invece, come vedremo, non tutti gli stati di coscienza sono diretti verso qualcosa. Il che significa che non tutti gli stati di coscienza hanno un contenuto necessariamente intenzionale (pensiamo alle sensazioni). Questo è un grande passo in avanti poiché questa definizione più caratteristica e circoscritta dell’intenzionalità assimila la coscienza intenzionale della fenomenologia a ciò che un qualsiasi filosofo della mente contemporaneo chiamerebbe mente cognitiva o funzionale. Tre sono le caratteristiche che contraddistinguono l’intenzionale: [1] La prima caratteristica è la distinzione fra intenzionalità immanente, o riflessiva, l’autocoscienza, e l’intenzionalità trascendente (nel senso specifico della trascendenza fenomenologica), o conoscitiva. Nella fenomenologia husserliana, il cui metodo sta nel superamento o sospensione dell’atteggiamento naturale mediante la riduzione fenomenologica e l’epoché, la riflessione rimane lo strumento principale che permette il passaggio dall’oggetto naturalisticamente inteso alla dimensione imprescindibile della soggettività. A partire dalle Idee (1914) l’indagine in questione sarà detta noetica (la quale si differenzia invece dall’indagine intesa come noematica che si occupa essenzialmente dell’oggetto-nel-come delle sue determinazioni e dei suoi modi di datità). [2] La seconda caratteristica è la necessaria dipendenza dell’oggetto inteso da un determinato punto di vista e del contesto entro qui l’oggetto è situato. Il contesto include tutte quelle condizioni di sfondo che esercitano nei confronti della coscienza pressione e condizionamento. Senza queste condizioni, il contenuto non potrebbe nemmeno manifestarsi nella sua stessa idealità ed essenzialità. La dipendenza dalla prospettiva e dal punto-di-vista è inoltre, per Husserl, fondamentale poiché diventa lo spunto logico necessario per legittimare il suo passaggio da una fenomenologia solipsistica a una fenomenologia completa o dell’intersoggettività. Ogni percezione, lo sappiamo, rinvia sempre a una continuità, ovvero a molteplici possibili percezioni nelle quali e per le quali un medesimo oggetto mostrerebbe sempre nuovi lati di sé. Ciò che viene percepito, infatti, non esaurisce mai lo sguardo sull’oggetto. È come se l’oggetto dicesse: “Qui c’è ancora qualcos’altro da vedere, girami da tutti i lati, percorrimi con lo sguardo, vienimi più vicino, frazionami”. Nessuna serie percettiva che affonda le radici nei vissuti del soggetto può esaurire il senso dell’oggetto, essendo, virtualmente infinite le prospettive da cui l’oggetto si può guardare. Ecco perché la possibilità del punto di vista, della prospettiva, è ciò che, da un lato puramente logico, apre al confronto con l’altro. Chiaramente la manifestazione che io ho dal mio punto di vista non posso averla da un altro punto di vista: un Altri, che proprio ora si trova in una posizione diversa da me, può avere quella manifestazione che a me manca, che a me occorre per intendere l’oggetto in modo differente. Per questo la consapevolezza di una necessaria “collaborazione” degli altri soggetti alla costruzione della mia esperienza del mondo porta Husserl a rivalutare il fondamento stesso del senso, non più soggettivo ma intersoggettivo. Naturalmente però – ma questo lo vedremo in seguito – per superare la prigione del solipsismo sarà indispensabile il ruolo trascendentale assunto dal corpo (la corporeità) in quanto veicolo empatico di confronto con gli altri. [3] La terza caratteristica dell’intenzionale è infine l’indipendenza della coscienza dall’esistenza degli oggetti cui essa si rivolge. Possiamo, com’è noto, immaginare e presentificare entità che non esistono (la montagna d’oro, la fonte della giovinezza), ma anche percepire oggetti che in realtà non esistono, come si verifica nelle allucinazioni. Porre l’intenzionalità, come fa Husserl, al centro della descrizione fenomenologica, significa anzitutto individuare la radice della coscienza nella sua stessa attività rappresentazionale. Ogni atto è una rappresentazione o fondato su una rappresentazione, questo il presupposto che Husserl e Brentano considerano imprescindibile nell’analisi filosofica. A differenza di quest’ultimo però, Husserl ricerca e stabilisce una stratificazione tra gli stati di coscienza: ai vissuti eidetico-intenzionali, il filosofo affianca vissuti di coscienza iletico-materiali, distinguendo così l’aspetto attivo (costitutivo e formale) – la coscienza che vede, intende e significa – dall’aspetto passivo (recettivo e affettivo) della coscienza stessa. Per questo sarà necessario integrare al concetto di “mente intenzionale” la nozione decisiva di “mente fenomenica”, ci torneremo. Per la stesura di questa nota come per le questioni concernenti il cognitivismo husserliano, ho ampiamente utilizzato i lavori di Roberta Lanfredini.
[18] Tutte le scienze che guardano all’uomo indicano come “soggetti” i loro oggetti di studio, sottintendendo un’attenzione ai sentimenti della persona studiata. Un’ironia sottolineata dallo stesso Baron-Cohen (p. 3).
[19] Da leggersi come la “cavallinità” di Aristotele.
[20] Senza volere entrare troppo nello specifico dell’ennesima questione, qui è palesemente voluto il richiamo al testo capolavoro di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil) del 1963. Del resto, non è un caso che anche il libro di Baron-Cohen si chiuda con un richiamo alla filosofa di Hannover. “Dobbiamo aggiungere che l’espressione “banalità del male” si adatta anche al fatto che decine di migliaia di comuni cittadini tedeschi furono complici dell’Olocausto. Molti di loro non poterono essere successivamente incolpati di crimini di guerra perché svolgevano semplicemente il loro lavoro, eseguivano solo ordini o erano responsabili solo di un piccolo anello della catena. Eichmann e i burocrati suoi pari curarono con il massimo zelo i dettagli dei loro piani di sterminio, come l’organizzazione dei treni che trasportavano gli ebrei ai campi. Eseguivano gli ordini meccanicamente e senza metterli in discussione” (pp. 142-143).
[21] Evidentemente un modo differente per parlare di Paarung (ved.).
[22] Assieme alle colleghe Sally Wheelwright, Bonnie Auyeung e Carrie Allison, il nostro Baron-Cohen è riuscito a sviluppare una scala capace di misurare l’empatia in ciascuna fascia di età (2006). Così è stato realizzato il cosiddetto Quoziente di empatia (qe), che risponde alle due componenti fondamentali del riconoscimento e della risposta. Attraverso il qe sono stati costruiti sette livelli di empatia (0-6), risultati dalla compilazione di 40 item. Il test, fondato esclusivamente sull’autovalutazione, ha permesso di determinare il circuito dell’empatia e il corrispettivo “meccanismo di empatizzazione”. Considerando questi studi, – e avvalendosi soprattutto della risonanza magnetica funzionale (functional magnetic resonance imaging, fmri), – alcuni neuroscienziati si stanno occupando di tracciare un quadro delle aree cerebrali che ricoprono un ruolo centrale quando si entra in empatia.
[23] Zur Einfühlung, in «Psychologische Untersuchungen». Vol. 2. Ed. Th. Lipps. Leipzig: Engelmann, 1913.
[24] Un grande merito del contributo di Michele Lucantoni (Empatia: un ritmo dell’essere, in «Riflessioni sistemiche», numero 8, luglio 2013, Roma) è quello di aver messo in luce le criticità del pensiero di Lipps rispetto alle argomentazioni di una fenomenologia propria dell’empatia. Proprio Lucantoni sottolinea soprattutto come Edith Stein abbia saputo rivolgere delle critiche profonde all’impostazione di Lipps all’interno di quella che fu la sua dissertazione di laurea (un testo oggi conosciuto come Il problema dell’empatia). La fenomenologa riconobbe infatti allo psicologo tedesco il merito di aver colto la centralità dell’esperienza empatica, ponendo l’accento sul carattere precipuo di “esigenza” (p. 81) e sull’oggettività che questa stessa sembrerebbe manifestare. Questo però sembra non bastare per una corretta fenomenologia dell’empatia; così Stein analizza la tesi di Lipps: “Ad esempio: io sono un unico Io con l’acrobata allorché, guardandolo attentamente seguo dall’interno i suoi movimenti. Solo quando esco dalla pienezza dell’atto empatico e rifletto sul mio «Io reale», avviene la scissione ed i vissuti non provenienti da me appariranno come vissuti appartenenti «all’altro» ed immanenti nei suoi movimenti. Se tale descrizione colpisse nel segno, sarebbe eliminata la distinzione fra l’esperienza vissuta estranea e quella propria e la distinzione tra Io estraneo e Io proprio, per cui la sussisterebbe solo attraverso un’associazione di diversi «Io reali» ossia di diversi individui psicofisici. Se questo fosse vero, rimarrebbe del tutto incomprensibile che cosa faccia sì che il mio corpo proprio sia mio, e quello estraneo estraneo, giacché io vivo «in» uno come nell’altro nello stesso modo, e vivo i movimenti sia dell’uno che dell’altro nello stesso modo. Questa tesi di fatto non è soltanto contraddittoria nelle sue conseguenze, ma è pure una descrizione evidentemente falsa. Io non sono un unico essere con l’acrobata, ma sto solo «presso» di lui; io non compio realmente i suoi movimenti, ma «quasi», vale a dire non solo non compio i movimenti dall’esterno (cosa del resto rilevata pure da Lipps), ma quel che «interiormente» corrisponde ai movimenti del corpo proprio – ossia il vissuto dell’«io muovo» – non è originario per me, bensì è non-originario” (p. 87). La critica della Stein culmina nella categorica negazione dell’unipatia di Lipps: una chimera teoretica che confonde “l’autodimenticanza” – tipica del miraggio di una finta immedesimazione (p. 88) – con la reale acquisizione di un oggetto. L’empatia, ancora secondo Stein, non prescinde dall’inviolabile delimitazione fisica dei corpi. La filosofa di Breslavia riconosce comunque nell’empatia “una precipua dimora tra i possibili atti di coscienza” (Lucantoni), e per questo tenta di sviscerarne la dettagliata fenomenologia nel mentre del proprio accadere. Ancora dal testo del 1917: “Nell’istante in cui il vissuto emerge improvvisamente dinnanzi a me, io l’ho dinnanzi come Oggetto (ad esempio, l’esperienza di dolore che riesco a “leggere nel volto” di un altro); mentre però mi rivolgo alle tendenze in esso implicite e cerco di portarmi a datità più chiara lo stato d’animo in cui l’altro si trova, quel vissuto non è più Oggetto nel vero senso della parola, dal momento che mi ha attratto dentro di sé, per cui adesso io non sono più rivolto a quel vissuto, ma, immedesimandomi in esso, rivolto al suo Oggetto, lo stato d’animo altrui, e sono presso il suo soggetto, al suo posto. Soltanto dopo la chiarificazione cui si è pervenuti mediante l’attuazione giunta a compimento, il vissuto stesso torna dinnanzi a me come Oggetto” (pp. 77-78). L’immedesimazione del vissuto dell’altro è sempre una consonanza di un comune stare al mondo, ma non – come forse intendeva Lipps – uno smarrimento del Sé, una dimenticanza del proprio baricentro all’interno di un vissuto estatico condiviso.
[25] Per Husserl, le cose naturali (le “realtà-cause”) che lo studioso della natura – o il fisico esatto, o lo psicologo, o lo stesso scienziato da laboratorio – suppone e considera “vera natura”, non possono veramente essere considerate tali poiché non sono più esperibili sensorialmente. Le “cose della fisica” sono delle costruzioni cui si giunge dopo lunghi processi d’idealizzazione. La fisica, infatti, prende le mosse sempre e comunque da un ordine geometrico, un ordine cioè costruito concettualmente (Prolegomeni alla logica pura / Ricerche Logiche, p. 255). Le teorie scientifiche sono delle semplici ipotesi esplicative, costruzioni del pensiero che mirano a spiegare (partendo da modelli geometrico-matematici) ciò che accade sul terreno dell’esperienza (Crisi, p. 68) ma che finiscono per modificarne il senso – letteralmente – obliandolo, scambiando una coltre di idee, di numeri, di simboli, di segni e di astrazioni per il vero essere del mondo.
[26]Nella quinta parte del suo famoso Discorso sul metodo (1637), con l’intento di tracciare le differenze tra gli uomini e gli altri esseri viventi, René Descartes indicava specificatamente la facoltà di parola (intesa come “espressione dell’anima propria razionale”) l’elemento decisivo dell’umano rispetto al resto del mondo animale: “È assai noto che non c’è uomo tanto ebete e stupido, neppure un pazzo, che non sia capace di mettere insieme diverse parole e farne un discorso per comunicare il suo pensiero; e che al contrario non c’è altro animale, per quanto perfetto e felicemente creato, che possa fare lo stesso” (p. 60). Il linguaggio e la facoltà linguistica rappresentano indubbiamente una delle principali caratteristiche della nostra specie. L’unicità quasi miracolosa del linguaggio è tuttora considerata da molti eminenti studiosi, fra tutti il linguista e psicologo cognitivo Noam Chomsky (1966), come il tratto distintivo dell’essere umano. Sull’argomento, – proponendo però una prospettiva critica, – segnalo il bel testo scritto da Francesco Ferretti Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, Roma-Bari (2007).
[27]Il tema “páskein” di Masullo trova un corrispettivo nel concetto husserliano di Erlebnis (che lo stesso Husserl in verità trae da Dilthey). Il sostantivo che viene dal verbo tedesco erleben è propriamente l’atto di vita, ma anche il provare, il sentirsi vivere.