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Federica Giardini
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Porre la questione della verità, non sul piano della filosofia ma su quello delle relazioni, apre prospettive meno pacificate o edificanti del previsto. A cominciare da Hannah Arendt che – pur con le sue parole crude sugli effetti devastanti di quella «menzogna enorme» che è stato l’antisemitismo nazista – contesta che vi sia un nesso tra verità e politica, e anzi individua un rapporto che presenta alla stregua di un luogo comune: «Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra»1.
La pensatrice ha in mente la battaglia di Socrate contro i «filodossi» che, in nome della mutevolezza del mondo umano, sono capaci di trattare qualsiasi argomento e di farne materia di persuasione. La replica socratica è quella di porre la filosofia al riparo della mutevolezza, fuori dalla terra di mezzo dell’opinione, che non è né conoscenza né ignoranza, e di distinguerla proprio per la sua ricerca della verità. Una replica che varrà a Socrate la messa a morte da parte della politica. Nel concludere per una eterna inimicizia tra verità e contingenza umana, Arendt sembra trascurare il movente di Socrate, quello cioè di individuare la legittimità di un discorso – la sua dignità di essere ascoltato e recepito – per concentrarsi sul dilemma e scegliere l’amore per il mondo, per la politica.
Prima di precisare il sentiero percorso da Arendt – che alla questione della legittimità arriva per altre vie – ricordare la grande scena su cui si staglia la sua presa di posizione è utile per aprire la questione della verità a ulteriori articolazioni.
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1. Irrealtà e fissità
Nel funzionamento dell’ideologia antisemita nazista, l’immutabilità dell’idea di vero e giusto assume una funzione sinistra: la distanza dalla mutevolezza delle vicende umane, anziché apparire come una garanzia, diventa lo strumento di disprezzo dei singoli, di ciò che può risultare dall’esperienza, di costrizione a vivere in una regione rarefatta. Per riflettere su questo risultato Arendt parte dalla fine: i sopravvissuti ai campi di concentramento tendono a non raccontare quel che è successo loro, quel che dovrebbero dire è difficile da comunicare, tanto si sottrae a un’esperienza condivisibile; di contro, chi li ascolta, raramente prova quell’indignata “simpatia” che suscitano le vittime di un’ingiustizia, anzi, talora la reazione è di sospetto, quasi che chi parla avesse scambiato un incubo per la realtà.
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Questi dubbi su se stessi e sulla realtà della propria esperienza rivelano semplicemente quello che i nazisti hanno sempre saputo: che, se si è decisi al delitto, conviene organizzarlo in grande, su scala enorme, inverosimile (…) anche perché l’enormità dei delitti fa sì che agli assassini, i quali proclamano la loro innocenza con ogni sorta di menzogne, si presti più fede che alle vittime, la cui verità ferisce il buon senso (…) Hitler fece circolare milioni di copie del suo libro in cui affermava che per aver successo una menzogna deve essere enorme; il che non impedì alla gente di credere a lui e ai suoi seguaci2.
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Questa capacità irrealizzante perverte le caratteristiche che Socrate attribuiva alla verità ricercata dalla filosofia. Ha la validità attribuita al cielo delle idee, stelle fisse che orientano l’azione e il valore umano. Nessun movimento è previsto, se non quello del passaggio da una premessa a una conclusione e le contraddizioni che la realtà presenta vengono assorbite e neutralizzate quali stadi da superare: esiste qualche coscienza cui ripugna uccidere degli innocenti? Si tratta di una coscienza che non ha ancora correttamente inteso la vera idea e il vero fine dell’epoca. È sulla base di questo paralogismo che Eichmann può sostenere di aver compiuto il proprio dovere, di essersi fatto orientare dall’idea di ciò che era giusto. Vero e giusto, nell’ideologia nazista, ritornano come risvolto mostruoso delle tesi socratiche.
L’ideologia che procede attraverso l’indottrinamento della propaganda serve a staccare il pensiero dall’esperienza e dalla realtà e, quando organizzata in una visione totalizzante del mondo, pretende per sé una costruzione del discorso logica e scientifica. Chi non aderisce sta contraddicendo se stesso, è questa la costrizione interiore che Arendt individua come il danno più devastante prodotto dall’ideologia. Sottomettendosi alla tirannia della logicità e prestando fede, letteralmente, alla pretesa avanzata dall’ideologia di essere un ragionamento rigoroso e scientifico, l’individuo
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rinuncia alla sua libertà interiore (come rinuncia alla sua libertà di movimento quando si inchina a una tirannia esterna) (…) così la forza autocostrittiva della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a pensare, un’attività che, essendo la più libera e pura fra quelle umane, è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione (…) l’autocostrizione del pensiero ideologico distrugge tutti i legami con la realtà. La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto coi loro simili e con la realtà che li circonda; perché, insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero. Il suddito ideale del regime totalitario è l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più3.
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Perdere i legami con gli altri, essere chiusi in un rapporto di isolamento tra sé e sé, significa consegnarsi a un’altra scena, quella che non distingue più tra vero e falso, reale e irreale, e che tuttavia ha la pretesa di far tornare tutti i pensieri secondo un unico svolgimento omogeneo e lineare che, anziché avere inizio nella coscienza individuale, viene indotto dall’esterno. L’esperienza singolare, che dovrebbe essere fonte di dubbi e smentite, di fronte a questa chiusura delirante non fa più testo, e viene sostituita da una parola autoritaria che chiede fede.
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Derealizzazioni
Sulla povertà, quando non distruzione, del senso di realtà, della distinzione tra vero e falso, insiste un altro testo di Hannah Arendt, dal titolo significativo di La menzogna in politica4. Gli elementi dell’analisi però non si dispongono nello stesso modo che per l’ideologia totalitaria. In questo testo la pensatrice affronta l’atto del mentire in una società che è formalmente organizzata in un ordine democratico, quella statunitense. L’episodio che occasiona il testo è la pubblicazione da parte del «New York Times» dei cosiddetti Pentagon Papers, nel 1971. Questi documenti illustravano le valutazioni e strategie del governo americano nel corso delle guerre nel Sudest dell’Asia, in Corea e in Vietnam e intervenivano a dare appoggio documentale a un’opinione pubblica che già sapeva dell’esito della prima e contestava ampiamente lo svolgimento ingiusto della seconda.
Il punto di partenza dell’analisi non è tuttavia una piana indignazione a fronte di tale inganno, tutt’altro. La tradizione ci racconta come la politica richieda discrezione, quando non segretezza, nel caso di decisioni cruciali, perché la retorica non abbia presa sugli astanti a discapito delle questioni in gioco5. Ma il commento al nascondimento delle reali valutazioni politiche su quelle guerre nasce da una prima constatazione positiva: mentire equivale a negare la realtà, negare la realtà può essere il modo per immaginare che potrebbe essere altrimenti, e dunque per aprire alla libertà, a un dare inizio a qualcosa che prima non era contemplato. Senza la libertà mentale di
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dire «sì» o «no» non solo ad affermazioni o proposizioni delle quali possiamo dichiararci in accordo o in disaccordo, ma alle cose che sono date, al di là di ogni accordo e disaccordo, ai nostri organi percettivi e cognitivi, nessuna azione sarebbe possibile, e l’azione è per l’appunto la materia di cui è fatta la politica6.
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Come si concilia questo passaggio argomentativo con l’imputazione all’ideologia totalitaria di aver deportato i singoli in una regione dove non si poteva più distinguere il vero dal falso? Le osservazioni da avanzare seguono due ordini diversi. Innanzitutto, negare la realtà, là dove è un atto che apre uno spazio di libertà e di azione, non significa negare la sua esistenza, ma negarne la necessità – il «così è e non potrebbe essere altrimenti» – significa negare l’equivalenza tra fatti e destino.
In secondo luogo va precisato chi usa la negazione della realtà. Quelli apparentemente più innocui – all’epoca del testo Hannah Arendt risiede negli Stati Uniti – sono gli esperti governativi in public relations. Le pubbliche relazioni sono una forma di pubblicità, niente di più, legata alla nascita della società dei consumi e caratterizzata da un bisogno disordinato di merci. Il danno che producono consiste nel fatto che non hanno a che fare con la realtà ma con la materia altamente manipolabile delle opinioni, dei bisogni indotti, della disponibilità a comprare e credere. Nel loro ambito di menzogna non vi è dunque limite alle invenzioni ma, non avendo a che fare con fatti reali e concreti, non hanno tuttavia il potere di impedire di volere e agire altrimenti.
Diversamente va con gli autori dei Pentagon papers, i problem solvers che sono chiamati dal governo ad analizzare e trovare soluzioni per i problemi di politica estera. Uomini molto sicuri di sé, per posizione, educazione e risultati, e dunque abituati a vincere, rivendicano per sé intelligenza, razionalità e un’esibita ostilità a ogni forma di sentimentalismo, salvo poi essere innamorati delle loro analisi teoriche. Ritroviamo a questo punto lo sprezzo per la realtà così come è, la sua contingenza, che si esprime in formule dalla pretesa di scientificità che dovrebbero dire la verità sulle azioni da condurre.
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2. Quando vero e falso sono costruiti
Difficile però mantenere la distinzione compiuta da Arendt tra chi manipola un piano secondario della vita comune – i bisogni indotti, la ricerca della spettacolarizzazione dei fatti, i comportamenti di consumo – da uno dove la manipolazione plasma una effettiva realtà parallela. Dopo una lunga stagione di verifica degli esiti realizzanti, performativi, degli atti linguistici, i tempi sembrano piuttosto orientarci alla riedizione delle tesi che da Callicle arrivano a Foucault passando per Nietzsche.
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L’opinabile ovvero verità e giustizia
Il Gorgia si conclude con le tesi di Callicle che, proclamando il suo disprezzo per la filosofia, inefficace negli affari umani e nel conseguimento della felicità, compie un atto di brusco realismo: inutile stare a discutere su cosa sia giusto o meno e quali siano i legislatori e le leggi adatte a questo scopo. La realtà è del tutto diversa, il giusto coincide con gli interessi dei più forti e, una volta constatato questo, non serviranno né retorica né filosofia, sarà ben più utile dedicarsi alla vita attiva, alla politica, che può fornire potere e ricchezze, mezzi per il conseguimento della felicità7.
La smentita più brutale alla vocazione ateniese per la giustizia viene infatti da un episodio della guerra del Peloponneso che oppose Atene e Sparta e gli alleati dell’una e dell’altra. Tucidide lo racconta nel passo noto come Dialogo tra gli Ateniesi e i Meli8. Parola, politica, giustizia e guerra si giocano nella contrapposizione degli Ateniesi ai Meli e la ribellione dei secondi si conclude con una carneficina – gli Ateniesi uccidono gli uomini e riducono in schiavitù donne e bambini. È da notare come i Meli contestino le stesse circostanze in cui si svolge quello che non è già più un colloquio alla pari, in cui le ragioni avanzate sono già pregiudicate dalle circostanze: «la guerra è già qui, non prossima ma presente. Vediamo infatti che voi stessi sedete come giudici di quanto verrà detto»9; insomma, è già decisa una disparità di peso tra le parole che verranno dette. La replica degli Ateniesi è di un realismo alla Callicle:
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consapevoli entrambi del fatto che la valutazione fondata sul diritto si pratica, nel ragionare (lógos) umano, solo quando si è su una base di parità, mentre, quando vi è disparità di forze, i più forti esigono quanto è possibile ed i più deboli approvano10.
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Il lógos invocato non è il ragionare secondo verità, e nemmeno usare gli argomenti convincenti della retorica: quando vi è disparità di forza, il piano della ragione e della parola, prima ancora che inizi il confronto, è già attribuito. Ai vincitori. La ragione del più forte diventa così legge, giustizia sancita dal successo, e si tratta di una legge che riguarda tutti gli esseri umani: anche se i più deboli protestano, è solo per via del momentaneo svantaggio della loro posizione. La parola diventa mera aggiunta, superflua nel determinare l’esito del confronto, già deciso su una scena che linguistica non è.
Se accettiamo il disinganno su cui ci ha instradato Nietzsche11 e che Foucault ha precisato12, dobbiamo allora ritenere che, quando si tratta di giustizia, la verità è solo il travestimento retorico e concettuale della parte che ha avuto la meglio? Oppure, viceversa, dobbiamo pensare, con Hannah Arendt, che in politica la verità non può avere luogo, o si rifugerà nello sdegno per la mutevolezza degli affari umani oppure uscirà sconfitta dall’esercizio del potere e delle sue sanzioni? La verità sarebbe insomma impotente e il potere sarebbe destinato a essere ingannevole?13
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3. E la verità, allora?
La fecondità della tesi di Nietzsche per procedere oltre impotenza e nichilismo si trova nella sollecitazione a indagare le condizioni e le circostanze in cui sono nati e si sono consolidati verità e valori. Questa fecondità si sviluppa in due direzioni: da una parte, le questioni della politica sono sottratte al campo della conoscenza dogmatica e della retorica; essendo in gioco il corpo, non di opinioni si tratta, bensì di espressione di esigenze, urgenze, di stili di vita; dall’altra, i valori non sono più considerati nella loro fissità, ma alla luce della loro genesi, storica e sociale.
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Il chi del vero
Concentrandosi sulle dinamiche che precedono e costituiscono il discorso socialmente accetto, sulle condizioni e circostanze entro cui emerge la distinzione tra dicibile e indicibile, tra vero e falso, tra bene e male, assumere che la verità non esiste in sé ma è debitrice di ciò che accade su un’altra scena, non conduce dritto alla conclusione che tutto è lecito per i forti. Al contrario, recupera per lo sguardo l’incredulità nei confronti dei valori costituiti, così da poter individuare nella storia i momenti in cui l’interesse di una parte prevale per poi ammantarsi della retorica del giusto e del vero – e presentarsi come l’unica realtà legittima e dunque vera. Seguendo i testi di Arendt, ecco che incontriamo Simone Weil, non solo là dove la cita espressamente sulla revisione strumentale e scientista della verità14, ma soprattutto quando perora la superiorità della causa dei vinti. Arendt afferma infatti che la ricerca della verità
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ha una lunga storia; la sua origine, in modo caratteristico, precede tutte le nostre tradizioni teoriche e scientifiche, compresa la nostra tradizione di pensiero filosofico e politico. Penso la si possa far risalire al momento in cui Omero scelse di cantare le imprese dei troiani non meno di quelle degli achei15.
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Simone Weil torna sul tema della giustizia, dell’equità di parola e di giudizio su vincitori e vinti, per constatare che «a malapena ci si accorge che il poeta [dell’Iliade] è greco e non troiano»16. Tale equità non è significativa per l’imparzialità che dimostra, bensì perché – in una certa risonanza con quanto dice Arendt – si rifiuta di cancellare i fatti e le azioni di una parte solo perché è stata vinta. I vinti, dire la verità su cosa ne è stato di loro, significa sottrarsi alla Storia che «non è altro che una compilazione delle deposizioni fatte dagli assassini circa le loro vittime e se stessi»17. Con un accento opposto alle conclusioni di Nietzsche, Weil ci propone un approccio che ricorda quello genealogico: ritrovare, saper ascoltare la fragilità al di là della parola e delle rappresentazioni convenzionali con cui l’umanità vincitrice ritrae se stessa e le proprie azioni.
Nell’includere i vinti nella scena, o meglio, nel processo che va costituendo la verità, Arendt insieme a Weil non invitano a relativizzarne il valore. Al contrario, danno una serie di indicazioni perché non sia né ipostatizzata, né considerata impossibile. Prima indicazione è considerare la verità come iscritta in un campo relazionale, in un campo di forze che diversamente distribuisce l’accesso alla parola che descrive e seleziona la realtà. In altri termini, ricercare sempre nell’enunciato che si pretende vero, il chi di quell’enunciato e il suo posizionamento nel campo di forze.
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L’amore per la contingenza
Arendt, si è visto, constata che menzogna di Stato e ideologia hanno un tratto in comune, il disprezzo per i fatti: se la prima li manipola o li sopprime, la seconda li conosce ma intenzionalmente e sistematicamente li nasconde. Le verità consegnateci dai fatti, risultanti dal vivere e dall’agire insieme, costituiscono la fibra stessa della politica e sono fragilissime. Quando la politica come esercizio del potere
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attacca la verità razionale, oltrepassa per così dire «la propria sfera»; al contrario, quando falsifica o cancella i fatti, esso dà battaglia sul proprio terreno. Le probabilità che la verità di fatto sopravviva all’assalto del potere sono veramente pochissime (…) Fatti ed eventi sono cose infinitamente più fragili degli assiomi, delle scoperte e delle teorie (…) essi accadono nel campo perpetuamente mutevole degli affari umani, nel cui flusso non vi è nulla di più permanente della permanenza, per comune ammissione relativa, della struttura della mente umana18.
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La decisa scelta di Arendt a favore del mondo umano, della verità fragile che vi può avvenire e della resistenza al potere quando questo la vuole negare o cancellare, ci consegna allora alla conclusione che la contingenza – pur rispettando la mutevolezza che caratterizza l’ambito umano – sembra non poter mai aspirare ad essere né falsa né vera? L’alternativa non è questa. È necessario ridefinire, stavolta, cosa sia la politica: per amore del mondo e dell’esperienza – così stravolta dalle ideologie totalitarie – Arendt ci consegna una politica che non coincide con il potere, le sue istituzioni, il suo esercizio. Piuttosto, riprendendo in modo originale il pensiero di Aristotele, la politica è la condizione umana stessa e di questa ha le caratteristiche: nascere, dare inizio a qualcosa di inedito, essere per e insieme ad altri19.
Insieme a questa ridefinizione della politica, la pensatrice ci consegna infine una ridefinizione della parola dotata di valore politico – della parola che avviene come parola legittima – parola degna e capace di essere ascoltata: non la parola persuasiva e seduttiva del retore di fronte a una folla di insipienti e passivi, non la parola violenta o coercitiva del politico nel trattare i conflitti con altri stati e altri popoli, bensì la parola dotata di autorevolezza che è vincolante per altri, pur lasciandoli liberi; parola che è più di un consiglio e meno di un ordine, nell’essere pronunciata porta a un aumento della realtà per chiunque la pronunci, la ascolti, ne partecipi20.
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L’attenzione al necessario
Simone Weil, che partecipa anch’essa agli eventi traumatici e devastanti dell’epoca – seguirà le vicende postirivoluzionarie dell’Unione Sovietica, parteciperà alla Guerra civile in Spagna e alla seconda guerra mondiale – abbraccia invece in modo assoluto l’istanza della verità, legandola alla dimensione vitale della necessità, e allontanandosi così dalle considerazioni di Arendt sull’immaginazione e sul mentire, quale capacità tutta umana di negare l’esistente e dunque aprire lo spazio per un nuovo inizio. Non è però la necessità della logica, dei giudizi veri in quanto svolti secondo procedure argomentative corrette, si tratta della necessità che coinvolge l’essere, la vita per intero: «E’ solo la necessità che mette a contatto lo spirito con la verità»21, con la necessità delle costrizioni materiali. È in La condizione operaia che Weil infatti racconta della sua esperienza in fabbrica e di come questa l’abbia tolta dalle illusioni, riportandola a percepire l’autentica condizione umana. E’ nell’esperienza concreta, corporea e materiale del mondo, delle relazioni umane, che la necessità genera una conoscenza vera: «La verità non si trova mediante prove, ma mediante esplorazione. Essa è sempre sperimentale. Solo la necessità è altresì oggetto di esplorazione»22. La verità è così calata interamente nella vita umana che, tuttavia, è costantemente lacerata dalle contraddizioni della sopraffazione e della violenza. Saper giudicare secondo verità significa allora saper vedere le contraddizioni necessarie dell’umano e saper agire di conseguenza, secondo giustizia.
Weil sa però anche leggere l’aria del suo tempo e, analogamente ad Arendt, si accorge che i tempi non sono favorevoli alla conoscenza del necessario:
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l’utilità ne ha preso il posto, poiché l’uomo dirige immediatamente i suoi sforzi verso un qualche bene. Ma allora l’intelligenza non ha più qualità per definire quest’utilità, né per giudicarla, ha solo il permesso di servirla. 23
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L’immediatezza dell’azione che mira al proprio fine, toglie il tempo dell’attenzione. Contrariamente ad Arendt, per Weil è attraverso la letteralità che si può arrivare alla realtà, disfacendosi di illusioni interiori o indotte dall’esterno:
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Metodo per comprendere le immagini, i simboli, ecc. Non tentare d’interpretarli, ma fissarli finché la luce sgorga. E questo perché si deve temere di diminuire la loro realtà illegittimamente (…) In generale: metodo per esercitare l’intelligenza, che consiste nel guardare fissamente. (…) Applicazione di questo metodo per discernere il reale dall’illusorio. Nella percezione sensibile, se non si è sicuri di ciò che si vede, ci si sposta tenendo fisso lo sguardo (ad esempio si fa il giro) e il reale appare. Nella vita interiore, il tempo prende il posto dello spazio. Con il tempo si è modificati, e se attraverso le modificazioni si conserva lo sguardo orientato su una certa cosa, alla fine l’illusione si dissipa, il reale appare24.
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Le due pensatrici condividono l’amore per la realtà, nel comune assunto che è attraverso e vicino alla realtà che può sorgere la verità. Questa, per Weil, ha bisogno di un tempo entro cui possa svolgersi l’attenzione e possa formularsi un giudizio. Ma, se per Arendt questo giudizio sarà sempre mutevole perché propriamente umano, Weil manifesta la consapevolezza che non è possibile porsi in una regione che sia al riparo dalle contraddizioni umane, dalle inclinazioni alla sopraffazione e alla violenza. Per conseguire giustizia e verità l’unica via è dunque quella di una sperimentalità estrema: quella che impedisce che tutto sia dicibile, che interrompe il falso ragionamento basato su false premesse, che ci inganna per la sua coerenza interna, che ci salva dal cancellare la memoria. Questa «prova sperimentale» non mira alla sanzione, non parla la lingua della colpa o della malattia ma è quella che determina, nella memoria collettiva, la posizione delle vittime e dei responsabili di ingiustizia. E, in aggiunta, va sottolineato quanto sia, non postura individuale e di coscienza, bensì sempre guadagnata in una posizione e in un processo relazionale, che ha per effetto un aumento della realtà.
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1Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo (1948), tr. it. A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2009, p. 29.
2Ivi, pp. 601-602.
3Ivi, p. 648.
4H. Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui «Pentagon Papers» (1972), a cura di O. Guaraldo, Marietti 1820, Genova-Milano 2006.
5Ivi, p. 9.
6Ivi, p. 11.
7Cfr. Platone, La Repubblica, I, 337a-339a.
8Tucidide, La guerra del Peloponneso, V, 85-113.
9Ivi, 86.
10Ivi, 89.
11Friedrich W. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale (1873), in Id., Verità e menzogna, a cura di S. Giammetta, Rizzoli, Milano 2009.
12M. Foucault (1971), Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Il discorso, la storia, la verità, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001.
13H. Arendt, La menzogna in politica, cit., pp. 29-30.
14Arendt, Vita activa (1958), tr. it. S. Finzi, Bompiani, Milano 1994, p. 278.
15Arendt, Verità e politica (1961), in Ead., Verità e politica, a cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 75.
16S. Weil, L’Iliade o il poema della forza (1951),in Ead., La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. it. M. Harwell, C. Campo, Borla, Torino 1967, p. 39.
17S. Weil, La prima radice (1942-1943), tr. it. F. Fortini, Edizioni di Comunità, Milano 1954, p. 95.
18H. Arendt, La menzogna in politica, cit., p. 35.
19H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 648.
20H. Arendt, Che cos’è l’autorità (1954), in Ead., Tra passato e futuro, tr. it. T. Gargiulo, Garzanti, Milano 1991, pp. 132 e 167.
21S. Weil, Quaderni (1951-1956), a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, vol. IV, p. 156.
22Ivi, p. 169.
23S. Weil, Sulla scienza (1966), tr. it. M. Cristadoro,Borla, Torino 1971, pp. 171-172.
24S. Weil, Quaderni, cit., vol. II, pp. 292-293.