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Frédéric Gros
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Nel 1981, Michel Foucault tiene un corso sobriamente intitolato Soggettività e verità. Questo corso comprende dodici lezioni pronunciate tra il 7 Gennaio e il 1° Aprile 1981. Foucault, nel riassunto che redige di queste lezioni1, come fa ogni anno, avverte che la sintesi sarà corta poiché l’essenziale del contenuto sviluppato deve essere ripreso sotto forma di libro, nei volumi I e II della sua Storia della sessualità. Ciò è in parte vero, ma soltanto in parte. Un certo numero di analisi si ritrovano, in effetti, soprattutto in La cura di sé, un po’ meno in L’uso dei piaceri, in particolare nel capitolo consacrato a Artemidoro e alla sua scienza dei sogni2, in quello consacrato al ruolo del matrimonio3, o il capitolo che presenta una lettura rapida dell’Erôtikos di Plutarco4. Detto ciò, troviamo in questo corso pronunciato nel 1981 un certo numero di analisi inedite, di chiarimenti sorprendenti, sempre con un’incertezza latente. Ignoriamo la ragione precisa per la quale Foucault non le abbia riprese in seguito. Le avrà giudicate, nella sua rilettura, poco pertinenti, inutili, o troppo provocatrici?
Si tratterà, per noi, di presentare solamente due dei punti sviluppati nel corso. Il primo, come viene detto durante le lezioni5, è un punto di «metodologia generale». Foucault ci ha abituati a proporre, nelle sue prime lezioni, delle considerazioni generali sul metodo impiegato, dei chiarimenti sui presupposti filosofici fondamentali. Essi hanno la peculiarità, nel 1981, di essere relativamente lunghi e insistenti6. Il secondo punto riguarda l’esposizione di un contenuto storico affrontato, ovvero l’importanza che riveste per Foucault la forma romana del matrimonio (l’invenzione della «coppia») all’interno della storia generale della soggettività. Questa idea nuova di matrimonio è stata concettualizzata e diffusa attraverso le arti del vivere stoiche redatte nel corso dei primi secoli della nostra era (i trattati sul matrimonio, per esempio, di Musonio Rufo, Ierocle, Antipatro, etc…). Questa doppia presentazione dovrebbe permettere di esplicitare un certo numero di concetti inediti: la «sorpresa epistemica», la «finta logicista», ma anche lo «sdoppiamento del sesso» e l’«estrazione del desiderio». Questi due punti (considerazioni di filosofia generale e esposizione degli effetti soggettivi dell’invenzione della coppia), infatti, sono fortemente connessi e sviluppati insieme, essenzialmente nelle ultime quattro lezioni dell’anno, tra l’11 marzo e il 1° aprile 1981.
Occorre notare come i grandi spunti filosofici del corso prendano il la dal problema seguente: come comprendere, o piuttosto descrivere, il rapporto tra un certo discorso filosofico sul matrimonio (quindi un determinato gioco del vero e del falso relativo alla sessualità dell’uomo sposato nei trattati stoici già evocati), e poi il fatto che s’instauri effettivamente una pratica matrimoniale, la cui estensione è storicamente attestata, come se essa facesse eco alle ingiunzioni stoiche? Esiste quindi un’estensione della realtà della cellula matrimoniale, nel momento stesso in cui essa è idealizzata dai saggi, negli innumerevoli trattati d’esistenza.
Ma non è assurdo considerare questa corrispondenza come un problema? Dobbiamo perfino porre la domanda? È su questo punto preciso che Foucault propone di sostituire allo stupore ontologico, che è alla fonte dell’interrogazione metafisica (perché c’è qualcosa piuttosto che niente?), ciò che egli chiama la «sorpresa epistemica» (perché esiste, a proposito del reale, un gioco del vero e del falso?) che dovrebbe piuttosto rendere possibile una storia politica della verità. È soltanto a condizione di dimenticare questa sorpresa epistemica iniziale che abbiamo potuto porre, come scontata, la questione dell’esattezza (il discorso vero ne da una versione corretta?), o della provenienza (il discorso vero riflette un reale che gli preesiste, a meno che non lo informi, a meno che non lo sistematizzi etc.?).
Tutte queste interrogazioni costituiscono ciò che Foucault chiama adesso «finta logicista», che consiste nel fare come se il reale fosse la ragione del discorso sul reale. Cito qui un estratto della lezione dell’11 marzo 1981: «Mai il reale al quale si riferisce un discorso, qualunque esso sia, può costituire la ragion d’essere di questo stesso discorso». O ancora: «Non vi è appartenenza ontologica fondamentale tra la realtà di un discorso, la sua esistenza […] e il reale di cui esso parla». Per dirlo altrimenti, e ritrovare un concetto familiare, il discorso di verità costituisce, in rapporto al reale di cui parla, un «evento». Scrivere una storia della verità, è quindi considerare che il rapporto del discorso vero al reale di cui esso parla deve essere inizialmente pensato come problematico, non-necessario.
Dobbiamo notare che, in queste lezioni del 1981, Foucault preferisce impiegare la formula «gioco del vero e del falso» piuttosto che quella di «regime di veridicità» (che egli utilizza solamente due volte). Effettivamente l’espressione «gioco del vero e del falso» rende più sensibile questo principio d’esteriorità (esteriorità irriducibile del discorso rispetto al reale sul quale esso verte), che sottolinea la scelta filosofica fondamentale di Foucault. È l’idea che il discorso vero non può in alcun caso essere compreso come istanza di compimento o di autorivelazione del reale. Esso viene in supplemento e non in complemento del reale.
Per caratterizzare questo gioco del vero e del falso, troviamo, nella lezione dell’11 marzo 1981, una serie di aggettivi che è importante sottolineare e commentare. Questo gioco del vero e del falso è, dice Foucault, supplementare, inutile, polimorfo e effettivo.
In primo luogo il gioco è «supplementare». Nel manoscritto preparatorio al corso, Foucault parla di «gioco improbabile», espressione che egli non riprende nel corso. Ma, con l’uno o l’altro aggettivo, si tratta sempre di insistere su ciò che abbiamo chiamato il principio di esteriorità del discorso vero. Non vi è alcun rapporto di necessità tra il reale e l’emergenza di un discorso vero che ne rende conto. Il gioco di veridicità non è implicato dall’esistenza del reale. Pertanto, all’interno di una storia della verità, bisogna descrivere degli incontri e delle congiunzioni, piuttosto che seguire il movimento di una deduzione.
In secondo luogo, il gioco di veridicità è «inutile». L’impiego di questo aggettivo è evidentemente sorprendente e vi si coglie una carica provocatoria considerevole. Con questo carattere di «inutilità» si tratta soprattutto di denunciare uno scarto tra delle pretese e dei risultati. Possiamo citare qui due passaggi, il primo estratto dal corso pronunciato e il secondo dal manoscritto preparatorio, per rendere più comprensibile questa curiosa denuncia dell’inutilità del gioco di verità. Nel corso Foucault dice:
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Quando si considera il formidabile dispiegamento del gioco del vero e del falso e la scarsa verità effettiva, efficace e utile che l’umanità ha potuto trarre da questo gioco del vero e del falso; quando si confronta il costo di cui c’è stato bisogno, il costo economico, il costo politico, il costo sociale, il costo umano, i sacrifici e le guerre, nel senso stretto del termine, di cui c’è stato bisogno per questi giochi di veridicità, del vero e del falso; e se si guarda a ciò che è stato il beneficio economico o politico della verità trovata da questo gioco del vero e del falso, la differenza è tale che voi vedete bene come si possa dire, in generale, che a livello della storia umana il gioco della veridicità è constato molto più di quanto non abbia reso.
………………..
L’inutilità svela quindi un carattere di eccesso, di surplus, quasi di spreco. Tradizionalmente la povertà del discorso viene opposta all’abbondanza del reale. Qui si tratta invece di denunciare una sovrapproduzione ed un sovracconsumo di logos – per altro non tanto in riferimento al reale, quanto piuttosto rispetto sia alla quantità dei risultati constatati, misurabili, sia, d’altra parte, alle conoscenze constatate ed atte a renderci più efficaci – che tale gioco ha permesso. La produzione e la consumazione di logos vero sono incommensurabili rispetto alla sua utilità calcolabile. Nel suo manoscritto preparatorio al corso, Foucault aveva scritto:
………………….
Quando si pensa a ciò che è stato fatto per la verità (dalle guerre di religione alle scuole materne) e al poco che si può dire di vero e ancor meno a quello che, essendo vero, ci da una presa sul reale, possiamo ben dire che il gioco del vero e del falso è stato nella storia umana un formidabile dispendio, un puro dispendio.
………………
In terzo luogo – e questo carattere corregge, anticipandolo, il fraintendimento che poteva generare la denuncia dell’«inutilità» del vero (inutile non significa sterile) – come dice Foucault, questo gioco non è «senza effetto». L’esempio preso nel manoscritto è quello della scienza economica. Non si può dire che essa ci permetta di comprendere la realtà economica, di spiegare le crisi o le evoluzioni, ma essa non smette tuttavia d’informare le pratiche dei politici e degli speculatori. In maniera generale, non è perché il discorso vero dice il vero sul reale che degli effetti storici, politici, sociali sarebbero automaticamente prodotti – il gioco di veridicità produce in definitiva troppe poche verità effettive – ma è perché questi giochi sono connessi a queste pratiche. Qui si trova l’opposizione tra ciò che Foucault chiama il «rapporto sagittale di rappresentazione» (il gioco di verità come riflesso del reale), da una parte, e dall’altra parte il «rapporto latente di connessione» (la connessione di un gioco di verità su una pratica). Il manoscritto su questo punto è ancora illuminante: «È questo inserimento dei giochi di verità nella pratica umana che si fa portatore degli effetti essenziali e non l’apertura di questi giochi di verità sul reale». Questo punto d’intersezione tra un gioco di veridicità e delle pratiche reali è ciò che viene designato come «realtà» o «esperienza», ovvero il luogo dove si articoleranno delle forme di rapporto a sé, delle tecniche di potere e dei discorsi.
Tutte queste proposizioni, insieme di metodologia generale e di filosofia teoretica,7 provengono quindi da questo semplice inciso in forma di domanda: quando i filosofi stoici propongono, prescrivono il matrimonio, e sopratutto, all’interno del matrimonio, una nuova idea di coppia e nello stesso momento le pratiche sociali attestano dell’estensione affettiva del matrimonio in certi strati della società, bisogna semplicemente affermare che le filosofie non hanno mai fatto che ricalcare e esprimere la pertinenza, al livello di una filosofia morale, di pratiche diffuse e mute? O piuttosto non bisogna interrogarsi sulle condizioni di questa connessione tra un gioco di verità e una pratica?
Si tratta adesso, esplicitando due altri concetti presi da formulazioni misteriose (lo sdoppiamento del sesso e il raddoppiamento di sé su sé), di affrontare una serie di altre tesi che riguardano, questa volta, meno la metodologia generale che il contenuto stesso di questa storia della soggettività e della sessualità di cui Foucault elabora, nel corso del 1981, alcune scansioni storiche, con questi riferimenti essenziali che sono gli aphrodisia greci, il desiderium romano e la carne cristiana. Nei libri pubblicati (L’uso dei piaceri e La cura di sé), per esplorare la sessualità come esperienza, Foucault esamina dettagliatamente, oltre la relazione matrimoniale, anche il rapporto al proprio corpo (la dietetica) e il rapporto ai ragazzi (l’erotica). Nel corso Soggettività e verità, si trova questa insistenza particolare sulla costruzione stoica del matrimonio, che permette in effetti di segnare un punto di transizione decisivo nella storia della sessualità, cioè la costituzione di un rapporto al sesso come matrice di soggettivazione e di oggettivazione. Siccome queste formule sono astruse adesso si tratta di chiarificarle.
Foucault intende mostrare come, a partire dalla forma romana del matrimonio, si costituisca nell’uomo sposato un’esperienza strutturata da delle forme di rapporto a sé che saranno reinvestite dall’esperienza cristiana della carne. Bisogna riprendere molto velocemente il movimento generale del corso. Foucault si è proposto l’analisi precisa di una serie di testi – i trattati sul matrimonio di Musonio Rufo, di Ierocle, di Antipatro, ma anche l’Erôtikos di Plutarco – così come, in definitiva, l’esame attento di alcune poesie di Stazio e delle lettere di Plinio, dedicate alle loro care spose. Attraverso questo studio Foucault mostra come la cellula matrimoniale venga progressivamente descritta insieme come il luogo esclusivo del rapporto sessuale (l’uomo sposato non dovrebbe avere dei rapporti sessuali che con la sua sposa legittima) e come un’unità assolutamente particolare e irriducibile agli altri rapporti sociali, che siano domestici o politici – un’unione affettiva fatta di confidenza reciproca ma anche di compiacenza, di mutua attrazione, d’attenzione, di tenerezza, unione che non si può identificare con altre unità sociali (la casa di nascita, il circolo di amici, l’associazione economica, il gruppo di lavoro etc…). Per designare queste due trasformazioni, Foucault parla dei principi di «localizzazione» degli aphrodisia da una parte, e di «insularizzazione» sociale dall’altra.
Prima di andare avanti, bisogna tuttavia precisare due cose. Da una parte, il punto di vista adottato e descritto in questi trattati rimane essenzialmente quello dell’uomo, l’uomo sposato, adulto, cittadino. Malgrado tutto ciò, comincia ad essere considerato, in termini ancora timidi, il punto di vista della donna come soggetto, e non solamente come oggetto, di piacere. Inoltre, questa esplorazione della coppia sposata, quale è proposta come modello dai filosofi stoici o cantata dai poeti latini, si costruisce a partire da un contrasto con la struttura matrimoniale greca classica.
Prima di tutto cosa significa questo strano sdoppiamento del sesso? Possiamo citare qui un passaggio della lezione del 25 marzo 1981: «Vedremo apparire, nel rapporto dell’individuo al suo sesso, una frattura tra l’attività del maschio e lo statuto di virilità». Il padrone della casa, il soggetto sessuale greco classico descritto da Senofonte, o ancora, ben più tardi, da Artemidoro, non ha che un solo sesso. Non esiste per lui che un solo regime di virilità, di anarôtes. Essere uomo, manifestare la propria virilità, è, insieme e allo stesso tempo, comandare sulla propria famiglia (la propria moglie, i propri figli, i propri schiavi), amministrare correttamente le proprie ricchezze, farsi ascoltare nelle riunioni pubbliche o negli affari politici (mostrare il proprio coraggio nell’Assemblea o, ancora, in guerra), e poi essere attivo nel rapporto sessuale – che si abbia delle relazioni sessuali con la propria moglie, cosa preferibile, o con uno schiavo, un giovane ragazzo o una prostituta. Detto ciò, per attenersi al rapporto sessuale, avere dei rapporti sessuali con la propria moglie costituisce ancora, senza dubbio, la maniera più razionale, utile e proficua di consumare la propria attività e il proprio seme. Ma, ancora una volta, la coppia sposata resta perfettamente isomorfa alle altre relazioni sociali, segnate da dissimmetrie, gerarchie e una valorizzazione dell’attività – certo un’attività correttamente gestita, ordinata e condotta. È questa valorizzazione, spiega Foucault, che rende difficile l’evocazione del piacere femminile, nel senso che esso è concepito come un piacere passivo o d’abbandono e quindi anticipatamente ignorato nella migliore delle ipotesi e squalificato nella peggiore.
L’uomo romano sposato costituisce una coppia nella quale, precisamente, non si tratta più di comando o di obbedienza, ma di confidenza reciproca, di mutua complicità, di attaccamento simmetrico. Quest’uomo romano, sposato, inserito in una coppia così definita, dovrà, dice Foucault, avere due sessi, che egli nomina rispettivamente il sesso-statuto e il sesso-affettivo. Proprio perché egli riserverà alla sua sola moglie la totalità della sua energia sessuale e al contempo, nel rapporto sessuale, non si tratterebbe per lui di apparire come un padrone preoccupato d’una affermazione di godimento della sua attività, ma poiché nelle altre relazioni sociali, professionali, amichevoli e politiche anche restando virile e forte, gli sarà vietato di considerare un possesso sessuale con degli individui che, per un altro verso, egli domina socialmente; egli deve, quindi, necessariamente dividere la sua virilità. Il buon marito sarà al contempo il buon cittadino a condizione di questa cesura. Il privato e pubblico, la virilità del buon marito protettore e amante, e la virilità del buon cittadino coraggioso e tenace sono, nel medesimo tempo, separate e complementari. E bisognerebbe dire anche che solo in quanto buon marito che l’uomo sposato può essere un buon cittadino. In altri termini, non si tratta solo di dire che la relazione duale di coppia non può essere sovrapposta alle altre relazioni – non si fa che indicare questo punto, insieme importante e difficile, nella lezione del 25 marzo 1981 – ma anche che l’uomo sposato, in quanto sa mantenere in lui questi due sessi, può assicurare, come dice Foucault, «la continuità tra il sociale e il familiare». Ma egli l’assicura, ancora una volta, in quanto fa da cerniera, in quanto mantiene e riafferma costantemente la cesura tra i suoi due sessi.
Secondo tema quindi dopo lo «sdoppiamento del sesso», ma che non è in definitiva molto lontano: ciò che Foucault chiama il «raddoppiamento di sé su sé», ovvero l’idea di un controllo permanente del proprio desiderio. Si potrebbe partire da un modello assolutamente generico, che sarebbe quello della padronanza: essere padrone di sé come ingiunzione antica generale, forma di perfezione etica. Ma, all’interno di questa padronanza, bisognerebbe ancora distinguere due modelli: il modello classico della dominazione e il modello ellenistico (o stoico) del controllo. La dominazione è un rapporto attivo di padronanza, nella quale si riafferma una superiorità su delle istanze inferiori o subordinate. Padroneggiare i propri dispendi, attraverso una gestione rigorosa, padroneggiare la propria collera contro gli schiavi indisciplinati, padroneggiare i propri piaceri imponendosi una condotta nel bere, mangiare e fare l’amore. In ogni caso, è sempre uno stesso tipo di padronanza che si costruisce come dominazione, affermazione di un rapporto di comando. Bisogna dominarsi, ma la dominazione di sé non è mai altro che la misura data, all’interno di sé, a delle serie plurali e diversificate di dominazione. Il modello stoico impone maggiormente l’idea di un controllo del proprio desiderio come condizione assoluta, primordiale di tutto ciò che si potrebbe pretendere padroneggiare. Siccome esiste, nel cuore della mia identità, questa cesura dei due sessi, io dovrò controllare il mio desiderio: imparare a non desiderare sessualmente che la mia legittima moglie e vietarmi ogni altra prospettiva; tessere delle relazioni sociali o amicali desessualizzate; desiderare una relazione sessuale con la propria moglie senza imporle mai niente che potrebbe assomigliare a un comando gerarchico, etc…
Comprendiamo bene adesso, e questo punto è del resto perfettamente espresso da Foucault nella sua ultima lezione dell’anno, quella del 1° aprile 1981, che questa invenzione della coppia stoica, romana, da una parte redistribuisce largamente i valori del maschile e del femminile (tradizionalmente sovrapponibili alla coppia attivo/passivo), e dà alla donna un ruolo inedito di sostegno. Ma, d’altra parte, questa struttura nuova designa due linee maggiori, di cui Foucault sottolinea l’importanza storica. In primo luogo, per la prima volta, la sessualità diventa, come egli afferma, «una dimensione permanente della soggettività». Foucault dice esattamente: «soggettivazione dell’attività sessuale, o passaggio da una soggettivazione che aveva la forma di atti a una soggettivazione in forma di rapporto permanente di sé a sé». In secondo luogo, questo dispositivo della coppia genera una struttura d’«oggettivazione» del soggetto di se stesso (d’auto-oggettivazione quindi), poiché questo controllo del desiderio suppone una vigilanza costante di sé, la quale certo, Foucault lo riconosce, non prende la forma di una conoscenza sviluppata o di una verbalizzazione analitica, ma di una presenza inquieta a sé che suppone una strutturazione che apre la questione seguente: «ma che ne è del mio desiderio?»
È l’atto di forza di questa ultima lezione del corso del 1981: fare apparire la strutturazione del rapporto a sé sotto la forma dell’indagine sulla verità del proprio desiderio, non immediatamente nel soggetto cristiano percepito attraverso la paura del peccato veniale, e impegnato negli atti di penitenza e di confessione, ma nel cittadino romano, sposato, che forma con sua moglie una coppia, questa coppia eterosessuale fedele che, per Foucault, fa oscillare la storia della soggettività.
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Traduzione: Giuseppe Vizzini.
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1M. Foucault, Subjectivité et verité, EHESS Galimard/Seuil, Paris 2014, pp. 299-304; (Dits et écrits, volume IV, édition étabilie sous la direction de Daniel Defert et Francòois Ewald, Éditions Galimard, Paris 1994, pp. 213-218).
2M. Foucault, Il metodo di Artemidoro, in Id., La cura di sé, trad. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 2004, pp.10-22.
3M. Foucault, Il ruolo matrimoniale, in Id., La cura di sé, cit., pp. 76-84.
4M. Foucault, Plutarco, in Id., La cura di sé, cit., pp. 193-209. [NdC] Per l’opera originale di Plutarco, cfr. Plutarco, Erotica. Dialogo dell’amore, La Spiga, Vimercate 1992.
5M. Foucault, Subjectivité et verité, cit., lezione 11 Marzo 1981.
6Troviamo questi chiarimenti nelle lezioni del 7 e 14 Gennaio e in quelle dell’11 e 18 Marzo 1981.
7[NdC] Letteralmente «philosophie fondamentale», quindi «filosofia dei fondamenti». Si ricorda come la nozione di «filosofia teoretica» sia propria del lessico specialistico italiano.