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Giacomo Pisani
1. Tecnica e verità
Il dispiegamento del pensiero tecnico-calcolante su scala globale ha raggiunto negli ultimi decenni un livello tale da sconvolgere totalmente i ruoli, le gerarchie e gli strumenti ermeneutici indispensabili alla comprensione del nuovo quadro socio-economico internazionale.
Il sogno della modernità di estendere la possibilità di manipolare e progettare la natura e gli spazi della vita sembra essersi realizzato al massimo grado, fino al punto di autoalimentarsi e autoregolarsi, in un’autopoiesi che esclude l’individuo da qualsiasi posizione di trascendenza nella pianificazione dei sistemi sociali.
Il disvelamento tecnico del mondo nel suo pieno dispiegamento ha una sua genesi storica, in cui Heidegger coglie il ruolo fondamentale svolto dall’«oblio metafisico dell’essere». L’imporsi dell’ente come unica forma di realtà, con l’oblio della differenza ontologica, si traduce nell’assolutizzazione dell’immagine tecnico-metafisica del mondo, che riduce gli enti ad utilizzabili intramondani e al loro funzionamento all’interno della configurazione sistemica presente. L’ente, anziché essere assunto nella sua costitutiva finitezza, che lo rimette ad un ambito storico di riferimento in cui l’uomo stesso è implicato, diviene parte di un modello assoluto di realtà a cui l’uomo deve irrimediabilmente adeguarsi.
Si impone così una specifica architettura dell’essere su cui si fonda un’idea inespugnabile di verità e di natura umana. Anche le filosofie umanistiche hanno finito con l’ignorare la costitutiva esposizione dell’uomo all’essere, alla storicità, subordinando il proprio impianto teorico ad un dato assoluto: l’essere entificato, fissato nella sua datità. Come scrive Heidegger,
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per quanto queste forme di umanismo possano essere differenti nel fine e nel fondamento, nel modo e nei mezzi previsti per la rispettiva realizzazione, nella forma della dottrina, nondimeno esse concordano tutte nel fatto che l’humanitas dell’homo humanus è determinata in riferimento a un’interpretazione già stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nel suo insieme”1.
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È sulla mancata assunzione della finitezza del nostro orizzonte storico conoscitivo che si fonda la filosofia della rappresentazione, che concepisce la conoscenza come specchio della natura2. La verità viene concepita come corrispondenza dell’intelletto al mondo esterno, assunto nella sua datità. Questa concezione della verità si fonda, a ben guardare, sulla definizione medievale della verità come adaequatio, secondo cui l’intelletto può adeguarsi alla cosa in quanto l’essere di quest’ultima è anticipatamente pensato dalla mente di Dio3.
Caduto il fondamento divino, è rimasto insondato il fondamento di tale adeguamento; la natura poggia solo su se stessa, si configura in base alle categorie in cui è stata fissata, quasi fossero l’unico sguardo possibile sul reale. L’assolutezza di tale approccio alla verità ha garantito la stabilità della tecnica come articolazione assoluta della realtà, a cui l’uomo ha dovuto appunto adeguare metodi d’indagine, comportamenti, visioni della realtà.
A ben guardare, i naturalismi hanno segnato l’architrave delle visioni moderne della società, del diritto, della morale ecc. Il diritto moderno di matrice giusnaturalista immagina la conformità della società alle leggi naturali, astraendo un modello naturale di società, di ragione e di umanità dall’immanenza dei processi storici reali.
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L’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino – quali si ritrovano nelle “Dichiarazioni” delle grandi rivoluzioni borghesi – passò attraverso un forte ancoraggio di questi diritti alla natura umana, presentata come universale, eguale e immutabile nel tempo e nello spazio. La dottrina del diritto naturale è un’ideologia che accompagna una certa fase della storia borghese moderna, non priva di ambiguità dal punto di vista teorico, dal momento che si coniuga tanto con posizioni metafisiche – che consentono di inserire i diritti naturali in un ordine del mondo – , quanto con concezioni empiristiche della natura umana (v. Hobbes)4.
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L’uomo conosce la natura per mezzo della ragione che, al contempo, è ciò che lo mette in comunicazione con le leggi di natura e garantisce stabilità all’ordine del reale.
Il positivismo giuridico ha strappato alla natura il fondamento del diritto, considerandolo come storico e condizionato da fattori di tempo e di spazio. Il diritto è legittimo in quanto posto (positum) secondo le modalità previste in un dato sistema giuridico. La sua validità dunque deriva dalla sua pura forma, indipendentemente da principi trascendenti inerenti al contenuto delle norme stesse. In verità, considerando la legittimità del diritto alla luce delle sole regole formali che lo determinano e ignorando i fattori culturali, politici e sociali che lo condizionano, il diritto positivo, affermatosi in seguito alla vittoria della borghesia liberale nel XIX secolo, conferisce stabilità e certezza ancor maggiori ai principi giuridici che i giusnaturalisti avevano legato alla natura umana.
La razionalizzazione tecnica si estende così ad ogni sfera dell’esistenza. Anche la produzione risulta determinata in posti e mansioni che definiscono ruoli e posizioni sociali stabili. Su tale modello di produzione si è fondato il welfare classico, avente come soggetto di riferimento il cittadino lavoratore padre di famiglia.
Da un lato, la razionalità strumentale, approfondendosi fino a comprendere ogni sfera dell’agire umano, ha esteso il dominio della manipolazione a dismisura, rendendo l’uomo il vero signore del creato. Dall’altro, l’agire tecnico-strumentale ha subordinato l’uomo ad un dato orizzonte storico eventuale, assunto nella sua assolutezza e configuratosi come unico ambito significante in grado di determinare possibilità di intervento sulla natura e di relazione con gli altri.
L’uomo oggettiva la natura entro una determinata configurazione della realtà, da cui tende ad essere esclusa ogni variabile non calcolabile in termini quantitativi. Il rapporto oggettivato entro algoritmi preventivamente strutturati diviene l’unico medium fra l’uomo e il mondo. Il primo assume una posizione trascendente rispetto al secondo ed è così impossibilitato ad assumere il rapporto dialettico che sussiste fra se stesso e l’oggetto, il quale si regge su un’apertura di senso che ci rende costitutivamente implicati nella sua stessa forma. L’azione umana resta fissata entro una medietà totalizzante che impedisce margini di autonomia e di rielaborazione, invertendo il rapporto fra soggetto e oggetto e rimettendo la forma del mondo al dispiegamento dei dispositivi tecnici. La «standardizzazione universalistica» di cui parlava Weber è molto più che un appiattimento dei parametri e dell’agire individuale. Essa si configura piuttosto come un processo di razionalizzazione che subordina la stessa attività degli individui alla mediazione tecnica, la quale elimina ogni possibilità di rapporto fondata su un orizzonte simbolico di altro genere (poetico, magico ecc)5.
Lo sviluppo vorticoso della tecnica negli ultimi decenni rischia di rimettere in discussione gli elementi in gioco. Persino il rapporto di trascendenza dell’uomo rispetto alla natura viene trascinato entro una dimensione orizzontale in cui le gerarchie sono riarticolate e il dominio della tecnica si esplica in un piano di immanenza in cui il soggetto, da attivatore, prende a fluttuare nelle possibilità continuamente prodotte dalla società turbo-capitalista, divenendo, al contempo, prodotto e produttore, consumato e consumatore.
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2. La società postmoderna
La società dei media e della comunicazione generalizzata ha sconvolto il rapporto stesso dell’uomo con la realtà, con la creazione di una nuova dimensione fondata sull’estetizzazione, sull’esubero di immagini, di possibilità e di contenuti da consumare ed espellere rapidamente, in assenza di qualsiasi radicamento storico e dialettico. L’individuo, strappato al contesto storico in cui ha maturato la propria identità e gli strumenti ermeneutici indispensabili alla comprensione della realtà, è perso nelle infinite possibilità in cui la postmodernità consiste, tutte sovrapponibili e prive di qualsiasi disposizione gerarchica in ordine ad un rapporto esistenziale con il soggetto.
La moltiplicazione delle possibilità e delle vie di accesso alla rete e al confronto con l’alterità non ha prodotto quella relativizzazione dei punti di vista e quell’erosione della verità auspicata dal postmodernismo a partire dagli anni ’706, ma ha immesso gli individui in un’arena neutra in cui, deprivati di punti di riferimento e di comprensione dei rapporti sociali in cui è incardinata la realtà, sono stati impossibilitati ad oggettivare il proprio disagio e a progettare il proprio futuro.
Il processo che ha portato all’affermazione della dimensione estetizzante tipica della società dei consumi non è stato affatto lineare. Tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 l’Europa ha vissuto una stagione di intensa mobilitazione. Uno straordinario processo di soggettivazione si inseriva all’interno di una crisi strutturale dell’ordine capitalistico su scala mondiale, penetrando in maniera conflittuale entro i rapporti di produzione e il comando d’azienda. Come scrive Marcello Tarì,
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il comando capitalistico mondiale si muoveva tra l’incipiente sconfitta in Vietnam, le insorgenze metropolitane, la guerra in Medio Oriente, la conflittualità operaia, la distruzione della famiglia tradizionale, la disaffezione di massa a qualsiasi ordinamento istituzionale «democratico»7.
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Non possiamo soffermarci, in questa sede, sulle dinamiche che hanno portato all’assorbimento di un conflitto che, al di là di alcuni limiti teorici e strategici8 metteva in questione alcuni momenti fondamentali dei rapporti di forza capitalisti. Certamente la sconfitta di quello che in Italia, in particolare, costituiva il più forte movimento antagonista europeo, non può essere letta solo in termini politici ma è ascrivibile anche ad un’azione repressiva del potere statale, che ha avuto nel processo del 7 Aprile e nel teorema Calogero, nel 1979, un momento decisivo, che ha bloccato, tra l’altro, una stagione animata da importanti processi istituenti. Molte delle rivendicazioni interne al movimento antagonista, negli anni ‘70, sono entrate nel lessico politico italiano, innescando una straordinaria stagione di riforme. Riprendendo le parole di Luigi Pannarale,
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dopo i meravigliosi anni Settanta, ingiustamente ricordati solo come gli anni di piombo, nonostante che in quel decennio la nostra legislazione abbia prodotto una quantità di riforme incomparabile con qualsiasi altro decennio della nostra storia repubblicana (statuto dei lavoratori, servizio sanitario nazionale, divorzio, aborto, istituzione delle religioni, ecc.), la lotta politica e l’impegno sindacale si sono progressivamente orientati sempre più verso strategie di difesa o di consolidamento delle conquiste di quegli anni, piuttosto che in direzione di un rinnovamento coraggioso delle politiche sociali, che fosse in grado di fare i conti e di cogliere i mutamenti in atto nella società9.
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La repressione di un conflitto che coglieva in termini dialetticamente avanzati le contraddizioni interne all’ordine capitalistico, si è coniugata con l’affermazione su scala globale del capitalismo finanziario, che ha messo a valore l’incredibile potenziale produttivo insito nella società dei media e della comunicazione generalizzata. La liberalizzazione, avvenuta in particolare negli ultimi vent’anni, del sistema finanziario, ha reso possibile una crescita accelerata. «Grazie ai nuovi strumenti messi a punto in quegli anni, basati su complessi algoritmi matematici, lo slegamento dell’economia dalle sue basi istituzionali è proceduto a una velocità inimmaginabile»10. Il «gioco linguistico finanziario», come lo chiama Magatti, è penetrato nella società ad ogni livello divenendo l’unico fattore di determinazione del valore.
Il capitale finanziario, avente una dimensione transnazionale, fondandosi sulla pervasività degli strumenti tecnici in ogni angolo della vita umana, si estende su scala globale e mette a valore le capacità cognitive e relazionali che si sviluppano nelle reti e nei nuovi strumenti di comunicazione globale. La rete e la comunicazione generalizzata, anziché costituire gli strumenti di liberazione dei soggetti dalle maglie della verità oggettiva e dei rapporti di potere che dietro quest’ultima si celavano, divengono l’architrave del capitale finanziario e la dimensione ideale per la formazione di un soggetto neutralizzato, disincarnato, incapace di incidere nella realtà.
Il soggetto postmoderno, infatti, è un individuo indifferente, fluttuante nelle possibilità neutre che si accavallano nello spazio estetico mediatizzato, espoliato dei caratteri identitari che fanno la stoffa di una comunità e che costituiscono il presupposto imprescindibile della relazione con gli altri e con il mondo. L’individuo isolato, incapace di comprendere l’origine del proprio disagio esistenziale, è sempre più messo a valore da un lato nella rete, attraverso l’estrazione, ad opera del capitale finanziario, di capacità, tendenze, modi di relazione. Dall’altro, lo stesso spazio metropolitano in cui vive è rimodulato attraverso la creazione di città commerciali e di un’unica dimensione pubblicitaria, in cui può perdersi nel consumo inesausto di prodotti, immagini, stili e forme di vita.
Del resto, il capitale finanziario, soprattutto nel mondo occidentale, si caratterizza sempre più per una produzione immateriale che si avvale delle capacità più generaliste e indifferenti dell’individuo. La produzione è sempre più sganciata dal posto di lavoro contrattualmente riconosciuto, tipico del modello fordista, ed inerisce alle forme di vita e di relazione che si sviluppano nella nuova dimensione estetica neutralizzata. L’estensione dei tempi di disoccupazione e di inoccupazione degli individui non intacca la produzione postfordista, ma sempre più rompe quel rapporto fra lavoro e diritti sociali che aveva costituito la linea di sviluppo dello stato-piano.
Il mercato globale, determinando modi di relazione, stili di vita e di consumo e neutralizzando le forme di soggettivazione e di rapporto con l’alterità, si articola in maniera sempre più aggressiva contro i diritti e la dignità della persona, incapace di mettere in discussione le condizioni storiche della propria emarginazione economica e sociale e di incidere sulla realtà.
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3. Politica e diritti nella postmodernità
In questa prospettiva, il mercato tende a svilupparsi su scala globale, travalicando la dimensione prevalentemente nazionale della politica e del diritto statuale e generando un diritto anch’esso sovranazionale. Come scrive L.Pannarale,
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il carattere essenzialmente statuale del diritto moderno e la sua formazione prevalentemente legislativa sono inadeguati a regolamentare i rapporti economici, transnazionali in misura crescente, e la legislazione appare inoltre troppo lenta rispetto alle mutevoli esigenze dei mercati11.
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Il mercato globale, dunque, sviluppa una “lex mercatoria” tesa a regolamentare e proteggere il mercato stesso che l’ha generata. Il mercato, intaccando in questo modo la differenziazione tra sistema giuridico e sistema economico e autorappresentandosi come ordine generale, costituisce la minaccia maggiore alla giustiziabilità dei diritti. Per questo, secondo Pannarale,
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occorre, in buona sostanza, porre dei limiti non valicabili alla monetizzabilità o alla mercificazione di alcuni diritti, non solo nel senso, già noto alla dogmatica giuridica, di un allungamento della lista dei diritti indisponibili e inalienabili, bensì anche nel senso di un’allocazione e distribuzione di determinati beni e diritti secondo modalità che prescindano da qualsivoglia considerazione di tipo economico e impongano la loro assoluta gratuità12.
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Di fronte all’onnipervasività del mercato come articolazione assoluta della realtà, il riconoscimento dei diritti fondamentali e della dignità della persona costituisce una sfida per la politica. I diritti fondamentali esigono che siano disposte le condizioni materiali per la loro giustiziabilità, che si inserisce così in una dialettica del riconoscimento che assume la sostanzialità dei diritti e della dignità umana. Proprio la dignità è oggi costantemente attentata dal mercato, che dispone a livello transnazionale le condizioni della sua riproduzione. Lo spazio della politica è confinato alla gestione tecnica dell’esistente secondo le categorie disposte dall’ordine finanziario, e inoltre relegato ad una dimensione nazionale strutturalmente incapace di porsi a regolazione dei processi economici. E’ necessaria, dunque, la costituzione di un soggetto politico in grado di inserirsi in questa congiuntura per strappare alla regolazione del mercato spazi di elaborazione politica, che possano sostituire all’astrazione dei diritti operata a livello transnazionale il riconoscimento della dignità della persona, come pre-condizione della tutelabilità dei diritti stessi.
Ma anche i diritti sono storici ed esposti al sistema sociale, e la politica deve essere in grado di riconoscere i processi di soggettivazione incentivando il mutamento sociale e mettendo in comunicazione il sistema sociale e quello giuridico. Il fatto che la produzione sia oggi connessa con la vita intera nella sua articolazione all’interno del contesto sociale, rende i conflitti sociali immediatamente incisivi sia sotto il profilo politico che sindacale, nel senso più ampio del termine. Per questo, i diritti sociali e il terreno del welfare rappresentano oggi il campo di battaglia più significativo per la politica, in quanto investono i mutamenti più importanti intervenuti nella postmodernità. Il mancato riconoscimento economico e sociale di una quantità sempre più ampia di soggetti, immediatamente produttivi entro le possibilità disposte dal capitale finanziario, si traduce in un disagio esistenziale profondo, derivante appunto dal mancato accesso al lavoro, al reddito e alla possibilità di progettare il proprio futuro a lungo termine. Questo soggetto eccedente rispetto ad un welfare lavorista e assistenzialista comprende oggi i disoccupati, i precari, i migranti, i lavoratori della conoscenza ecc. Essi possono oggi trovare nel welfare un terreno comune di conflitto politico, rivendicando il riconoscimento di beni e servizi al di fuori del mercato e delle categorie del pubblico e del privato che hanno dominato il diritto moderno. La costituzione di uno spazio comune che offra gli strumenti per una riprogettazione del futuro ad opera di questo nuovo soggetto variegato e meticcio costituisce una direzione politica fondamentale per la riappropriazione della dignità e dei diritti contro la loro mercificazione ad opera del mercato. Con il riconoscimento del carattere comunitario di alcuni beni e servizi entro il conflitto politico e la riappropriazione della progettazione del reale, è possibile soddisfare materialmente determinati bisogni con l’acquisizione sostanziale dei corrispondenti diritti fondamentali13.
L’opportunità per un soggetto politico immanente alla prassi sociale è allora quella di partire da quei momenti di soggettivazione che già innervano lo spazio europeo, da quei bisogni e istanze soffocate che già eccedono l’astrazione della finanza e che chiedono spazi di riconoscimento e di crescita.
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1 M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 2011, p. 42.
2Cfr. P. Engel, R. Rorty, A cosa serve la verità?, Il Mulino, Bologna 2007.
3Cfr. M. Heidegger, Sull’essenza della verità, Armando editore, Roma 1999.
4 M. Manfredi, Il valore ambiente, Schena editore, Fasano 2000, p. 81.
5 Cfr. M. Magatti, La grande contrazione, Feltrinelli, Milano 2012, pp.30-31.
6Cfr. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna (1979), Feltrinelli, Milano 2002; G. Vattimo, P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983; G. Vattimo, La società trasparente (1989), Garzanti, Milano 2011.
7M. Tarì, Il ghiaccio era sottile. Per una storia dell’Autonomia. Derive Approdi, Roma 2012, p. 8.
8Si veda il primo capitolo del mio Le ragioni del reddito di esistenza universale, ombre corte, Verona 2014.
9 L. Pannarale, Correva l’anno 1982…, prefazione a G.Pisani, op. cit., p. 9.
10 M. Magatti, op.cit., p. 87.
11 L. Pannarale, Il diritto che guarda. Rischi della decisione giuridica, Franco Angeli, Milano 2008, p. 54.
12 Ivi, pp. 68-69.
13Cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011; T. Negri, Inventare il comune, Derive Approdi, Roma 2012; S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune, Ombre corte, Verona 2012.