L’Essere, tra l’umano e il naturale

AchilleRembrandt D’Onofrio

  

 Secondo Heidegger, l’animale è povero di mondo (mentre la pietra è priva di mondo). Anche l’uomo, nella sua quotidianità, è povero di mondo, ma ha la possibilità, solo ponendosi la problematica dell’essere, in altre parole, facendo metafisica, di andare oltre i semplici enti e “progettare” il mondo.

1- LA NOIA PROFONDA.

La rifondazione Heideggeriana della metafisica, prevede, per l’essere umano, una prospettiva esistenziale secondo la modalità del “poter essere”, che contempla le infinite possibilità progettuali, a differenza dell’animale che rimarrà sempre una semplice presenza, come verrà meglio argomentato in seguito.

C’è un punto in cui l’uomo e l’animale hanno, rispetto al mondo, pari dignità esistenziale o, detto in altri termini, pari miseria di mondo o, detto più propriamente, omogeneità a-sistenziale. E’ il punto in cui l’uomo è pervaso dalla noia profonda, da quel sentimento cioè, in cui tutte le cose appaiono (o si manifestano) con indifferenza; come se una nebbia s’infiltrasse tra le cose rendendole amorfe, incolori, senza sostanza o, che è la stessa cosa, della stessa sostanza. L’essere umano, al pari dell’animale, subisce il mondo nella sua costituzione ontica; insiste nell’interpretare in modo inautentico l’essere, confondendolo con la semplice presenza. Ma la noia profonda, è anche il punto da cui si materializza la possibilità, per l’essere umano, di riscattare la metafisica: l’interrogazione sull’essere è dalla noia profonda che prende corpo, e può intervenire a ripristinare l’omeostasi, ovvero quel giusto rapporto tra gli enti; rapporto fatto di apertura alla possibilità più estrema, la morte, che apre alla possibilità di tutte le possibilità, e tale modalità non può realizzarsi se non con la produzione di mondo.

L’animale, per contro, della collusione insuperabile ed ineluttabile con gli enti indifferenziati (la noia profonda dell’umano) ne fa la sua costituzione vitale. Nella noia profonda rimbomba l’eco della chiamata: l’esserci ascolta e decide; l’animale non ha orecchi.

Heidegger pone l’accento sulla metafisica, come l’attività peculiare dell’uomo che, spinto dalla nostalgia di sentirsi a “casa propria”, fa filosofia per proiettarsi oltre ciò che è natura ed enti: mondo, finitezza solitudine! Lo stato della noia profonda, invischia l’uomo nella informità del mondo; ma come si rende possibile il riscatto? Qual è la strada, il cui percorso porta l’uomo allo scoprimento del mondo, della finitezza, della solitudine? E perché questa strada può essere percorsa solo in misura inessenziale dall’animale ed è preclusa alla pietra? Il tempo è la radice da cui Heidegger fa nascere la questione del mondo, e la dimensione del tempo è anche il fondamento della noia profonda. Nella noia profonda, al pari dell’animale, l’uomo non riconosce più il carattere ontologico del tempo, smarrisce la sua storicità e si riduce a mera semplice presenza che nasce, cresce, si riproduce e muore (anzi: si estingue). In questa condizione, perdendo la sua temporalità, perde la via per l’essere, decade, e l’interrogazione non ha più senso.

La noia profonda è il riflesso di uno stato d’animo particolare da cui scaturisce il vuoto “nella sua totalità”, che è la parola chiave su cui Heidegger imposta il suo ragionamento.

Il vuoto nella sua totalità” è la base di indifferenziazione degli enti, e l’ampiezza di tale vuoto “nella sua totalità”, che ci cattura nella noia profonda, si chiama mondo! Ma più propriamente, nella noia profonda, “nella sua totalità” gli enti neppure sono indifferenziati: la nebbia, semplicemente li nega! Nella negazione essi portano con sé perfino l’oppressione dell’esserci. E’ messa in crisi, inoltre, l’ambiguità della sussistenza e l’esserci non ha nulla su cui interrogarsi perché l’ampiezza è totale, e in più, senza tempo. L’esserci è privo del substrato per edificare l’essere: il tempo. L’essere non “è” più tempo, l’esistenza è infranta … e si naturalizza ad animale. Ma la noia profonda offre la possibilità di essere destata, con l’interrogazione; e la possibilità fa emergere un orizzonte che “incanta e incatena”; l’incantamento e il vincolo sono resi possibile solo nella temporalità, e l’esserci riprende fiato, grazie “all’orizzonte e all’attimo”: al mondo alla finitezza e alla solitudine, che “ha la potenza originaria di non isolarci, ma di gettare l’intero esserci nella sconfinata prossimità dell’essenza di tutte le cose”.

 

Con il destare lo stato d’animo fondamentale della noia profonda, si assume su di sé il peso dell’oppressione e dello sgomento e il niente della nebbia lascia il posto all’esistenza. Il paradigma ex nihilo nihil fit, viene rovesciato, perché il niente è la condizione che si riveli l’ente in quanto ente (l’”in quanto” ha una portata valoriale determinante per la produzione di mondo, come verrà spiegato in seguito), non come semplice presenza, ma come elemento fondativo per la progettazione dell’esserci: l’uomo è pronto a formare il mondo, l’animale ad ignorarlo. Lo sviluppo delle due prospettive avanza secondo un’analisi comparativa che vede la speculazione dell’animalità come la via per arrivare all’essenza dell’esserci: la semplice presenza dell’animale, limitato dal suo cerchio ambiente, come spunto per arrivare al poter essere dell’uomo destato dalla noia profonda della quotidianità.

2- TRA GLI ENTI: IL MONDO.

Se il mondo è l’ente accessibile con cui si fa commercio, la pietra non ha assolutamente mondo in quanto non si relaziona con gli altri enti. La pietra non sceglie. Può essere spostata da un punto all’altro del suolo, può giacere in fondo a un lago, può rotolare; la pietra si può trovare in un posto qualsiasi senza che abbia accesso all’ente: la pietra è senza mondo in quanto non ha accesso alle cose.

La lucertola sceglie la pietra su cui stare per prendere il sole e, scacciata, potrebbe tornare sulla stessa pietra o sceglierne un’altra; pur non “sentendo” la sussistenza della roccia, si relaziona ad essa, ha uno scambio. Si dice che la lucertola ha un suo mondo ambiente che è più povero rispetto al mondo ambiente dell’uomo; povertà non in senso di miseria, ma in quanto l’animale può far a meno della rimanenza di enti: “l’animale è, per la durata della sua vita, imprigionato nel suo mondo ambiente come in un tubo che non si allarga, né si restringe”[1]. Ma all’interno del tubo, che non si allarga ne si restringe, qual è il rapporto che l’animale instaura con il nemico, con il cibo, con la roccia? In altre parole, in che termini la vita dell’animale si differenzia da quella dell’uomo, posto che nel primo è limitata da un tubo e nel secondo “dalla totalità” e di questa egli ne è produttore?

2.1- L’ANIMALITA’ COME CONDIZIONE PER FARE A MENO DEL MONDO.

Per sviluppare ulteriormente l’analisi, Heidegger problematizza la possibilità della trasposizione dell’uomo nell’animale, per portare in luce l’essenza dell’animalità e riuscire a capire cosa voglia dire fare a meno del mondo e, in ultima analisi, in positivo, cosa voglia dire, formare mondo per l’uomo.

Il processo di trasposizione dell’uomo è un accompagnarsi con… un altro ente che non sia egli stesso, percependone l’essenza. Da questo rapporto possono progredire ulteriori sviluppi esistenziali il cui fruitore rimane solo l’uomo. L’animale può fruire di altre particolarità derivanti dall’accompagnarsi con… ma non di carattere esistenziale.

La domanda è: l’uomo si può trasporre in una pietra? Ovviamente no perché la pietra non ci offre alcuna possibilità di accompagnarci che parta dal suo essere.

L’uomo si può trasporre in un altro uomo? La domanda è superflua dal momento che l’esserci è tale in quanto è un essere insieme agli altri (con-essere con altri). La possibilità della trasposizione in un altro uomo appartiene all’essenza dell’uomo; è un passaggio obbligato per accedere alla questione di fondo relativa all’esistenza effettiva (nonostante, aggiunge Heidegger, tutto il soggettivismo della filosofia moderna a partire da Cartesio, poi Kant ed Hegel, per cui l’uomo è innanzitutto soggetto e coscienza, e in quanto tale è dato a se stesso per primo e in maniera più certa).

Qual è la modalità di trasposizione nell’animale? Heidegger prende ad esempio gli animali domestici che vivono con noi.

Gli animali domestici vengono da noi tenuti in casa, “vivono” con noi. Ma noi non viviamo con loro, se vivere significa: essere nella maniera dell’animale. E tuttavia noi siamo con loro. Ma questo con-essere non è un esistere con, dal momento che un cane non esiste, bensì semplicemente vive. Questo con-essere con gli animali è tale che lasciamo che gli animali si muovano nel nostro mondo. Affermiamo: il cane è sotto il tavolo, salta su per la scala. Ma il cane – si rapporta ad un tavolo in quanto tavolo ad una scala in quanto scala? Eppure sale le scale insieme a noi. Si ciba con noi – no, noi non ci cibiamo. Pranza con noi – no, lui non pranza. Eppure con noi! Un accompagnarsi, una trasposizione – eppure no.[2]

C’è quindi una sfera di trasposizione sia dall’uomo nell’animale che viceversa, ma mentre la trasposizione dell’uomo è connaturata con il suo esserci, la cui strutturazione è possibile grazie alla temporalità (finitezza) che sta a fondamento del mondo, quella dell’animale si basa su un principio di privazione del mondo, connaturato alla sua animalità. Il punto quindi è chiarire il concetto di animalità per arrivare a comprendere l’essenza della povertà di mondo. Ma l’essenza dell’animalità riporta anche alla determinazione essenziale del vivente in generale, della biologia, in altre parole alla caratterizzazione dell’essenza della vita!

2.1.1- LA DIFFERENZA TRA ORGANO E STRUMENTO PER CARATTERIZZARE L’ORGANISMO, QUINDI L’ANIMALE.

Una comune caratterizzazione del vivente è la sua appartenenza al mondo organico di contro all’inorganico; ma ciò non spiega l’essenza della vita soprattutto alla luce del significato di organo: strumento. Anche il martello è uno strumento, ma va da sé che la relazione con il mondo tra l’organismo (l’insieme di organi) e il martello è diverso (non fosse altro per il carattere di temporalità tra i due). Estrapolare la differenziazione tra organismo e altri enti non organici, è la base di comprensione dell’essenza della vita, quindi dell’animalità, quindi del diverso grado di relazione con il mondo: cogliere l’originaria essenzialità particolare del vivente, e dire se corrisponde alla tesi “l’animale è povero di mondo”, almeno nella misura in cui, per mezzo suo, viene aperta la via per una concreta interpretazione essenziale della vita in generale[3]. In altre parole: l’essenza del carattere dell’organo chiarirà la questione se l’organismo sia la condizione di possibilità della povertà di mondo dell’animale o se, al contrario, sia proprio la povertà di mondo dell’animale a renderci comprensibile perché un vivente possa e debba essere un organismo[4]. E in modo più specifico, di concludere che la povertà di mondo dell’animale è una necessità dell’organismo, quindi della natura organica.

Il carattere filosofico dell’analisi differenziale tra l’organo e lo strumento è insito nell’enigma: l’animale può vedere perché ha occhi, o ha occhi perché può vedere? (E’ il poter vedere che rende possibile il possesso degli occhi). Questa interrogazione veicola tutto il peso della problematizzazione dell’essenza della vita, secondo il punto di vista di Heidegger, e nel contempo suggerisce l’idea che gli organi non sono meri strumenti, e l’organismo non è una mera macchina.

Gli organi sono l’espressione che indicano l’essenza dell’animalità, anche se l’essenza dell’animalità non è data dagli organi (come l’occhio, l’orecchio, la pelle ecc.) ma dalla possibilità che l’animale ha di poter vedere, sentire, toccare ecc. Da questo punto di vista gli organi si avvicinano molto alla funzione di strumenti: essi sono utili a vedere, sentire, toccare ecc. così come la penna è utile per scrivere. Ma proprio laddove organo e strumento si trovano vicini riguardo alla loro utilità, emerge una differenza decisiva: se la penna è qualcosa di essente per sé, e può essere utilizzata da più persone, l’occhio e usato solo dall’organismo che lo incorpora. La penna è sempre sussistente a sé, l’organo non lo è mai. La non sussistenza dell’organo è una necessaria chiarificazione che determina il successivi sviluppo del ragionamento.

  Lo strumento una volta fabbricato è pronto ad essere usato. Lo strumento finito reca in sé la prontezza; per la utilizzabilità dell’organo non è sufficiente la prontezza. E’ necessario un quid in più che è definita come: la capacità di …; che gli è attribuita dall’appartenenza ad un organismo (lo strumento non appartiene a nessun organo da cui abbia necessità di ricevere capacità).

La capacità è anteriore a qualsiasi formazione di organi. Questo concetto, chiarirà  “che è proprio la povertà di mondo dell’animale a renderci in generale comprensibile perché un vivente possa e debba essere un organismo”, e chiarirà anche che la povertà di mondo definisce l’essenza dell’animale, che sovvertirà, per importanza, tutte le altre definizioni note relative all’animalità (organismo senziente privo di ragione e di linguaggio).

2.1.2- LA CAPACITAZIONE SPERMATICA COME ESEMPIO DI FONDAMENTO CHE ANTECEDE L’ORGANO.

Per spiegare il carattere evocato da Heidegger della “capacità” di un organo, si può citare come esempio, ciò che in fisiologia della riproduzione va sotto la definizione di “capacitazione spermatica”. Si tratta di un processo in virtù del quale, su diversi milioni di spermatozoi, tutti parimenti funzionali, e tutti potenziali strumenti utili, solo uno viene “capacitato” a fecondare la cellula uovo, gli altri consimili andranno incontro alla distruzione. Il fenomeno della capacità (nell’esempio citato: capacitazione) di un organo, è la possibilità, (quindi il potere) che l’organismo ha su quell’organo. In ultima analisi, lo scopo di Heidegger è dimostrare che l’organo non sussiste per se, ma è determinato da una ragione primordiale (il fondamento):

“la capacità” di mangiare, digerire, sono antecedenti ai relativi organi. La “capacità” cattura l’organo al suo servizio. Negli organismi unicellulari, come le amebe, la formazione di un apparato digerente, dalla bocca all’intestino, viene approntata all’occorrenza: si forma prima la bocca, poi l’intestino, poi questi organi si autoannullano. “L’essere capace” che attiva l’organo è il modo d’essere dell’organismo:

… l’organo appartiene ad una capacità. La capacità si crea i suoi organi determinati. Solo in questo senso, che una capacità si crea sempre i suoi organi, possiamo parlare di incorporazione degli organi nell’organismo […]. Il mezzo pronto sottostà, quanto al suo possibile uso, ad una prescrizione espressa oppure inespressa […]. Ciò che è capace, al contrario, non sottostà ad una prescrizione, bensì è esso stesso portatore di regole e regolatore. Si spinge esso stesso in una determinata maniera, in avanti nel suo essere- capace di … Questo spingersi in avanti ed essere-spinto in avanti nel suo di-che, in ciò che è capace, è possibile soltanto se l’essere-capace è in genere istintuale. Vi è capacità sempre e soltanto là dove vi è istinto.[5]

Da questo passo si capisce anche come la temporalità giochi un diverso ruolo tra “l’essere pronto” e “l’essere capace”. Un organo capacitato è posto al servizio della capacità, ma il servizio può anche non esercitarlo: vedi l’atrofizzazione.

L’essere al servizio dell’organo dà una ulteriore determinazione alla non sussistenza dell’organo rispetto al mezzo. Si insiste sul carattere fondamentale della non sussistenza perché questo concetto permette ad Heidegger, come vedremo poi, di mettere in dubbio il principio dell’evoluzione di Darwin.

L’essere capace ha un’altra prerogativa: si riferisce alla ipseità dell’organismo; nessuno può farsi carico dell’essere capace dell’altro. L’essere capace ha una sola direzione: verso se stessi. Ciò apporta un altro carattere: l’esser-si-proprio.

Il modo e la maniera in cui l’animale si è proprio, non è la personalità, non è la riflessione né l’autocoscienza, bensì semplicemente la proprietà. La peculiarità è un carattere fondamentale di ogni capacità. Essa si appartiene, è coinvolta da lei stessa. La peculiarità non è una qualità insolita e particolare, bensì un modo di essere, e cioè nella maniera dell’esser-si-proprio. Così come parliamo della regalità di un re, cioè del suo esser re, parliamo anche della proprietà di un animale nel senso del suo specifico esser-si-proprio.[6]

La capacità quindi ha la qualità della peculiarità dell’animale. L’organismo non è solo questo o quell’ente, ma è l’ente tra i tanti che ha la peculiarità di creare organi che “animati” dal “dono” della capacità, vivono. Solo chi è oggetto di capacitazione vive (uno spermatozoo tra i tanti). A rigore, chi non è stato toccato dalla capacitazione, come la pietra, neanche può esser morto: “materia morta è un pseudo concetto”. In altre parole, l’essenza del modo di essere dell’animale, è determinato dalla peculiarità dell’esser-proprio dell’organismo che gli permette di creare organi capaci e messi a servizio, senza risalire ad una forza operante, ad un’anima, ad una coscienza.

2.2- AUTONOMIA DELL’ORGANO AI FINI DELLA VITA; UTILIZZABILITA’ DELLO STRUMENTO AI FINI DELL’ESSERE.

Tutto questo ragionamento sull’analisi della differenza tra organo e strumento deve portare a far capire che lo strumento veicola un significato ontologico, serve all’essenza dell’esserci, l’organo invece non è utile ai fini dell’essere, ma solo alla determinazione della vita.

Al di là dell’obiettività delle cose del mondo, è importante sottolineare che prima del mondo c’è l’esserci che “anima” l’essere delle cose in quanto le veste di valore di utilizzabilità nell’ambito di un progetto. Non ci fosse l’esserci, e il progetto di produzione di mondo grazie alla utilizzabilità delle cose, non ci sarebbe mondo. Il mondo è un carattere “dell’esserci stesso”. Chiarire il concetto di mezzo (o strumento) vuol dire chiarire l’essere delle cose, chiarire il concetto di organo (e, per estensione organismo, quindi animale) vuol dire chiarire la vita, anche se ambedue nascono come semplici presenze.

Heidegger mira a cogliere l’originalità essenziale del vivente che corrisponde alla tesi della povertà di mondo dell’animale; in altre parole: se l’essenza della vita corrisponde alla mancanza di progetto e quindi ad un velamento dell’essere. Povertà di mondo come povertà di essere. La povertà di mondo dell’animale (che è l’essenza dell’animalità) ci fa capire perché un vivente debba essere un organismo, con le peculiarità descritte: capacitazione, istinto, esser proprio a se stesso, ridotta progettualità; e non può essere altrimenti, in quanto è privato della possibilità di utilizzabilità degli strumenti in senso progettuale (quindi in senso temporale).

Ma tutto ciò come è possibile concepirlo? Più precisamente: cosa c’è dietro la capacità di cacciare, nutrirsi, fuggire, lottare, riprodursi, costruire il nido. “Cos’è tutto ciò?” Si chiede Heidegger.

3- COMPORTAMENTO E STORDIMENTO: CARATTERI PER LA DETERMINAZIONE DELL’ANIMALITA’

Sono i concetti chiave per l’ulteriore sviluppo del ragionamento.

Il lombrico che fugge davanti alla talpa, e la talpa che insegue il lombrico, non sono solo l’espressione di un processo logico di tipo causale; sono l’espressione del comportamento dei due animali. La pietra non ha comportamento. L’uomo ha un comportamento che chiamiamo condotta. Il comportamento dell’animale è una pratica istintuale che risponde alla legge dinamica dell’esser sospinto senza riflessione. Il comportamento dell’uomo è un agire che lo porta a relazionarsi con il mondo presente nella sua spazialità e temporalità. L’animale, dallo spazio e dal tempo, in una parola, dal mondo, e più specificamente dagli enti, non riceve alcun segnale di condotta; e non può riceverne perché dagli enti egli è stordito (inebetito, instupidito), nel senso di “sottrazione di ogni apprensione di qualcosa in quanto qualcosa”. Lo stordimento è la base del comportamento: ne è la sua possibilità. Nello stordimento l’animale non è in relazione con l’ente e neanche con se stesso in quanto ente, che in tal caso ente non è. In questo senso lo stordimento è un momento essenziale dell’animalità; in quanto tale non è una condizione casuale o episodica: è la possibilità di essere animale.

Heidegger ci conduce alla constatazione filosofica dello stordimento dell’animale, con una serie di esempi concreti e raffinati. Evoca il mondo delle api.

L’ape operaia è stata capacitata a succhiare il nettare dai fiori (è il suo comportamento che glielo impone). Sceglie un fiore, ne succhia il nettare; poi cambia fiore: siamo indotti a pensare che il trasferirsi da un fiore all’altro sia determinato dalla scarsità del nettare presente nell’addome, e la ricerca del fiore avrà termine quando l’addome fosse pieno; e che tutto il comportamento dell’animale sia conseguente alla sussistenza del nettare.

Heidegger cita poi un esperimento: un’ape, privato chirurgicamente dell’addome, di fronte ad una vaschetta colma di miele, succhia lo zucchero in modo incontrollato, facendolo uscire dal di dietro. Ciò a dimostrazione che non è la sussistenza dello zucchero a suggerire l’attività di suzione e di immagazzinamento, ma solo lo stimolo di sazietà (che in questo modo non avrebbe modo di esprimersi, perché inibito). L’ape è indotta dall’istinto, che è il fondamento del comportamento, ad essere sospinto alla suzione; lo stesso istinto che la sospinge verso l’arnia di appartenenza. Gli apicoltori sono soliti dipingere con colori vivaci e disegnare con figure geometriche le pareti dell’arnia, credendo di facilitare le api a riconoscere meglio la propria casa. Ma non è così, infatti se si sposta l’arnia di soli 1-2 metri, l’ape è confusa e non riconosce la propria arnia: insiste a cercarla dove era posizionata prima.

Heidegger, con questi esperimenti vuole dimostrare che l’animale è stordito rispetto alla manifestatività degli enti. L’animale è stordito perfino verso se stesso come ente. L’ape raggiunge la propria arnia grazie al suo comportamento istintuale che lo porta a valutare l’inclinazione del sole; ma con il sole ha un rapporto di stordimento.

Radicalizzando il ragionamento, si può citare come esempio il comportamento della pianticella Lactuca Serriola (lattuga selvatica, o erba bussola), che dispone le sue foglioline verticalmente durante le ore più calde della giornata, in modo da offrire meno superficie possibile ai raggi del sole (paraeliotropismo). In questo caso, la modificazione della pianticella ha una qualche relazione con la manifestatività dell’ente? Ovviamente no. Così l’ape.

L’ape è semplicemente abbandonata al sole e alla durata del volo, senza coglierli in quanto tale e utilizzarli, una volta colti, per delle riflessioni. Abbandonata ad essi può esserlo soltanto perché è spinta dall’istinto fondamentale del raccogliere cibo. Proprio in tale essere-spinta, e non in virtù di constatazione e riflessioni, l’ape può essere stordita da ciò che il sole provoca in essa […]. In tutto ciò, l’ape è riferita al pascolo, al sole, all’alveare, ma questo esser-vi riferita non è un apprendere i medesimi in quanto pascolo, in quanto sole eccetera, bensì – si potrebbe dire – in quanto qualcos’altro. No, in generale non in quanto qualcosa e in quanto ente sussistente. Non un’apprensione, bensì un comportamento, una pratica, che dobbiamo intendere in tal modo, perché all’animale è sottratta la possibilità di apprendere qualcosa in quanto qualcosa, e non qui e ora, bensì sottratta nel senso di non data affatto. Questa possibilità è stordita all’animale, e per questo esso non è semplicemente non-riferito ad altro, bensì assorbito da ciò, stordito […]. Stordimento dell’animale significa dunque innanzitutto: essenziale sottrazione di ogni apprensione di qualcosa in quanto qualcosa […]. E proprio perché all’animale è sottratta questa possibilità di apprendere ciò a cui si riferisce in quanto qualcosa, proprio per questo può essere assorbito dall’altro in questa maniera assoluta.[7]

L’animale è inserito in una molteplicità di istinti che gli fanno da barriera e gli impediscono di riferirsi agli enti; pertanto gli enti non gli sono ne dischiusi ne preclusi e non ne ha esperienza in quanto enti. Di conseguenza l’animale è sospeso tra se stesso e l’ambiente. Ma l’animale stordito nei confronti di se stesso e degli altri enti, come si relaziona all’ambiente? In altre parole, il comportamento che spinge l’animale a fuggire, predare, svezzare la prole, mangiare ecc. come deve essere interpretato? Heidegger, per creare un nuovo modello di relazione che faccia a meno dell’idea tradizionale di organismo dedito al commercio con il mondo, introduce il concetto di cerchio di disinibizione. In questa ottica l’animale si muove in un cerchio ambiente in cui gli stimoli sono l’espressione della capacitazione degli organi ad operare, nella loro specializzazione, grazie all’azione di disinibenti. Il comportamento è determinato da istinti attivati da disinibenti che all’occorrenza vengono inclusi nel cerchio ambiente che circonda l’animale per tutta la vita. In altre parole, l’organismo non è più concepito come un corpo in cui convergono forma, movimento, forza, dinamismo, rispondenti a leggi fisiologiche, ma un’organizzazione che risponde in primo luogo a capacità di aprirsi e gestire il proprio cerchio ambiente. Apertura e gestione significa rendersi disponibili a certe disinibizioni specifiche da cui si attivano capacitazioni di certi organi e non altri. L’antiopa ricerca la luce, non in quanto luce, ma perché i suoi sensori sono stati capacitati ad essere sensibilizzati ad allontanarsi dall’ombra e il suo cerchio ambiente permette l’ingresso del disinibente che da la facoltà alla farfalla di orientarsi. L’animale non entra in relazione con l’ente in quanto ente, ma proprio per questo ne è assorbito; nell’assorbimento alla luce la farfalla “aggancia il suo comportamento e la sua proprietà”. Un’altra prova sorprendente, e da un punto di vista dell’umana ragione, estremamente contraddittorio, ci è offerta dal comportamento delle tarme, che vanno incontro alla luce delle candele fino a morirne. Già Darwin aveva posto il problema: perché le tarme vanno contro la luce delle candele e non della luna? La spiegazione risiede nel fatto che questi insetti, sono attratti dalla luce indiretta che si estende sulle grandi superfici, quindi non si dirigono verso la luna ma negli spazi illuminati da questa; la luce della candela non è sufficiente ad illuminare uno spazio altrettanto esteso e attrae perché viene essa stessa interpretata come una luce estesa e non intensa. Anche in questo caso, pur nella morte, l’animale include nel suo cerchio ambiente il disinibente che permette l’aggancio del suo comportamento che si esprime nel tuffo fatale nella fiammella; questo perché il suo organo, che sta alla base del fototropismo positivo, è perfettamente capacitato a cogliere la luce nella sua estensività: quello della candela è ingannevolmente estensivo.

Ma il cerchio ambiente, entro cui gli stimoli disinibiti prendono forma, e il comportamento può svelarsi, agganciandosi per lasciarsi assorbire (alla luce, alla prole, al cibo, al predatore, alla preda: al mondo), è governato e indotto dalle cose del mondo? No, sostiene Heidegger. Non è possibile perché le cose del mondo, per l’animale non sono sussistenti come enti, e l’esempio del comportamento dei diversi insetti verso la luce lo confermerebbe: il cerchio ambiente nasce con l’animale, e accompagna l’animale per tutta la vita; in esso i disinibenti (che corrispondono a stimoli) sono tali e hanno una loro effettività, solo se corrispondono ad organi capacitati. E’ l’animale che si ritaglia il suo specifico accerchiamento di possibile disinibizione, non è l’ambiente ad imporglielo. Di conseguenza deve essere ripensato anche il concetto di organismo alla luce del concetto dello stordimento. L’organismo animale non è un corpo configurato di organi e apparati da cui scaturiscono forze che fanno “vivere” l’animale, ma deve essere concepito come un esser-capace di comportamento nell’unità dello stordimento.

L’organizzazione dell’organismo non consiste nella configurazione, formazione e regolazione di forze, bensì in primo luogo proprio nell’abilità fondamentale del circondarsi, e dunque di un ben determinato esser-aperto per un ambito di possibile disinibizione.[8]

Perché lo stordimento, agendo nell’impedire all’animale di apprendere qualcosa in quanto qualcosa, lascia un’unica possibilità all’animale: il suo comportamento nell’ambito dell’esser-capace a… Ogni questione biologica nasce dal principio dell’esser-capace: dalla capacitazione degli organi deriva la corretta apertura e gestione del cerchio ambiente. Apertura e gestione nel senso di rendersi disponibile per certe disinibizioni specifiche e non altre, da cui si attivano capacitazioni di certi organi e non altri. In questo senso si attivano “intelligenze “ peculiari e personali dell’animale. E’ un’affermazione importante che permette ad Heidegger di sottoporre a critica la legge dell’evoluzione di Darwin: l’animale non si seleziona alla luce di impulsi dettati dall’ambiente (dal momento che l’ambiente non è sussistente), ma l’animale vive perché lo stordimento, rispetto agli enti, lo fa virare verso l’apertura all’altro che assume la funzione di disinibente e l’attivazione di capacitazione. Lo stordimento è l’unità strutturale che rende ragione dell’essere-capace a… che è alla base del comportamento. Tale visione rappresenta una “delineazione concreta della concezione fondamentale riferita all’essenza della vita”, visione sempre soffocata dal predominio dell’idea meccanico-fisica, antropomorfica e antropocentrica della natura.

Si avverte una rivoluzione copernicana, rispetto alla biologia e all’idea di natura che propone Heidegger. La cellula, come unità strutturale, cede il passo alla totalità unitaria dell’organismo. La cellula è solo il passaggio che la porta, attraverso le sue divisioni mitotiche, e capacitazioni peculiari, alla sua destinazione che è la totalità dell’organismo. L’essenza del concetto di “totalità unitaria”, che non è un mero risultato, a differenza dell’organismo inteso come assemblaggio cellulare, permette ad Heidegger di vedere la completa indifferenza dell’animale rispetto all’ambiente.

L’organismo non è qualcosa per sé che poi in più si adatta, bensì, viceversa, l’organismo si installa, di volta in volta, in un ambiente determinato soltanto perché l’apertura per…, è propria della sua essenza, e perché in virtù dell’apertura per…, che attraversa il comportamento nella sua globalità, si crea un campo d’azione all’interno del quale ciò che viene incontro può venire incontro in un modo oppure nell’altro, cioè è in grado di agire sull’animale come inibente.[9]

In effetti, a ben vedere, nel rapporto di vincolo si tende a interpretare l’ambiente come vincolante, e l’animale come vincolato, ma il paradigma può essere cambiato se si pensa che l’animale, ente tra gli enti, e con pari dignità ontica con l’ambiente, svolge parimenti la funzione di attivatore del processo, quando nella possibilità di non aprirsi o aprirsi, sceglie quest’ultima.

4- FORMAZIONE DI MONDO PER L’UOMO COME ATTIVITA’ METAFISICA: L’ESSERE.

L’analisi di Heidegger non è finalizzata a mettere in discussione le tesi di Darwin. L’affermazione che l’animale è povero di mondo, e lo stordimento è il carattere che lo determina, quindi la constatazione negativa che l’animale non ha mondo (nel senso di fare a meno del mondo, nonostante il confronto e l’accessibilità agli enti: il gatto che cattura il topo “accede” all’ente topo), Heidegger la fa sussistere costantemente come problema per permettere l’analisi comparativa con la formazione di mondo da parte dell’essere umano: “l’autentica esposizione del problema del mondo”. In altre parole: in che misura la sottrazione di mondo dell’animale, messa a confronto con la formazione di mondo dell’essere umano (diradamento della nebbia della noia profonda), fa emergere la questione metafisica relativa al mondo, alla solitudine, alla finitezza? Da non trascurare poi che la delineazione che è stata tracciata del concetto di organismo implica un esame dei processi vitali, e in ultima analisi della morte che, dice Heidegger, è incerto che sia la stessa cosa tra l’uomo e gli animali. L’uomo muore, gli animali, organismi come descritti (organi capacitati finalizzati ad aprirsi a…) cessano di vivere. La base fondativa dell’esserci è delineata dal plesso: morte, totalità, finitezza, solitudine, mondo; e la sua poiesi inizia dalla noia profonda.

Heidegger, alla luce dell’analisi svolta sull’animale, ritiene si siano acquisiti sufficienti elementi per passare alla tesi: l’uomo è formatore di mondo. Nell’uomo il mondo si presenta con la manifestatività degli enti “in quanto” enti. L’ “in quanto” ha un’importanza fondamentale, anzi peculiare per l’essere umano; e l’animale ne è precluso.

  L’ ”in quanto tale” riporta ad un rapporto esperienziale con l’ente. Questo coinvolge anche l’animale, anzi ne è il principio portante; ma solo nell’uomo l’esperienza con l’ente si può traduce nel giudizio: l’essere o il non essere. Tutto l’impianto speculativo di Heidegger è finalizzato a far emergere questa possibilità: la scaturigine dell’essere; è il punto di svolta della differenziazione e del diradamento della nebbia. L’animale di fronte all’ente è stordito (nel rapporto non formula il giudizio della possibilità dell’essere), l’essere umano assume una condotta verso l’ente, ma la condotta può essere esperita solo laddove c’è la possibilità di un processo di ritenzione dell’ente; in altre parole, solo nel caso che l’ente si manifesti con il carattere del se-stesso, anzi: il se-stesso dell’ente è la condizione di manifestatività. Quando l’uomo si imbatte in questa sequela di caratteri, si confronta con il fenomeno del mondo: “niente di tutto ciò si trova nell’animalità e nella vita in generale […] cosa poi il mondo sia e non sia e cosa sia l’essere degli enti, questo ci è oscuro” dice Heidegger. Ma questo limite dell’essere umano non modifica la necessità della problematizzazione comparata, anzi ne esalta i caratteri: la condotta dell’uomo e lo stordimento dell’animale. Se non è possibile chiarire cosa sia o non sia il mondo e l’essere degli enti, la problematizzazione prende la strada dell’analisi di come avvenga la formazione di mondo da parte dell’uomo, e ciò è possibile solo a partire dall’idea di animalità.

La speculazione sull’essenza dell’animalità (stordimento) si rende necessaria, perché in modo analogico ci rappresenta il carattere della quotidianità della manifestatività degli enti: l’indiffereziazione degli enti avviene nella quotidianità. Scrive Heidegger: noi osserviamo i monti, il mare, vediamo nascere e morire gli animali, viaggiamo, ci relazioniamo con gli altri esseri umani, ci rapportiamo ai corpi celesti e agli oggetti di vita quotidiana con la stessa idea di sussistenza: sussistenza uniformata; e aggiunge: il fatto che l’ente possa essere manifesto nella uniformità livellata di quanto sussiste in modo uguale, dà alla quotidianità dell’uomo la sua peculiare sicurezza, stabilità e quasi baldanza, e assicura la facilità, necessaria per la quotidianità, del passare da un ente ad un altro, senza che nel farlo il rispettivo modo dell’essere dell’ente venga ad avere peso in tutta la sua essenzialità.

Ma come è possibile relazionarci con l’ente manifesto che vada oltre la piatta quotidianità? In altre parole: come è possibile avvicinarci all’essere dell’ente, alla sua verità, che è poi l’obiettivo di tutta l’analisi?

La quotidianità è tanto fondamentale per la nostra sicurezza, ed è difficile , per la mente comune, trascenderla; ma è importante liberarsene per poter superare le mistificazioni che ci propina, tra queste, la più perniciosa, quella della mera sussistenza spoglia di ogni significato ontologico. Heidegger richiama costantemente la nostra attenzione su questo punto (in polemica con Darwin): come una mente comune, irretita dalla quotidianità vede l’ente sussistente per sé stesso e per tutti, ed è indotta a pensare che gli animali si adattano ad esso e si sviluppano solo quelli che fruiscono di un migliore adattamento a seconda della modalità di sussistenza con cui si esprime l’ente “così che dalla mucillagine originaria si sviluppa la ricchezza delle specie superiori”[10]. Ciò contraddice l’essenza dell’animalità che (non bisogna mai dimenticare) è il faro per arrivare a descrivere come opera l’esserci nella formazione di mondo.

4.1 IL PARASSITA “DICROCELIUM DENDRITICUM” COME ESEMPIO INTEGRATIVO AL CONCETTO DI ANIMALITA’.

Lo sviluppo del parassita Dicrocelium Dendriticum è un buon esempio per chiarire ulteriormente il concetto di animalità (come stordimento e cerchio ambiente) proposto da Heidegger. Si tratta di un parassita distoma (distomos “che ha due bocche”) piatto, a forma di fogliolina, di pochi millimetri, che, nella forma adulta, colonizza le vie biliari dei ruminanti e occasionalmente dell’uomo. Le uova fecondate, espulse con le feci dell’animale parassitato, si liberano nell’ambiente; qui vengono ingerite da un primo ospite intermedio, un gasteropode necessariamente polmonato (una lumachina), nel cui apparato intestinale si sviluppano le forme larvali; queste poi migrano nel polmone della lumaca aggregandosi in gruppi di 200-300, tenuti insieme da una sostanza gelatinosa con funzione protettiva. Questi boli di muco, una volta espulsi dal mollusco, aderiscono agli steli d’erba e rappresentano un boccone prelibato per le formiche (secondo ospite intermedio), dove nel loro intestino si liberano della mucillagine adesiva che le teneva insieme, e a gruppi di alcune unità raggiungono la testa della formica prediligendo il ganglio nervoso retrofaringeo, da dove partono i nervi motori della bocca; tali nervi, stimolati dal parassita, determinano una eccitazione dei muscoli mandibolari procurando uno spasmo irrisolvibile della bocca della formica, obbligandola a rimanere attaccata al filo d’erba. La pecora brucando l’erba, ingerisce la formica che veicola il parassita, e il ciclo riprende.

Una concezione comune, scientifico teoretica, a questa sequela di eventi, dà un’interpretazione che pone a fondamento la sussistenza degli enti come condizione dello sviluppo del ciclo (ambiente umido, la presenza della lumachina, della formica, il pascolamento della pecora ad una certa ora mattutina ecc.). Una concezione ontologica interpreta la sequela degli eventi, a partire dal cerchio ambiente degli animali coinvolti. Il cerchio ambiente della forma adulta del Dicrocelium Dendriticum, che stazione nelle vie biliari della pecora, è diverso da quello delle uova liberate all’esterno, che necessitano di una determinata umidità e temperatura, e questo è diverso dal cerchio ambiente della larva che vive nei polmoni della lumaca prima e nella bocca della formica dopo, qui la larva ha cambiato già grado di maturazione ed è pronta per un altro cerchio ambiente che è diverso da quello che trova nella pecora che a sua volta si crea il suo cerchio ambiente che non è quello degli altri ospiti intermedi. Ma pur nella loro diversità, tali cerchi ambienti non son separati tra di loro; non è che l’uno sta sopra l’altro o sotto l’altro; ognuno è irrelato con l’altro in una modalità di estensione reciproca: il bolo mucoso delle 200-300 larve che vivono nel polmone della lumachina, si estende nel cerchio ambiente del gasteropode e questo ha il suo cerchio ambiente esteso con l’ambiente umido del pascolo e così via. In tutta questa sequenza di estensività di cerchi ambiente, qual è il significato della manifestatività degli enti per gli animali? E’ diverso dal significato attribuito dall’uomo? Ed è altrettanto diverso il significato attribuito dall’intelletto comune rispetto all’uomo che si proietta oltre la quotidianità operando nella ricerca dell’essere?

Certo che gli animali lottano per arricchire il loro cerchio ambientale e imporlo con più efficacia; lottando essi inseriscono un pezzo della natura esprimendone così il suo carattere dominante e sovrastante nell’ambito dell’ente in generale. La forma larvale del parassita che determina la paralisi della bocca della formica esprime certamente una superiorità della natura larvale rispetto alla formica adulta e più evoluta dal punto di vista filogenetico, ma lo fa in un contatto intimo che non sottrae e non aggiunge nulla all’economia della natura e della vita stessa. Questa prospettiva implica però una maniera specifica dell’essere trasposto dell’uomo. Solo grazie alla peculiarità di tale trasposizione si può entrare nel “regno” del regno animale, e ciò sarà possibile solo se ci allontaniamo dalla concezione quotidiana che abbiamo della natura secondo cui essa è un ammasso di oggetti manifestantesi nella loro sussistenza. In un rapporto ontologico invece, la natura viene vista come una molteplicità di modi di essere rispetto all’ente, e il problema dell’unità dei diversi modi d’essere è correlato alla problematica del mondo e della finitezza. Questo, l’intelletto comune non lo percepisce, almeno fino a quando lo stato d’animo della noia profonda non è destato. L’interrogarsi sul mondo esula dall’intelletto comune. L’interrogazione è un esercizio di ontologia: gli enti si manifestano, ma la manifestatività è un attributo degli enti, come l’estensione lo è della res extensa? Nonostante la solennità della domanda, questo è un punto facile da superare, quasi ovvio: la manifestatività non può venir riscontrata nell’ente in quanto ente. La manifestatività è un accadimento legato all’ente, ma che emerge dall’uomo. Per indagare sull’accadimento della manifestatività come attività poietica dell’uomo, bisogna porre attenzione sull’essenza dell’uomo come precedentemente si è posta attenzione sull’essenza dell’animalità, e se il focus di questa è lo stordimento, il focus dell’uomo è l’esistenza, di conseguenza: “La questione di cosa sia l’uomo, se posta realmente, affida esplicitamente l’uomo al suo esserci. Questo affidamento all’esserci è il segno indicatore della sua intima finitezza”.[11] In quanto Esistenza.

4.2- ACCADIMENTO DELLA MANIFESTATIVITA’: MOMENTO DI DIRADAMENTO DELLA NEBBIA.

Emerge sempre più il complesso che vede l’essenza dell’animalità strettamente vicina allo stato d’animo fondamentale della noia profonda, che come una mucillagine lega l’esserci all’interno dell’ente nella sua totalità e indistinzione. Così precisa poi Heidegger: “naturalmente verrà in luce che questa vicinanza estrema delle due costituzioni essenziali è soltanto ingannevole e che tra di esse c’è un abisso che non può venire superato da alcuna mediazione, in qualsiasi senso. Ma allora il confronto completo delle due tesi ci diverrà improvvisamente chiarissimo, e così l’essenza del mondo”. [12] Ed è solo a questo punto della trattazione che Heidegger ci prende per mano per percorrere l’ultimo tratto di strada, il più impegnativo e tortuoso, per tentare di entrare entro la problematica dell’essere del mondo, e come l’uomo forma il mondo.

Perché non è che poi l’uomo esista e poi, tra l’altro, un giorno gli venga anche l’idea di formare il mondo, bensì la formazione di mondo accade solo se nel suo fondamento può esistere un uomo: L’uomo in quanto uomo è formatore di mondo, ciò non vuol dire: l’uomo così come se ne va in giro per la strada, bensì: l’esser-ci nell’uomo è formatore di mondo. Usiamo con intenzione l’espressione “formazione di mondo” in una pluralità di significati. L’esser-ci nell’uomo forma il mondo: 1. lo produce: 2. Dà un’immagine, una visione di esso, lo rappresenta, 3. Lo costituisce, è ciò che lo circonda, che lo abbraccia.[13]

L’accadimento della manifestatività è il punto da cui si riprende il viaggio: è la seconda via, o la via alternativa all’intelletto comune, che l’esserci intraprende per elevarsi e avere con il mondo un rapporto ontologico; cioè produrlo con il sentimento della differenzialità degli enti.

Il primo passo che l’esserci è chiamato a percorrere, è il destare lo stato della noia profonda: si parte da lì. Quello è l’inizio della trasformazione dell’esserci. Il suo culmine: “l’accadimento” della manifestatività il cui focus è ravvisabile dalla particella “in quanto”. L’esserci ha accesso all’ente “in quanto” tale, nella sua totalità. Nella elementarissima particella “in quanto” risiede la differenza tra l’uomo e l’animale. L’”in quanto” è negato all’animale per la semplice ragione che esso coincide con la copula “è”, quindi con l’essere. Heidegger si concentra sul significato originario dell’”in quanto”, perché da lì che prende corpo tutta la sua costruzione ontologica.

Prima di tutto l’”in quanto” è una relazione. “l’”in quanto” di per sé non offre niente”. L’”in quanto” ha una sua effettività se gli elementi della proposizione assertoria preesistono all’”in quanto”.

La proposizione assertoria “a in quanto b” riflette il fatto che a può essere b solo se precedentemente è dato. L’essere b di a è possibile solo dalla particella “in quanto”.

“Ciò che con l’in quanto viene inteso, in ultima analisi, lo sappiamo già prima di renderlo evidente nel linguaggio. Lo sappiamo per esempio nella proposizione semplice: a è b. […] L’”in quanto” è un momento strutturale della struttura proposizionale nel senso della proposizione assertoria semplice.” [14]

Il problema dell’essenza dell’”in-quanto” (in ultima analisi il problema dell’essenza del mondo) è un problema proposizionale, di linguaggio, di ragione, in una parola: di logos. L’”in-quanto”, coincidendo con l’”è”, l’essere, è il focus su cui si concentra la metafisica: la metafisica è un problema di logica; il logos è il quadro entro cui si sviluppa la problematica dell’essere. La metafisica coincide con la logica; mondo è una strutturazione logica; “Il mondo è…”, è una problematica dell’esserci e solo dell’esserci destato dal suo stato d’animo fondamentale. Sulla copula “è” della proposizione assertoria si fonda la produzione di mondo. Capire i diversi significati della copula “è” ci porta a capire il mondo; la sua sussistenza non-sussitenza, perché è questo uno dei punti focali: il mondo sussiste o non sussiste? Da cosa nasce questa ambiguità?

4.3- ANALISI DEI FRAINTENDIMENTI CHE FANNO VEDERE IL MONDO COME SUSSISTENTE (CONCETTI DI MORTE, LIBERTA’, NULLA).

Heidegger prima di continuare la trattazione del carattere originario della copula, si sofferma a spiegare l’origine dei fraintendimenti che possono intralciare la corretta interpretazione di mondo. La sussistenza non è una vera ambiguità: il mondo sussiste per l’intelletto comune; non è sussistente se lo si problematizza ontologicamente. Così per la morte, per la libertà dell’uomo, e per il concetto del nulla: hanno significati diversi a seconda che vengano intesi con spirito filosofico sulla base di concetti formalmente indicanti, di contro a concetti scientifici.

L’essere per la morte dell’uomo, in senso ontologico, indica quella condotta che porta l’essere umano ad esperire la morte nel senso di possibilità estrema del suo esserci; tale consapevolezza, inevitabilmente veicolata dall’angoscia, lo porta a comprendersi nella ipseità più propria del suo esserci. Questa possibilità esistenziale fa della vita un’esperienza autentica; non riconoscere l’essere per la morte, per ovviare al senso di angoscia, rende la vita inautentica. L’intelletto comune, nella sua “naturale quotidianità” seguendo una procedura scientifica dei concetti espressi, “nel vivacchiare quotidiano” interpreta l’essere per la morte come una tensione continua e ininterrotta verso la morte, rendendo francamente la vita “fosca e grigia”. In questo caso il rapporto con la morte si sviluppa su un piano di sussistenza, allo stesso modo del rapporto di sussistenza con altri enti quali le pietre, le piante o gli animali: tutti sappiamo che dobbiamo morire, come tutti sappiamo che sussistono oggetti; ma il rapporto “ontologico” ed autentico con la morte va oltre la sussistenza.

Poiché per l’intelletto comune l’ente autentico è quello che sussiste sempre, esso vede l’autenticità dell’esistenza appunto nell’essere-sempre-sussistente del rapporto con la morte, nell’interrotto pensare alla medesima. In questo atteggiamento fondamentale, dal quale nessuno può dirsi libero, viene fin da principio trascurato il fatto che il carattere fondamentale dell’esistenza, dell’esistere dell’uomo, sta nella decisione, e che la decisione non è una condizione sussistente, che io ho, ma che, viceversa, è la decisione che mi possiede. Ma la decisione è ciò che è, sempre e soltanto in quanto attimo, in quanto attimo dell’agire effettivo. [15]

L’attimo è colto solo grazie al carattere temporale dell’esserci. Questo l’intelletto comune non lo coglie perché è legato alla memoria di ciò che c’era e ora non c’è più: alla sussistenza appunto. Nella purezza dell’attimo non c’è un prima e un dopo. La differenza tra esistenza autentica e inautentica, tra attimo e non attimo, non è data da qualcosa che sussiste e poi non sussiste più, ma si presenta quando la forza dei concetti indicanti, ci invade, e ci permette di comprendere e di affidarci alla ipseità dell’esserci, per cui siamo finalmente liberi dalla illusoria ma volgare appartenenza agli enti sussistenti. I concetti, quindi, sono lo strumento, che, interpellati, indicano la trasformazione.

Come per la morte, l’intelletto comune (inteso non l’intelletto degli stupidi, ma l’intelletto di tutti noi quando siamo fuori dall’essenza dell’esserci), tende a fraintendere anche rappresentazioni relative alla libertà e al niente. La libertà, in questo caso, viene interpretata nell’ambito di un processo di causalità (anche la libertà dalla natura) e di conseguenza in un rapporto di sussistenza. Il niente, invece, si veste di sussistenza, qualora lo si separa dal suo ruolo di fondamento dell’essere per cui la vita diventa puro nichilismo. Quel che Heidegger vuole sottolineare, affinché la sua speculazione sull’in quanto e sulla copula (nella sua plurivocità) non abbia fraintendimenti, e in ultima analisi affinché il mondo venga interpretato nella sua essenza dall’esserci, e si capisca la differenza tra una produzione ontologica di mondo e una povertà di mondo, che si utilizzi un modo di ragionare che prescinda da una visione pragmatica e scientifica degli enti (che implica necessariamente la loro sussistenza), e ci si affidi al potere formalmente indicativo dei concetti, anche se è un potere indimostrabile per mezzo dell’intuizione. In altre parole dobbiamo rinunciare ad un’interpretazione diretta del mondo (l’intelletto comune ne è saturo) a vantaggio di una interpretazione filosofica (o meglio: metafisica, nell’autentica direzione dell’essere), che rinunciando alla sussistenza rinuncia all’idea di mondo come somma di cose.

4.4- LOGOS E MONDO: LEGAME INDISSOLUBILE.

Seguendo questa linea, e con spirito filosofico, vien fuori che logos e mondo sono correlati da un’intima natura: il logos è, per gli antichi, l’essenza dell’uomo (uomo animale razionale), come, oggi, diciamo che l’essenza dell’uomo è la formazione di mondo. La tesi di Heideger è che attraverso il logos si arriva alla comprensione del mondo; come già Hegel aveva riportato il problema dell’Essere alla identificazione con la ragione: “Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale”, e la filosofia è lo strumento per intendere ciò che è. Se l’uomo, in quanto zoon logon ekon, può accedere al mondo, ovvero all’ente in quanto ente e attraverso il nous apprenderlo nella sua formazione, l’animale, perché alogon, privo di logos, ha con il mondo una chiusura; il suo comportamento gli permette la sola apertura nell’ambito del cerchio ambiente.

Torniamo alla sequela di passaggi che, a partire dal logos, si arriva alla formazione di mondo. Ci si era attestati sull’affermazione: il mondo è la manifestatività di enti in quanto enti. Svelare l’essenza dell’”in quanto” (che coincide con l’”è”) significa svelare l’essenza del mondo. E non si tratta solo di citare Aristotele limitatamente alla sua idea del ruolo dell’”è” nell’ambito del linguaggio apofantico, che può svelare o anche velare. Heidegger cita Aristotele come colui che ha intuito un livello ancora più originario del ruolo della copula che non sia il significato del semplice discorso apofantico. Certamente quando si parla di mondo si parla di qualcosa che è: nella manifestatività di enti, gli enti sono, o sono stati o saranno, ma c’è un punto ancora più sottile interno all’”è” della proposizione, un punto che decide la metafisica e l’esclusione dell’animale dalla formazione di mondo. Per spiegarlo Heideggger si riferisce a due proposizioni (citate da Aristotele nel trattato De interpretazione): “volare come un uccello” e “l’uccello è in volo”. Nel primo caso il pensiero si limita alla nominazione, a congelare il dato. Il significato non è prodotto da un pensiero dianoetico (dia-noetico), che passa, e attraverso il passaggio si contamina della frase. Si ferma presso ciò che viene nominato e non va oltre, non procede come si intuisce dall’”a è b”. La frase che contiene la copula “è”, è tutt’altra cosa. Si è portati a pensare che l’”è”, l’essere, indichi una cosa, un ente che è così o così. No, l’essere in se stesso non è un ente, una qualità, una cosa: non è nulla, niente di sussistente. Preso in se stesso l’essere non esiste; affinché possa venir fuori dal nulla e si possa determinare la produzione di mondo è necessario un certo collegamento, stare insieme, unificazione, in una parola: sintesi. Quindi l’”è”, da sola, non ha autonomia significante; senza la sintesi la condotta dell’uomo si ridurrebbe a mero comportamento animale, e l’angolatura del sole, non la nostalgia, guiderebbe il nostro ritorno a casa.

5- PROGETTO: FONDAMENTO DELLA FORMAZIONE DI MONDO E SCOPRIMENTO DELL’ESSERE DELL’ENTE.

Heidegger evoca la logica aristotelica per arrivare all’atto finale della sua analisi: lo scoprimento dell’essere dell’ente che, insieme al destare lo stato d’animo fondamentale, porta all’essenza del mondo; in che modo? Ecco l’”in quanto”: il prender corpo della possibilità dell’essere a partire dalla manifestatività dell’ente. L’”in quanto” è lo squarcio nella nebbia dell’indifferenziazione.

Come il logos aristotelico fonda la sua possibilità originaria nella sintesi, così l’esserci trova se stesso, va oltre la sussistenza degli enti, produce mondo, nell’attività del PROGETTARE.

L’essenza del progetto la troviamo nel “pro-“, che getta il progettante via e lontano da sé, e lo libera verso il possibile, ma nel contempo, lo vincola all’accadimento fondamentale che si esplicita nel progetto. Se l’animale è stordito dall’ente, l’esserci è, dall’ente, chiamato al progetto. Da un ek ad un altro sito, in una continua pulsione al “poter essere”, secondo la modalità della possibilità e non della realtà; è questa l’elemento di distinzione dal comportamento: l’uomo trova il suo essere rapportandosi sempre alle possibilità che lo portano oltre la semplice presenza. La ex-sistenza autentica è il richiamo a star fuori dalla realtà sussistente, nell’emergenza dell’essere come temporalità, proiettandosi verso la possibilità più certa che annulla tutte le altre possibilità: la morte, che è l’essenza del progetto, lo determina; mentre le altre cose del mondo, nel progetto “possono” solo essere incluse, starci come non starci.

Per cui esso è, come possiamo dire ricollegandoci ad una parola di Schelling, il raggio di luce nel possibile-possibilizzante in generale. Lo sguardo nella luce squarcia verso di noi la tenebra in quanto tale, dà la possibilità di quel crepuscolo del quotidiano nel quale, innanzitutto e per lo più, scorgiamo l’ente, lo affrontiamo, ne soffriamo, ne gioiamo. Il raggio di luce che penetra nel possibile, rende aperto il progettante per la dimensione dell’”aut-aut”, del “sia-sia”, del “così” e dell’”altrimenti”, del “cosa”, dell’”è” e del “non è”. Solo nella misura in cui questa irruzione è accaduta divengono possibili il “si” e il “no” e l’interrogarsi.[16]

Nel progettare prevale il mondo, si forma il mondo, e si disvela la reale differenza tra essere ed ente. Il progetto pro-ietta “l’esserci che viene fuori da sé senza però smarrirsi“: si realizza l’accadimento, l’evento, Ereignis. L’uomo si appropria dell’essere e l’essere dell’uomo: rapporto reciproco di appropriazione espropriazione. E lo scoprimento dell’essere, la dissoluzione della nebbia, la risoluzione della indifferenziazione, in una parola, la produzione di mondo, può avvenire solo grazie al ponte dell’esistenza che estende la sua arcata “dal” e “nel” nulla. La sussistenza, ai fini dell’essere, non è contemplata.

Nel passaggio l’uomo è rapito e quindi per sua essenza “assente” . Assente in senso sostanziale – mai e poi mai sussistente, bensì assente perché dispiega-via la sua essenza verso l’esser-stato e l’avvenire, assente e mai sussistente, ma nell’assenza esistente. Trasposto nel possibile, deve costantemente esser-in attesa del reale. E soltanto perché è così in attesa e trasposto, può provare orrore. E soltanto dov’è la perigliosità del provare orrore, è la beatitudine della meraviglia.[17]

L’animale non ha “tempo” per provare orrore e la beatitudine della meraviglia.

E per dirla con Borges: “Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”.[18]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] M. HEIDEGGER, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-Finitezza-Solitudine. Il Melangolo. Genova 1999. P. 258.

[2] Op. cit. p. 271.

[3] Op. cit. p. 276

[4] Op. cit. p. 291

[5] Op. cit. pp. 292-293.

[6] Op. cit. p. 299.

[7] Op. cit. pp. 316-317

[8] Op. cit. p. 330

[9] Op. cit. p. 338

[10] Op. cit. p. 354

[11] Op. cit. p. 359

[12] Op. cit. p. 361

[13] Op. cit. p. 365

[14] Op. cit. p. 368

[15] Op. cit. p. 377

[16] Op. cit. p. 467

[17] Op. cit. p. 468

[18] J.L. Borges, Nuova confutazione del tempo, in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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