Il punto di vista della teoria critica. Riflessioni sulla rivendicazione di oggettività della teoria critica

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Rahel Jaeggi

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Le teorie che rivendicano il loro essere “critiche” nel senso della “teoria critica” non possono esimersi dal prender parte alla disputa intorno ai giudizi di valore e alle forme di vita. Ammesso che queste teorie vogliano mantenersi orientate ad una razionalità di carattere complessivo e ad un’ampia “riuscita” delle strutture sociali, esse non dovrebbero assecondare quella tendenza liberale, presente però anche in maniera virulenta nella più recente teoria critica, all’«astensione etica».Allo stesso tempo però la presa di posizione della teoria critica rispetto a queste questioni non va pensata sullo sfondo di una teoria etica sostanziale, bensì assunta come meta-critica dell’esistente.

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1. Introduzione

In che modo si colloca oggi la teoria critica nei confronti dei conflitti riguardanti le forme di vita? E come si pone la rivendicazione di oggettività della teoria critica rispetto a ciò che Max Weber definisce «valori», «legami valoriali» e «contenuti di cultura», e che egli ha voluto escludere dal discorso delle scienze sociali? In questo saggio sosterrò la tesi, secondo cui le teorie, che vogliano essere critiche nel senso della tradizione della teoria critica, non possono chiamarsi fuori da ciò che Max Weber comprende come disputa sui giudizi di valore e che oggi può venire inteso nel senso, forse più appropriato, di una disputa intorno alle forme di vita. Il Prendere posizione a riguardo, costituisce anzi sin dalla sua nascita la specificità della teoria critica. Essa deve inoltre continuare a farlo, in contrapposizione alla tendenza liberale, presente però anche in maniera virulenta nella più recente teoria critica, all’«astensione etica», ove voglia conservare un orientamento ad una razionalità di carattere complessivo e ad un’ampia ‘riuscita’ delle strutture sociali. Allo stesso tempo la presa di posizione della teoria critica rispetto a queste questioni non va però pensata sullo sfondo di una teoria etica sostanziale, bensì assunta come meta-critica dell’esistente. Una tale meta-critica, detto in breve, non si esercita tanto nei riguardi di una determinata posizione quanto piuttosto nei riguardi delle condizioni della sua formazione, ovvero del modo in cui è pervenuta a sé stessa. Inoltre, come un determinato sviluppo del dibattito da Weber in poi suggerisce, essa dovrebbe tener di nuovo più da conto il concreto (o ‘materiale’) contenuto dei conflitti intorno alle forme di vita o riguardanti la presa di posizione rispetto ai «contenuti di cultura». Ciò significa comprendere quest’ultimi non solo come sistemi collettivi di valori, bensì come fascio di pratiche sociali a loro volta ‘eticamente impregnati’.

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2. «Una questione di fede»

Nel suo famoso saggio L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale1 Max Weber ha determinato chiaramente il ruolo della conoscenza delle scienze sociali così come ne ha limitato il campo di validità. Alla domanda cioè, in quale senso possano darsi «“verità oggettivamente valide” sul terreno delle scienze che studiano la vita culturale»2, Weber risponde con una distinzione tanto legata alla tradizione quanto radicale nelle conseguenze. L’interesse della scienza sociale, nella quintessenza della posizione weberiana, deve volgersi alla «conoscenza di “ciò che è”» e non alla «conoscenza di “ciò che deve essere”»3. Si tratta, detto altrimenti, di fare un’analisi comprendente della struttura sociale esistente e, unitamente, delle concezioni valoriali culturali che in questa operano, ma non di prendere una posizione valutativa nei loro riguardi. Giacché, così lo stesso Weber, «siamo convinti che non può mai essere compito di una scienza empirica quello di formulare norme vincolanti e ideali, per derivarne direttive per la prassi»4. Ora, quest’opinione trova fondamento soprattutto nello status epistemico di tali giudizi di valore. Il fatto che questi si diano e il come agiscano può e deve esser fatto oggetto di studio da parte delle scienze sociali. (In fin dei conti proprio nello stesso saggio Weber sostiene con veemenza la tesi secondo cui, all’origine di molte domande di natura socio-politica vi sia qualcosa di simile a delle «decisioni valoriali originarie» e che, in mancanza di un riferimento comprendente a queste e quindi anche agli individui che comprendono se stessi e le loro azioni in rapporto a queste, non possano darsi fatti sociali). Se debbano invece vigere determinati ideali e valori culturali, se siano essi giustificati o degni di venir promossi, sono domande che Weber esclude categoricamente dal raggio di competenza delle scienze sociali, per assegnarle invece ad un campo completamente diverso: «giudicare la validità di tali valori è però una questione di fede»5. Laddove ad una fede se ne contrappone un’altra, sorge una battaglia dell’ideale su cui la scienza sociale non può incidere.

Il mondo sociale si presenta con ciò in un certo senso diviso in due. Dall’“interno” (dalla prospettiva degli attori) certe concezioni valoriali o, come direbbe Weber, certi «contenuti di cultura» vengono abbracciati, vissuti e, se messi in dubbio, fatti valere in maniera imprescindibile. Dall’“esterno” (e dalla prospettiva della scienza6) questi al contrario non sono passibili di giudizio. Riteniamo certi valori o contenuti culturali, così come le condotte di vita che questi influenzano, legittimi e qualche volta persino privi di alternative. Eppure (anche se lo volessimo e lo credessimo possibile) non possiamo universalizzare tale posizione, nel senso di renderla vincolante attraverso delle buone ragioni per coloro che non la condividono.Non esiste un punto di vista “obiettivo” in tal senso, dal quale sia possibile dare un giudizio sulla validità di certi valori o sulla congruità di determinati «contenuti di cultura». Tra questi valori infondabili regna difatti un ineludibile, certo controllabile, ma irrisolvibile conflitto, nei confronti del quale lo scienziato deve mantenere (secondo la formulazione del filosofo Joseph Raz) un’«astinenza epistemica». L’obiettività è quindi raggiungibile solo distanziandosi da questi particolari punti di vista. L’«astensione» è in un certo senso il prezzo che si deve pagare per ottenere obiettività nella scienza (sociale). Nella misura poi in cui abbiamo contezza dell’infondabilità dei valori da noi con tanta veemenza difesi, incontriamo un momento tragico della nostra esistenza illuminata7, dacché essa si trova in un certo senso “sdoppiata” o divisa in due.

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3. Partigianeria8 e interesse

Secondo Max Horkheimer, uno dei fondatori della “teoria critica” della scuola di Francoforte, le cose stanno evidentemente in un altro modo. Quando nel suo saggio programmatico Teoria tradizionale e teoria critica9 (del 1937) la teoria critica viene definita come «il lato intellettuale del processo storico [di] emancipazione»10 e «la teoria come momento di una pratica tesa a nuove forme sociali […]»11, in ciò non sta solamente una determinata concezione della teoria come di un’istanza attiva e che interviene nel processo sociale; che è proprio il tipo di efficacia pratica nei confronti della quale Max Weber era scettico. Qui Horkheimer mette anche in chiaro, che la teoria critica si pone in maniera non neutrale di fronte alle forze sociali confliggenti e quindi agliideali culturali’ tra loro contrastanti, ma assume piuttosto nei loro confronti un atteggiamento di parte. Come viene evidenziato in formulazioni sempre diverse, la teoria critica è legata ad un determinato interesse, ovvero all’interesse per l’emancipazione sociale e all’«interesse per la soppressione dell’ingiustizia sociale»12. Proprio per questo è necessariamente faziosa. Sospendo qui il giudizio se ciò basti a differenziarla dalle “teorie tradizionali”. Certo è in ogni caso, che la così delineata presa di posizione è molto estesa, così come è certo, che essa non si blocchi affatto davanti a quei «contenuti di cultura» e quelle decisioni etiche interiori, che Weber ha epistemicamente messo tra parentesi. Se però la teoria critica non mira solo alla «soppressione dell’ingiustizia» ma anche alla realizzazione della libertà o, più in generale, se essa si orienta verso una «organizzazione sociale razionale, corrispondente alla generalità»13, non può far a meno, anche in nome di quei valori ultimi che Weber considera una «questione di fede», di manifestarsi e opporsi alla costituzione sociale esistente. Essendo una simile connessione di libertà, razionalità, giustizia e pure di felicità un tratto tipico per la teoria critica, soprattutto nei suoi primordi14, allora il giusto e razionale ordine sociale a cui questa ambisce, deve mirare, come si evince da innumerevoli considerazioni, ad una vita e ad un rapporto dell’individuo col mondo e col Sé del tutto diversi rispetto a quelli che l’ordine fino ad ora vigente sembra aver reso possibili.15

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4. Analisi e critica e la partigianeria provvisoria della teoria critica

Avendo delineato con ciò il campo dell’oggetto rispetto al quale la teoria critica deve posizionarsi, si tratta ora di capire lo specifico punto di vista, concepito qui da Horkheimer, di partigianeria e di oggettività. A tale scopo devono esser fatte due precisazioni.

I: Quel che Max Horkheimer tenta di concepire come “teoria critica” non è appunto solo una scienza empirica in senso weberiano (e nel senso della sociologia empirica che si stava giusto allora sviluppando). Si tratta piuttosto di un tipo di teoria sociale, per la quale il legame tra filosofia e scienze sociali è o dovrebbe diventare un tratto caratteristico16. Sarebbe però del tutto improprio costruire tra Weber e la teoria critica un “antagonismo” riguardante proprio l’aspetto “empirico” e in riferimento al procedimento e allo standard di obiettività dell’analisi nella scienza sociale. Metodologicamente parlando gli sforzi della teoria critica, così come viene concepita da Horkheimer, si trovano sulla stessa lunghezza d’onda della tradizione iniziata da Weber degli «approcci comprendenti» e dei metodi qualitativi.17

Questa, piuttosto, si distingue dal postulato di Max Weber laddove si debba andare oltre il comprendere, ovverosia in riferimento alla possibilità della formazione (legata a quell’analisi ed agente nel e attraverso il comprendere) di standard per la critica di fronte alle circostanze sociali. Sulla scorta di Marx si intrecciano insieme nella tradizione della teoria critica elementi normativi con elementi descrittivi, in modo tale che dall’analisi dell’esistente si possano ottenere i perni dai quali esercitare la sua critica. Detto altrimenti, la teoria critica ricava i suoi criteri in maniera “immanente” dalle contraddittorietà e dalle crisi presenti nella realtà sociale così come dalle potenzialità del loro superamento, che in questa realtà sono nel contempo contenute in nuce.18Essa non argomenta da un punto di vista normativo esterno rispetto alla realtà sociale, dal quale sarebbe possibile dare un giudizio sulla costituzione di questa società o abbozzare il come essa dovrebbe essere. La determinazione descrittivo-analitica della situazione va di pari passo con la posizione normativo-critica assunta in nome di una razionalità storicamente situata, che però si deve orientare verso una possibilità realmente esistente e non appunto verso un “semplice dover-essere”. (Questo è altresì il momento anti-utopico della teoria critica ereditato da Marx). Si potrebbe ritenere questo il momento culminate sotto il profilo metodologico della teoria critica. La teoria critica quindi non è una scienza empirica, né nel senso usuale né in un senso weberiano. Allo stesso tempo però non è neanche semplicemente filosofia; e tanto meno è da considerasi semplicemente come una “filosofia politica normativa” nel senso odierno del termine, fintanto che questa dipenda in altro modo dall’empiria e da un sostegno da parte della diagnosi dei rapporti sociali, che lei stessa critica.

II: una seconda circostanza non meno gravida di conseguenze è il fatto che, per come Horkheimer la concepisce, la teoria critica è cioè effettivamente “di parte” solo in apparenza. In ogni caso non lo è nel senso per cui con partigianeria si intendeil rimanere fedele ad un punto di vista limitato e particolare, ad un prendere partito per o contro una determinata posizione non ulteriormente fondabile. Quel che qui Horkheimer ha in mente, ancora seguendo l’esempio di Marx, è piuttosto il prendere posizione per qualcosa, che nella sua particolarità anticipa l’universale. Una presa di una posizione quindi, che è particolare solo sotto le condizioni date, ma che, essendo dalla parte della ragione, in realtà incarna già l’universale. Così la presa di posizione a favore del proletariato è già in Marx una presa di posizione per la classe, che in ultima analisi deve superare la società divisa in classi di per sé e con essa ogni particolarità. Anche l’osservazione di Horkheimer, secondo cui la teoria critica, «contrastando con le abitudini di pensiero dominanti», risulterebbe «faziosa e ingiusta»19 lascia intuire che qui non si tratta tanto di partigianeria reale e persistente, quanto di anticipare una (giusta) prospettiva. La prospettiva cioè del superamento [Aufhebung n.d.T.] dell’ordine finora vigente, all’interno della quale l’impressione di partigianeria e di ingiustizia viene meno.

Dietro il concetto di partigianeria di Horkheimer non si nasconde quindi la concezione (di impronta nietzschiana) di Weber dell’insuperabilità [unaufhebarkeit n.d.T.] e inevitabilità del conflitto (di fede) intorno agli ideali e ai valori ultimi, nell’ambito del quale la teoria critica e l’interesse per l’“emancipazione rappresenterebbero una fazione a cui aderire. Esattamente il contrario: la partigianeria di Horkheimer è fondamentalmente provvisoria; essa mira al superamento [Aufhebung n.d.T.] di tutte le particolarità e partigianeria nel nome di un’ampia concezione di giustizia, emancipazione, libertà e felicità.

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5. Razionalità e obiettività. La non-astensione della teoria critica

Tenuti insieme questi due punti si prospetta per il punto di vista della teoria critica il seguente quadro: Horkheimer non respinge semplicemente l’esigenza di obiettività in favore di un’esigenza di soggettivismo o di partigianeria. La teoria critica è di parte in un modo tale, per cui pretende nel contempo di essere in un certo senso “obiettiva”. Qui agisce certamente un altro concetto di obiettività, rispetto a quella da cui Max Weber sembra prendere le mosse. Esso non coincide con l’idea di neutralità e con il distacco da specifici legami valoriali e interessi, né consiste nella contemplazione avalutativa di semplici dati di fatto, ma è invece legato ad un concetto contenutistico di razionalità ampia e onnicompresiva. Concernendo questo concetto anche i «legami valoriali» e i contenuti culturali discussi da Weber, la teoria critica non condivide allora neppure l’ipotesi di fondo weberiana di una infondabilità dei «legami valoriali ultimi». Detto meglio: l’impostazione del problema è affatto diversa da quella di Weber. Il come però la teoria critica degli inizi abbia giustificato rispetto a ciò le sue pretese di obiettività è, a prescindere dal fatto che ci fosse poca coscienza del problema, una questione ingarbugliata.

La teoria critica non si astiene infatti, come vuole Max Weber, nei confronti dei «giudizi di valore ultimi». Essa però non si astiene neanche semplicemente nel senso che creda di poter affermare e fondare in maniera immediata tali orientamenti valoriali. Si contrappone già a ciò il negativismo della teoria critica più volte enfatizzato da Horkheimer e Adorno e che Horkheimer continuerà, al di là di tutti i suoi ripensamenti e fino agli ultimi anni, a tenere in grande considerazione come «un aspetto determinante della teoria critica di allora e di oggi», per il quale «si poteva dire che cos’era male nella società data, ma era impossibile dire quale sarebbe stato il bene, si poteva solo lavorare perché il male infine scomparisse»20.21

Se vi è qui un dissenso verso Max Weber, questo consiste nel fatto, che la teoria critica degli inizi sembra effettivamente credere, che dal “divenire” sia possibile dedurre il dover-essere. Essa quindi, in connessione con un tratto alquanto problematico presente in Hegel e in Marx, riduce in ultima analisi il momento etico-normativo in filosofia della storia. Allo stesso modo in cui esistono cioè molteplici tentativi tra loro di compiere il controverso passo dall’Essere al Dover-essere22, così il tentativo col quale abbiamo qui a che fare poggia sull’idea, detto in parole povere, che nella storia sia insita una tendenza e possibilità, rispetto alla quale i rapporti vigenti si debbano poter misurare, e in riferimento a cui questi stessi rapporti risultino deficitari. L’unità di analisi e critica, ovvero che, partendo dall’analisi descrittiva delle circostanze sociali, sia possibile sviluppare i punti di vista della loro critica, trae la propria forza normativa dalla fiducia nella direzionalità normativa del processo storico. E il fondamento dell’etica, che in questo modo è più presupposta che esplicitata, diventa anche per i primi esponenti della teoria critica vacillante proprio nella stessa misura in cui lo diventano anche questi presupposti storico-filosofici.

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6. Problematica nella posizione di Horkheimer

È ormai chiaro (e oggigiorno neanche più un segreto), come le ipotesi alla base di questa posizione non siano prive di problemi.

Non è solo, come è stato notato abbastanza spesso, il riferimento alla classe operaia quale soggetto di una partigianeria tipica della teoria critica ad essere diventato, e questo già ai tempi della vecchia teoria critica, precario.23 Da questa circostanza sorge la questione di dove all’interno della realtà sociale vada localizzato ciò, che da un lato potrebbe entrare in scena come istanza di protesta, e che dall’altro in sé porta il potenziale del superamento dei rapporti – ed è anzi proprio il riferimento a un tale potenziale (e non alla sofferenza/ingiustizia sociale per se) il momento dialettico culminante di questa posizione.Prescindendo però del tutto dall’esito della ricerca di una tale istanza, è diventata discutibile, e non solo per ragioni legate al fattuale decorso della storia, la concezione di uno sviluppo storicamente direzionato del progresso. (Lo stesso imperativo, che sembrava dare per scontate le ‘possibilità’ ottenute storicamente, è diventato incerto. Per una critica che si àncori alla discrepanza tra lo storicamente possibile e lo storicamente reale, come sia Horkheimer che Adorno ripetutamente fanno, l’avere anche parecchi buoni argomenti a proprio favore non esime dal dover fornire tuttavia un argomento del perché valga la pena che una determinata possibilità venga realizzata.)

A questo punto diventa però problematica anche l’idea di una razionalità onnicomprensiva a cui poi si leghi l’idea di una «organizzazione sociale razionale», la quale garantisca sia la libertà che la giustizia e la felicità. Pare allora che anche per la teoria critica si debba nuovamente porre la questione (unitamente allo scetticismo weberiano a questo riguardo), di come sia possibile, di fronte alla reale pluralità delle forme di vita così come delle concezioni valoriali a loro legate, contraddistinguere determinate forme di vita quali giuste e razionali. Ecco che così si danno anzi alcune quantomeno buone ragioni pratiche per ritirarsi nell’astensione in questo ambito. Chi potrebbe mai dire, al di là di quel che gli individui stessi credono e vogliono, che cosa sia giusto per loro? Da quale punto di vista sarebbe possibile fondare una teoria del Bene sostanziale ed “obiettiva”, che sappia meglio degli individui stessi quale sia la condotta di vita a loro confacente e verso quali valori essi debbano orientarsi? La questione dell’identificabilità dei suoi fondamenti etico-normativi, che fu in un certo senso “nascosta” attraverso la trasformazione storico-filosofica operata dalla sinistra hegeliana, si pone evidentemente di nuovo nella sua forma classica, quando essa non si lasci più predeterminare con rimandi a tendenze di sviluppo. E non è scontato, che la teoria critica abbia una risposta a questa questione.

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7. Problematicità dei valori e astensione etica nella teoria critica

Considerando le difficoltà sopra descritte si comprende perché nelle questioni etiche, ovvero nei riguardi dei «legami valoriali ultimi», anche la (contemporanea) teoria critica perori le ragioni di un atteggiamento volto più all’«astensione» di quanto non fosse per la teoria critica tradizionale. Così, di fronte alla molteplicità di forme di vita differenziantesi le une dalle altre e alle difficoltà nel formulare sulle stesse giudizi di valore di carattere universale, avviene che Jürgen Habermas si applichi per un’«astensione ben giustificata» nelle questioni etiche. Egli indica molto chiaramente le implicazioni di una tale astensione per la portata della possibile influenza della critica:

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Definiamo “orrendo” non solo il tormento inflitto ad altri presso di noi, ma ovunque questo succeda. Non ci sentiamo tuttavia in nessun modo giustificati a muovere delle critiche nei confronti di sconcertanti metodi di educazione e di strani riti matrimoniali, nei confronti insomma di componenti essenziali dell’ethos di una cultura straniera, fintanto che questi non entrino in contraddizione con i nostri criteri morali – ovvero con valori centrali, che si differenziano da altri valori attraverso la loro rivendicazione universale di validità.24

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Habermas rimane certamente convinto della fondabilità di uno standard normativo per le questioni da lui definite “morali” (in contrapposizione a quelle “etiche”). D’altro canto all’universalismo morale corrisponde però una rinuncia a forti rivendicazioni di validità nelle questioni riguardanti la formazione delle forme di vita (o appunto di ciò che Weber chiama «contenuti di cultura»). Dacché vale anche per tali posizioni ciò che nei seguenti termini Joseph Raz afferma in riferimento a John Rawls e Thomas Nagel: «Essi propugnano un ritiro epistemico dalla mischia»25. Oppure come Habermas ha formulato in un altro luogo e in maniera non dissimile da Weber: qui si tratta di una controversia tra «poteri della fede», nella quale la «filosofia non [potrebbe] più intervenire di diritto»26.27

Da ciò Habermas sembra ritrovarsi con Weber, in ogni caso riguardo a questa questione, laddove questo afferma, che la validità dei valori ultimi sarebbe una «questione di fede». Beninteso: in Habermas ciò non contiene in sé né un sottofondo di relativismo né l’affermazione di una irrisolvibile «lotta tra valori» nell’accezione nietzschiana del termine. Anzi, il tracciamento di un confine tra questioni morali ed etiche (o detto altrimenti: tra norme e valori) e il riserbo nei confronti delle questioni etiche (che in ogni caso costituiscono una parte di ciò che Weber chiama «decisioni valoriali ultime») è motivato proprio dal tentativo di salvare l’oggettivismo e il cognitivismo morale (nella sua versione kantiana) rispetto alle questioni morali non riconducibili alla sfera dell’etica.28 Quando Habermas qualifica la posizione dell’astensione come «insoddisfacente ma imprescindibile», esplicita un dilemma da lui ritenuto indissolubile in quanto costitutivo della situazione moderna. Del tutto similmente Weber aveva motivato il riserbo verso i giudizi di valore con il carattere illuminato29 di una società e dato il via alla riflessione sulla differenza tra norme e valori o tra etica e morale (anche se con un’altra terminologia).

La capacità di conferire al contenuto dei valori culturali lo status di un comandamento etico assolutamente valido è propria solo delle religioni positive, o più precisamente, delle sette tenute insieme nel dogma. Al di fuori di queste gli ideali culturali, che il singolo vuole realizzare, e i doveri etici, che il singolo deve realizzare, godono di uno status basilarmente differente.30

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8. Critica dell’astensione

È poi in verità tanto plausibile questa «astensione»? In riferimento ai fondamenti epistemici delle scienze sociali ciò è stato più volte problematizzato, così come è stata più volte contestata la possibilità di mantenere un’analisi dei fatti sociali indipendente dai propri legami valoriali.31 A preparare il terreno in tal senso è stato decisivo lo stesso Weber, quando questo riconosce che fin le impostazioni del problema vengono influenzate dalle decisioni valoriali.32

La posizione dell’«astensione» rispetto ai legami valoriali e ai «contenuti di cultura» si rivela però problematica anche in riferimento all’orientamento normativo di una teoria sociale, che si voglia intendere come teoria critica – e cioè non nonostante, ma proprio in considerazione della situazione delle società moderne. Se da una parte pare che l’astensione nelle questioni etiche sia divenuta segno distintivo delle società moderne, dall’altra si può ad un tempo sostenere, che proprio sotto le condizioni della modernità e della civilizzazione tecnico-scientifica gli attori sociali vengano posti sempre più di fronte a questioni tali, da rendere una valutazione delle forme di vita indispensabile o che da tale valutazione prendono le mosse. La questione della possibilità del giudizio sui «contenuti di cultura» o sulle forme di vita si troverebbe di fronte allo stesso risultato, che è possibile estrapolare dalla lettura della Filosofia del Diritto hegeliana come una sorta di dialettica dell’individualizzazione: se da una parte l’epoca moderna affrancagli individui dalla dipendenza nei confronti dei legami collettivi e tradizionali (il diritto degli individui a sviluppare le loro particolarità), dall’altra si rinforzano sotto le condizioni della moderna società borghese le dipendenze degli individui dallo scambio e dalla circolazione sociale e l’interdipendenza tra individui. Le posizioni cariche di presupposti etici sarebbero allora più difficili da fondare, così come la questione della loro fondazione in genere si pone. In questo senso ha ragione Ludwig Siep nel notare che:

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Le moderne forme di vita hanno […] condizioni tecniche e infrastutturali tali e rilevanti, da non essere possibili senza considerevoli prestazioni da parte del pubblico. Queste Prestazioni creano però dal canto loro condizioni irreversibili per le opportunità di scelta e di realizzabilità delle forme di vita. […] Quando tali decisioni vengono prese nella libertà data dallo sviluppo tecnico, del mercato e dei servizi infrastrutturali statali, allora la formazione privata di preferenze e concetti di felicità, limitata solo attraverso un generale codice di reciproco rispetto, diventa solo un’illusione. Se il pubblico può dare disposizioni riguardanti la felicità privata attraverso leggi – leggi fiscali, politiche tecnologiche pubbliche, ecc. –, si dovrebbe allora anche aprire un dibattito generale sui modi di vivere, che renda giustizia all’essere umano.33

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Contro la convinzione weberiana, che solo le società pre-illuministiche possano vantare un carattere vincolante per i loro contenuti di cultura e legami valoriali, e la contemporanea posizione liberale, secondo cui il riserbo nei confronti delle questioni etiche è l’unica soluzione adeguata di fronte alla pluralità delle società moderne, si può allora viceversa asserire, che proprio queste società necessitano in maniera particolare di una regolamentazione delle affari generali, e cioè (in misura sempre maggiore) anche della regolamentazione di quegli affari, che risultano ingombranti di fronte a tentativi di messa tra parentesi. Proprio da Max Weber è possibile apprendere in questo contesto, che anche dietro «questioni [palesemente] pratiche di opportunità» si trovano «criteri regolativi di valore», della cui «apparenza di auto-evidenza» ci si dovrebbe sbarazzare34 e che nell’agire nel suo insieme (come anche nel non-agire) è contenuta una «presa di posizione in favore di determinati valori»35.

Ben si conviene quindi l’indicazione weberiana, secondo cui «il senso del divenire cosmico […] dobbiamo essere in grado [noi] di crearlo»36, e che quindi i criteri di valore, che qui sono in gioco, non sono dati da un’istanza (sia questa di tipo religioso, metafisico o cosmologico), ma piuttosto sono o devono venir creati da noi. Certo, in questi ambiti può succedere che sorgano dei contrasti così come che in certi casi si debbano soppesare più valori tra loro diversi e tutti allo stesso modo plausibili. Da questa circostanza non deriva però ipso facto, che il conflitto intorno ai “contenuti di cultura” sia normativamente e razionalmente irrisolvibile. Quando Weber dice che i nostri «ideali supremi […] si sono formati in tutte le età solo nella lotta con altri ideali»37, suggerisce anzi l’idea che, essendo questi ideali normativamente indeterminabili a seguito del venir meno di istanze interpretative superiori e, in quanto “vincoli inaggirabili”, anche inaccessibili all’argomentazione, essi possano venir determinati solo all’interno di una “lotta”, indipendentemente da come questa debba venir controllata o civilizzata. La questione, se sia possibile individuare delle ragioni razionali a difesa di determinati contenuti di cultura, non si risolve però automaticamente con il venir meno di un istanza fondante trascendente. Cosa che, come sembra, vien invece creduta più che altro in forza di un legame residuale molto forte con fondazioni di natura trascendente38. Si può quindi argomentare che Weber vada qui semplicemente a sostituire una dimensione dell’indisponibilità [Unverfürbarkeit n.d.T], propria della fondazione metafisica o cosmologica dei valori, con un altra, ovvero con quella dell’inaggirabile soggettività, del personalissimo e intangibile [unverfügbaren n.d.T.] legame a determinati valori.

La problematica di un tale accorgimento tutt’oggi molto comune è lapalissiana: nella fondamentale intuizione della gettità e non-disponibilità dell’identità, sia individuale che collettiva, si riflette una discutibile tendenza a romantizzare le identità e le decisioni valoriali. In questo modo le “identità particolari” e i relativi legami valoriali vengono in un certo senso essenzializzate e pietrificate. O detto in altro modo, come afferma Hilary Putman nella sua critica alla distinzione habermasiana tra norme e valori, questa porterebbe ad una naturalizzazione dei valori, ove questi vengano trattati per così dire naturalisticamente come dati precostituiti, sottomessi ad una logica inaggirabile, che si sottrae ad una razionale messa in discussione.39 La tesi dell’astensione favorisce perciò una irrazionalizzazione gravida di conseguenze per quello che viene o può essere detto nel campo dell’“etico” o dei «contenuti di cultura».

Questa irrazionalizzazione e naturalizzazione però, secondo il mio modo di vedere, non si confà al carattere effettivo di ciò che costituisce i contenuti di cultura e i valori”, del come questi vengano a realizzarsi nelle pratiche sociali e nei nessi tra forme di vita, e tanto meno è consistente col carattere dei contrasti, che sorgono intorno a loro. Noi non solo rivendichiamo un valore in ciò che qui facciamo e crediamo (crediamo cioè che sia giusto vivere in un certo modo così come anche farsi guidare da questi o altri valori), ma prendiamo sul serio anche le altrui rivendicazioni così come al contempo le contestiamo. E questo lo facciamo (per quanto alle volte procedendo anche in maniera non obiettiva) in riferimento a problemi fattuali, che, in determinate maniere, con l’ausilio di determinate pratiche sociali e sullo sfondo di valori a queste intrecciati, riteniamo di poter o, appunto, di non poter trattare adeguatamente. In questo caso allora non sarebbe adeguata la qui operante concezione di una inaggirabilità dei legami valoriali e della loro “forza folgorante”40, ma forse ancor più basilarmente non lo sarebbe neanche l’idea di una sorta di regno delle idee, che qui sembra venir sottintesa.

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9. Teoria critica e critica delle forme di vita

La mia tesi è questa: la teoria critica oggi non può e non dovrebbe sottrarsi al dibattito intorno ai «contenuti di cultura» (che io liberamente mi permetto di trasportare nel dibattito sulle forme di vita buone e razionali). Le questioni qui toccate non riguardano solo la teoria critica in particolar modo. Proprio a partire dalla tradizione della teoria critica si configura, secondo la mia ipotesi, anche una specifica prospettiva su questi problemi, che potrebbe render possibile la soluzione di alcune delle questioni riguardanti la valutazione delle forme di vita e il giudizio sui “valori ultimi”, e di sfuggire ad una discussione determinata dall’ (insoddisfacente) alternativa tra l’astensione nelle questioni valoriali e una già esposta teoria positiva e sostanziale del Giusto.

La concezione o possibilità di una tale “teoria critica delle forme di vita” (o detto forse meglio, di una critica delle forme di vita sul solco della tradizione della teoria critica) poggia su due accorgimenti:

Il primo lo si potrebbe prudentemente qualificare come una sorta di presentificazione di ciò che si potrebbe concepire come il contenuto “materialistico” del conflitto sopra delineato. Già il setting [in inglese nel testo n.d.T.] della problematica, la sua collocazione sul piano dei legami valoriali e delle convinzioni di fede ultime, è in questa prospettiva insoddisfacente. Ciò che qui si contrappone in maniera conflittuale verte piuttosto su un reticolo di pratiche sociali e convinzioni (valoriali), le quali, secondo la mia tesi, sarà sempre possibile intendere come confronti con problemi concreti.41 Certo, se qualcosa rappresenti un problema e come poi questo sia esattamente costituito, è una questione connotata normativamente e che non si pone indipendentemente dalle convinzioni valoriali che si accompagnano alle pratiche sociali (e alle forme di vita in quanto insiemi di tali pratiche e convinzioni). Purtuttavia un tale approccio fornisce dei criteri per il giudizio delle forme di vita. Deve essere quindi possibile, in ultima analisi, giudicarle in base alla questione, se esse siano nella condizione di risolvere adeguatamente quei problemi, che loro stesse hanno posto. Se le forme di vita sono già sempre tentativi e risultati di un confronto con condizioni date, allora è possibile nell’ambito di quel confronto interrogarle rispetto alla loro congruità così come rispetto alla loro riuscita e al loro fallimento. Le forme di vita sono quindi strategie per la risoluzione di problemi e nel valutarle vien sempre anche sondato il “successo” della forma di vita in questione (il quale, come è stato detto, non è indipendente dai criteri di buona riuscita in lei insiti). Le forme di vita possono da una parte “fallire” o entrare in crisi, così come anche essere coronate da successo. Entrambi i casi, secondo la prospettiva qui proposta, si offrono ad una prospettiva di critica immanente, in una maniera tale che questa non è indipendente dalla prospettiva di chi ne fa parte, ma che allo stesso tempo ha un correttivo o un polo contrapposto nella cosa stessa. (Le crisi, nelle quali le forme di vita e i relativi legami valoriali possono finire, sono per così dire ad un tempo soggettive e oggettive, dipendenti dalle interpretazioni e nel contempo fautrici di queste).

Il secondo accorgimento si potrebbe (altrettanto prudentemente) qualificare come un riorientamento formale: la teoria critica sarebbe allora da intendersi come una sorta di metacritica etica. Una critica quindi, che non miri tanto allo sviluppo di posizioni etiche sostanziali (e alla diretta presa di posizione per l’una o per l’altra forma di vita/legame valoriale), ma che volga invece lo sguardo alle condizioni di formazione di queste opzioni.42 Questa metacritica concerne le condizioni di formazione della volontà e della capacità di agire degli attori sociali. Con ciò la teoria critica mira, seguendo l’ipotesi elaborata da Robin Celikates, alla «dissoluzione dei blocchi strutturali»43 della capacità riflessiva degli attori, senza che essa si debba arrogare un punto di vista epistemologicamente saliente o normativamente superiore. Proprio questo punto di vista si può dunque ulteriormente sviluppare nel senso del superamento [Aufhebung n.d.T.] di blocchi nella capacità collettiva di agire degli attori sociali (la quale poggia, anche se probabilmente non esclusivamente, sulla capacità di riflessione)44 e nel senso dello sviluppo di criteri per processi sociali di apprendimento di successo.

Per la questione di una critica delle forme di vita, dei contenuti di cultura o dei legami valoriali, questi due accorgimenti comportano dunque che sia possibile porre la questione della razionalità o congruità di una forma di vita come questione del successo di processi (collettivi) di apprendimento etici inizializzati attraverso delle crisi – in quanto processi di apprendimento. Così come la teoria critica non è tenuta a sapere meglio degli attori stessi, quel che questi effettivamente vogliono, ma piuttosto a rintracciare le condizioni di una formazione distorta della volontà, allo stesso modo essa non dovrebbe (come in alcune versioni della filosofia della storia) detenere una conoscenza superiore del “fine” della storia. Nondimeno si potrebbero ugualmente elaborare criteri, in base ai quali sia possibile giudicare se un tale processo si lasci adeguatamente descrivere come un processo di apprendimento o se sia invece deficitario (per esempio quando è regressivo). Con una tale “metacritica dei processi storici” si darebbe quindi la possibilità di delineare una ricostruzione e allo stesso tempo una deflazione della base storico-filosofica, a cui la vecchia teoria critica era legata.

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10. Purificazione” weberiana dei giudizi di valore vs. metacritica dell’esistente

In cosa si differenzia dunque un tale posizionamento della teoria critica dal ruolo che finanche Max Weber ebbe ad accordare alla scienza nel senso di una sorta di istanza purificatrice rispetto alle decisioni valoriali?45 Vorrei tornare in conclusione brevemente su questo concetto, per differenziarlo dal più forte programma della teoria critica che qui ho delineato come metacritica dei processi di apprendimento etici.

Seguendo le considerazioni riportate all’inizio, non è che Max Weber semplicemente non attribuisca alcun ruolo alla scienza nella valutazione dei contenuti di cultura, quanto piuttosto un ruolo limitato, quello cioè di una istanza purificatrice o chiarificatrice. Dal fatto cioè, come viene a differenziare Weber subito dopo il sopra riportato divieto dei giudizi di valore, che questi si basano su «determinati ideali» e che sono perciò di «origine “soggettiva”», non ne discende in nessun modo che essi siano «sottratti alla discussione scientifica in genere»46. Tuttalpiù questa discussione diventa effettiva in più stadi. Come «critica tecnica»47 la scienza può essere utile a scoprire quali possano essere i mezzi congrui al raggiungimento di quei fini, che, essendo posti da lei stessa, non vengono fatti oggetto di discussione. In alcuni casi ne fa parte in una fase successiva anche il vaglio delle conseguenze del raggiungimento di determinati scopi così come anche dei suoi costi rispetto a scopi ulteriori. Un passo in avanti (se così si vuole) nel giudizio critico degli «scopi che vogliamo e degli ideali che stanno alla loro base» lo fa certamente la valutazione «logico-formale» del «materiale che ci è offerto dai giudizi di valore e dalle idee storicamente date, e quindi un’esame degli ideali in base al postulato della interna assenza di contraddizione di ciò che viene voluto»48. Anche questa valutazione allora, sebbene si spinga in un certo senso fin nel nucleo dei giudizi di valore, si astiene nei confronti del giudizio di valore stesso, fin tanto che essa prende posizione non tanto riguardo al medesimo contenuto dello stesso, quanto in maniera appunto «logico-formale» rispetto alla sua consistenza interna. Essa, detto in altro modo, non dice a «colui che agisce volontariamente», che cosa sia tenuto a volere, bensì lo assiste nel percorso di questa valutazione basata sulle conseguenze e sulla consistenza interna di ciò che lui ha voluto verso «una auto-riflessione su quegli assiomi ultimi che stanno alla base del contenuto del suo volere, vale a dire a quegli ultimi criteri di valore da cui egli consapevolmente muove o – per essere consequente – dovrebbe muovere»49. Con ciò essa lo aiuta a sapere meglio o più chiaramente, cosa esso vuole. Il riferimento della sua propria volontà rimane però inaggirabile.

Questo è un programma plausibile sotto molti punti di vista. Anche la teoria critica, da me concepita come metacritica, non vuole certo affermare sulla testa degli attori, cosa sia per loro giusto e ciò che dovrebbero volere. Sotto certi aspetti la teoria critica, analogamente alla scienza concepita da Weber stesso, «non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve ma soltanto ciò che egli può e – in determinate circostante – ciò che egli vuole»50. Cionondimeno la teoria critica pretende di andare ben al di là di questo.

Nella teoria critica l’ “ammaestramento su ciò che si vuole” è legato a premesse più forti e gravide di conseguenze, di quanto non avvenga nel caso di Max Weber. Quest’ultimo sembra presupporre, che la ‘purificazione’ scientifica delle rispettive posizioni abbia a che fare con problemi relativamente semplici, riguardanti da un lato la consistenza interna, e dall’altro il sapere (sarebbe a dire la consapevolezza di un fatto per mezzo di un’estesa cognizione delle conseguenze delle azioni).51 Rispetto a ciò il procedimento guidato dall’interesse per l’emancipazione proprio della teoria critica si differenzia invece sotto più di un aspetto.

I: Esso, invece di limitarsi alle sole inconsistenze o incongruenze accidentali nel dispiegamento delle convinzioni, si rivolge ai blocchi sistematici nel processo di formazione della volontà e nella capacità d’azione degli attori (individuali o collettivi). Fondamentalmente nella prospettiva della teoria critica sono i blocchi indotti socio-strutturalmente nella formazione della volontà e nella capacità d’azione collettiva ad essere interessanti, così come le ragioni socio-strutturali delle deformazioni e delle inconsistenze del proprio volere. A questo si aggiunge che la teoria critica interroga con metodo critico-ideologico i valori stessi, i «contenuti di cultura», sulle loro condizioni d’origine e sulla loro funzione sociale. Già per questo esse non sono inaggirabili ed epistemicamente inaccessibili come Max Weber presuppone. Quello che ‘gli individui realmente vogliono’ viene quindi problematizzato sullo sfondo delle sue condizioni di formazione in misura maggiore di quanto non lo permetta Max Weber.

II: l’orientamento verso crisi e disfunzioni nella risoluzione di problemi, implica che all’orientamento verso la volontà individuale venga affiancato un momento più ‘realistico’. Che qualcosa nei nostri orientamenti possa non essere corretto, lo si vede fra le altre cose dal genere di rigetti pratici e disfunzionalità, che si possono qualificare come crisi. Ciò significa però che a porci di fronte a dei problemi è la realtà (sociale), per quanto questa dipenda a sua volta dalla nostra interpretazione. Sotto tutti questi aspetti, la “critica immanente” esercitata dalla teoria critica va al di là di un semplice processo di chiarimento interno, purché essa stabilisca un criterio sovraindividuale per la reazione adeguata a tali problemi e ponga con ciò l’idea dell’«adattamento pratico-funzionale» [Passung n.d.T.] al posto della semplice consistenza interna.

Da una parte emerge allora in ultima analisi, che l’interesse per l’emancipazione, di cui aveva parlato Horkheimer, è invero tale da rimanere sotto alcuni aspetti eticamente formale. In fin dei conti l’intenzione alla base dell’emancipazione consiste nel far degli individui gli autori stessi delle proprie azioni e i fautori della propria vita e delle proprie decisioni; non certo quindi nel prescrivergli i contenuti di quella che sarebbe per loro una “vita buona”. D’altra parte però l’ “emancipazione”, in quanto “forma” nella quale la formazione individuale così come anche collettiva della volontà dovrebbe avere luogo, è un programma affatto contenutistico e in un certo senso essa stessa un “valore”, a partire dal quale è possibile rivolgere delle obiezioni sostanziali a formazioni sociali esistenti.

Anche se l’approccio così concepito è pur sempre ancora più debole, ma soprattutto più aperto a nuovi risultati rispetto al peroramento di un ben determinato modo di vita, di ben determinati «contenuti di cultura» o «vincoli valoriali», esso è comunque ben lontano dal programma dell’«astinenza» nei confronti di questi. L’orientamento qui proposto verso le condizioni di riuscita dei processi di apprendimento potrebbe inoltre, in ultima istanza, forse donare persino plausibilità all’idea, che il passaggio così malvisto da Max Weber (e da altri) dall’ “essere al dover-essere” o dal “divenire” al “dover-essere” non sia poi così assurdo.

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Traduzione: Marco Marangio.

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………..*Questo saggio è stato pubblicato in Soziologische Theorie kontrovers – Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie, «Sonderheft», 50/2010, con il titolo Der Standpunkt der Kritischen Theorie. Überlegungen zum Objektivitätsanspruch Kritischer Theorie. L’autorizzazione alla presente traduzione è stata gentilmente concessa dall’autrice stessa.

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1 M. Weber, L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904), in M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1958, pp. 53-141.

2 Ivi, p. 56.

3 Ivi, p. 57.

4 Ivi, p. 58.

5 Ivi, p. 62.

6 Con scienza, che qui traduce il termine tedesco Wissenschaft, non si intende, come di norma in italiano, unicamente le scienze naturali, ma la scienza in genere come insieme di conoscenze fondate e ordinate. [n.d.T]

7 Nel testo “aufgeklärten” è da intendersi in riferimento all’illuminismo. [n.d.T]

8 Il termine Parteilichkeit, qui tradotto con partigianeria, può essere reso altrettanto bene con faziosità o parzialità. Benché il termine partigianeria contenga un richiamo ad un contesto di lotta politica e per lo più in un’accezione violenta, che in certa misura va oltre le intenzioni del testo, ritengo questa soluzione comunque preferibile alle altre, in quanto queste rimandano ad un atteggiamento incurante della verità altrui o al limite machiavellico, che sicuramente non corrisponde alle intenzioni dell’autrice. Per i termini parteilich e parteisch, rispettivamente tradotti con “di parte” e “fazioso”, fa fede M. Horkheimer, Teoria critica: scritti 1932-1941,a cura di A. Bellan, Mimesis, Milano-Udine 2014.[n.d.T.]

9 M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in A. Bellan (a cura di), Teoria critica: scritti 1932-1941, Mimesis, Milano-Udine 2014.

10Ivi, p. 29.

11Ivi, p. 30.

12 Ivi, p. 56.

13Ivi, p. 26.

14 A. Honneth, Un caso di patologia della ragione. L’eredità intellettuale della teoria critica, in Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, trad. di A. Carnevale, Pensa MultiMedia, Bari – Brescia 2012, pp. 47-74.

15 Il testo probabilmente più famoso attraverso cui si può studiare l’estensione del contenuto dei fenomeni, che qui diventano oggetto di una critica delle forme di vita, e che procede (in senso Weberiano) a partire dal “contenuto” (e che appunto per questo non è solo un’analisi) è Minima Moralia di Adorno. Bello anche il luogo in cui Horkheimer parla di come l’uomo voglia «vivere più serenamente e più a lungo», Cfr.M. Horkheimer, Marx oggi, in W. Brede (a cura di), La società di transizione, Einaudi, Torino 1979, p. 162.

16 Cfr. M. Horkheimer, Soziologie und Philosophie, in G. S. Noerr (a cura di), Gesammelte Schriften, n. 7, Fischer, Francoforte sul Meno 1985 & A. Honneth, La dinamica sociale del misconoscimento. Sul ruolo della teoria critica oggi, in «Teoria Politica», n. 3, 1994.

17 Anche in Weber è presente una certa tensione tra lo scopo ermeneutico della ricerca rivolto verso il comprendere e il significato, e un altro aspetto, che punta alla comprensione delle regolarità. Cfr. G. E. McCarthy, Objectivity and the silence of reason: Weber, Habermas and the methodological disputes in German sociology. Transaction Publischers, New Brunswick NY 2001.

18 Riguardo al modello critico della teoria critica derivante dalla sinistra hegeliana si veda A. Honneth, La riserva genealogica di una critica sociale ricostruttiva. L’idea di “critica” nella scuola di Francoforte ,in Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, trad. di A. Carnevale, Pensa MultiMedia, Bari – Brescia, 2012, pp. 75-86. Per una definizione delle diverse interpretazioni a proposito del procedimento immanente e per una demarcazione tra critica interna e critica immanente si veda R. Jaeggi, Was ist Ideologiekritik, in Was ist Kritik?, a cura di R. Jaeggi & T. Wesche, Suhrkamp, Francoforte sul Meno, 2009, pp. 266-295. Questo stesso punto viene più ampiamente sviluppato in R. Jaeggi, Kritik von Lebensformen, Suhrkamp, Berlino 2014.

19 M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in A. Bellan (a cura di), Teoria critica: scritti 1932-1941, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 33.

20 Horkheimer M., La teoria critica ieri e oggi, in W. Brede (a cura di), La società di transizione, Einaudi, Torino 1979, p. 167.

21 Riguardo al negativismo della teoria critica si veda M. Theunissen, Negativität bei Adorno, in L. Friedeburg & J. Habermas (acura di), Adorno-Konferenz 1983, Suhrkamp, Francoforte sul Meno 1983, pp. 41-65. Una posizione invece contraria è stata recentemente sostenuta in M. Seel, Adornos Philosophie der Kontemplation, Suhrkamp, Francoforte sul Meno 2004.

22 Non mi è possibile affrontare qui questo problema nel dettaglio. Tuttavia va notato che nella storia della filosofia, da Hegel a Nietzsche e da Dewey fino a Searle, sono stati molto disparati i tentativi di passare dall’Essere al Dover-essere sostenendo, tutti a modo loro, che l’Essere stesso è già di per sé normativamente impregnato. Rimane da verificare, se anche la costellazione qui descritta sia affetta da una “fallacia naturalistica”.

23 Già in una sua retrospettiva sugli inizi della teoria critica lo stesso Horkheimer fa notare con una franchezza perciò sorprendente, che inizialmente si sarebbe puntato sulla rivoluzione per poi accontentarsi del solo mantenimento dei residui dell’autonomia borghese. Cfr. M. Horkheimer, La teoria critica ieri e oggi, in W. Brede (a cura di), La società di transizione, Einaudi, Torino 1979.

24 J. Habermas, Werte und Normen. Ein Kommentar zu Hilary Putnams Kantischem Pragmatismus, p. 296, in M. L. Raters, M. Willaschenk (a cura di), Hilary Putnam und die Tradition des Pragmatismus, Surhkamp, Francoforte sul Meno, 2002, pp. 280-305. Traduzione mia dal tedesco: «“Grausam” nenne wir das Quälen von Menschen nicht nur bei uns, sondern überall. Aber wir fühlen uns keineswegs berechtigt, gegen befremdliche Erzieungspraktiken und Heiratszeremonien, also gegen Kernbestandteile des Ethos einer fremden Kultur, Einspruch zu erheben, solange diese nicht unseren moralischen Maßstäben widersprechen – nämlich zentralen Werten, die sich durch ihren universalistischen Geltungsanspruch von anderen Werten unterscheiden». [n.d.T]

25 Cfr. J. Raz, Facing diversity: the case of epistemic abstinence, in «Philosophy and public Affairs», n. 19, 1990, pp. 3-46. Traduzione mia dall’inglese: “They advocate an epistemic withdrawal from the fray”. [n.d.T]

26 Cfr J. Habermas & J. Ratzinger, Dialektik del Säkularisierung. Über Vernunft und Religion, 4. edizione, Herder, Friburgo,2006. Traduzione mia dal tedesco, il periodo originale recita: “Hier geht es um einen Streit von«Glaubensmächten», in den die «Philosophie nicht mehr aus eigenem Recht eingreifen» könne”. [n.d.T]

27 Già in Teoria dell’agire comunicativo viene sostenuta la tesi, anche se a partire da principi diversi, «daß eine solche Theorie (…) auf die kritische Beurteilung und normative Einordnung von Totalitäten, Lebensformen und Kulturen, von Lebenszusammenhängen und Epochen im ganzen verzichten muss» Habermas (1981: 562).

28 Cfr. J. Habermas, Werte und Normen. Ein Kommentar zu Hilary Putnams Kantischem Pragmatismus, in M. L. Raters, M. Willaschenk (a cura di), Hilary Putnam und die Tradition des Pragmatismus, Surhkamp, Francoforte sul Meno 2002, pp. 280-305.

29 Vedi nota 2. [n.d.T]

30 Cfr. M. Weber, op. cit., p. 64.

31 Per un esaustivo confronto critico con la tesi weberiana della libertà nei giudizi di valore aggiornato all’attuale stato della discussione nelle scienze sociali si veda J. Ritsert, Einführung in die Logik der Sozialwissenschaften, Westfälisches Dampfboot, Müster 2003.

32 Cfr. Ivi, pp. 60-67.

33 L. Siep, Zwei Formen der Ethik, Westdeutscher Verlag, Opladen, 1977. Traduzione mia dal tedesco: «Moderne Lebensformen haben (…) so massive technische und infraskturelle Voraussetzungen, daß die ohne erheblliche öffentliche Leistungen nicht möglich sind. Diese Leistungen schaffen aber ihrerseits irreversible Bedingungen für die Wahl- und Realisierbarkeitschancen von Lebensformen. (…) Wenn solche Entscheidungen durch die Freiheit der technischen Entwicklung, des Marktes und der staatlichen Infrastrukturleistungen gefällt werden, dann wird die private nur durch allgemeine Regeln wechselseitiger Achtung beschränkte Bildung von Präferenzen und Glücksvorstellungen zur Illusion. Wenn über das private Glück öffentlich und mit Gesetzen – Steuergesetze, staatliche Technoligiepolitik etc. – entschieden wird, müßte über Lebensweisen, die dem Menschen gerecht werden, auch eine allgemeine Diskussion stattfinden». [n.d.T]

34 M. Weber, op. cit., p. 63.

35 Ivi, p. 60.

36 Ivi, p. 64.

37 Ibidem.

38 Che «se Dio non esiste, allora tutto è permesso», appare sì evidente prima di tutti a coloro che dapprima vi hanno creduto.

39 Cfr. H. Putnam, Antwort auf Jürgen Habermas, in M. Raters & M. Willaschek (a cura di), Hilary Putman und die Tradition des Pragmatismus, Suhrkamp, Francoforte sul Meno 2002, pp. 306-321.

40 Il termine «Ergriffensein» ha un connotato religioso che rimanda ad una forte esperienza di rivelazione divina, attraverso la quale si viene chiamati irresistibilmente a Dio. Un esempio ne è la conversione di San Paolo. Si è scelto per questo di accennare implicitamente al celeberrimo “fulminato sulla via di Damasco” per non perdere questa sfumatura nella traduzione. [n.d.T.]

41 Per un sviluppo più ampio della concezione delle forme di vita come strategia per la risoluzione di problemi, si veda R. Jaeggi, Kritik von Lebensformen, Suhrkamp, Berlino 2014.

42 Cfr. R. Geuss, L’idea di una teoria critica, Habermas e la scuola di Francoforte, Armando, Roma 1989.

43 Cfr. R. Celikates, Kritik als soziale praxis. Gesellschaftliche Selbstverständigung und kritische Theorie, Campus, Francoforte sul Meno 2009.

44 Cfr. R. Celikates & R. Jaeggi, Materialien zu einer kritischen Theorie kollektiven Handelns, bozze non pubblicate, Berlino, Francoforte sul Meno 2009.

45 Anche Habermas parla in un luogo cruciale della riconversione alla ricerca di «qualità formali dei processi di formazione dell’immagine di sé”: “proprio nelle questioni per noi più rilevanti, lei [la filosofia] si reca su un meta-livello e indaga solo le qualità formali dei processi di formazione dell’immagine di sé, senza prendere posizione riguardo al contenuto. Certo ciò può stare stretto a qualcuno, ma cosa si potrebbe mettere in campo contro una ben fondata astinenza?» Cfr. J. Habermas & J. Ratzinger, Dialektik del Säkularisierung. Über Vernunft und Religion, 4. edizione, Herder, Friburgo 2006.

46 M. Weber, op. cit., p. 58.

47 Ivi, p. 59.

48 Ivi, pp. 60-61.

49 Ivi, p. 61. Corsivo mio.

50 Ibidem.

51 Questa contrapposizione si lascia riprodurre altrettanto legittimamente in riferimento al dibattito filosofico intorno agli interessi personali illuminati [aufgeklärtes] e alla razionalità; si vedano per esempio le riflessioni contenute in J. Elster, Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, Feltrinelli, Milano, 1970. Lo stesso autore persegue in J. Elster, Belief, bias and ideology, in M.Hollins & S.Lukes (a cura di) Rationality and relativism, MIT press, Cambridge 1982, pp. 123-148, il programma weberiano della delucidazione [Aufklärung] della proprio volontà in una maniera concettualmente alquanto più avanzata o differenziata (seppur non in riferimento agli orientamenti di valore, bensì più in generale rispetto alle preferenze). Nella corrispondente discussione filosofica ha preso piede per una parte del movimento di chiarificazione qui in corso il bel concetto di “preference laundering”.

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