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Giorgio Cesarale
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La storia della filosofia del Novecento è senza dubbio innervata, quasi costituita si potrebbe dire, dalla critica alla nozione hegeliana di “totalità”. Sviluppare una Destruktion, in senso heideggeriano, del concetto hegeliano di “totalità” è stato infatti un obiettivo centrale di tutte le più significative esperienze filosofiche dell’ultimo secolo, da Heidegger appunto ad Adorno e da Levinas a Deleuze. Tuttavia, nella galleria dei filosofi che hanno ingaggiato battaglia con un concetto di totalità colorato “hegelianamente” spesso non viene inserito proprio colui il quale, da un certo momento in poi, si è risolutamente posto sotto il segno di una difesa intransigente e anche ben argomentata del concetto “hegeliano” di totalità, vale a dire Lukács. Non bisognerebbe mai dimenticare, infatti, che prima di Storia e coscienza di classe, e cioè prima dell’ascensione del concetto “dialettico” di “totalità” a criterio di distinzione fra pensiero borghese e marxista, Lukács ha portato alla luce i tratti più essenziali di quella individualità borghese, problematica e décadente avrebbe detto Nietzsche, il cui esserci rende precisamente impensabile la nozione di totalità. La totalità, intesa come condizione di perfetta omogeneità fra soggettività e mondo, non ha bensì smesso di essere cercata, dice Lukács in Teoria del romanzo; ma l’anima che la cerca, la cerca segretamente consapevole che non potrà più riconquistarla1. La totalità è quindi qualcosa la cui negazione è l’origine stessa della costituzione della forma moderna di individualità. Il più bel frutto di quest’ultima, il suo abbandonarsi alla Sehnsucht, non potrebbe infatti darsi se le condizioni di riproduzione di una totalità “integrata” si ripresentassero intatte.
Non è nostro interesse qui descrivere come questa concezione del nesso fra individualità borghese e totalità si sia comunicata al resto del pensiero filosofico del Novecento (per esempio ad Adorno). Ciò che importa piuttosto osservare è che il presupposto di fondo di essa è non già l’inattingibilità della totalità, ma il suo esser irrimediabilmente disgiunta da ciò che costituisce il centro di gravità dell’individuo borghese. Se la totalità non riesce a integrare entro di sé la tensione e la problematicità, dunque la libertà, dell’individuo moderno, essa diventa ciò che è opposto a sé, e cioè solo una parte dell’essere. È per questo che non è difficile vedere in questa violenta divaricazione di totalità e libertà la prefigurazione del concetto lukacciano più tardo di “reificazione”, di ciò che è soltanto in quanto decaduto a opaca necessità.
Ma è possibile pensare una totalità capace di misurarsi con la forza sconvolgente di una soggettività, come quella moderna, che in tanto è in quanto sradicata, “espropriata”, integralmente rimessa a ciò che Robert Pippin e Terry Pinkard hanno chiamato i processi di autorizzazione razionale della agency2? È arduo dire in che modo oggi si possa provare a riconfigurare questo nesso di totalità e libertà; ciò che è sicuro è che per farlo bisogna, anzitutto, rivolgersi ai primi tentativi che, a livello filosofico, sono stati effettuati per portare questo nesso stesso a un più alto grado di intelligibilità e coerenza teorica. In ciò che segue cercheremo di tenere fede a questo impegno, esaminando il modo in cui, in un luogo cruciale del suo sistema, la trattazione della “idea assoluta” nella Logica, Hegel giunge a ripensare il rapporto fra totalità e libertà. La nostra tesi è che, malgrado la forte originalità della proposta hegeliana, essa non riesca a misurarsi interamente con le enormi conseguenze che derivano al suo ripensamento del rapporto fra totalità e libertà dalla introduzione del concetto di “prassi”.
Per decollare, il nostro discorso ha tuttavia bisogno di una premessa storico-filosofica: a dispetto di quanto recita il senso comune, la filosofia classica tedesca è una filosofia “reattiva”, fermamente determinata a rispondere alle conclusioni che circa il nesso totalità-libertà erano state ricavate da Jacobi e Kant al termine di una lunga perlustrazione della metafisica razionalistica moderna3. Sia Jacobi sia Kant ritengono infatti, sebbene in modi molto diversi l’uno dall’altro, che il salvataggio operato dal razionalismo moderno dell’unità dell’esperienza, la riconduzione di ogni evento a una catena indefinita di cause e di effetti, sia stato benefico, ma abbia anche comportato un sacrificio molto alto, il sacrificio della libertà. Si può continuare perciò a scrivere una metafisica della natura o un sistema della natura solo se si consegna la libertà a una sfera distinta da quella fenomenica. Come Jacobi dice esemplarmente nelle Lettere sulla dottrina di Spinoza, la negazione spinoziana delle cause finali conduce, in ultima istanza, al determinismo fatalistico4. E poiché il ferreo nesso causa-effetto è lo strumento per recuperare alla vista la questione della totalità – che nel linguaggio settecentesco equivale a quella del sistema – ne consegue che la libertà non può trovare collocazione all’interno di qualsiasi ricostruzione razionale della totalità d’essere come totalità dell’accadere fenomenico. In Kant tutto ciò è formulato in maniera rovesciata: la libertà è una idea della ragione, e quindi è una idea di quella facoltà umana che è precisamente volta a considerare i prodotti dell’attività conoscitiva sotto il segno della totalizzazione. Ma poiché a queste idee della ragione, tra cui la libertà – che sono immanenti alla totalità perché mirano a garantire un fondamento incondizionato agli eventi condizionati della natura fenomenica –, manca qualsiasi correlato sensibile, allora la totalità da queste promossa non ha alcuna funzione direttamente conoscitiva, ma solo euristica5. Si può riassumere tutto ciò in forma chiasmatica: là dove vi è sistema e totalità della natura, come nello Spinoza rappresentato da Jacobi, allora non vi è libertà e là dove vi è libertà e totalità, come in Kant, non vi è natura conoscibile.
È di fronte a questa situazione aporetica che si trovano – lasciando da parte, per ragioni di spazio, Fichte – Schelling e Hegel quando si accingono a lavorare sul nesso totalità-libertà. Se si apre la prima pagina delle sue Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi, questo è infatti il punto di partenza della trattazione di Schelling: «Secondo una leggenda antica e non ancora dissipata, il concetto di libertà è incompatibile con un sistema, ed ogni filosofia che ha pretesa di unità e di totalità perviene alla negazione della libertà»6. L’ipotesi di Schelling è che da questa aporia si possa uscire non già sottraendo necessità e universalità all’accadere del mondo, ma restituendo libertà al principio della totalità dell’essere, e cioè Dio. Se libertà è scelta fra bene e male, questa scelta è proiettata all’indietro fin dentro la vita della stessa essenza divina, la quale è tale solo nella misura in cui si distacca dalla sua natura, ed è pura attività. Sul modo in cui Schelling prova a fondare questa paradossale libertà in Dio, e cioè sul modo in cui egli articola la differenza in esso fra fondamento e esistenza, non possiamo qui intrattenerci. Basti solo dire che, attribuendo a Dio la capacità di farsi altro rispetto alla sua natura originaria, esso diventa dotato non solo di una ricca vita spirituale interna (si pensi alla formazione in esso di immagini, della parola, dell’amore etc.), ma anche di quella proprietà del “diventar-altro” che nella tradizione metafisica sembrava dover essere appannaggio solo del mondo degli enti finiti, dei fenomeni. Insomma, la libertà riesce in Schelling ad introdursi in Dio solo al prezzo di una radicale messa in questione della premessa fondamentale della metafisica, e cioè l’accurata divisione dell’essente fra ciò che è immutabile e ciò che è mutabile. Totalità e libertà possono dunque ricongiungersi – questa è la nuova consapevolezza raggiunta dal pensiero post-kantiano – solo se si fanno cadere quelle presupposizioni della metafisica, cui il pensiero razionalistico moderno ha continuato, malgrado le sue novità, a concedere fiducia.
Sebbene la strategia argomentativa hegeliana sia in molti punti radicalmente diversa da quella schellinghiana appena e per brevi tratti descritta, crediamo che lo scopo ultimo sia lo stesso: per uscire dalla strettoie in cui si sono cacciati Kant e la metafisica razionalistica moderna allorché hanno provato a indagare il nesso totalità-libertà, si tratta di pensare la totalità nelle forme di una idea assoluta, che è tale perché include in sé la conoscenza e la prassi, dunque la vita concreta, degli esseri finiti. Dice infatti Hegel nel primo, e straordinario, capoverso del capitolo della Logica dedicato all’«idea assoluta»:
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L’idea assoluta, così com’è risultata, è l’identità dell’idea teoretica e dell’idea pratica, ciascuna delle quali per sé ancora unilaterale, ha in sé l’idea stessa, solo come un al di là che si cerca ed una meta non raggiunta – ciascuna quindi è una sintesi del tendere, ha e in pari tempo non ha in sé l’idea, passa dall’uno all’altro, ma non mette assieme i due pensieri, anzi resta nella lor contraddizione. L’idea assoluta, essendo il concetto razionale che nella realtà si fonde solo con se stesso, è a cagione di quest’immediatezza della sua identità oggettiva da un lato il ritorno alla vita; ma ha insieme tolta questa forma della sua immediatezza ed ha in sé la suprema opposizione. Il concetto non è soltanto anima, ma è libero concetto soggettivo che è per sé ed ha quindi la personalità, – il concetto oggettivo pratico, in sé e per sé determinato, che come persona è soggettività impenetrabile, come di un atomo, – ma che però non è in pari tempo individualità esclusiva, anzi è per sé universalità e conoscenza e nel suo altro ha per oggetto la sua propria oggettività. Tutto il resto è errore, torbidezza, opinione, tendere, arbitrio e caducità; soltanto l’idea assoluta è essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità7.
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Il “ritorno alla vita” e la conquista di una personalità8, che pero non è persona (in modo esattamente inverso a ciò che accade nel § 279 della Filosofia del diritto, entro il processo di legittimazione della figura del monarca), hanno troppe risonanze filosofiche e religiose per essere qui indagate, e del resto, come abbiamo detto, non è questo il compito che ci siamo qui voluti prefiggere. Dal nostro punto di vista, è essenziale invece mettere in luce che per Hegel l’idea assoluta è vita e personalità (e non anima, cioè essenza indeterminata), perché è concetto che si nutre di libertà.
Ma che cosa vuol dire più precisamente tutto questo? La chiave della risposta sta in ciò che immediatamente precede, e cioè, come appena detto, nella questione del rapporto fra idea del vero e idea del bene, fra conoscenza e prassi. Per Hegel conoscenza e prassi si dispongono in circolo: la conoscenza è tale se il mondo viene riflesso nella sua oggettività data, altra rispetto all’attività conoscitiva stessa. Tuttavia, appena la conoscenza prova a conferire universalità e necessità al suo procedere sarà essa stessa a stabilire, come nel teorema geometrico, le connessioni dimostrative, contraddicendo allo scopo di conformarsi all’oggetto dato. La sottrazione di ogni valore al mondo esterno, e cioè la posizione della universalità del concetto nel mondo, coincide con il movimento di attuazione pratica del bene e serve a rimuovere la debolezza della pura attività conoscitiva. Ciò che si produce è però un’altra debolezza: appena si pone nel mondo, il bene si pone in oggetti necessariamente determinati e finiti e quindi sempre, costitutivamente, difformi dal bene, che è postulato come qualcosa di assolutamente valido. Se il mondo esterno non ha valore – questo il risultato cui siamo giunti al termine dell’esame della attività conoscitiva – tutto ciò che la volontà vi introdurrà allo scopo di realizzare il bene sarà a sua volta privo di valore. Per giungere quindi alla consapevolezza che il bene si sia realmente trasfuso nel mondo dobbiamo cambiare prospettiva e concentrarci non tanto sulla realizzazione, sempre contraddittoria, del bene nella esteriorità del mondo, quanto sul fatto che l’azione ha trasformato quest’ultimo facendovi penetrare libertà e universalità. Si ritorna così, circolarmente, alla premessa che soggiaceva alla pura attività conoscitiva, e cioè alla nozione secondo la quale il mondo esterno è in sé carico di valore9.
Come si determina l’idea assoluta in questo orizzonte concettuale? L’idea assoluta è certo il superamento dell’idea del vero e dell’idea del bene, ma non nel senso per cui essa sarebbe la sintesi-sommatoria della loro parzialità. L’idea assoluta è piuttosto il circolo stesso fra conoscenza e prassi, il risultato della constatazione che il tendere di ciascuna verso l’altra è il medesimo tendere: la conoscenza se non è prassi non è conoscenza e la prassi se non è conoscenza non è prassi. Ma questo circolo teoretico-pratico, chiamandolo al modo di Benedetto Croce, che fa da contenuto all’idea assoluta è a ben vedere anche il motivo per cui Hegel afferma che l’idea assoluta è vita e personalità. Vita e personalità sono infatti in Hegel, la prima in forma immediata e la seconda in forma mediata, auto-riferimento, Selbstbezüglichkeit. Selbstbezüglichkeit che si può attingere perché, grazie all’unità conseguita fra conoscenza e prassi, la libertà del concetto si riconosce come omogenea al suo essere assolutamente altro, all’oggetto che nella pura attività conoscitiva veniva assunto come dato. D’altro canto – e questo costituisce un ulteriore momento concettuale –, poiché l’unità fra concetto e oggetto equivale al risolversi del contenuto nella determinazione di forma, allora quest’ultima potrà essere finalmente sottoposta a esame, nelle vesti del metodo. Il metodo infatti costituisce la parte centrale e più cospicua del capitolo della Logica dedicato all’“idea assoluta”.
Con ciò tuttavia abbiamo fatto solo i passi preliminari nel nostro discorso circa il concetto di libertà e il suo nesso con quello di totalità all’interno della idea assoluta. Esaurita la trattazione del metodo, Hegel nell’ultimo paragrafo del capitolo e della intera opera affronta più determinatamente uno dei nodi più spinosi del suo sistema, ovvero il passaggio dall’idea logica all’idea della natura. Non potremo discutere, per ovvie ragioni di complessità, l’intera problematica relativa a questo passaggio. Ciò che faremo è solo sottolineare come tutto ciò si intrecci a doppio filo con la tematizzazione del nesso totalità-libertà. Hegel dice:
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In quanto cioè l’idea si pone come assoluta unità del concetto puro e della sua realtà, e si raccoglie così nell’immediatezza dell’essere, essa è come la totalità in questa forma – Natura. – Questa determinazione non è però un essere divenuto un passaggio, a quel modo che, come si è visto, il concetto soggettivo nella totalità sua diventa oggettività e così anche lo scopo soggettivo diventa vita. La pura idea, in cui la determinatezza o realtà del concetto è essa stessa elevata a concetto, è anzi assoluta liberazione, per la quale non v’è più alcuna determinazione immediata che non sia in pari tempo una determinazione posta e il concetto; in questa libertà non ha quindi luogo alcun passaggio; il semplice essere, cui l’idea si determina, le resta perfettamente trasparente, ed è il concetto che nella sua determinazione riman presso se stesso. Il passare è dunque anzi da intender qui in questo modo, che l’idea si affranca da se stessa, assolutamente sicura di sé e riposando in sé. A cagione di questa libertà la forma della sua determinatezza è anch’essa assolutamente libera, – l’esteriorità dello spazio e del tempo che è assolutamente per se stessa senza soggettività10.
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Avviando questo capoverso, Hegel ricapitola i risultati cui è giunto con il circolo fra teoria e prassi: l’idea assoluta è autoriferimento. Tale autoriferimento è sul terreno logico però, come dicevamo, il metodo, ovvero rinvio della forma a sé stessa e non ad un’oggettività ad essa esterna. Non dovendo più mediarsi con altro, la forma, il metodo, è inoltre pura immediatezza, ma anche – si presti particolare attenzione a questo punto – totalità, perché ormai l’oggettività è, in quanto ricompresa nella attività della prassi, non più estranea al concetto. È in questo punto, e con un balzo quasi improvviso, che Hegel dice che questa forma immediata di totalità è la natura. Ma prima di spiegare più accuratamente il significato di questa “irruzione” della natura, Hegel afferma che questo passaggio alla natura non è in realtà un vero e proprio passaggio, come quello che si è verificato nella dottrina del concetto dalla soggettività alla oggettività e dalla teleologia alla idea della vita. Questo perché ora l’oggettività dell’idea non è più puramente integrata dall’esterno concetto, ma è nel concetto. Nel caso del rapporto, nella dottrina del concetto, fra oggettività e soggettività e fra teleologia soggettiva e vita il compimento della mediazione all’interno di ciascuna sfera della dottrina del concetto si era invece realizzato rinviando ad una sfera di “totale”, ma ancora esteriore, immediatezza. Al superamento della forma del passaggio consegue perciò una nuova fase, marcata da ciò che Hegel chiama l’assoluta liberazione dell’idea. Espandendosi nel mondo grazie alla prassi, il concetto infatti non incontra più seri limiti all’affermazione di sé; solo se fosse ancora limitato, il concetto avrebbe bisogno di passare in altro. Come accade anche altrove in Hegel, “liberazione”, Befreiung, significa qui alleggerimento da una limitante oppressione, che coincide con la conquista di uno stato di libertà reale11. Sennonché è una espansione di sé che, per un verso, non deve essere più “negoziata” con l’altro, per altro verso, allude al superamento della propria, originaria, costituzione.
Perché proprio in questo punto debba affacciarsi la natura rimane nondimeno ancora un enigma. In che senso questa immediata totalità sarebbe o dovrebbe essere natura? Non rimaniamo in qualche modo ancora confinati alla sfera del logico? A prima vista, ed è Hegel stesso a confessarlo, è senz’altro così, e questo spiega almeno in parte le difficoltà che da sempre filosofi e interpreti hanno avuto nel confrontarsi con questo luogo del discorso concettuale hegeliano. La tesi di Hegel è che se l’idea è pervenuta a sapersi interamente, perché ormai, dopo aver consumato in se stessa tutti i suoi contenuti, ha rivelato a se stessa la sua forma, e cioè il metodo, essa non può più tollerare la limitazione del contenuto rivelato alla sfera “soggettiva” del pensiero. In caso contrario, avremmo ancora una ineguaglianza fra forma (il metodo) e contenuto (la soggettività del pensiero); quella ineguaglianza che ha fatto da molla propulsiva alla Darstellung speculativa. Tuttavia, la “soggettività” a cui Hegel fa qui riferimento non va, secondo noi, intesa solo in senso “materiale”, ma anche in senso “formale”: la conclusione del processo logico nel metodo significa anche piena individuazione della sfera entro cui questo stesso processo è avvenuto. Del resto, il cenno di Hegel, nel primo capoverso del paragrafo dedicato all’”idea”, alla “personalità” dell’idea stessa indica, come dicevamo, precisamente questo, e cioè che una volta che l’idea si è pienamente esplicata essa è anche auto-riferita, e dunque pienamente contratta in sé, di nuovo divisa dall’altro.
È questo rapido avvicendamento di espansione e contrazione, che caratterizza a questo stadio l’idea assoluta, che porta Hegel a chiamare in causa l’“impulso”: quest’ultimo infatti definisce anzitutto la condizione d’essere di quell’ente che ha bisogno dell’altro perché avverte la propria limitazione; d’altro canto, la propria limitazione è avvertita proprio nella misura in cui si è soggettività, totalità che riconosce la propria finitezza12. Questo nesso fra espansione e contrazione, che costituisce la soggettività, e che per alcuni versi assomiglia all’intenzionalità husserliana, è un altro modo per dire la negatività; ma dire negatività sarebbe troppo generale e soprattutto non coerente con quell’immediatezza che ormai permea, a questo livello, tutte le determinatezze logico-ontologiche. È per questo, per tradurre la negatività in una forma, allo stesso tempo, ricca ed elementare, che Hegel preferisce usare il linguaggio “naturalistico” dell’impulso.
La “liberazione” di cui Hegel ha parlato in questa sede è, dicevamo, anche “libertà”. Ma se la liberazione mette capo alla libertà, a uno stato cioè dove non è più possibile riscontrare condizionamenti dell’alterità, allora nell’idea assoluta si riproporrà l’“essere” della prima triade della Logica13. In particolare, l’idea è essere in quanto di quest’ultimo ripropone l’assenza di limitazioni e la piena trasparenza. Ma, appunto, se l’idea è trasparente e non limitata, essa sarà, per un verso, auto-riferita, pienamente individuata, e potrà riposare in sé (la contrazione); per altro verso, potrà liberarsi da sé, trasformandosi in altro (l’espansione). Quest’ultimo movimento Hegel lo riassume nella categoria di Entlassen14.
È qui che si riaffaccia prepotente il nesso, anzi l’identità ormai, di libertà e totalità. L’assenza di limitazioni oggettive, la libertà, è infatti, come è evidente, totalità. Ma chiediamoci: è soltanto questo il significato di libertà con cui Hegel sta lavorando, o piuttosto, attraverso tutto il corso argomentativo che abbiamo analizzato, non è venuto alla luce anche qualcos’altro? Dobbiamo cioè accontentarci del fatto che questa totalità sembrerebbe ospitare la libertà solo nel senso “restrittivo” della libertà dell’essere , della libertà intesa in modo, per così dire, “hobbesiano”, come assenza di limitazioni, oppure vi è ancora molto da aggiungere?
Da quanto abbiamo detto in precedenza sembrerebbe valere l’ultima opzione: libertà significa qui certamente anche, in un modo che sarà poi ripreso da Hegel nella Filosofia del diritto, autodeterminazione15, subordinazione dei contenuti alla legge (il metodo) che essi stessi, svolgendosi, si sono dati. È il senso di libertà che prevale, con una decisiva integrazione sociale e “storicistica”, anche nel neohegelismo contemporaneo di Pinkard e Pippin. Tuttavia vi è un altro senso di libertà, diremmo “speculativo”, di cui Hegel si avvale e che poi ritornerà in luoghi centrali del suo sistema, per esempio nel passaggio dallo “spirito libero” allo “spirito oggettivo”16. È la libertà come alienazione da quella identità con sé che è forma. Quando l’idea diventa metodo o lo spirito soggettivo diventa spirito libero ciò che si conquista, infatti, è una pura forma: la capacità di esporre i modi dello sviluppo logico-ontologico o la capacità di agire in modo universale. Ma la libertà come forma è sempre in contrasto con il pensiero che pensa il logico e non la natura e lo spirito o con l’individuo determinato che si mostra come volontà libera. Come dicevamo, è questa “contraddizione” a generare l’“impulso”, e quindi a dividere dall’interno la soggettività, a separarla da se stessa. Ma se la soggettività torna a separarsi da se stessa, questo implicherà, in termini strettamente teorici, anche la rinascita dell’esteriorità. La natura, luogo per eccellenza agli occhi di Hegel dell’esteriorità, è pienamente isomorfa a questa libertà che riposa in se stessa e che allo stesso tempo si libera da sé, avendo di nuovo bisogno dell’alterità. È per questo che essa nel sistema deve succedere all’idea assoluta.
In un certo senso Hegel compie in questa sede una mossa analoga a quella dello Schelling delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, che non giunge a impostare compiutamente la sua problematica fino a quando non sia entrato in scena il suo più autentico concetto di libertà, la libertà come scelta fra bene e male. Per procurare il passaggio dal pensiero alla natura o, più in là, dallo spirito soggettivo allo spirito oggettivo non può bastare a Hegel, infatti, un concetto “razionalistico” di libertà, intesa come pieno possesso delle proprie condizioni di esistenza. Solo recuperando il tormentato nesso fra soggettività e libertà, Hegel riesce ad aprirsi la via verso quella libertà che si libera anche da se stessa, facendosi “passiva”, non soggettiva, non immersa nell’esteriorità del tempo e dello spazio della natura.
Ma il nesso razionalistico fra libertà e totalità è riformulato da Hegel anche dal lato della totalità. Il distanziarsi della totalità da se stessa, che in questo modo si realizza, non è per nulla una nientificazione della totalità stessa, come sarebbe accaduto fino a Kant. La totalità “intensiva” dell’idea non sarebbe infatti tale per Hegel se non fosse raddoppiata, comprensiva del suo opposto, della natura, della passività, dell’esteriorità. Tutte quelle dimensioni che invece sembrano sfuggire quando si assuma la libertà o nel senso dell’assenza di limitazioni o nel senso dell’auto-legislazione.
Molto si potrebbe dire a ulteriore commento di questo decisivo snodo concettuale17, ma intanto occorre registrare il primo risultato che ci eravamo ripromessi di ottenere parlando della scissione fra totalità e libertà nel giovane Lukács e poi nella filosofia del Novecento: l’idealismo tedesco non disegna affatto, nei suoi momenti migliori, una totalità chiusa, che, come una gabbia d’acciaio, è capace solo di sospendere il moto libero del soggetto, quasi al modo del Gestell heideggeriano. La rottura con la tradizione metafisica durata fino a Kant consente a Schelling di pensare la libertà in Dio (intesa come scelta fra bene e male) e a Hegel di inscrivere nell’idea, dunque nell’assoluto, l’attività concreta degli uomini, fatta non solo delle forme della vita contemplativa, ma anche di quelle della vita activa. La finitezza dunque squarcia il velo dell’assoluto, riconfigurandolo.
Tuttavia, la nostra opinione è che questa inscrizione della finitezza entro l’idea assoluta (mettendo da parte, a questo punto, il caso di Schelling) sia in Hegel, in ultima istanza, solo parziale. Anche nell’esame di questa formidabile sequenza concettuale si pone quindi la necessità, come ci invita a fare Žižek, di “ripetere” Hegel, di riarticolare le sue ragioni a contatto con il suo futuro18. Qui la nostra interrogazione riguarda proprio il circolo fra teoria e prassi, la risoluzione del quale pone le basi per il conseguimento della totalità e della liberazione della totalità da se stessa. La unificazione fra concetto e oggetto, che ne è l’esito, è resa possibile da una prassi che sappia riconoscere nell’oggettività che trasforma non il nulla, ma qualcosa di dotato di significato e valore. Senza il recupero delle movenze proprie dell’attività conoscitiva, dicevamo, questo non potrebbe mai avvenire e la prassi si avvolgerebbe in contraddizioni fatali. Ma che cosa accadrebbe se la prassi non si limitasse a commisurare quanto prodotto nel mondo ai suoi scopi e invece mettesse in questione l’intero quadro delle sue condizioni di possibilità? Nell’assetto hegeliano le contraddizioni che vengono segnalate e poi censurate sono quelle della prassi etica o anche – vista l’omologia che intercorre nella Logica fra il capitolo sulla teleologia e quello sulla idea del bene – quelle della prassi produttiva, ma non quelle della prassi propriamente politica, la quale, quando è al suo meglio, mira a collegare ogni intervento trasformativo all’insieme della realtà sociale entro cui avviene. Per non parlare della marxiana prassi rivoluzionaria, che, da questo punto di vista, è un potenziamento delle prestazioni del politico: in essa ogni intervento trasformativo va considerato alla luce dell’annullamento della totalità sociale stessa. In questo caso, non vi è alcuna chance di continuare a considerare l’oggettività come avente in sé valore perché comunque in essa si esplicita l’attività di essenze libere come le nostre. La prassi politica fa cioè saltare l’unità fra concetto e oggetto che è a fondamento della totalità immediata della idea assoluta e del suo processo di liberazione da se stessa. Quella distanza della totalità da se stessa che l’idea assoluta introduce al termine del suo svolgimento è così piuttosto introdotta dalla politica prima ancora che la idea assoluta possa sorgere. L’assenza della politica, o meglio dell’azione politica, che secondo noi indebolisce il sistema filosofico hegeliano anche in altri luoghi fondamentali19, arriva fino al culmine della logicità, manomettendone l’impianto.
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* Il presente saggio è già stato pubblicato in sloveno presso la rivista “Problemi”, 7-8 (2013), pp. 69-83.
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1Lukács 1972 (1920), pp. 271-272.
2 Cfr. per esempio Pippin 2008, pp. 4-5 e Pinkard 2003, pp. 205-216.
3 Sul carattere “reattivo” della filosofia classica tedesca ha insistito recentemente anche Beiser 2002 (pp. 2-3), sebbene in un senso diverso da quello che noi abbiamo assunto in questa sede: per Beiser, infatti, la filosofia classica tedesca non risponde anzitutto al nesso fra ragione, libertà e fenomeno che era stato elaborato dalla metafisica razionalistica moderna, ma al soggettivismo di quest’ultima.
4 Jacobi 1969 (1785), pp. 67-77.
5 Kant 1996 (1787), pp. 407-421.
6 Schelling 1990 (1809), p. 81.
7 Hegel 1996 (1812-1816), p. 935.
8Di un certo rilievo le osservazioni in merito di Duque 1995, pp. 253-257.
9Per l’interpretazione del nesso fra idea del vero e idea del bene molto utile ci pare la ricostruzione di Owen Johnson 1988, pp. 245-246.
10 Hegel 1996 (1812-1816), pp. 956-957.
11 «Befreiung» possiede in Hegel, tuttavia, almeno altri tre significati, gli ultimi due dei quali in qualche modo riflessi anche nel passaggio dall’idea logica alla natura: è indice di superamento dell’immediatezza, di riflessione in sé (cfr. Hegel 1992 (1830), § 410, p. 417; Hegel 1981 (1816), p. 253); sancisce il superamento delle opposizioni in una unità più comprensiva (cfr. Hegel 1992(1830), § 573, p. 55; Hegel 1978 (1812/1813), p. 33); suggerisce una fuoriuscita dalle forme parziali nelle quali un processo orientato teleologicamente si incarna (cfr. Hegel 1992 (1830), § 386, p. 384).
12 Sull’importanza del movimento di sistole e diastole che intesse la logica hegeliana sono già intervenuti Jarczyk and Labarrière 1976, p. XIII e Jameson 2010, p. 19.
13Qui prescindiamo del tutto, naturalmente, dalla complicata questione di quale rapporto sussista in generale fra essere e idea assoluta, per la quale cfr. Kroner 1961 (1921-1924), pp. 437 and sgg. e Kümmel 1968.
14Anche nel passaggio dalla famiglia alla società civile (Hegel 1987 [1821], § 181, p. 154) emerge l’importanza dello Entlassen, inteso come il release dei momenti dell’idea, in un orizzonte segnato dall’esteriorità.
15 Hegel 1987 (1821), § 7, p. 30.
16 Hegel 2002 (1830), §§ 481-482, pp. 472-474.
17 Qui abbiamo anche lasciato da parte la questione, ampiamente discussa da Schelling in poi, circa l’atto di decisione dell’idea di uscire da sé. Ma se lo abbiamo fatto vi è una ragione: la “decisione” non è per noi che la concretizzazione di quel duplice movimento di contrazione e espansione che caratterizza l’idea assoluta al suo culmine.
18Žižek 2013, p. 13.
19 Un altro luogo in cui ciò accade è, secondo noi, nel passaggio dalla società civile allo Stato.