Marco Costantini
Nell’Estetica trascendentale l’impostazione metodologica del filosofare critico di Kant, che in questa parte iniziale della Ragion pura mira a determinare i princìpi a priori della sensibilità, mostra una certa inadeguatezza verso l’oggetto da trattare. L’attitudine intellettualistica della critica, che distingue e limita sottraendo, disgiungendo e isolando, può far presa sulla facoltà dell’intelletto, in sé rappresentabile come «un’unità per se stante, autosufficiente»[1], «dai confini immutabili»[2], ma non sulla sensibilità, alla quale, proprio per via del suo legame essenziale con la cosa e, in generale, con il dato, non si addice quell’aspetto cosale, quella datità che la Critica, se pur involontariamente, le conferisce isolandola. Kant ha riveduto[3], come Leibniz prima di lui, il celebre assioma «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu», specificando che solamente quanto è materiale deve essere o esser stato sentito per potersi trovare nell’intelletto, mentre quel che è formale vi risiede a priori (i concetti puri dell’intelletto infatti «giacciono già pronti»[4] in esso). Ma nel riportare questa distinzione all’interno della sensibilità quasi ci si dimentica dell’evenemenzialità dei data sensibili, nell’immanenza dei quali soltanto il formale della sensibilità è di volta in volta attuale e a sua volta dato. Così, la sottrazione dall’intuizione empirica della sensazione, considerata materia, permette all’occhio critico di distinguere chiaramente ciò che è forma del sentire, lo spazio e il tempo quali forme pure della sensibilità, dalle quali nient’altro è ulteriormente sottraibile; ma lo induce altrettanto a fissarli, in modo tale da renderli, posti sotto il concetto di riflessione «forma», inconciliabili in linea di principio con la loro essenza trascendentale. Si tratta in fondo di un problema interno alla riflessione: riguarda i mezzi che Kant le mette a disposizione. Essa nuoce tanto più alla conoscenza trascendentale dell’a priori sensibile, quanto più si rimette all’incondizionatezza della Forma e, assecondandone in tutto e per tutto il concetto, secondo il quale essa «è data per sé sola»[5] poiché «precede ogni materia»[6], la ipostatizza, e con essa ciò che sussume: LO spazio e IL tempo.
C’è una sostanziale differenza tra una forma pura, «costante»[7], appartenente alla sensibilità quale concetto universale dell’intelletto, e quella «semplice forma»[8] di essa nella quale consistono, per il primo paragrafo dell’Estetica, l’estensione e la figura di un qualcosa. Esse sono estromesse dal puro spazio, come la successione e la simultaneità lo sono dal puro tempo, che Kant infatti considera immutabile[9]. E lo sono poiché la rappresentazione originaria delloSpazio e del Tempo non permette di concepirli come aggregati sorti per composizione di parti, dato che ogni particolare spazio e ogni particolare tempo già li presuppongono a loro fondamento. Resta da vedere se sia possibile presupporli per come essi sono contenuti nel concetto della forma, sotto forma cioè di totalità; non più come modi in cui la sensibilità viene affetta, ma come ciò che nella sensibilità risiede. In quanto topos, o luogo trascendentale, in essa ristanno come cose, vi alloggiano nel loro puro essere per sé, indifferenti per di più l’uno all’altro, poiché, nel porre un ulteriore spazio dove collocare tempo e spazio infiniti, essi riacquistano quell’aspetto cosale che l’Estetica aveva loro tolto via. D’altra parte la prima edizione della Ragion pura, nel corso della critica ai paralogismi, sottolinea ripetutamente che lo spazio è «dentro di noi»[10], pur essendo la forma nella quale l’esterno ci appare. Del resto, nonostante Kant dica che la forma dell’intuizione «non costituisce di per sé un oggetto», egli rimane comunque dell’idea che debba essere «di certo qualcosa»[11].
La filosofia critica, fintanto che ha ottenuto una forma pura, non ha ancora compreso, per quanto riguarda la sua componente estetica, la possibilità della conoscenza sintetica a priori. Tuttavia essa si serve dell’astrattezza e della negatività di quel concetto per giungere positivamente alla negatività dell’intuizione pura – negativa in quanto distolta dall’empiria, «vuota»[12], se presa puramente per sé, ma nondimeno data a priori nel conoscere sintetico e apodittico. Essa commuta l’indeterminatezza concettuale della forma pura nell’indeterminatezza dell’intuizione pura senza oggetto né concetto: converte il concetto vuoto nel vuoto aconcettuale. È quanto avviene quando Kant dice: «Questa forma pura della sensibilità prenderà anch’essa il nome di intuizione pura»[13]. La forma pura è quel concetto che permette alla Critica di scambiare un modo formale d’intuizione empirica, unico ma in continua variazione nella misura in cui vale per tutto il multiforme intuìto e intuibile, con quell’intuizione pura, invariata e uniforme, che data a priori attende d’esser determinata dall’intelletto: «Lo spazio è qualcosa di così uniforme e di così indeterminato riguardo a tutte le particolari proprietà, che certo non si troverà in esso un tesoro di leggi della natura. Al contrario ciò che determina lo spazio a forma di circolo, a figura di cono e di sfera, è l’intelletto in quanto contiene il fondamento della unità della loro costruzione»[14]. Siccome le figure in cui intuisco questa e quest’altra cosa sono spazio, e la durata per la quale questa e quest’altra cosa sono, o accadono, è tempo, all’origine di tutto ciò che in quest’unico modo è intuìto dev’esserci il tutto di un unico spazio che è LO spazio e di un unico tempo che è IL tempo, forme astratte convertite in intuizioni, alle quali si rivolge l’intelletto, che necessita della costruzione dei suoi propri concetti, e che li può costruire, per mezzo dell’immaginazione produttiva, a partire dal molteplice puro che esse gli forniscono, in quanto lo contengono in loro stesse. L’essere per l’intelletto di questo molteplice lo qualifica come materia: «La matematica […] non è possibile che proceda di un passo, fintantoché le manca l’intuizione pura, nella quale soltanto può essere data la materia per giudizi sintetici a priori»[15]. A questo punto però, la forma, che ha innescato tale movimento di riflessione, ne resta tanto più coinvolta, venendo presa in una dialettica che la capovolge nel suo contrario. Data la materialità dell’intuizione pura, che col molteplice in essa contenuto fornisce all’intelletto materia da formare, la sua immediata identità con la forma pura conferisce a quest’ultima il carattere materico che possiede. La forma pura diviene allora materia: materia prima, formale, per le costruzioni dell’immaginazione secondo concetti. Nei Prolegomeni Kant chiama infatti lo spazio puro «Substratum», dalla cui determinazione e definizione risultano, apriori e non a priori, le diverse figure dei fenomeni, rispetto alle quali lo spazio non costituisce il loro genere, quanto piuttosto la materia pura che l’immaginazione pervade per costruirle nella sintesi figurata, e in tal modo esibirle: «La semplice forma universale della intuizione, che dicesi spazio, è ben dunque il sostrato di tutte le intuizioni determinabili su oggetti particolari, e sta in esso certamente la condizione della possibilità e diversità di queste ultime; ma l’unità degli oggetti è tuttavia determinata unicamente dall’intelletto…»[16]. Non solo a priori: infatti la sintesi figurata del molteplice puro avviene anche in presenza del fenomeno, il cui molteplice sensibile altrimenti non troverebbe ordine alcuno. I rapporti formali, l’estensione e la figura, che di contro a una materia sensibile dovrebbero appartenere alla sfera della forma, ed essere pertanto immateriali, sono invece a loro volta materiali, nella misura in cui non sono solo condizioni, bensì anche condizionati; non solo determinanti ma determinabili – determinanti se e solo se determinati. In altre parole, occorre una materia formale per dar forma alla materia. In un passo dell’Analitica dei concetti, il togliersi della pura forma della sensibilità, nel suo essenziale essere-per-l’intelletto, emerge incontestabilmente: «Ma la congiunzione (conjunctio) di un molteplice in generale non può mai provenirci dai sensi, e neppure essere racchiusa nella forma pura dell’intuizione sensibile»[17]. Essa contraddice se stessa nel suo proprio concetto: forma significa il privo di forma, l’amorfo. In se stessa è disfatta; di per sé non ha formatività. La semplice forma della sensibilità, sia essa data a priori o empiricamente, è dunque sempre forma formata, materiata, mai pronta e sempre da farsi, tanto quando è richiamata a sé nell’intuizione formale, quanto nel materializzarsi reale del fenomeno empirico. Che l’intuizione pura avvenga per se stessa a priori è sì possibile, ma essa è del pari rivolta al mondo sensibile, dato che l’intuizione empirica «soggiace»[18] ad essa – la sorregge, in quanto le è formalmente sottesa. Ma proprio l’evento che permette il verificarsi di un’intuizione pura è irrimediabilmente occultato dal concetto di forma, che ne impedisce ogni possibile determinazione concettuale.
Nell’osservare il movimento di riflessione della forma si corre il rischio di scambiare l’astrattezza di spazio e tempo puri con un loro essere per sé astraenti. Ma l’esposizione metafisica dei loro concetti chiarisce la loro natura aconcettuale. A differenza del concetto, che si ripete ed è contenuto in tutte le rappresentazioni che sussume sotto di sé, spazio e tempo puri contengono in sé una molteplicità infinita di rappresentazioni; comportano infinite ripetizioni a dispetto dell’infinita ripetibilità quale in-sé del concetto. Tuttavia, pur non essendo nella loro essenza concetti, ovvero universali, bensì intuizioni, ovvero singolari, ciò non implica che un loro concetto universale sia de facto impossibile. Sicuramente esso è possibile, ma in sua corrispondenza, come in corrispondenza di qualsiasi altro concetto sensibile valido oggettivamente, occorrerà una rappresentazione figurata, sempre parziale, limitata, che però già li presuppone nella loro rappresentazione originaria, e che di questa rappresentazione può al massimo essere l’analogia. Una linea «monodimensionale»[19] raffigurerà il tempo, oggetto del suo concetto universale, così come tre linee convergenti in un punto raffigureranno lo spazio tridimensionale, oggetto del proprio. Ne consegue che lo spazio puro e il tempo puro non sono raffigurabili; il desiderio di una loro rappresentazione sensibile verrebbe frustrato dalla loro congenita irrappresentabilità. Non vi è sintesi figurata capace di apprenderli e comprenderli nella loro infinità per esibirli interamente e porli come dati sotto un qualche concetto. Se lo spazio – allo stesso modo del tempo – «è rappresentato come un’infinita grandezza data»[20], di certo non lo è sensibilmente, ma solo in quel concetto che lo ha in sé nella sua indeterminata aconcettualità, che lo pensa come un che di non concettuale e di non riconducibile in se stesso sotto un concetto universale. Nel recensire alcuni scritti di Kästner, Kant spiega che lo spazio «metafisico, cioé originario», in quanto tale «infinito», «non può essere portato sotto alcun concetto suscettibile di una costruzione»; cionondimeno esso costituisce «il fondamento della costruzione di tutti i possibili concetti geometrici», e quindi, con esso, «è data la possibilità di tutti gli spazi, la quale va all’infinito»[21]. Spazio e tempo sono dati come infiniti non «a parte rei» ma «a parte cogitantis»[22]. Con la rappresentazione metafisica dello spazio, ovvero col suo concetto metafisico, si pensa come data un’infinita possibilità configurativa ed estensiva; nient’altro che un’infinità qualitativa e quantitativa. La prima indica che una figura può essere spazio in infiniti modi; la seconda che oltre un certo spazio vi è di nuovo altro spazio.
Tanto basta per screditare il giudizio di Heidegger che, dapprima nell’Interpretazione fenomenologica, poi nel Kantbuch, vede nello spazio e nel tempo puri un che di intuìto, «una totalità unica e unitaria»[23] data intuitivamente e immediatamente. Il ricorso all’ambiguità della parola «intuizione», che significherebbe sia l’intuire sia l’intuìto, non regge[24]. Mai l’intuizione pura potrebbe essere intuizione dello Spazio, o del Tempo. Nessuno dei due è intuibile di per sé. «Spazio e tempo sono intuizioni pure» significa: intuizione è spazio, intuizione è tempo; intuire è spazializzare, intuire è temporalizzare. Nient’altro sono se non l’intuire stesso. Solo se oggetti di intuizione formale essi sono a loro volta intuibili, eppure non diversamente che per analogia, non in altro modo che raffigurandoli particolarmente. Le rappresentazioni originarie di spazio e tempo rappresentano al limite la loro irrappresentabilità. Sono rappresentazioni trascendentali del loro non essere rappresentazioni. Nient’altro essi rappresentano se non le irrappresentabili condizioni sensibili di ogni rappresentazione sensibile.
Dunque l’intuizione pura non astrae e non è astraente. Allora in quale modo, che non sia quello del concetto, può essa esser data a priori? Non la forma dell’astrazione ma quella dell’estrazione è la forma nella quale avviene a priori l’intuizione pura. Affinché sia in sé data, essa deve esser estratta dall’empiria, nella quale altrimenti, volta al mondo sensibile, resterebbe ritratta. Ora, le intuizioni pure sono due: spazio e tempo. Non diremmo tuttavia che siano entrambe estraibili. Solo lo spazio lo è, e diverse sono le ragioni a sostegno di questa conclusione, e di diverso tipo. In primo luogo, l’intuizione pura data a priori è sì un’intuizione interna, essendo, insieme al pensiero, la «sorgente interna»[25] di ogni ordine formale, ma non per questo è puro tempo; infatti essa mira, seppure internamente, a figurarsi qualcosa di esteso. D’altronde, neppure è intuizione interna della forma delle intuizioni esterne, dello spazio quale forma pura. Si tratta quindi dell’intuire come spazio, estratto, rivolto all’interno e fatto svolgere all’interno. Lo spazio estratto è intuizione pura come intuizione interna. «Non possiamo infatti pensare una linea senza procedere a tracciarla nel pensiero né possiamo pensare un circolo senza descriverlo…»[26]. In secondo luogo, anche l’intuire puro, oltre quello empirico, si articola in una sintesi dell’apprensione che è una sintesi temporale, un’apprensione successiva di rappresentazioni sensibili che è anche una comprensione di rappresentazioni simultanee succedutesi – e ciò, da un lato, definisce il tempo come la condizione universale di tutti i fenomeni, esterni e interni; dall’altro, lo rende per principio non estraibile: se lo fosse, occorrerebbe un altro tempo nel quale estrarlo. In terzo luogo: se commisuriamo spazio e tempo puri al loro corrispettivo figurato, che è un qualcosa di spaziale tanto per lo spazio quanto per il tempo, emerge una differentia specifica dei rapporti analogici che a essi rispettivamente convengono. Quella che per lo spazio è un’analogia prossima, per il tempo è un’analogia lata. – La concezione kantiana della sintesi figurata è tale da richiedere un’addizione successiva di rappresentazioni, una progressiva composizione del molteplice, e quindi un tempo di progressione, meglio definibile tempo di sintesi. Ma questo è tutto il tempo che potremmo mai avere intuitivamente. Non c’è tempo che sia in sé intuibile, perché il tempo intuìto è immediatamente identico al tempo dell’intuizione. Se anche dovessi intuirlo, il tempo intuìto non sarebbe diverso dal tempo in cui lo intuirei. Un qualcosa diviene esteso, e si mantiene nella sua estensione, solo per quel tanto di tempo in cui il tempo si protende ed è proteso. Qualora Kant non lo ammettesse non gli sarebbe più lecito asserire che «nell’apprensione dell’intuizione» «io produco il tempo stesso»[27]. È infatti implicito in quest’affermazione che il tempo di sintesi coincida con la sintesi del tempo.
Secondo la gnoseologia kantiana l’immaginazione non solo è «una facoltà fondamentale dell’anima umana, che sta a fondamento di ogni conoscenza a priori»[28]: in sua assenza «non potremmo a nessun titolo avere una qualsiasi conoscenza»[29]. Essa pervade il molteplice dell’intuizione sensibile, lo penetra e lo attraversa, e attraversandolo lo raccoglie, lo stringe in una rappresentazione. D’altra parte però alla sua libertà e spontaneità Kant non può dare potere assoluto. L’immaginazione opera una funzione di sintesi, ma egli la ritiene incapace di dare a questa sintesi l’unità della quale necessita, «l’unità sintetica»[30] che le categorie, i concetti puri dell’intelletto rappresentano, e che l’immaginazione semplicemente veicola e trasmette al molteplice intuitivo che penetra, così che esso acquisti a sua volta quell’unità alla quale la sola intuizione non può provvedere. L’«unità dell’intuizione»[31], in corrispondenza di un determinato concetto, ha quindi la sua condizione di possibilità nella linearità, uniformità, omogeneità e continuità dell’immaginazione, la quale, in tutto e per tutto strumento intellettivo, è spontanea tanto quanto è spontaneo l’intelletto puro al quale è soggiogata, e dal quale dipende per l’unità della sua messinscena. Per Kant essa è mera forza: forza immaginale erogata nell’intellezione.
Il processo della sintesi immaginativa in generale prevede che l’immaginazione sopraggiunga solamente al molteplice intuitivo, sensibile o puro che sia, dato in precedenza e costituito da «percezioni diverse» che «si trovano» «nell’animo» «sparpagliate e singole»[32] (zerstreut und einzeln); molteplice del quale essa deve «fare» «una immagine»[33]. È chiaro tuttavia che una siffatta concezione della sintesi è possibile solo se si introduce surrettiziamente la rappresentazione di uno spazio per rappresentare lo spazio quale intuire puro. Simile a un piano sul quale sia disposto un molteplice disgiunto, l’intuizione è spazializzata – all’intuire come spazio è già data l’immagine di uno spazio intuìto, dove si rappresenta un dato molteplice e dove prendono forma le «figure che in esso delinea l’immaginazione produttiva»[34]. Herder e Jacobi si sono poi attenuti a questa linea argomentativa kantiana; il primo equiparando lo spazio a una «vuota lavagna sulla quale si mostrano figure»[35], una «tavola spaziosa»[36], il secondo affermando la necessità di «spostarci prima di tutto nello spazio assoluto […] e qui attendere l’immaginazione produttiva»[37]. Ora, questa immagine dataci da Kant della sintesi immaginativa si dimostra insostenibile qualora la si impieghi per la sintesi pura apriori. Di conseguenza lo sarà anche nei riguardi della sintesi empirica che poggia su quella pura.
Kant parla di un molteplice dato, contenuto nell’intuizione pura[38], che precedentemente abbiamo definito materia formale indeterminata. Come però un’intuizione pura, legata alla passività della sensibilità cui appartiene, possa contenere un molteplice nonostante sia priva di un contenuto sensoriale, non potendo del resto Kant considerarlo un che di trattenuto dall’impressione sensibile, se non vuole ricadere nell’empirismo; come possa questo molteplice essere dato, in assenza di un’esistenza effettiva, a una sensibilità che riceve qualcosa solo in quanto ne viene affetta; come sia possibile dare in generale qualcosa ad una sensibilità formale e pertanto desensibilizzata – a tali questioni la Critica della ragion pura non dà alcun tipo di risposta. Sennonché il molteplice puro perde la propria insolubità non appena lo si libera dal carattere di datità attribuitogli irriflessivamente. Ma con ciò è tolta del pari la rappresentazione dell’intuizione pura come del piano sul quale esso si troverebbe, per così dire, sfuso (allo stato di membra disjecta da ricompattare). Il risultato immediato di queste due negazioni è, da un lato, un molteplice puro assolutamente inintuito; dall’altro lato, un intuire vuoto infinitamente nullo. Entrambi questi lati però si ricongiungono giacché l’intuizione e il suo molteplice ricadono, acquistando nuovamente positività, in quell’immaginazione produttiva che doveva raggiungerli soltanto «poi»[39], per operare, nell’intuire fatto spazio, come all’interno di un perimetro, e col molteplice contenuto in esso, le sue figurazioni e le sue delineazioni, i suoi tracciati e i suoi disegni. Invero l’intuire puro è nient’affatto diverso dall’immaginare produttivo. L’Estetica trascendentale specifica che l’intuizione pura «ha luogo a priori nell’animo […], anche senza un oggetto dei sensi o della sensazione»[40], allo stesso modo in cui l’Analitica dei concetti, in accordo con l’Antropologia pragmatica, definisce l’immaginazione «la facoltà di rappresentare un oggetto, anche senza la sua presenza, nell’intuizione»[41]. Inoltre, se l’estensione e la figura «appartengono»[42] all’intuizione pura, ma una figura estesa è possibile solo se raffigurata o prodotta dall’immaginazione, «incominciando da un punto»[43], allora non sarebbe possibile distinguere l’intuizione pura dall’immaginare in quanto tale, nella misura in cui un’immagine non è distinguibile dall’atto immaginativo con cui la si immagina. L’immaginazione produttiva che esibisce a priori figure pure dello spazio e l’intuizione pura, lo spazio estratto come intuizione interna, sono la medesima cosa; sono due modi diversi per indicare la facoltà umana di presentare la forma del fenomeno in assenza del fenomeno, le forme inessenti dell’esistente, gli «spettri incorporei del corporeo»[44]. Tant’è vero che nella Critica della facoltà di giudizio Kant designa più volte l’immaginazione come «facoltà delle intuizioni a priori»[45], mentre nell’Antropologia afferma che «le intuizioni pure dello spazio e del tempo appartengono» alla «facultas imaginandi» quale «facoltà di presentazione originaria dell’oggetto»[46].
Un’immagine non è intuita se non è immaginata e non è immaginata se non è intuita. Ma ciò comporta inevitabilmente un mutamento qualitativo del concetto di molteplice puro. Non più anteposto all’immaginazione, esso diviene concomitante all’immaginare. Il molteplice puro è materiale immaginario – il che non significa che sia immaginato, piuttosto che è immanente a ogni immagine come sua condizione interna di possibilità[47]. La forma della forma è la sua materia: materia formale della sua formazione, sempre e comunque concomitante a questa. Un tale materiale è inimmaginabile, perché l’immagine in cui fosse trasposto lo presupporrebbe a proprio fondamento. Allo stesso modo è inimmaginabile l’immaginare in quanto tale. Non gli si possono dare le sembianze di un mobile che attraversi lo spazio; l’immaginazione corre ma non percorre. Propriamente neppure raccoglie, o unifica. Infatti, non in altro modo che immaginando troviamo le parti di ciò che immaginiamo. Esse non sono riposte altrove e poi congiunte per assemblaggio. Tanto più che il molteplice puro pensato da Kant, in linea di principio, non potrebbe figurare come una pluralità di parti, in quanto non può avere figura alcuna. Esso dovrebbe constare del punto e dell’istante, di «termini»[48], e pertanto dovrebbe essere adimensionale. Per di più, stando alla soluzione del secondo conflitto antinomico, il concetto di parte, nel caso di spazio e tempo che non sono quanta discreta ma «quanta continua»[49], ha senso solo in relazione a una suddivisione, attraverso la quale soltanto «le parti […] risultano date e determinate»[50]. – Ugualmente l’immaginazione non delimita. Se lo spazio immaginato fosse una delimitazione, una partizione, esso presupporrebbe la totalità data dello spazio infinito, dalla quale si sia potuto ritagliare un’immagine adatta al determinato concetto pensato. – Una volta riottenuto in sé il molteplice puro nella forma di materiale immaginario, non è più adatto il termine Einbildungskraft per la capacità di immaginare, poiché essa non è mera forza che riporta rappresentazioni frammentarie a una, e una sola, immagine. Essendo una vera e propria capacità figurante, a essa si addice meglio un termine che si trova nelle Vorlesungen über Metaphysik: «bildende Kraft»[51].
Dopo aver rilevato l’impossibilità di un totum spaziale, o temporale, intuìto, non potremmo di certo pensare che spazio e tempo puri siano immaginati. Sebbene Kant, nel secondo libro dell’Analitica trascendentale, li definisca tutt’a un tratto «immagini pure»[52], questa dicitura è buona solo per quel tanto che serve a indicarci la loro natura immaginaria, della quale l’Estetica, per ovvie ragioni, non fa parola. Come spazio e tempo puri non sono altro che l’intuire stesso, così l’Immagine-Spazio e l’Immagine-Tempo non sono altro che l’immaginare in quanto tale. D’altronde, anche chiamandoli «ens imaginarium»[53] Kant esprime difettosamente la loro essenza. Così facendo egli contraddice la sua stessa critica all’inerenza di spazio e tempo, rivolta ai «fisici metafisici»[54]. Se essi consistessero nella loro rappresentazione figurata, posto che un’immagine sia sempre particolare e limitata, un’immaginazione produttiva sarebbe di fatto impossibile. Essa potrebbe solamente riprodurre uno spazio e un tempo astratti da rapporti empirici in sé dati, invalidando così l’apoditticità di ciò che si ritiene conoscibile a priori. Siccome consistono nell’immaginare in quanto tale, essi non sono in qualunque modo enti.
La sintesi immaginativa pensata analiticamente sotto il suo concetto è scandita in tre momenti distinti: molteplice, sintesi, unità intellettuale di sintesi. È pur vero però che nello stesso Kant c’è la tendenza a superare questa suddivisione e a pensare la sintesi in questione come a una coniugazione di intuizione e immaginazione, di ricettività e spontaneità, dove l’apprensione è propriamente un «accogliere» rappresentazioni, da parte dell’immaginazione, «nella sua attività»[55]. Intuizione e immaginazione sono poste così l’una accanto all’altra, non una prima dell’altra. Ma più di questo Kant non concede. Egli rimedia qui al carattere problematico dell’immaginazione con un compromesso che non è all’altezza di uno spirito critico. Sull’immaginazione è difficile giudicare se si guarda alla sistematicità che regna in tutta l’opera sullaragion pura teoretica; essa è un elemento tanto fondamentale quanto fondamentalmente irrisolto. Kant ne ha un concetto antinomico. Infatti, da un lato l’immaginazione è per lui spontanea, e, in quanto strumento intellettivo, «determina a priori la sensibilità»[56]. Dall’altro, invece, essa «appartiene alla sensibilità», poiché deve «dare ai concetti dell’intelletto una corrispondente intuizione»[57] – intuizione che può essere sempre e solo sensibile, mai intellettuale. Ma la sua appartenenza alla sensibilità dovrebbe rendere quest’ultima capace di una spontaneità che secondo il suo concetto non potrebbe assolutamente avere, essendole precluso teoricamente ogni potere sintetico. D’altra parte il fatto che le appartenga non può voler dire che l’immaginazione sia ricettiva. Le immagini essa non le riceve ma le sintetizza, e sintesi è attività, e attività è spontaneità. Ma, se l’immagine è a un tempo prodotta e ricevuta, fatta e data, allora la stessa sensibilità risulta a un tempo spontanea e ricettiva; fa qualcosa, ma ciò che fa risulta esserle dato; ha qualcosa, ma ciò che ha risulta esserselo fatto. – Certamente l’appartenenza dell’immaginazione alla sensibilità può essere intesa come se la sintesi immaginativa debba avvenire nelle forme aprioriche di spazio e tempo, quali sue condizioni di possibilità. Se così fosse, tali forme determinerebbero la facultas imaginandi, la quale perciò non potrebbe più essere nei loro confronti determinante. La sensibilità risulterebbe determinata da essa solo «secondo la propria forma»[58]; ma niente potrebbe essere determinante secondo questa forma, che non sia, secondo questa forma solo determinabile, determinato. Inoltre, un’immaginazione subordinata allo spazio e al tempo farebbe di quest’ultimi i modi della sintesi immaginativa, dalla quale la sensibilità verrebbe affetta, con il che però le stesse unità intellettuali di sintesi, alle quali l’immaginazione deve essere sottoposta, sarebbero di conseguenza condizionate da essi piuttosto che esserne la condizione, giacché avrebbero dovuto fornire all’intuizione quell’unità indispensabile alla sua intellegibilità. Le forme pure della sensibilità diverrebbero le forme delle forme pure dell’intelletto. In una prospettiva del genere la spontaneità potrebbe essere attribuita all’immaginazione solo se si considerassero le immagini suoi effetti, come se essa, agendo sulla sensibilità, le causasse. Ma è assurdo distinguere l’immagine immaginata dall’immaginazione attraverso la quale soltanto potremmo averla. Essa non sussiste se non immaginando, se non nell’immaginare.
L’immaginazione produttiva è indispensabile alle conoscenze matematiche, in particolare a quelle geometriche, non solo nel loro verificarsi puro a priori, bensì anche nella loro verifica empirica, quella che Kant chiama esperienza e che sola decide della validità oggettiva di un concetto. Poiché accoglie immutato dalla tradizione il principio dell’adequatio rei atque cogitationis, per lui è necessario che l’immaginazione permei il mondo sensibile, gli sia immanente, al punto tale che non è possibile ritenere un fenomeno oggetto del suo concetto se non in quanto è immaginato, così come non è possibile, senza immaginarlo, senza costruirlo, rendere un concetto sensibile e con ciò realizzare l’intelletto. L’immaginazione, la facoltà di presentare l’assente, è anche la facoltà per la quale una certa cosa ci è realmente presente. È su quanto in essa vi è di assente – la sua figura pura – che è fondata la sua presenza reale. «And nothing is, but what is not»[59]. L’immaginazione, scrive Kant nella prima edizione della Critica della ragion pura, costituisce «un ingrediente necessario della percezione stessa»[60]. Ed è precisamente sulla sua versatilità, sulla sua doppia faccia che la rende ritratta nell’empiria come pure estratta da essa, che poggia la deduzione dei concetti puri dell’intelletto, la legittimazione della loro applicazione al mondo fenomenico, anche se è più difficile dimostrarlo in base alla deduzione del 1787, tutta incentrata sulla superiorità dell’intelletto legislatore. In effetti, l’unità formale cui la sintesi pura a priori dell’immaginazione deve conformarsi è immediatamente valida anche per la sintesi empirica del fenomeno, poiché è la medesima facultas imaginandi che compie entrambe le sintesi, una volta estratta, una volta ritratta. Pertanto, nella presentazione a priori di una figura pura dello spazio, l’immaginazione produttiva non esplica una funzione irrealizzante ma derealizzante. L’estrazione dello spazio, l’evento dell’immaginare a priori, avviene per derealizzazione. Come insegna l’Estetica trascendentale, spazio e tempo sono tanto reali quanto ideali. L’Analitica dei princìpi ci rivela poi che queste forme pure sono piuttosto immagini pure, ovvero l’immaginare in quanto tale, la cui derealizzazione non può quindi corrispondere a un’idealizzazione. Col ridurre la sua realtà al minimo esso non diviene più ideale di quanto già non fosse. Perciò ad essere derealizzata è in fondo l’idealità stessa, che viene condotta a sé. L’immaginare estratto è idealità per sé.
Qualcosa è intuibile nella misura in cui è esteso. «Tutti i fenomeni, quanto alla loro intuizione, sono quantità estensive»[61]. Ma la possibilità dell’estensione di qualcosa, la possibilità che esso appaia come grandezza, come quantum, ancor prima di ogni determinazione numerica, sta nell’estensibilità dell’immaginare omogeneo, lineare, uniforme e continuo. È questo che fa dell’idealismo trascendentale un immaginismo idealistico: che niente sconfini dall’immaginare, che niente figuri al di là delle sue figurazioni. Oltre lo spazializzare immaginario non vi è cosa alcuna, nessusa res extensa, nessuna materia, anch’essa una nostra rappresentazione, che non può esser posta oggettivamente fuori del soggetto senza per questo divenire inestesa e automaticamente per noi nulla[62]. Infatti la determinazione dell’immaginazione da parte dell’intelletto nasconde una vera e propria sussunzione trascendentale dell’una facoltà sotto l’altra. Precisamente l’immaginazione viene sussunta sotto la Quantità. È di questa categoria che spazio e tempo sono per l’appunto immagini pure; forme come contenuto di una forma: «L’immagine pura di tutte le quantità (quantorum) in relazione al senso esterno è lo spazio e di tutti gli oggetti dei sensi in generale è il tempo»[63]. Che l’estensione e la figura restino all’intuizione pura anche eliminando tutto il pensato dall’intelletto, come recita l’Estetica, non può essere vero in base all’Analitica dei princìpi, poiché tutte le intuizioni sono estese in quanto immaginate, ma sono immaginate per esteso solo in virtù della Quantità che sussume l’immaginazione produttiva in generale e la sua attività. Con questa mossa Kant trasporta il topos della sensibilità all’interno di un’unità formale dell’intelletto; ne attua un’intellettualizzazione che vanifica qualsiasi deduzione delle categorie, che toglie ogni ragion d’essere al problema stesso della deduzione. Le forme pure della sensibilità, poste riflessivamente come degli In-sé, si dissolvono venendo tolte nell’immaginazione formatrice, «facultas formandi»[64], che a sua volta però è una facoltà dell’intelletto puro. Non si tratta più a questo punto di ricevere e determinare intuizioni, ma di produrle. Nell’Antropologia Kant afferma nientemeno che all’intelletto è dato di «produrre l’intuizione dell’oggetto»[65] (Anschaung des Gegenstandes hervorzubringen), così come nei Prolegomeni assegna alle categorie matematiche «la produzione delle intuizioni»[66] (die Erzeugung der Anschaungen). Ma un’intuizione è, di fatto, un’immagine. Dunque che l’immaginazione sia una facoltà intellettiva equivale a dire che è l’intelletto stesso a immaginare? E dovremmo di necessità dire che questo intelletto sia immaginante qualora rispondessimo affermativamente? Non proprio. Non potremmo definirlo così, come se fosse succube delle immagini e dovesse patirle, oppure, peggio ancora, come se esso normalmente, nella sua attività, invece di «pensare», «fantastichi» – il che «non può mai essergli perdonato»[67]. Non gli è concessa la fantasticheria, sia essa un sogno o un raziocinio, «poiché su di esso soltanto si fonda ogni mezzo per porre, all’uopo, limiti alle stravaganze dell’immaginazione»[68]. Nell’intelletto che immagina bisognerà piuttosto vedere un immaginare macchinato dall’intelletto. Intelletto è macchina, e l’immaginazione produttiva è la sua disposizione a produrre immagini, a farsi immaginifico. Ma questo non significa trasformare l’intelletto in ciò che Kant non avrebbe mai voluto che fosse, un intelletto intuente; né l’intuizione sensibile in un’intuizione intellettuale. Questo risvolto della teoria kantiana che vede nella produttività dell’intelletto la condizione di uno spazio e di un tempo, con tutte le sue conseguenze, non autorizza a cancellare la distinzione di fenomeno e noumeno. L’essere dell’esistente, il suo in-sé, resta comunque invulnerabile all’immaginismo idealistico. L’esistenza non può essere annientata nell’immanenza dell’immaginazione. Ciò non toglie che la realtà del fenomeno, la sua materia dataci con la sensazione, risulti impossibile qualora si prescinda dal materiale immaginario concomitante all’immaginare intellettivo. Per poter essere reale il reale va immaginato. Un fenomeno la cui figura pura non fosse prodotta immaginativamente sarebbe meno di un punto, proprio perché la materia formale che dà ordine al molteplice materiale del fenomeno è concomitante all’immaginare stesso, dunque alla stessa intellezione. Questa è la via cui costringe inesorabilmente il dualismo kantiano di forma e contenuto, poiché condanna all’astrazione la sensazione priva di forma astratta; all’immaterialità la materia priva di forma immateriale.
Nota su forma e contenuto. La sensazione nell’interpretazione di Scaravelli.
Luigi Scaravelli ha sostenuto la tesi che per Kant «la sensazione qua talis abbia, insieme alle sue proprietà qualitative, anche la proprietà di non essere né spaziale né temporale»[69]. Tramite questa tesi si è cercato di determinare quei caratteri intrinseci alla sensazione che non possono essere ricondotti alle forme a priori della sensibilità. Scaravelli fa leva sulla distinzione kantiana di forma e contenuto per affermare che il contenuto, per essere tale, non ha bisogno della forma: «[…] Kant ha distinto nella sensibilità effettuale (cioè nella percezione) la forma (intuizione pura) dal contenuto (sensazione); e siccome la forma (intuizione pura) è spazio e tempo, ne segue da sé che il contenuto, cioè la sensazione, è privo di spazio e di tempo»[70]. Dunque, in quanto «non ha dentro di sé spazio o tempo; e neppure occupa una parte di spazio, né un tratto, una durata, un segmento di tempo», «la sensazione è intrinsecamente aspaziale ed atemporale»[71]. Con ciò però non si è tenuto da conto che la forma è quanto nell’intuizione empirica costituisce la condizione di possibilità della sensazione in generale, e senza la quale le stesse sensazioni non potrebbero affatto esserci date. Peraltro tale distinzione può giocare solo a favore della forma, l’unica a poter essere percepita per sé sola; peculiarità che la rende superiore alla sua controparte materiale e che garantisce universalità e necessità alla sintesi pura a priori. Nelle Anticipazioni della percezione e in particolare nel § 26 dei Prolegomeni, cui si rifà Scaravelli, Kant non ha voluto affermare che la sensazione in quanto tale, che sottostà alla categoria della qualità, sia al di fuori dello spazio e del tempo e per ciò stesso inestesa e atemporale. Semplicemente egli ha voluto differenziare due tipi di determinazione matematica della sensibilità e mostrare come alla determinazione della quantità intensiva di una rappresentazione sia indifferente la quantità estensiva della medesima rappresentazione, non però come se la sensazione quantificata in un certo grado d’intensità appartenga a una «“dimensione”» «oltre lo spazio ed oltre il tempo»[72]. Detto in altro modo, alla determinazione del grado d’intensità è indifferente l’estensione dell’oggetto percepito, perché gradi identici della sensazione possono essere riscontrati in oggetti dall’estensione differente, e, viceversa, oggetti identici sotto il profilo spaziale e temporale, cioè che occupano una stessa porzione di spazio e di tempo, possono avere gradi d’intensità, con cui si percepiscono sensibilmente, molto differenti l’uno dall’altro. Con le parole di Kant: «[…] nei diversi fenomeni la quantità intensiva deve poter essere minore o maggiore, pur restando costante quella estensiva dell’intuizione»[73]; il calore, ad esempio, «può, senza lasciare minimamente vuota la più piccola parte di questo spazio, decrescere all’infinito nei suoi gradi, continuando tuttavia a riempire lo stesso spazio coi suoi gradi minori, né più né meno di un altro fenomeno con gradi maggiori»[74]. «Il calore, la luce, ecc. in un piccolo spazio sono (quanto a grado) tanto grandi quanto in uno grande…»[75]. Dunque che il fenomeno debba in qualunque caso avere un’estensione – almeno spaziale – è inevitabile, e con esso deve averla la sensazione stessa che al fenomeno è fusa, rappresentandone infatti stricto sensu la materia, come chiarisce Kant nelle prime pagine dell’Estetica. Allo stesso modo, in quanto il grado della sensazione è determinato in un istante di tempo, tale sensazione è e non può che essere per l’appunto nel tempo, anche se la determinazione della sua istantanea intensità non è riferita alla sua durata temporale. Scaravelli a un certo punto se ne rende conto e cerca di correggere il tiro: «È bene tuttavia ricordare come si sia, sopra, detto sempre che la sensazione non occupa un tratto di tempo, non occupa una durata di tempo, un segmento di tempo; ma non si è mai detto che non è nel tempo»[76]; infatti essa «occupa» «un istante»[77]. Perché mai allora la si è definita atemporale, se, oltre ad averla riconosciuta presente nell’istante, si è poi riconosciuto l’istante in generale come «“limite di tempo”, e non un misteriosoἐξαίφνης al di là del tempo […], né al di qua del tempo…»[78]? Comunque sia, ammessa pure la dimensione puntiforme dell’istante, il quale in ogni caso non può essere per questo definito atemporale, essa non implica in alcun modo una dimensione puntiforme dello spazio in esso percepito, quindi men che meno una sensazione può essere aspaziale. Tutt’al più tali attributi potrebbero esser dati alla determinazione della sensazione, come Scaravelli in effetti fa da un certo punto del suo lavoro in poi[79], nella misura in cui il quantum di intensità che la determina non ha bisogno di una sintesi successiva dell’apprensione (sintesi pur sempre necessaria nel passaggio da un grado a un altro[80]), mai però alla sensazione in tal modo determinata – anche se, dopotutto, non ci sarebbe motivo alcuno per attribuire al grado aspazialità e atemporalità, vista la fondamentale eterogeneità di sensibilità e intelletto (facoltà «diverse per essenza»[81]), per la quale quest’ultimo, insieme a tutti i suoi concetti puri, compresi quelli derivati, tra i quali rientra il numero, può dirsi, in un certo senso, extrasensibile, pur necessitando della sensibilità, e delle sue forme, a correzione della sua connaturata astrattezza. Nell’isolare l’istante puro, nel considerarlo in sé e per sé, non bisogna scambiare l’estensione dell’apprensione, che nell’istante dato equivale a un punto, con l’estensione dell’appreso, che non può mai mancare, e che implica qualcosa in più del punto singolare. Una sensazione aspaziale e atemporale diverrebbe paradossalmente la tanto temuta intuizione intellettuale, la cui possibilità Kant ripetutamente nega. Per affermare che essa è priva di spazio e di tempo, Scaravelli cita il seguente passo dai Prolegomeni: «[…] la sensazione non è intuizione che contenga spazio o tempo…»[82]. Se però avesse proseguito la citazione si sarebbe poi letto: «[…] sebbene essa ponga in entrambi l’oggetto che le corrisponde…»[83]. Pertanto bisogna dare tutt’altro significato all’affermazione che la sensazione non contiene spazio o tempo. È come se Kant, sullo sfondo del dualismo di forma e contenuto, ricorresse a una reductio ad absurdum – per la quale uno spazio e un tempo contenuti nella sensazione renderebbero la forma il contenuto del contenuto, e il contenuto la forma della forma – allo scopo di determinare per la sensazione una categoria diversa da quella fissata per lo spazio e per il tempo, diversa cioè dalla quantità, ovvero la categoria della qualità, sebbene poi una qualità qualsiasi sia a sua volta determinabile numericamente nel grado, e quindi sia sempre quantificabile. L’unica esperienza qualitativa che conosce Kant è di nuovo quantitativa.
[1] I. Kant, Critica della ragion pura, UTET, Torino 1967, B 89, A 65.
[2] Ivi, B 294, A 235.
[3] Cfr. I. Kant, Lezioni di psicologia, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 60.
[4] I. Kant, Critica della ragion pura cit., B 91, A 66.
[5] Ivi, B 324, A 268.
[6] Ivi, B 323, A 267.
[7] Ivi, B 43, A 27.
[8] Ivi, B 35, A 21.
[9] Cfr. Ivi, § 7.
[10] Ivi, A 370.
[11] Ivi, B 347, A 291.
[12] Ivi, B 348, A 292.
[13] Ivi, B 34-35, A 20. Cfr. anche B 160.
[14] I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 159.
[15] Ivi, p. 67.
[16] Ivi, p. 159.
[17] I. Kant, Critica della ragion pura cit., B 129-130.
[18] Ivi, B 144.
[19] Ivi, B 50, A 33.
[20] Ivi, B 39, A 25.
[21] I. Kant, Über Kästners Abhandlungen in Kant’s gesammelte Schriften, Band XX, Walter de Gruyter & Co., Berlin 1942, pp. 420-421. [trad. mia]
[22] Ivi, p. 421. [trad. mia]
[23] M. Heidegger, Interpretazione fenomenologica della Critica della ragion pura di Kant, Mursia, Milano 2002, p. 75.
[24] Cfr. Ivi, pp. 55 sgg.
[25] I. Kant, Critica della ragion pura cit., B 118, A 86.
[26] Ivi, B 154.
[27] Ivi, B 182, A 143.
[28] Ivi, A 124.
[29] Ivi, B 103, A 78.
[30] Ivi, B 105, A 79.
[31] Ivi, B 143, B 143-144, nota.
[32] Ivi, A 120.
[33] Ibid.
[34] Ivi, B 196, A 157.
[35] J. G. Herder, Eine Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft in Werke, Band VIII, Deutsche Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1998, p. 355. [trad. mia]
[36] Ivi, p. 352. [trad. mia]
[37] F. H. Jacobi, Ueber das Unternehmen des Kritizismus, die Vernunft zu Verstande zubringen, und der Philosophie überhaupt eine neue Absicht zugeben in Werke, Band 2,1, Felix Meiner Verlag, Hamburg 2004, p. 306. [trad. mia]
[38] I. Kant, Critica della ragion pura cit., B 102, A 77, B 140, B 160.
[39] Ivi, A 99.
[40] Ivi, B 35, A 21.
[41] Ivi, B 151.
[42] Ivi, B 35, A 21.
[43] Ivi, B 203, A 163.
[44] F. H. Jacobi, Ueber das Unternehmen des Kritizismus cit., p. 307. [trad. mia]
[45] I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 2012, p. 25.
[46] I. Kant, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 52.
[47] Sul concetto di condizione interna della rappresentazione cfr. K. L. Reinhold, Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione, Le Lettere, Firenze 2006, § XV.
[48] I. Kant, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis in Scritti precritici, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 436.
[49] I. Kant, Critica della ragion pura cit., B 211, A 169.
[50] Ivi, B 552, A 524.
[51] I. Kant, Lezioni di psicologia cit., pp. 57 sgg.
[52] Cfr., I. Kant, Critica della ragion pura cit., B 182, A 142.
[53] Ivi, B 347, A 291.
[54] Ivi, B 56, A 40.
[55] Ivi, A 120.
[56] Ivi, B 152.
[57] Ivi, B 151.
[58] Ivi, B 152.
[59] W. Shakespeare, Macbeth, Atto I, Scena III.
[60] I. Kant, Critica della ragion pura cit., A 120, nota.
[61] Ivi, A 162.
[62] È pur vero che Kant nella seconda edizione della Critica della ragion pura, in particolare nella Confutazione dell’idealismo e nella lunga nota della Prefazione che si ricollega a questa per correggerne la formulazione, si avvale di un concetto di materia per il quale essa non è più ritenuta semplicemente coestesa alla sensazione effettiva, ma, fatta corrispondere alla categoria di sostanza, e al suo schema – la permanenza –, è posta oltre le forme soggettive della sensibilità, come ciò con cui esse entrano in relazione. Tuttavia, l’identificazione di ciò che doveva restare ignoto con una materia, permanente, subsensibile, «trascendentale» (Ivi, B 182, A 143), dovrebbe far crollare il soggettivismo kantiano dalle fondamenta e portare alla rovina la sua filosofia della rappresentazione.
[63] Ivi, B 182, A 142.
[64] I. Kant, Lezioni di psicologia cit., p. 58.
[65] I. Kant, Antropologia pragmatica cit., p. 21.
[66] I. Kant, Prolegomeni cit., p. 129.
[67] Ivi, p. 147.
[68] Ibid.
[69] L. Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 66.
[70] Ivi, pp. 88-89.
[71] Ivi, p. 88.
[72] Ivi, p. 98.
[73] I. Kant, Critica della ragion pura cit., B 214, A 173.
[74] Ivi, B 216, A 174.
[75] I. Kant, Prolegomeni cit., p. 307, nota 9.
[76] L. Scaravelli, Scritti kantiani cit., p. 97.
[77] Ibid.
[78] Ivi, p. 89, nota 33.
[79] Ivi, pp. 97 sgg.
[80] «[…] il passaggio ad essa [alla sensazione] dal tempo o dallo spazio vuoto è possibile soltanto nel tempo…» (I. Kant, Prolegomeni cit., p. 129).
[81] I. Kant, Logica, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 30.
[82] I. Kant, Prolegomeni cit., p. 123.
[83] Ibid.