Guido Grassadonio
Pubblicato in Francia nel 2013 dalla casa editrice Buchet-Chastel, Retour à Marx, di Yvon Quiniou, si colloca nel filone della “Marx renaissance”, dialogando in particolare con quell’area di studi marxologici e marxisti rappresentata da J. Bidet e L. Sève.
L’idea di fondo del volume è a primo acchito tutt’altro che originale: rianimare il marxismo come filosofia e come teoria/prassi politica, sulla spinta della crisi economica di vaste proporzioni che sta investendo l’occidente capitalistico, mettendo in discussione ordinamenti politici e idee da tempo sedimentate. E per fare questo, l’operazione teorica da compiere dovrebbe essere un, appunto, ritorno a Marx del marxismo, purificato dall’influenza nefasta del “cosiddetto” socialismo reale, fino a giungere a un superamento critico dello stesso leninismo.
YQ presenta il suo libro non come un testo “accademico”, ma come orientato a un pubblico il più possibile aperto; contemporaneamente il testo non ha però solo un orientamento didattico, ma propone alcune tesi di fondo e si colloca a pieno titolo all’interno del dibattito odierno attorno a Marx.
La tesi principale del testo è riassumibile in questa maniera: il comunismo è un’ipotesi tutt’altro che demolita dai fatti e nei fatti e, anzi, non ha ancora avuto alcuna esperienza “reale”, per motivi per lo più (ma non totalmente) comprensibili a partire dalle stesse teorie di Marx; solo “un’impostura semantica” ha potuto far credere che degli Stati socialisti/comunisti siano esistiti. La situazione attuale, poi, suggerirebbe sempre più la necessità morale di una svolta comunista in Occidente.
Chiave teorica principale dell’operazione è la nozione di “determinismo”. Una lunga corrente di lettori moderni di Marx insiste sul fatto che il filosofo tedesco non concepisse davvero il rapporto struttura-sovrastruttura secondo un’idea compiutamente determinista. Si pensi ad esempio alla lettura proposta da D. Bensaïd[1]. Altri autori, preferiscono vedere in Marx una proposta ambigua. Ad esempio E. Profumi ha recentemente proposto un’interpretazione dell’opera marxiana come attraversata da una contraddizione fra una teorizzazione della creatività politica, dove per creatività s’intende la capacità di inventare/istituire realtà a prescindere o al di là dei lacci sociali, e una tendenza al determinismo sociale.[2] YQ propone un’altra via. Per lui, Marx era assolutamente determinista e tale determinismo lungi dall’essere il limite della sua teoria, come propone Profumi, era il suo punto di forza.
Questo determinismo è difeso con forza in tutte le pagine del testo:
Siamo qui, in ogni caso, all’interno di una prospettiva evidentemente causale e determinista, e qualsiasi concezione che lo neghi, anche se, per ipotesi, avesse ragione sullo specifico, non potrebbe richiamarsi a Marx: che piaccia o meno, secondo lui è l’economia che è determinante «in ultima istanza», ed è questa che decide del funzionamento globale di una società qualunque […].[3]
La concezione di determinismo proposta da YQ è, però, abbastanza particolare. Se permette una spiegazione precisa dei fenomeni storici, allo stesso tempo offre del futuro una visione parzialmente aperta. Le analisi di Marx proporrebbero, allora, la possibilità dell’avvento del comunismo, sulla base della comprensione delle tendenze reali che suggeriscono la necessità in primo luogo morale, ma in parte anche storica, di tale soluzione. Ma una necessità non necessitante in senso stretto. Date alcune condizioni il comunismo è possibile, ma solo a patto di vincere la battaglia. L’esito non è scontato. Dunque, anche se la formula non ritorna in YQ, è qui riproposto l’aut aut classico fra socialismo e barbarie.
In altre parole, Marx avrebbe studiato l’emergere del comunismo come soluzione reale, fissando su carta le condizioni “necessarie” perché esso risulti una scommessa vinta. Condizioni che sono economiche, sociali e politiche. In altri testi YQ ha mostrato come secondo lui il comunismo vada letto come “imperativo categorico” di kantiana memoria. In questo senso la necessità morale è in questo testo dichiarata, ma la sua spiegazione è relegata in una piccola sezione troppo sintetica a fine libro. Ad ogni modo, esiste quindi anche una necessità morale del comunismo, che si associa alle tre già citate. Come detto, però, in nessun modo queste condizioni sono sufficienti a garantire il buon esito della rivoluzione. Sono, allora, condizioni appunto “non sufficienti, ma necessarie”: qualsiasi tentativo rivoluzionario che provi a forzarne i limiti è destinato a fallire. In questo senso, capiamo perché YQ insista sul termine “determinismo”. Da un punto di vista politico – e non di lettura storica degli eventi passati – è una teoria, per così dire, negativa: segnala come volontariste e votate al fallimento sicuro tutte quelle pratiche rivoluzionarie o di emancipazione che non tengano conto di questo complesso di condizioni. Ma, anche se alcuni passi di Marx sembrano indicare il contrario, non ha un potere predittivo sul futuro. O meglio, l’ha ma non in ultima istanza. Date le condizioni attuali, è possibile prevedere che se non sarà il comunismo sarà la barbarie. Ma è impossibile determinare in anticipo quale delle due possibilità si avvererà.
Il volume, dopo aver chiarito le idee di base che muovono l’autore, si articola inizialmente in tre capitoli indaganti quale siano tali suddette condizioni. La tri-partizione segue uno schema classicamente marxista che vuole l’economia come punto di partenza e l’analisi sociale e politica come punto di arrivo. Da un punto di vista economico, l’idea di base è che il comunismo diventi un’ipotesi realistica materialmente e auspicabile moralmente solo a partire da una società già industrializzata. In altre parole, YQ nega la possibilità di una rivoluzione realmente socialista/comunista, almeno se tali parole sono da riferirsi a quanto teorizzato da Marx, se non a partire da una società dove il capitalismo ha già creato un sistema produttivo di tipo industriale efficiente. Se anche lo stesso Marx aveva ammesso la possibilità che la Russia saltasse la fase di dominazione borghese, operando direttamente una rivoluzione proletaria, questo aveva senso – a ben leggere la lettera in cui Marx afferma queste cose – solo nell’ambito di una generale rivoluzione europea. In nessun modo, secondo YQ, le parole del filosofo di Treviri possono essere lette come una reale concessione alla regola per cui il socialismo è uno società che scaturisce da una rivoluzione in seno ad una società perfettamente capitalistica.
Oltre a condizioni economiche, occorrono delle condizioni sociali molto precisi. La rivoluzione per Marx è opera di una classe sociale che costituisce la grande maggioranza della popolazione. Merito della società borghese è quello di aver istituito una forma di dominio di classe decisamente più semplice e bipolarizzata. Questa semplificazione, fa sì che esista una classe sfruttata che può aspirare a farsi classe universale. Attualmente sono in molti a pensare che il declino numerico della classe operaia in occidente abbia di fatto cancellato ogni attualità pratico-politica del pensiero marxiano. Infatti, per Marx la classe potenzialmente “universale” è, come noto, il proletariato. Per YQ, ed è certamente una tesi interessante, è però un errore far coincidere la nozione di proletariato con la classe operaia. Proletario è chiunque non è proprietario dei propri mezzi di produzione e che partecipa, in vario modo, al processo produttivo ed auto-produttivo della società. Sono, dunque proletari tanto i lavoratori del terzo settore, nel pubblico o meno, quanto tecnici come ingegneri o altro. In questo senso, YQ apre la nozione di operaio a davvero la stragrande maggioranza delle categorie di lavoro. En passant, va però notato che non la sua argomentazione è manchevole di qualsiasi teoria del soggetto sociale o transindividuale che dir si voglia. Il proletariato non è, in Marx, una classe solo esternamente riconoscibile (ovvero definibile su base di un’analisi sociologica), ma possiede la capacità di riconoscere se stessa e di riconoscere da sola la propria classe antagonista. Qualsiasi cosa si pensi di tale passaggio del pensiero di Marx, la presenza di quel qualcosa che Lukàcs chiamerà poi «coscienza di classe» mi pare non alienabile alla teoria del proletariato. L’identificazione con la classe operaia – si vedano i passaggi storico-sociologici del primo libro de Il Capitale o tutti capitoli sull’alienazione nei Manoscritti del ’44 – è funzionale anche perché identifica dei momenti di “costruzione della soggettività” proletaria in seno alle condizioni materiali operaie. Il concetto allargato di proletario proposto da YQ appare allora come una preziosa indicazione sociologica. Ma perché la nozione torni ad essere praticamente operativa in senso marxiano, ci sembra che l’analisi debba essere ancora completata (e forse mondata di qualche eccesso di althusserismo).
Il capitolo dedicato alle condizioni politiche per il comunismo insiste soprattutto attorno al tema della democrazia. Una tradizione molto larga di studiosi, per lo più critici, vede un’antitesi profonda fra un pensiero che si riconduca al marxismo e i principi della democrazia, almeno nelle forme classicamente formali. Rifacendosi a un testo di E. Balibar, YQ mostra come al contrario la stessa nozione di dittatura del proletariato non preveda un’abolizione dei diritti formali. Anche se YQ non la cita in questa sede, di fatto si tratta di una riproposizione delle posizioni espressa da R. Luxembourg nella celebre critica a Lenin ed alla rivoluzione russa: il marxismo è un approfondirsi delle libertà codificate dal liberalismo, un tentativo di renderle non solo formali, ma anche concrete (con l’eccezione del diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione). In questo senso, l’argomentazione di YQ è pertinente e condivisibile; e se di fatto ribadisce l’evidente agli occhi di un lettore di Marx appena appena scafato, contribuisce a fare chiarezza contro i luoghi comuni più diffusi rispetto al pensiero del filosofo di Treviri da parte di chi non ne ha mai affrontato direttamente i testi.
Dunque, condizioni basilari per l’avvento del comunismo sono l’esistenza di una società altamente industrializzata (grazie all’opera del capitalismo), la presenza di una massa proletaria a costituire la maggioranza della popolazione e la diffusione di un pensiero rivoluzionario profondamente democratico. Chiariti questi punti, YQ affronta due questioni che di solito sono vissuti come prove evidenti del fallimento del marxismo e prova a dimostrare come, al contrario, al massimo siano delle conferme della potenza predittiva e teorica del pensiero di Marx: la tragedia fallimentare del comunismo reale e l’esperienza positiva della socialdemocrazia europea.
Rispetto al primo punto l’argomentazione è già stata anticipata e non è esattamente originale: la Russia nel 1917 non aveva né le condizioni economiche, né quelle sociali per fare il passo della rivoluzione socialista. Lenin ed i suoi hanno dunque peccato di «volontarismo». Peggio ancora, soprattutto con Stalin, vi è stato anche un tradimento delle condizioni politiche, con l’istituzione di una forma di dittatura che in nessun modo poteva pretendere di avere legami con Marx. Definire allora socialismo o comunismo l’esperienza dell’URSS, vuol dire insistere su una diffusa impostura semantica. Ma se la rivoluzione russa e la storia dell’unione sovietica (e delle altre esperienze di socialismo reale) non hanno rispettato le prescrizioni di Marx, il loro fallimento non solo non contraddice il pensiero di quest’ultimo, ma anzi dà prova della sua “potenza”. Proprio per il determinismo di Marx il fallimento dell’URSS era inevitabile.
Più complessa e meno banale l’argomentazione rispetto al tema della socialdemocrazia. In diversi luoghi del testo, YQ definisce la filosofia di Marx come un determinismo evoluzionista. Se prendiamo questo concetto e l’uniamo al fatto che la distinzione fra comunisti e socialdemocratici verteva soprattutto sopra la valutazione del socialismo reale sovietico, che YQ definisce non autentico socialismo, intuiamo subito come il suo obiettivo sia quello di rivalutare le correnti riformiste del movimento operaio. L’idea è che i partiti socialdemocratici siano stati fino ad un certo punto perfettamente anticapitalistici, semplicemente opponevano alla teorizzazione del tutto e subito leninista, una dottrina per cui l’avanzata verso il comunismo doveva avvenire a piccoli passi. Per questo atteggiamento, YQ, scomoda la dicitura «riformismo rivoluzionario», nonostante che storicamente questa formula abbia riguardato posizioni abbastanza diverse da quella descritta, prevedendo sì un gradualismo, ma che proceda dal basso e non per riforme politiche dettate dall’alto. Questo riformismo rivoluzionario sarebbe l’alter ego politico del concetto di determinismo evoluzionista. In altre parole, rovesciando un luogo comune, per YQ Bernstein era un erede di Marx molto più fedele rispetto a Lenin.
Di fatto, però, l’autore ammette che ormai i partiti socialisti che si riconoscono attualmente nel Partito Socialista Europeo hanno tradito da tempo quell’impostazione, diventando utopistici teorici del capitalismo dal volto umano. Inoltre, la distruzione sempre crescente delle vittorie ottenute dal movimento operaio – soprattutto le misure di welfare – unite alla crisi attuale, di fatto hanno reso ormai impercorribile la strada della socialdemocrazia, riproponendo il bisogno di un ritorno alla lettera del discorso marxiano. Dunque, la storia ed i successi della socialdemocrazia non sono una critica a Marx. Anzi, sono il risultato positivo del suo pensiero. E la crisi del modello politico socialdemocratico, dovuto alla caduta dell’URSS ed alla fine dello spauracchio comunista, non fa che riportare l’analisi dell’attualità allo stesso punto cui erano giunti Marx ed Engels nel Manifesto nel 1848.
Il volume di YQ si inquadra benissimo, allora, all’interno del dibattito odierno, sia attorno ad un recupero della filosofia marxiana, sia alle riflessioni sulla crisi e sulle possibili vie d’uscita da essa. A prescindere su qualche perplessità sulla perfetta simmetria tra l’analisi marxiana del 1848 e la situazione odierna, trovo soprattutto debole la teoria che vorrebbe Marx come determinista. Di fatto, a prescindere dalla discussione su “cosa abbia detto veramente Marx”, assumere questo punto teorico crea più problemi di quanti non ne risolva. Anche se si tratta, e YQ lo ribadisce continuamente, di un determinismo aperto, di fatto limita enormemente il campo di potenzialità dell’uomo di rispondere alle situazioni. Come spiega Marx in un passo dell’Einleitung,[4] ogni momento storico passato sembra una tappa per arrivare all’epoca presente; ma, appunto sembra, dal punto di vista attuale. A quel punto della storia, il cammino non era già teleologicamente decisa; solo post festum l’apparenza delle cose lo fa sembrare teleologicamente pre-ordinato. E se riscontrare tendenze è corretto ed è il sale del pensiero marxista/marxiano non si fanno molti passi avanti sostituendo ad una teleologia a senso unico, un bivio.
[1]D. Bensaïd, Marx l’intempestivo, Roma 2007, Edizioni Alegre. Mi permetto di rimandare anche al mio G. Grassadonio, Libertà, prassi, soggettività. La filosofia di Marx, Roma 2013, edizioni Malatempora/Golena.
[2]E. Profumi, Sulla creazione politica, critica filosofica e rivoluzione, Roma 2013, Editori Internazionali Riuniti pp. 11-14.
[3]Yvon Quiniou, Retour à Marx, Paris 2013, editori Buchet * Chastel, p. 21
[4]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Volume I, Scandicci (FI) 1997, p. 33