Alenka Zupančič *
Nel seminario di Lacan su L’angoisse troviamo la seguente affermazione che ci appare per molti versi piuttosto singolare:
“Soltanto la sublimazione d’amore permette alla jouissance di con-discendere al desiderio”1.
L’elemento peculiare di questa affermazione è ovviamente il legame che stabilisce tra l’amore inteso come sublimazione e il movimento discendente della con-discendenza. E’ noto che la canonica definizione lacaniana della sublimazione tratta dall’Etica della psicanalisi presuppone precisamente il movimento opposto, quello dell’ascensione (la sublimazione innalza o eleva un oggetto al rango della Cosa freudiana, das Ding2). In questa definizione la sublimazione corrisponde all’atto di produrre la Cosa nella sua stessa trascendenza e inaccessibilità, perfino nel suo aspetto orribile e/o inumano (infatti lo status della Donna nell’amor cortese è, secondo Lacan, quello di un “partner inumano”. Eppure, riguardo a questa particolare forma di sublimazione che è l’amore, opposta perciò all’amore cortese quale venerazione di un oggetto sublime, Lacan sostiene che essa permetta alla jouissance di con-discendere al desiderio, ovvero che essa “rende umana la jouissance”.3
La definizione che ho riportato stupisce non soltanto per quel che afferma a proposito della sublimazione, ma anche rispetto a quanto sottintende in relazione a ciò che tradizionalmente chiamiamo amore. L’amore non consiste sempre nella venerazione di un oggetto sublime, anche se non sempre assume la forma radicale dell’amor cortese? L’amore non innalza o eleva sempre il suo oggetto (che potrebbe essere piuttosto comune “in sé”) al rango della Cosa? Come dobbiamo perciò intendere la parola “amore” nel passaggio citato tratto dal seminario di Lacan su L’angoscia?
Lacan stesso fornisce una pista per rispondere a questi interrogativi quando afferma nel seminario VIII su Il transfert che “l’amore è un sentimento comico”.4 Infatti, anziché provare a rispondere immediatamente a queste domande, dovremmo forse spostare il tiro della nostra ricerca e esaminare quella forma di sublimazione che incontestabilmente sposa la prima definizione riportata sopra (e il movimento con-discendente che essa implica), e cioè l’arte della commedia. In tal modo potremmo facilitarci il compito di capire come l’amore rientri in questa definizione. La domanda che guiderà la nostra indagine sulla commedia è quindi: come il paradigma comico situa il Reale in relazione a das Ding?
I.
Per quanto riguarda l’arte della commedia, possiamo dire che implica un certo grado di con-discendenza della Cosa al livello dell’oggetto. In realtà, però, la posta in gioco nelle buone commedie, non consiste semplicemente nel degradare un oggetto sublime affinché in tal modo riveli il suo aspetto ridicolo. Sebbene questo tipo di degradazione possa farci ridere (in accordo con la definizione freudiana secondo cui il riso ha la funzione di rilasciare l’energia libidinale precedentemente investita nell’atto di sostenere il carattere sublime dell’oggetto), tutti sappiamo che non è abbastanza per far sì che una commedia sia una buona commedia. Hegel sapeva bene che il riso genuinamente comico non è un riso sprezzante, non è il riso della Schadenfreude, e che le commedie non si riducono mai a una mera variazione sul tema dell’affermazione “il re è nudo”. Prima di tutto, potremmo dire che le vere commedie non si dedicano a svelare e rivelare la nudità o la vuotezza che sussistono dietro alle apparenze quanto piuttosto a costruire questa vuotezza (o nudità). Le buone commedie predispongono un’intera serie di circostanze in cui questa nudità viene esplorata da varie angolazioni diverse, ovvero viene costruita nel corso del medesimo processo che la rivela. Esse non svestono la Cosa, ma ne afferrano i vestiti e dicono: “Questo è cotone, questo è poliamide, e qui ci sono delle belle scarpe – ora mettiamo tutto insieme e vi facciamo vedere la Cosa”. Si potrebbe dire che le commedie presuppongono il processo di costruzione della Cosa a partire da quelli che Lacan chiama “éléments a” (elementi immaginari di fantasia), e solo e soltanto da questi elementi. Eppure per una buona commedia è fondamentale non limitarsi ad abolire il divario tra la Cosa e gli “éléments a,” il che equivarrebbe a dimostrare la ‘lezione’ secondo cui la Cosa sarebbe equivalente alla somma dei suoi elementi e tali elementi (immaginari) costituirebbero la sua unica realtà. Preservare (o piuttosto costruire) una sorta di entre-deux, un intervallo o divario, è cruciale per un buona commedia come lo è per una buona tragedia. Il punto è che anziché giocare sulla differenza/discordanza tra l’apparenza della Cosa e il suo residuo reale, il suo Vuoto, le commedie normalmente operano diversamente, duplicando/raddoppiando la Cosa e giocando su (o con) la differenza tra i suoi due doppi. In altre parole, la differenza che costituisce il motore del movimento comico non è la differenza tra la Cosa in sé e la sua apparenza, ma piuttosto la differenza tra le due apparenze. Basta ricordare Il grande dittatore di Chaplin, in cui “la Cosa chiamata Hitler” assume le duplici sembianze del dittatore Hynkel e di un barbiere ebreo. Come ha osservato Gilles Deleuze si tratta di una mossa tipica di Chaplin, che ritroviamo già ne Le luci della città (in cui Charlot è un mendicante e colui che viene preso per essere ricco), come anche in Monsieur Verdoux. Il genio di Chaplin, osserva Deleuze, consiste nella sua capacità di “inventare la differenza minima tra due azioni” e di creare “la distanza massima tra le situazioni corrispondenti: la prima perviene all’emozione e l’altra accede al comico puro. E’ un circuito risata-emozione: una rinvia alla piccola differenza, l’altra alla grande distanza, senza che l’una cancelli o attenui l’altra”5. Si tratta di un’osservazione importantissima, che ci aiuterà a specificare il meccanismo della commedia e quello dell’amore. Per prima cosa, tuttavia, stabiliamo di preciso che cos’è questa “differenza minima”. Si può dire che indichi una frattura situata proprio nel cuore dell’identico. Per illustrarla prendiamo un altro esempio comico, una famosa battuta tratta da uno dei film dei Fratelli Marx: “Guardate questo tipo, sembra un’idiota, si comporta come un idiota, ma non lasciatevi ingannare: E’ un idiota!”. Oppure prendendo un esempio più sofisticato dalla teoria hegeliana della tautologia: quando dico “a è a” i due “a” non sono esattamente gli stessi. Il fatto che uno figuri al posto del soggetto e l’altro al posto del predicato introduce tra i due una differenza minima. Possiamo dire che la comicità crea e usa questa differenza minima per rendere palpabile o visibile una certa realtà che altrimenti sfuggirebbe alla nostra presa. Ci si potrebbe spingere oltre e stabilire che nel paradigma comico il Reale non è altro che questa “differenza minima”, non ha altra sostanza o identità. Il registro comico dei Fratelli Marx ci aiuta a comprendere la differenza tra l’atto di prendere una Cosa (sublime) e mostrare al pubblico che questa Cosa non è in realtà nient’altro che un oggetto semplicemente misero e banale, e l’atto di prendere la Cosa non alla lettera, ma “alla lettera della sua apparenza”. Contrariamente a ciò che si crede, l’assioma delle buone commedie non dice che “l’apparenza inganna”, ma piuttosto che c’è qualcosa nell’apparenza che non inganna mai. Seguendo i Fratelli Marx possiamo dire che l’unico vero inganno generato dall’apparenza consiste nel dare l’impressione che dietro ci sia qualcos’altro o qualcosa di più.6 Uno dei caratteri fondamentali delle buone commedie è quello di rendere apparente ciò che è oltre l’apparenza. Esse, cioè, anziché rivelare la verità (o la realtà), la fanno apparire. Per dirla altrimenti, fanno sì che la realtà con-discenda al livello dell’apparenza (sotto forma di frattura situata nel bel mezzo di quest’ultima). Questo non significa che la realtà finisca per essere soltanto un’altra apparenza, ma indica piuttosto che la realtà è precisamente in quanto apparenza. Un buon esempio lo si trova ancora una volta all’inizio de Il grande dittatore, nel momento in cui Chaplin ci offre la sua famosissima interpretazione di Hitler (nelle vesti di Hynkel) che si rivolge alla folla. Nel caso di discorsi simili normalmente tendiamo a domandarci che cosa stia davvero dicendo colui che parla, ovvero quale sia il vero significato delle sue parole. Chaplin ci mostra il significato sottostante nel modo più diretto, e lo fa eliminando la questione stessa del significato: parlando una lingua che non esiste, uno strano miscuglio di parole tedesche e parole che sembrano e suonano tedesche ma non significano nulla. La scena viene interrotta puntualmente dalla voce di un interprete inglese che dovrebbe tradurre e riassumere quel che Hynkel sta dicendo, ma che evidentemente prova a rendere il discorso molto ingenuo. Queste traduzioni sporadiche ci fanno ridere tanto quanto Chaplin, perché sono così spudoratamente false e piene di omissioni. Il solo fatto che ci facciano ridere di per sé è divertente, perché non si può dire che noi capiamo esattamente quel che Hynkel dice (né che possiamo confrontarlo con la ‘traduzione’). In altre parole non capiamo nulla di quello che sta dicendo Hynkel, ma sappiamo perfettamente che la traduzione è falsa. O, detta altrimenti, non arriviamo mai a conoscere la Cosa in sé, ma siamo assolutamente in grado di distinguerla dalle sue false apparenze. Abbiamo quindi a che fare con due discorsi falsi, ma in un certo senso sappiamo davvero quello che sta dicendo Hynkel.
II.
In uno dei suoi film migliori To Be or Not To Be, Ernst Lubitsch fornisce un altro buon esempio di come le commedie si relazionino alla Cosa. Ancora una volta Hitler è la Cosa in questione. All’inizio del film c’è una scena brillante in cui un gruppo di attori sta facendo le prove di uno spettacolo in cui figura Hitler. Il regista si lamenta dell’aspetto dell’attore che interpreta il dittatore – dice che il suo trucco è fatto male, che egli non somiglia affatto a Hitler – e afferma anche di avere la sensazione di trovarsi di fronte ad un uomo qualsiasi. A quel punto uno degli attori reagisce replicando che Hitler è semplicemente un uomo qualsiasi. Se tutto finisse qui, avremmo a che fare soltanto con un commento didattico che esprime una qualche verità, ma che non ci fa ridere perché risulta privo di quella qualità comica che solitamente si avvale di un modo molto diverso di esprimere la verità. La scena va avanti: il regista continua a dirsi non soddisfatto e prova disperatamente a individuare quel misterioso “qualcosa in più” che distinguerebbe l’aspetto di Hitler dall’aspetto dell’attore che gli sta davanti. Mentre è intento a rimuginare, improvvisamente nota un’immagine (una foto) di Hitler appesa al muro e trionfante esclama: “Ecco! Questo somiglia a Hitler!”. “Ma signore”, replica l’attore, “sono io in quella foto!”. Ora invece la situazione è davvero divertente, soprattutto perché noi spettatori veniamo colpiti dall’entusiasmo del regista che nella foto ha colto qualcosa di diverso rispetto al povero attore (il cui rango nella compagnia non è nemmeno quello di un vero attore, di una star, ma solo quello di una comparsa). Possiamo perciò afferrare bene il significato della “differenza minima”, una differenza che è un “puro nulla” eppure un nulla estremamente reale e rispetto al quale non dovremmo sottovalutare il ruolo del nostro desiderio.
III.
Qual è dunque la differenza principale tra il paradigma comico e quello tragico? Come i due paradigmi situano il Reale in relazione alla Cosa e come lo articolano?
Il paradigma tragico classico si presta a essere definito meglio attraverso il concetto del sublime elaborato da Kant. Il Reale in questo caso viene collocato oltre il regno sensibile (la natura), ma può essere visto – o “letto” – nella resistenza del sensibile (o della materia), nelle sue inflessioni, nella sua sofferenza. Abbiamo a che fare con un attrito che risulta dal movimento rispettivo di due entità eterogenee, di cui una è determinabile (come sensibile) o condizionata e l’altra è incondizionata e indeterminata. Il soggetto esperisce questo attrito sotto forma di dolore e violenza esercitati sulla sua natura sensibile; allo stesso tempo tale attrito suscita rispetto nei confronti della Cosa incondizionata/sconosciuta in cui il soggetto può riconoscere la propria destinazione pratica e la propria libertà. Da questo attrito deriva uno splendore sublime. (Nella sua analisi dell’Antigone, Lacan insiste proprio su questa dimensione, e sostiene che l’atto etico di Antigone produca un effetto estetico di accecante splendore). Perciò, se prendiamo questo esempio classico, possiamo dire che in Antigone la morte appare come il limite del sensibile, il suo estremo limite, un limite che può essere oltrepassato in nome di qualche Cosa in cui il soggetto ripone il proprio vero essere, il proprio essere reale. La morte è il luogo par excellence di questo attrito di cui abbiamo parlato poco sopra, enfatizzato nel dramma dalla trasformazione della morte in qualcosa che ci accade in un luogo: Antigone viene condannata ad essere sepolta viva nella tomba che diventa così il luogo dell’oltrepassamento, la scena (il teatro) dello splendore sublime che Lacan evoca a proposito del personaggio della protagonista. Quel che conta non è tanto il fatto che la morte abbia luogo, ma che sia un luogo, un luogo in cui alcune cose diventano visibili. E’ come se l’estrema frontiera di un corpo, la pelle, si espandesse in modo tale da diventare lo scenario dell’incontro tra due cose solitamente separate, l’interno e l’esterno del corpo stesso. Nel caso di Antigone la questione centrale non è tanto la differenza o il limite tra la vita e la morte, ma – per usare le parole di Alain Badiou – il limite tra la vita nel senso biologico della parola e la vita intesa come la capacità del soggetto di essere il supporto di un qualche processo di verità. “Morte” è precisamente il nome del limite tra queste due vite, nomina il fatto che non coincidono, che una delle due vite può soffrire o perfino cessare di essere a causa dell’altra. Nel caso di Antigone l’altra vita (la vita incondizionata o reale) diventa visibile nella scena della morte come quell’elemento della vita che la morte non può afferrare, non può raggiungere né abolire. Quest’altra vita, la vita reale, si rende perciò visibile per negativum, nell’incanto, nello splendore sublime dell’immagine di qualcosa che non ha immagine. Il Reale si identifica con la Cosa e si rende visibile grazie a questo splendore accecante che è l’effetto della Cosa sulla materia sensibile. Esso non è immediatamente visibile o leggibile, ma lo è soltanto per mezzo della traccia accecante che lascia nel mondo dei sensi. Per quanto riguarda l’arte tragica o sublime possiamo parlare di un incorporazione del Reale, che rende quest’ultimo immanente e inaccessibile allo stesso tempo (o più precisamente accessibile soltanto all’eroe che dovrebbe “accedere al Reale” e che perciò assolve al ruolo dello schermo che ci separa, noi spettatori, dal Reale).
IV.
Il paradigma comico, d’altra parte, non è quello dell’incorporazione, ma corrisponde al paradigma di ciò che potremmo chiamare montaggio. In questo paradigma il Reale è allo stesso tempo transcendente e accessibile. Il Reale, infatti, è accessibile come puro nonsenso, che rappresenta un ingrediente importante di ogni commedia. Questo nonsenso, tuttavia, rimane trascendente, nella misura in cui il miracolo dei suoi effetti reali (ad esempio, il fatto che il nonsenso stesso possa produrre un effetto reale di senso) resta inspiegabile. Tale inspiegabilità è il vero motore della commedia. Si potrebbe anche dire che il nonsenso è il trascendentale, nel senso kantiano del termine: è ciò che ci permette di vedere o percepire davvero la differenza tra un semplice attore e la foto di Hitler (che in realtà è una foto dell’attore medesimo). Questa differenza che vediamo “davvero” è puro nonsenso ma ha un fondamento trascendentale, cioè è una dimensione che il riso non dissipa ma contribuisce semplicemente a illuminare e localizzare. L’apparenza o l’illusione di questa differenza ha precisamente lo stesso status dell’“illusione trascendentale kantiana” (der transzendentale Schein). Si tratta di un’illusione, di un errore che Kant considera necessario; si tratta di un’illusione che dobbiamo sottoporre ad esame critico, ma rispetto alla quale sarebbe illusorio credere che scompaia completamente dopo una tale disamina. L’aspetto singolare di questa “illusione trascendentale” è che essa non costituisce una falsa rappresentazione di qualcosa. A differenza delle illusioni empiriche, ad esempio le illusioni ottiche, che ci fanno vedere un oggetto in modo diverso da come è davvero, l’illusione trascendentale presuppone l’assenza dell’oggetto che appare in questa illusione.
“Illusione trascendentale” è un’espressione che indica qualcosa che appare dove non dovrebbe esserci nulla. Non è l’illusione di qualcosa; non è la rappresentazione falsa e distorta di un oggetto reale. Dietro questa illusione non c’è alcun oggetto reale – non c’è nulla, solo l’assenza di un oggetto. L’illusione consiste in “qualcosa” al posto di “niente”, e comporta un inganno per il semplice fatto che quel qualcosa è, appare. E’ precisamente quel misterioso “qualcosa in più” che appare nella foto di Hitler e che noi “vediamo”, anche se non è un oggetto d’esperienza; e questo circoscrive, forse, l’unica possibilità di percepire qualcosa che non sia un oggetto di esperienza, ma che non sia nemmeno il noumenon, la “Cosa in sé”.
La fotografia in questione, infatti, non è una falsa rappresentazione dell’attore quale suo oggetto reale; è una rappresentazione fedele dell’attore più un’illusione trascendentale. Come la dialettica trascendentale kantiana, la commedia non aspira a dissipare le illusioni o le apparenze, piuttosto le riconosce, ci gioca e mostra la realtà che esse contengono.
V.
Rispetto alla comicità bisognerebbe cominciare a parlare di una certa etica dell’incredulità. L’incredulità in quanto attitudine etica consiste nel misurare la credenza non semplicemente con la sua dimensione illusoria, ma con la realtà medesima di questa illusione. Ciò significa che l’incredulità non espone tanto il nonsenso della credenza quanto il Reale o la forza materiale del nonsenso stesso. Questo implica che un’etica del genere non possa basarsi sul movimento di circolazione intorno alla Cosa, che è ciò che dà forza all’arte sublime. Il suo motore va ricercato piuttosto in una dinamica che ci fa andare sempre troppo lontano. Ci si muove direttamente verso la Cosa e ci si ritrova di fronte a un oggetto “ridicolo”. Eppure la dimensione della Cosa non viene semplicemente abolita, ma rimane presente all’orizzonte grazie al sentimento di fallimento che accompagna questo movimento diretto verso la Cosa.
Nel film di Lubitsch il regista prova a nominare o a mostrare la Cosa direttamente (“Ecco! E’ Hitler!”) e ovviamente la perde – cioè la “sorpassa” – finendo per mostrare soltanto un “oggetto ridicolo”, la foto dell’attore. Tuttavia la Cosa, in qualità di ciò che è stato mancato, rimane presente all’orizzonte situandosi da qualche parte tra l’attore che interpreta Hitler e la foto dell’attore, i quali insieme costituiscono lo spazio in cui può risuonare la nostra risata. Il gesto di dire “eccola, ecco la Cosa!” produce l’effetto di dischiudere un certo entre-deux che diventa così lo spazio in cui si dispiega la realtà della Cosa tra i due “oggetti ridicoli” che dovrebbero esserne l’incarnazione. Per essere più precisi: “andare direttamente alla Cosa” non significa mostrare o esibire la Cosa direttamente. Il “trabocchetto” consiste nel fatto che noi non vediamo mai la Cosa (nemmeno nella foto, visto che è semplicemente la foto di un attore), ma vediamo sempre e solo due parvenze (l’attore e la foto). In tal modo cogliamo la differenza tra l’oggetto e la Cosa senza mai vedere la Cosa. O, per dirla al rovescio, quel che ci viene mostrato sono solo due parvenze, anche se quel che vediamo non è altro che la Cosa stessa che diventa visibile nella differenza minima tra le due parvenze. Questo non significa che attraverso la “differenza minima” (o attraverso il divario che apre) ci facciamo un’idea della Cosa misteriosa che giace da qualche parte oltre la rappresentazione – piuttosto la Cosa viene concepita come il divario stesso che sussiste tra/entro la rappresentazione. In questo senso si può dire che la commedia introduce una sorta di montaggio parallelo: non un montaggio della realtà (quale Cosa trascendente) e della parvenza, ma un montaggio di due parvenze o di due doppi. “Montaggio” perciò significa produrre o costruire o riconoscere la realtà a partire da una composizione ben definita di due parvenze. Il Reale qui si identifica con il divario che separa l’apparenza stessa; e nelle commedie questo divario prende la forma di un oggetto.
VI.
Cosa ha a che fare tutto questo con l’amore? Ciò che lega il fenomeno dell’amore al paradigma comico è la capacità di combinare l’accessibilità con il trascendentale, combinazione che assume la configurazione dell’“accessibilità nella trascendenza stessa”. In altre parole, quel che accomuna l’amore alla commedia è il modo in cui entrambi si relazionano e si comportano con il Reale. Già a livello più superficiale possiamo rilevare questa curiosa affinità tra amore e commedia: amare, ovvero secondo la buona vecchia definizione “amare qualcuno per quello che è” (andare direttamente alla Cosa), significa sempre ritrovarsi di fronte ad un “oggetto ridicolo”, un oggetto che suda, russa e colleziona strane abitudini. Ma significa anche continuare a cogliere in questo oggetto quel “qualcosa in più” che il regista nel film di Lubitsch vede nella foto di “Hitler”. Amare significa percepire questo iato, questa discrepanza, e non tanto essere in grado di riderci sopra quanto avere un desiderio irresistibile di riderci sopra. Il miracolo dell’amore è un miracolo divertente.
Il vero amore, se possiamo azzardare questa espressione, non è l’amore “sublime”, quello in cui ci lasciamo completamente abbagliare o “accecare” dall’oggetto al punto che non ne vediamo più (o non possiamo più tollerare di vederne) l’aspetto ridicolo e banale. Questo tipo di “amore sublime” presuppone e genera una radicale inaccessibilità dell’altro (e di solito si traduce concretamente in una sorta di eterni preliminari, o in una relazione intermittente, la quale ci consente in questo modo di reintrodurre puntualmente la distanza che si confà a ciò che è inaccessibile, “risublimando” l’oggetto dopo ogni “uso”).
Tuttavia l’amore vero non è nemmeno la somma di desiderio e amicizia, in cui l’amicizia dovrebbe avere il compito di costruire un “ponte” tra due risvegli del desiderio e accogliere il lato ridicolo dell’oggetto. Il punto non è che, affinché l’amore “funzioni”, occorre accettare l’altro/a con tutto il suo fardello, “sopportarne” gli aspetti più triviali, perdonarne le debolezze, in breve tollerare l’altro/a quando non lo/la si desidera. Il vero miracolo dell’amore – ed è questo che lo accomuna alla commedia – consiste nel preservare la trascendenza in seno all’accessibilità stessa dell’altro. Per usare le parole di Deleuze, esso consiste nel creare un “circuito risata-emozione” in cui “la prima rinvia alla piccola differenza, l’altra alla grande distanza, senza che l’una cancelli o attenui l’altra”. Il miracolo dell’amore non consiste nel trasformare un qualche oggetto banale in un oggetto sublime, inaccessibile nel suo essere – questo è il miracolo del desiderio. Quando abbiamo a che fare con un’alternanza di attrazione e repulsione, significa soltanto che l’amore come sublimazione non si è manifestato, non ha eseguito il suo lavoro e non ha realizzato il suo “trabocchetto”. Il miracolo dell’amore consiste, prima di tutto, nel percepire i due oggetti (l’oggetto banale e quello sublime) sullo stesso piano; ciò significa quindi che nessuno dei due oggetti finisce per essere occultato o sostituito dall’altro. In secondo luogo consiste nell’essere consapevoli del fatto che l’altro in quanto “oggetto banale” e l’altro in quanto “oggetto del desiderio” sono una sola e identica cosa nello stesso senso in cui l’attore che interpreta Hitler e la foto di “Hitler” (che è in realtà una foto dell’attore) sono una medesima cosa. In altre parole si diventa consapevoli del fatto che entrambe sono apparenze, che nessuna delle due è più reale dell’altra. Alla fine il miracolo dell’amore consiste in una “caduta [“falling” in love]” – e in continui inciampi – causata dalla realtà che scaturisce dal divario introdotto nel “montaggio parallelo” delle due parvenze o apparenze; in altre parole in una caduta generata dalla realtà che scaturisce dalla non-coincidenza dell’identico. L’altro/a che amiamo non è nessuna delle due parvenze (né l’oggetto banale né l’oggetto sublime); né può essere separato/a da esse, dal momento che non è nient’altro che ciò che risulta dal montaggio riuscito (o “fortunato”) di entrambe. Ciò che amiamo insomma è l’Altro in quanto differenza minima dell’identico.
Qui possiamo cogliere chiaramente la distinzione tra il funzionamento del desiderio e il funzionamento dell’amore, e comprendere il fondamento della tesi di Lacan secondo cui l’amore è in ultima istanza una pulsione. La differenza tra desiderio e pulsione può essere individuata nei due tipi di temporalità che ciascuno di essi rispettivamente presuppone. Possiamo formulare questa distinzione in base alla differenza tra successione e simultaneità. Ma possiamo esprimerla anche in un altro modo: quel che caratterizza il soggetto di desiderio è la differenza tra la causa (trascendentale) del desiderio e il suo oggetto, la differenza che si manifesta come “differenza temporale” tra il soggetto del desiderio e l’oggetto in quanto reale. Il soggetto è separato dall’oggetto da un intervallo, da un gap che si sposta allo spostarsi del soggetto e che rende impossibile per quest’ultimo riuscire a raggiungere l’oggetto. L’oggetto che il soggetto insegue lo accompagna, si muove con lui, eppure rimane sempre separato dal soggetto perché si trova, per così di dire, su un “fuso orario” diverso. Questo spiega la metonimia del desiderio. Il soggetto prende appuntamento con l’oggetto alle 9.00, ma per l’oggetto in questione sono già le 11.00 (il che significa che se ne è già andato).
L’”inaccessibilità immanente” ci permette di spiegare anche la fantasia fondamentale che sostiene le storie e le canzoni d’amore incentrate sulla impossibilità implicita nel desiderio. Il leitmotiv di queste storie è: “su un altro pianeta, in un’altra epoca, da qualche parte non qui, prima o poi ma non adesso…”. Questa attitudine (che indica chiaramente la struttura trascendentale del desiderio, simile allo spazio e al tempo in quanto condizioni a priori della nostra esperienza) può essere interpretata come il riconoscimento di una impossibilità intrinseca, una impossibilità che viene quindi esteriorizzata e trasformata in un qualche ostacolo empirico. (“Se solo ci fossimo potuti incontrare in un altro momento e da un’altra parte, tutto ciò sarebbe stato possibile”). Si dice in generale, in questo caso, che il Reale in quanto impossibile viene travestito da un ostacolo empirico, che ci impedisce di confrontarci con l’impossibilità essenziale e strutturale. Tuttavia aspetto fondamentale dell’identificazione lacaniana del Reale con l’impossibile non si limita a dire semplicemente che il Reale è qualCosa che è impossibile che accada. Al contrario, il punto rispetto al concetto di Reale elaborato da Lacan è che l’impossibile accade. Questo è l’elemento traumatico, disturbante e sconvolgente (o divertente) che riguarda il Reale. Il Reale accade esattamente come ciò che è impossibile che accada. Non è qualcosa che accade quando lo vogliamo, o quando proviamo a farlo accadere, quando ce lo aspettiamo o siamo pronti ad attenderlo. Accade invece sempre al momento sbagliato e al posto sbagliato, è sempre qualcosa che non c’entra con la scena che abbiamo stabilito o che ci siamo prefigurati. Il Reale in quanto impossibile significa che non esistono il momento né il posto giusto che siano adatti ad esso, e non che sia impossibile che esso accada. La fantasia di “un altro luogo e un altro momento”, che sostiene l’illusione di un possibile incontro fortuito, rinnega il Reale dell’incontro trasformando “l’impossibile che è accaduto” nell’“impossibile che accadrà” (qui e ora). In altre parole rinnega quello che è già accaduto provando a sottoporlo allo schema trascendentale della fantasia del soggetto. La distorsione che si manifesta in questa manovra non consiste nel generare la credenza che qualcosa di impossibile accadrà o potrebbe accadere in altre condizioni di spazio e tempo; la distorsione consiste piuttosto nel far sembrare qualcosa che è già accaduto qui e ora come qualcosa che potrebbe accadere solo in un futuro remoto o addirittura in un’altra dimensione spaziotemporale.
Troviamo un esempio paradigmatico di questo disconoscimento del Reale (che aspira a preservare il Reale quale inaccessibile Oltre) nel film I ponti di Madison County: qui siamo di fronte a un incontro amoroso casuale tra due persone, ognuna delle quali è ben radicata nella propria esistenza: lei è una casalinga e madre di famiglia molto legata alla sua famiglia (una figura immobile, in un certo senso); lui è un fotografo di successo sempre in viaggio. Si conoscono per caso e si amano appassionatamente (o almeno ci viene chiesto di credere che sia così). Ma qual è la loro reazione di fronte a questo incontro casuale? Immediatamente i protagonisti tramutano “l’impossibile è accaduto” in “è impossibile che ciò accada”, “tutto questo è impossibile”. Poiché lei è da sola al momento del loro incontro (suo marito e i figli sono partiti per una settimana) e poiché lui invece deve fermarsi lì per completare il suo reportage, i due decidono di passare una settimana insieme al termine della quale dirsi addio e non rivedersi mai più. Descritta in questo modo sembra un’avventura fortuita (ed è proprio così). Il problema è che i due protagonisti si percepiscono e si presentano a noi come se stessero vivendo l’Amore della loro vita, la cosa più importante e preziosa mai accaduta nella loro storia sentimentale. Qual è il problema o la menzogna di questa fantasmatica mise-en-scene? Che l’incontro viene “de-realizzato” nel momento stesso in cui accade; esso viene immediatamente iscritto e confinato in uno spazio-tempo discreto e strettamente definito (una settimana e una casa che rappresentano la loro versione di “un altro tempo, un altro luogo”), destinato a diventare l’oggetto più prezioso dei loro ricordi. Si potrebbe perfino dire che nel momento in cui accade la loro relazione è già un ricordo; la coppia la sta vivendo come fosse già finita (e da qui sprigiona tutto il pathos del film). La realtà dell’incontro, “l’impossibile che è accaduto”, viene immediatamente rigettata e trasformata in un oggetto che paradossalmente incarna la stessa impossibilità di ciò che in effetti è accaduto. Un oggetto di valore da custodire nella scatola dei gioielli, ovvero nella scatola della memoria. Ogni tanto possiamo aprire la scatola e provare piacere nel contemplare questo gioiello, il ricordo, che risplende scintillante dell’impossibilità che incarna. Contrariamente a ciò che sembra, i due protagonisti non sanno “accontentarsi” di questa mancanza, ma fanno della mancanza stessa il loro sommo possesso.
Per tornare alla questione della differenza tra l’amore (come pulsione) e il desiderio, possiamo dire a questo punto che ciò che è presupposto nella pulsione e che la distingue dal desiderio non è tanto una differenza temporale intesa come “curvatura dello spazio-tempo” – la concezione che la letteratura di fantascienza adopera precisamente per spiegare “in modo scientifico” l’impossibile che accade. Questa curvatura dello spaziotempo si riferisce principalmente al fatto che un ‘pezzo’ di qualche altra realtà temporale venga catturato nella nostra temporalità presente (o viceversa) e compaia là dove non può trovare strutturalmente posto, producendo in tal modo un quadro strano e illogico. Secondo Lacan, la pulsione “si presenta senza capo né coda”, è come un montaggio “nel senso in cui si parla di montaggio nel collage surrealista”7. Qualcosa che appare dove non dovrebbe, rompendo e interrompendo in questo modo la linearità del tempo e l’armonia della scena.
C’è anche un altro modo di concepire la prossimità tra l’amore (inteso a partire dal suo tratto fondamentale che crea una “differenza minima” e rimbalza nello spazio tra due oggetti) e la pulsione. Questo altro modo ci porta a percorrere l’analisi lacaniana della doppia traiettoria che caratterizza la pulsione, ovvero lo scarto tra goal [scopo] e aim [fine]. La pulsione si trova o si fa strada sempre tra due oggetti: l’oggetto a cui mira (ad esempio il cibo, nel caso della pulsione orale) e, per dirla con Jacques-Alain Miller, la soddisfazione in quanto oggetto (“il piacere della bocca” nella pulsione orale). La pulsione è ciò che circola tra questi due oggetti; esiste nella differenza minima tra di essi – una differenza che è paradossalmente essa stessa il risultato del movimento circolare della pulsione.
VII.
L’entre-deux, l’intervallo o il divario introdotto dal desiderio è il divario che sussiste tra il Reale e la parvenza: l’altro che è accessibile al desiderio è sempre un altro immaginario, l’objet petita di Lacan, mentre il reale (altro) del desiderio rimane inattingibile. La realtà del desiderio è la jouissance, ovvero quel “partner inumano” (così lo chiama Lacan) a cui il desiderio mira oltre il suo oggetto e che deve pertanto rimanere inaccessibile. L’amore, d’altra parte, è ciò che riesce a rendere la realtà del desiderio accessibile. Questo è quel che intende esprimere Lacan quando afferma che l’amore “rende umana la jouissance” e che “solo la sublimazione d’amore consente alla jouissance di con-discendere al desiderio”. In altre parole, il modo migliore per definire la sublimazione (d’amore) è dire che il suo effetto è precisamente la desublimazione. Si potrebbe dimostrare che esistono due diverse concezioni della sublimazione nell’opera di Lacan. La prima è quella che Lacan sviluppa in relazione al concetto di desiderio, quella definita nei termini di ciò che “eleva un oggetto alla dignità della Cosa”. E poi c’è un altro concetto di sublimazione, che Lacan sviluppa in relazione al concetto di pulsione, quando afferma che la “natura propria” della pulsione è proprio la sublimazione.8 Questa seconda definizione corrisponde alla “desublimazione” che permette alla pulsione di trovare “una soddisfazione diversa dal proprio fine”. Non si potrebbe dire esattamente la stessa cosa dell’amore? In amore non troviamo soddisfazione nell’altro/a a cui aspiriamo; la troviamo nello spazio o divario tra, per dirla molto semplicemente, ciò che vediamo e ciò che abbiamo (l’oggetto sublime e quello banale). La soddisfazione è letteralmente attaccata all’altro/a, aggrappata all’altro/a. (Si potrebbe dire che è appesa all’altro/a nello stesso modo in cui il “piacere della bocca” è appeso al “cibo”: non sono la stessa cosa eppure non possono essere semplicemente separati; sono, per così dire, “dislocati”). Si potrebbe anche dire che l’amore è consapevole di questo, mentre il desiderio lo ignora. E ciò spiega anche l’insistenza da parte di Lacan sul fatto che la jouissance del corpo dell’Altro non è un “segno dell’amore”,9 e che più un uomo permette a una donna di confonderlo con Dio (ovvero colui che le procura godimento), meno la ama.
Tenendo questo a mente, possiamo forse definire più precisamente la “desublimazione” che l’amore implica: desublimazione non significa “trasformazione dell’oggetto sublime in un oggetto banale”; piuttosto comporta una dislocazione o un decentramento dell’oggetto sublime rispetto alla fonte di godimento – comporta che si colga la “differenza minima” tra di essi. Tutto questo, ovviamente, non ha nulla a che fare con la situazione archetipica in cui amiamo e veneriamo una persona, ma riusciamo solo ad andare a letto con altre persone di cui non ci importa nulla. Il caso di chi venera l’altro/a così tanto da non riuscire ad andarci a letto testimonia puntualmente del fatto che la “dislocazione” [la sublimazione in quanto desublimazione] non ha avuto luogo, e che l’altro/a viene confuso/a con la fonte di un supremo e inesprimibile godimento [o con la suprema assenza di esso], che deve essere evitato. In altre parole in questa situazione l’Altro anziché generare una somma immanente di Due, ricade in “due uni”.
L’amore (nel significato preciso e peculiare che abbiamo provato a dare a questo concetto) coinvolge e modifica il modo in cui ci rapportiamo alla jouissance (che non indica qui necessariamente il godimento sessuale), e fa della jouissance qualcosa di diverso dal “partner inumano”. Nello specifico fa sembrare la jouissance qualcosa a cui possiamo rapportarci e che possiamo effettivamente desiderare. Per dirla altrimenti, non possiamo guadagnare accesso all’altro/a (in quanto altro/a) finché l’attaccamento alla nostra jouissance rimane un attaccamento “non-riflessivo”. In tal caso useremo l’altro/a come un mezzo per rapportarci al nostro proprio godimento, come uno schermo per la nostra fantasia (poiché l’atto sessuale, come dice Slavoj Žižek, è un atto di “masturbazione con un partner reale”).
I due lati dell’amore che si sostengono reciprocamente e rendono contro del fatto che, come sostiene Lacan, “l’amore è ciò che supplisce all’assenza del rapporto sessuale” potrebbero essere espressi così: amare l’altro/a e desiderare la propria jouissance.
“Desiderare la propria jouissance” è probabilmente la cosa più difficile da fare e da far funzionare, dal momento che il godimento difficilmente appare come un oggetto. Si potrebbe obiettare che non dovrebbe essere così difficile dopotutto, poiché la maggior parte delle persone “vogliono godere”. Tuttavia la “volontà di godere” (e il suo lato opposto in quanto imperativo della jouissance) non dovrebbe essere confusa con il desiderio. Stabilire una relazione del desiderio con il proprio godimento (ed essere realmente capaci di “goderne”) non significa assoggettarsi alla domanda incondizionata del godimento, significa piuttosto essere in grado di sfuggire alla sua presa. Nel far apparire il desiderio dove prima non avrebbe potuto trovare una collocazione, questa evasione, questa sottrazione costituisce l’effetto di ciò che precedentemente abbiamo chiamato “sublimazione come desublimazione”. Se quindi come afferma Lacan l’amore costituisce un marchio, possiamo concludere che l’amore è il segno di questo effetto.
* Traduzione di Jamila M. H. Mascat.
L’articolo “On Love as Comedy” è apparso sulla rivista Lacanian Ink, n. 20, 2002 (http://www.lacan.com/frameXX4.htm). Si ringrazia l’autrice per aver consentito la pubblicazione del testo in italiano.
1 Jacques Lacan, L’angoisse, lezione del 13 maggio 1963. Il testo di questo seminario, ancora inedito quando ho scritto questo articolo, è stato pubblicato da Seuil, ma il passaggio che cito non risulta nella versione edita. Dal momento che ritengo che questa frase contenuta nella trascrizione non pubblicata del seminario essenziale, continuo a farvi riferimento.
2 Cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino, 1994.
3 J. Lacan, L’angoisse, lezione del 13 maggio 1963.
4 J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert (1960-1961), Einaudi, Torino, 2008, p. 39.
5 Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano, 1993, p. 198.
6 La qual cosa, ovviamente ci riporta alla storia di Zeusi e Parrasio, che Lacan evoca ne I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi: Zeusi dipinse degli acini d’uva in modo così vivodo da attrare gli uccelli, mentre Parrasio ingannò lo stesso Zeusi dipingendo sul muro un drappo così realistico che Zeusi rivolgendosi a lui disse: “Bene, e ora mostrami cosa hai dipinto dietro al velo”.
7 Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino, 2003, p. 165.
8 Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., p. 141.
9 J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino, 2011, p. 37.