Sebastián Torres*
Quindi chi raccomanda il governo della legge sembra raccomandare esclusivamente il governo di Dio e della ragione, mentre chi raccomanda il governo dell’uomo, v’aggiunge anche quello della bestia perché il capriccio è questa bestia e la passione sconvolge, quando sono al potere, anche gli uomini migliori. Perciò la legge è ragione senza passione.
Aristotele, Politica, 1287a.
I .
Nel tracciato generale della crisi e della critica al razionalismo moderno, vennero provati diversi percorsi che diedero impulso ad altre vie di lettura, passando per quei luoghi della produzione filosofica canonicamente considerati secondari nel sentiero segnato dalla grande corrente razionalista. In queste esplorazioni, che sarebbe difficile inserire all’interno di una preoccupazione comune, la riscoperta dell’ampio sviluppo che la modernità dedicò al tema degli affetti è uno degli aspetti più significativi dei nuovi approcci storici e filosofici[1]. Nietzsche e Freud hanno partecipato in modi diversi al contemporaneo recupero del problema del desiderio, aprendo così un’altra prospettiva, rispetto all’ultimo gran momento filosofico del desiderio nella costituzione del soggetto, presente nella dialettica servo padrone nella Fenomenologia dello spirito di Hegel[2]. Attualmente, risulta quasi evidente il luogo occupato dalle passioni nel pensiero moderno, così come la sua rilevanza per comprenderne gli approcci epistemologici, etici e politici; siano esse opere autonome -come Le passioni dell’anima di Descartes-, piccoli trattati all’interno di opere di maggior ampiezza -come il cap. XI del Leviatano di Hobbes o il libro III dell’Etica di Spinoza-, o siano essi motivi di riflessione constante, anche qualora non trovino un luogo di esposizione sistematica -come avviene nel caso di Machiavelli, Montesquieu, Rousseau, tra tanti altri-. Non è altrettanto evidente, tuttavia, la domanda relativamente ai motivi ed ai modi con cui si affrontava tale questione (oltre alla proliferazione di lavori di saggistica storico-descrittiva). Senza dubbio, questi tentativi critici si scontravano ancora con il razionalismo, denunciando una relazione con il desiderio in termini repressivi o amministrativi ed che, avvicinandosi in molti casi all’“inversione del platonismo”, trovano nel desiderio una dimensione originaria dalla cui liberazione seguirebbe una nuova etica ed una nuova politica. Non sarebbe difficile giustificare la rilevanza che ha la questione del desiderio nel pensiero di Machiavelli. In modi diversi, il desiderio è un motivo che è stato presente nella lunga e conflittuale storia della sua ricezione -soprattutto del Principe-, ponendo in tensione due concetti che la tradizione filosofica e morale hanno rappresentato come antitesi, all’interno del pensiero dell’autore: la ragione e il bene. La priorità dell’uno o dell’altro nell’anti-machiavellismo non sarà altro che l’indice di un’epoca: l’anti-moralismo nella critica politico-religiosa e il razionalismo nella critica illuminista, indici che non smetteranno di essere strettamente legati e saranno i pilastri dell’anti-machiavellismo sino ai giorni nostri. Tutto sembrerebbe indicare che, pensando agli uomini come sono e non come dovrebbero essere, questo essere non sia altro che il desiderio, un desiderio che si riassume nella libido dominandi del principe, figura che dà inizio ad una patogenesi della modernità occidentale. Il nostro lavoro spera di dimostrare che la questione del desiderio nel pensiero di Machiavelli obbedisce a problemi che non hanno nulla a che vedere con la preoccupazione antropologica. Con questo non vogliamo dire unicamente che la politica non è sottomessa ad un’antropologia, ma speriamo di avanzare nell’esplorazione di una riflessione dove il il nesso necessario che la politica intrattiene con il desiderio obbedisce ad un’ontologia storica del sociale, vera e propria irruzione machiavelliana nel pensiero moderno.
II. Desiderio, natura, conflitto
Evidentemente ci troviamo di fronte ad una tensione tra l’immagine dell’uomo che la tradizione anti-machiavelliana ha insistito con l’attribuire a Machiavelli, una lettura pessimista che lo pone come fondatore della moderna antropologia negativa (con marcati caratteri individualistici), e l’immagina repubblicana, che recupera l’uomo comunitario a partire dal ruolo della virtù (come azione concertata) e del bene comune (obiettivo di ogni comunità politica). Lasciando momentaneamente da parte le virtù esegetiche di ciascuna tradizione interpretativa, e coscienti che entrambe si appoggiano a luoghi “letterali” dell’opera, possiamo parlare di tensione perché entrambe sono formulate a partire dall’esposizione dei motivi dell’azione umana: nella misura in cui non si trova un’esplicita antropologia nell’opera Machiavelliana, ciò che gli uomini sarebbero, è sempre pensato a partire da, o come condizione di, ciò che gli uomini fanno, e ciò che ci si potrebbe aspettare dalle loro azioni. Nel Principe possiamo individuare un primo livello d’analisi dove vizi e virtù, così come il complesso affettivo ad essi associato, fanno parte dell’ordine immaginario da cui emergono differenti rappresentazioni -dalle virtù cardinali a quelle classiche- che a Machiavelli interessano, non solo come campo di battaglia teorico ma anche, soprattutto, come forme del giudizio comune che intervengono nell’arena dello scontro politico e culturale. Dal momento che tutti gli uomini giudicano, risulta rilevante assumere gli effetti reali che seguono da quest’ordinamento immaginario, dove si apre il fondamentale gioco delle apparenze che domina numerose pagine di quest’opuscolo, così come un ordine più ampio di rappresentazioni dove si gioca il riconoscimento, modo di legittimazione pragmatica che rende possibile un campo d’azione determinato. Ad un secondo livello di analisi, il desiderio, le passioni, gli umori, sono la porta d’ingresso per la comprensione della realtà. Sia chiaro qui che essi non sono la sostanza da cui dedurre le ragioni dell’ordine immaginario, inteso come struttura antropologica, ma il principio della complessità a partire dalla quale è possibile comprendere la realtà effettiva delle cose, l’immaginazione di esse, e l’efficacia dell’una o dell’altra nello spazio dell’azione politica. La politica è attraversata dalla dinamica affettiva, ma in nessun caso può essere ad essa ridotta, perciò si tratta di capire i desideri e non il desiderio, come se questo costituisse il nuovo sostrato del reale. Non vi è in Machiavelli, al di là di alcune espressioni che conviene interpretare all’interno del proprio contesto, un’argomentazione che faccia del dualismo anima-corpo o ragione-passione la struttura ontologica dalla cui postulazione -o inversione- segua una comprensione delle questioni umane. Se, in un certo senso, tutto riguarda il piano del desiderio -il desiderio di ricchezze, l’amor patrio, il timore del castigo, il desiderio di libertà, ecc.- è perché è la sua stessa pluralità, non armonizzabile secondo la struttura teleologica del valore, che ci conduce direttamente a pensare in termini di relazioni e non di essenze[3]. Per cominciare, soffermiamoci su uno dei passaggi più citati de Il Principe, dove statuisce che “delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”[4] (a questa possono aggiungersi affermazioni come la seguente: “la natura de’ populi è varia”[5]). Tali affermazioni si possono trovare nell’intera estensione dell’opera e sono la materia a partire dalla quale un gran parte della tradizione di commenti le attribuirà l’idea di una natura pessimista o negativa, nella misura in cui quest’ultima esprimerebbe una rappresentazione dell’uomo dominato dalle passioni legate alla soddisfazione di bisogni egoistici, irrazionali e, dunque, pregiudiziali all’ordine comune. Non ci soffermiamo qui sul carattere complesso e polisemico dell’utilizzo che Machiavelli fa del termine natura, ma possiamo segnalare che, in nessun caso, sottintende ciò che la tradizione filosofica ha designato come sostanza: un sostrato invariabile rispetto alla mutevolezza degli accidenti. Machiavelli, da un lato, ci parla attraverso il linguaggio del desiderio -dei desideri-, ma, dall’altro, ci parla anche di “volubilità” “variabilità”: pluralità e variabilità del desiderio ci consentono di supporre che, quando egli parla di natura, non si riferisca all’unità e alla permanenza di un’essenza umana e, nemmeno, alla propria inversione negativa in termini di mancanza. Sebbene le sue riflessioni abbiano avuto grande impatto sull’immagine classica e cristiana dell’uomo non si trova in lui, a differenza dei propri contemporanei umanisti, una preoccupazione squisitamente antropologica. Il “punto di partenza” è, a propria volta, un problema, che sembra paradossale: da un lato l’impossibilità degli uomini di mantenersi (e di attribuir loro) un modo invariabile di condotta -anche se non per questo indeterminata- e, dall’altro, la presenza di strutture (storiche, immaginarie) che rappresentano un limite con cui la virtù deve misurarsi, perché la sua azione possa adeguarsi alle condizioni del proprio tempo. Una tesi questa presente ne Il Principe e che rimarrà stabile nell’interezza dei suoi scritti: né gli individui, né i popoli, né gli stati possono sottrarsi al cambiamento, questo è uno dei punti nodali della sua filosofia politica. Perciò non si tratterà, senz’altro, di attribuire la variabilità alla natura desiderante dell’uomo, gesto che non sarebbe altro che la ripetizione di una tesi propria della tradizione filosofica; all’inverso, il desiderio, l’azione e la fortuna saranno i motivi a partire dai quali si cercherà di comprendere la variazione, perché solo in questo modo è possibile capire e raggiungere la durata, che è una delle preoccupazioni principali presenti ne Il Principe. In questo senso, non si tratta qui di contrapporre variazione a durata, ma di interrogarci sulla capacità di essere attivi e non passivi rispetto alla possibilità di trasformare la realtà, e che questa trasformazione possa durare. Posto il problema, si capisce perché Machiavelli approcci la questione del desiderio come fenomeno collettivo, e non a partire da un’antropologia o da una psicologia (le passioni degli individui, per esempio quelle del principe, hanno senso solo all’interno di una trama affettiva più ampia): le passioni sono “relazioni” tra gli uomini e i moventi del desiderio, siano questi uno stato di cose o un bene; hanno senso unicamente nella cornice dell’ordine sociale dato, così come conflittuale. Per pensare questa dimensione collettiva dobbiamo, in primo luogo, abbandonare la logica della conversione dei vizi in virtù, come può essere presente in Vico o Adam Smith[6]. Qui si tratta di comprendere il desiderio come potenza (vir)[7] o impotenza, nella misura in cui designano una relazione e non una proprietà[8]. Quindi, rispetto all’idea di una natura umana, fondamento dei giudizi morali sulle azioni degli uomini, Machiavelli risponderà con un certo tono ironico: “Sanno rarissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o al tutto buoni”[9]. Il desiderio non è, in se stesso, virtù né esprime una “necessità naturale invariabile”, ma lo stato -passato, attuale o futuro- di una relazione, sempre conflittuale, tra gli uomini. Da questa critica alla metafisica non si deve passare ad un empirismo ingenuo: il realismo politico, che considera le passioni come parte ineliminabile della politica, riguarda l’effetto che producono nel campo dell’azione. Machiavelli concepisce il desiderio a partire dai suoi effetti collettivi e come messa in atto della relazioni politiche, a partire dai quali si possono pensare quelle azioni che permettono di intervenire nella complessa geometria costruita dalle multiple relazioni che compongono ( e decompongono) il corpo politico. Ci troviamo di fronte ad un’“ontologia delle relazioni”, non ad un proto-sociologismo del comportamento collettivo.
III. Desiderio e conflitto
Il Principe, i Discorsi e le Istorie Fiorentine presentano diversi modi di affrontare il medesimo factum, concepito come origine della produzione del potere: la divisione, designazione politica per la conflittualità costitutiva che dà impulso al cambiamento costante delle cose. Machiavelli presenta sempre il conflitto a partire dallo scontro tra umori. Nel capitolo IX de Il Principe, dedicato al principato civile, Machiavelli afferma:
“Perché in ogni città si truovano questi dua umori diversi; e nasce da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi, e li grandi desiderano comandare et opprimere el populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de’ tre effetti, o principato o libertà o licencia […] non si può con onestà satisfare a’ grandi e sanza iniuria d’altri, ma sí bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso.”[10]
Nel prologo delle Istorie Fiorentine inizia una critica agli storici di Firenze, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, per aver considerato “insignificanti” o per “timor d’offendere”, e per non aver prestato attenzione a:
“delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati […] perché, se niuna cosa diletta o insegna nella istoria, è quella che particularmente si descrive; se niuna lezione è utile a’ cittadini che governono le repubbliche, è quella che dimostra le cagioni degli odi e delle divisioni delle città”[11]
Nel libro III Machiavelli annuncia che tratterà le “discordie intestine nella repubblica”, punto di partenza della storia contemporanea di Firenze. Il libro comincia così: “Le gravi e naturali inimicizie che sono intra gli uomini popolari e i nobili, causate da il volere questi comandare e quelli non ubbidire, sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città; perché da questa diversità di umori tutte le altre cose che perturbano le republiche prendano il nutrimento loro”[12]; nonostante lo scontro sia presentato a partire da una caratterizzazione nobiliare dei gruppi che costituiscono la città, nello sviluppo di questo periodo storico di Firenze, è evidente che il conflitto centrale si diede a causa dell’“odio che il popolo minuto aveva con i cittadini ricchi e principi delle Arti, non parendo loro essere sodisfatti delle loro fatiche secondo che giustamente credevano meritare”.[13] Allo stesso modo, nei Discorsi, il primo tema della storia della repubblica romana, esposto nel I libro, è enunciato in questo modo: “Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica”[14] Nuovamente, la presentazione del tema è accompagnata da un critica a coloro che, in questo caso, condannano i conflitti socio-politici poiché li considerano pernciosi per la conservazione dell’ordine politico:
“Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma”[15]
I riferimenti di queste tre opere coincidono nel fatto che il conflitto si produce tra i grandi e il popolo a causa del movimento che si dà all’interno della comunità politiche; coincidono anche nel descrivere questa divisione come una disputa per i beni sociali, ma esprimono la diversità degli effetti che seguono dal contrapporsi di questi due umori, a partire dall’adozione del popolo come chiave di lettura della totalità di questa trama passionale. Ne Il Principe, l’onesto desiderio del popolo di non essere dominato, in quanto mantenga questa negatività del desiderio, fa del principe la figura di potere che può contenere il desiderio dei “grandi”. La negatività, tuttavia, non suppone impotenza, nella misura in cui il principe deve fondare il proprio potere nel potere del popolo. Nei Discorsi, il desiderio di non essere dominati è origine delle libere istituzioni, come i tribunati della plebe, dove la positività del desiderio esprime la potenza del popolo nel controllare i nobili. Nelle Storie, il desiderio di non essere dominati porta allo scontro civile tra il popolo e i grandi (Machiavelli fa qui riferimento alla rivolta dei Ciompi), genesi di una storia che espone alla complessità quello che ne Il Principe e nei Discorsi è presentato nella singolarità di una determinata congiuntura. Non c’è conflitto, quindi, perché gli uomini sono guidati dal desiderio, né è il desiderio la causa per la quale il conflitto prende l’una o l’altra forma politica. In ogni caso, l’azione politica è inscritta nella vita attiva della città, dove i desideri sono gli indici delle potenze che entrano nel conflitto. La sua risoluzione politica è indeterminata, nella misura in cui espone la comunità ad una divisione, che esprime un’intelaiatura complessa di relazioni, impossibile da comprendere semplicemente stabilendo una scala di valori per i moventi di desiderio: la complessa relazione tra Il Principe e i Discorsi, non si risolve confrontando la libido dominandi con l’“honesto desiderio del popolo”, posto che tra il desiderio di non essere dominati e il desiderio di libertà si trova l’ampio spettro di affetti che definisce le multiple possibilità a partire dalle quali si costituisce il corpo politico. Il desiderio non è “origine”, ma punto di partenza di una riflessione che richiede di iniziare dalla complessità, dalla pluralità, dalla discordia.
IV. Desiderio, determinazione, posizione
Il desiderio è il factum della politica non solo perché le passioni si formano nello stato sociale e sono fenomeni collettivi, ma anche perché esprimono una dimensione attiva, che rappresenta un determinato potere nello spazio della conflittualità. Dobbiamo confrontarci un’altra volta, tuttavia, con passaggi dove le passioni sembrano essere considerate come proprietà della natura umana: “E’ si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre.”[16]. Il problema non è, in questo senso, che se il desiderio non abbia storia, dal momento che la trama del desiderio è costitutiva della società stessa, ma se esso si presenti come una determinazione che rende possibile assumere un qualche genere di legalità naturale, come sembrerebbe suggerire il seguente passo:
“la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa; talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d’esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro, perché disiderando gli uomini parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla guerra”[17].
Righe come queste hanno collocato Machiavelli nell’anticamera del giusnaturalismo moderno, un passaggio già posto come antropologico e completato a partire dalla trasformazione dell’arte di governo in scienza politica, nell’incorporare una razionalità conseguente. Tuttavia, in altri passi, le determinazioni risultano storiche e il desiderio si configura nella singolarità di un ordine sociale concreto:
“E’ pare che non solamente l’una città dall’altra abbia certi modi ed instituti diversi […] Perché gl’importa assai che un giovanetto da’ teneri anni cominci a sentire dire bene o male d’una cosa, perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua vita. E se questo non fusse, sarebbe impossibile che tutti gli Appii avessono avuto la medesima voglia e fossono stati agitati dalle medesime passioni”[18].
L’unità della città, o meglio, la città come unità, non si definisce solamente a partire dalla sua virtù e costituzione, come risulta dalla casistica delle forme di governo classiche e, come risulta evidente, quest’ulteriore elemento non è propriamente né natura né paideia; ciò che qui Machiavelli segnala è la durata di un insieme di relazioni determinate a partire dalla loro stessa riproduzione. Ha senso, dunque, la domanda se il desiderio sia causa o effetto delle relazioni sociali? Evidentemente, per quando riguarda i passaggi citati, non è questo il problema che stimola la riflessione machiavelliana. Si tratterà invece di pensare il cambiamento e la permanenza a partire dalla genesi di uno stato di cose determinato, la cui possibilità di realizzazione dipende da una genealogia degli affetti che espone tanto il modo in cui un insieme di relazioni prendono consistenza, quanto il momento in cui si producono nuove relazioni che modificano la sua durata. Una genesi che ci permetterà, d’altro canto, di comprendere in che modo opera l’idea di conflitto e come questa produzione dipenda dall’azione virtuosa. Ritorniamo, quindi, al passaggio dove Machiavelli afferma che “la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa”. Questo passaggio si trova nel capitolo in cui presenta “Quali scandoli partorì in Roma la legge agraria”[19] dove espone i conflitti che seguirono alla richiesta del popolo di ridistribuire le terre; legge che, insieme all’istituzione dei tribuni della plebe, Machiavelli identifica come le due riforme che diedero luogo alla repubblica romana. Nella descrizione di questo conflitto, egli presenta gli umori identificandoli con un gruppo sociale dato: “alla Plebe romana non bastò assicurarsi de’ nobili per la creazione de’ Tribuni, al quale desiderio fu costretta per necessità; che lei subito, ottenuto quello, cominciò a combattere per ambizione, e volere con la Nobiltà dividere gli onori e le sustanze, come cosa stimata più dagli uomini”[20]. Questa prima descrizione ricorre ad un luogo comune, situando l’origine del conflitto nella smisuratezza della plebe, nella “naturale” costituzione passionale del volgo. Tuttavia, il desiderio del popolo eccede la comune caratterizzazione della sua natura dominata dal desiderio dei beni materiali, per situare sul medesimo piano la disputa per le ricchezze e gli onori, bene sociale che definisce lo statuto stesso della nobiltà. In questo primo movimento, il desiderio del popolo è equiparato al desiderio dei nobili, e la gerarchia (ordine) sociale si destruttura a partire dallo scontro; la distinzione sociale, per il desiderio proprio del popolo, diventa antagonismo, nel momento in cui pone entrambe le parti nella disputa mossa dal medesimo desiderio. Ma a questo segue un secondo movimento, ancor più radicale, dal momento che rende ancor più complesse le identificazioni costituite:
“Vedesi per questo ancora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori. Perché la Nobilità romana sempre negli onori cede sanza scandoli straordinari alla plebe; ma come si venne alla roba, fu tanta la ostinazione sua nel difenderla”[21].
I nobili fanno degli onori una ricompensa per la virtù e posizionano così la propria identità e il proprio potere all’interno della comunità, ma quando il conflitto si sviluppa in modo tale che sono costretti a riconoscere la richiesta del popolo, finiscono per mostrare un maggior desiderio per le ricchezze che per gli onori. Questo secondo movimento va oltre l’equiparazione dei desideri- il desiderio dei nobili li rende come il “volgo” (secondo lo schema classico dove ad ogni classe corrisponde per natura un tipo specifico di desiderio) e la plebe finisce per acquisire una certa dignità della quale, antropologicamente, era privata. Se non ci adeguassimo alla complessità dell’argomentazione machiavelliana, potremmo pensare che ci troviamo di fronte ad un’anticipazione dell’operazione hobbesiana per il quale tutti gli uomini sono dominati dalle medesime passioni. Però a Machiavelli non interessa affatto sostenere un egualitarismo fondato nella comune natura umana; al contrario, il desiderio e la disuguaglianza sociale si costituiscono vicendevolmente, mettendo in luce che l’antagonismo è politico, nella misura in cui si evidenziano quei desideri in cui si esprime la trama materiale delle relazioni di dominazione sociale. La divisione del desiderio, la divisione tra ricchi e poveri, la divisione tra nobili -che hanno il potere politico- e plebei -che mancherebbero della virtù necessaria al comando- presente in ogni città, configura una relazione che definisce i propri termini. Il conflitto è politico quando questa relazione emerge sulla superficie dello spazio pubblico, mostrando la contingenza stessa delle identità che pretendono di sovra-determinare il conflitto. Machiavelli inizia il capitolo adottando un’asserzione comune: “Egli è sentenzia degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come dall’una e dall’altra di queste due passioni nascano i medesimi effetti”[22]. Affermazione che, come abbiamo visto, non riguarda la volubilità del desiderio nella sua naturale insoddisfazione, ma mostra una logica che antepone gli effetti alle cause, per destrutturare qualunque tipo di necessità trascendente. Passioni apparentemente contrarie producono un medesimo effetto, come passioni apparentemente identiche producono effetti diversi: passioni legate ai giudizi morali sul bene e il male de-politicizzano il conflitto, così come passioni apparentemente identiche, come il desiderio di ricchezze e di onori, producono effetti diversi, nella misura in cui svelano ciò che si pretende naturale in termini di semplice durata e possono, anche se non necessariamente, determinane un’interruzione in un ordine costituito di cose. La vita attiva è esposta in tutte le sue dimensioni; lungi dall’essere strutturata in diversi tipi di attività, ordinate secondo il desiderio che a ciascuna corrisponde, e gerarchizzate secondo l’ordine naturale della comunità, questa si converte nella stessa potenza che dà vita alla città. La vita politica non è l’opzione più elevata perché si rende autonoma dalle altre forme di vita, ma perché è la chiave che permette di decodificare la conflittualità inscritta nell’attività, nel movimento, nella produzione sociale; conflittualità che, nell’antagonismo tra desiderio di dominare e desiderio di non essere dominati, può aprirsi a quello che Machiavelli chiama vivere libero. Destrutturando il discorso sull’onore (senza tralasciare di evidenziarne potere) e restituendo il conflitto politico-sociale, Machiavelli attacca direttamente la deriva che assunse il pensiero dell’umanesimo civico: cioè, la progressiva unificazione dell’ideologia della nuova borghesia con quella dell’aristocrazia fiorentina che, dietro alle parole di onore e virtù, tornò a strutturare una filosofia politica della dominazione. Ma questa lettura, che può ben fare di Machiavelli un acuto osservatore dei cambiamenti storici della propria città, non si limita alla Firenze della propria epoca, ma apre una lettura rivoluzionaria rispetto alla Roma repubblicana come modello di umanesimo civico. È questa genealogia degli affetti, dispiegata in vari momenti dei Discorsi, che rende conto della storia di Roma come quella di una città singolare e non come ragione d’un trattato sulle forme o i modelli di governo (fondato sull’invariabile natura umana). Questa critica teorica all’umanesimo civico è una presa di posizione pratica, perché dalla comprensione della genesi del conflitto politico e dei i suoi differenti effetti, si comprende che dalla conflittualità stessa, manifesta nel desiderio di non essere dominati, non segue necessariamente la libertà. Questo è evidente, soprattutto, nella disputa sulla riforma agraria, momento sì democratico della repubblica romana, ma parte anche della genesi che definirà il secondo momento della sua storia, la tirannide cesariana: “Risuscitarono poi questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio; perché, fattosi Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di quella di Silla, venendo alle mani, rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno in Roma; talché mai fu poi libera quella città.”[23]. Lasciamo in sospeso il trattamento che Machiavelli riserverà all’ideologia imperiale (così come al suo vincolo con la religione cristiana) per insistere su questo: il corollario non è la sempre imminente corruzione derivante dal desiderio umano, ma le relazioni multiple e i molteplici effetti che si possono rintracciare a partire dalla comprensione dei desideri e delle divisioni che questi esprimono. In questo contesto ha senso l’analisi della passione dell’ambizione, per definire il realismo politico nei termini di una lotta permanente:
“dico come per questo io non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta l’ambizione de’ grandi, che se per varie vie ed in vari modi ella non è in una città, sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta, per avventura, molto più tosto in servitù, quando la plebe, e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato l’ambizione de’ nobili”[24].
La presa di posizione di Machiavelli, come appare nella dedica de Il Principe e nei Discorsi, al di là della differenza tra i destinatari di questa dedica, non si configura in termini di identità di classe, ma è invece una posizione nella lotta di classe, la quale, a seconda della propria configurazione particolare, definisce i termini che entrano nell’antagonismo. L’ambizione non è una costante antropologica, ma il nome per designare la necessità di identificare una relazione di dominio reale e potenziale nel contesto di una lotta specifica, mettendo in luce l’anteriorità logica della lotta alla conformazione identitaria delle parti. E ciò vale tanto per il principato quanto per la repubblica, “Perché dalla natura è dato agli uomini pigliare parte in qualunque cosa divisa, e piacergli più questa che quella”[25] (la complessità che emerge nel trattamento degli affetti involucrati nel problema dei partiti e delle fazioni è motivo costante della riflessione machiavelliana). L’importante, fin qui, è che le passioni non rappresentano l’elemento irrazionale che mette permanentemente in rischio l’ordine della comunità e non sono nemmeno la struttura originaria di un soggetto che, liberandole, produce la sua stessa liberazione: al contrario, è la “verità effettiva delle cose”, inscritta nell’intelaiatura passionale, ciò che pone sotto la lente della critica la costituzione immaginaria su cui si sostiene la giustificazione della dominazione, che mette in moto i conflitti reali che mettono in gioco la materialità stessa delle relazioni di potere.
V. Desiderio di novità
Ne Il Principe Machiavelli segnala che una delle maggiori virtù che deve possedere l’uomo di governo è quella di ottenere che “cualità de’ tempi [possa conciliarsi] col procedere loro”[26], dal momento che l’azione è resa necessaria dalla mutazione costante degli umori. Per questo esprime la sua diffidenza relativamente al divenire di questa stessa virtù, in tensione tra la capacità di dominare i desideri del popolo e la capacità di produrre un punto di incontro tra i desideri del popolo e quelli del principe; una tensione che si riflette nella dinamica stessa del procedere della virtù, posto che “avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella” [27]. Di fronte al carattere inevitabilmente poco plastico della regola dell’azione, la cui razionalità si dimostra debitrice delle abitudini, dei costumi e dei modelli di educazione, appare la novità come rottura con ciò che è stabilito. Possiamo, in principio, dire che la novità ha sia una dimensione oggettiva che soggettiva: da un lato, essa è la novità che irrompe nella logica stessa de Il Principe, come pratica politica e pratica teorica; dall’altro, è la novità come desiderio, nel senso del dominio della relazione che si stabilisce grazie alle trasformazioni di un ordine relazionale dato, nella misura in cui “alterando le cose nuove le menti degli uomini”[28]. L’avidità di novità è una passione a cui Machiavelli attribuisce un apparente valore negativo, ma dev’essere letta nei diversi contesti d’enunciazione: il valore negativo attribuito a questa condotta collettiva affonda le proprie radici nell’imperativo della stabilizzazione delle relazioni di forza, a partire dal governo come controllo assoluto del popolo[1]. In questo senso, il desiderio di novità è l’espressione stessa della divisione del desiderio trasformata nei giudizi di bene e male:
“gli uomini sono desiderosi di cose nuove, in tanto che così disiderano il più delle volte novità quegli che stanno bene, come quegli che stanno male; perché, come altra volta si disse ed è il vero, gli uomini si stuccono nel bene, e nel male si affliggano”[30].
Ricorderemo che la stessa opinione era propria di Machiavelli allorché dava inizio al capitolo sulla riforma agraria a Roma, ora ri-significata attraverso il linguaggio delle passioni. Questo ci permette di comprendere la relazione -non l’identificazione- tra il desiderio di novità e la volubilità, come parte del tessuto affettivo che mette in gioco la dinamica dei conflitti e il supposto cambiamento delle relazioni di potere che dipendono dalla sua risoluzione. Per questo, la tensione stessa tra novità e desiderio di novità, mostra il limite della rappresentazione del popolo come una materia informe (volubile) a cui la volontà del principe (o la razionalità della legge) possa dar forma. Si tratta di pensare, inoltre, che la tensione stessa della virtù, che mostra la sua contingenza strutturale e dà luogo al senso più radicale dell’idea di occasione, trova la maggior difficoltà proprio nei momenti in cui prende importanza l’idea più appropriata di opportunità; momenti di somma in-quietudine, in cui gli uomini “che sono impazienti, e non possono lungamente differire una loro passione”[31]. Le passioni che occupano la scena pubblica, che si collettivizzano, esaltano e rendono visibili i conflitti, consentono di realizzare la possibilità del nuovo -a differenza dei momenti di stabilità-, perché incrinano la percezione univoca di un tempo dominato dalla sedimentazione delle pratiche, dei valori e delle istituzioni. Esse inducono altresì ad un duplice inganno: quello che permette al principe di manipolare le rappresentazioni del popolo e di limitare il potere reale della virtù per produrre un incontro tra popolo e principe. Inversamente, per la stessa potenza d’irruzione, ingannano il principe sul suo reale potere, nella misura in cui dal desiderio di novità non segue necessariamente il nuovo, come dal desiderio di non essere dominati non segue necessariamente il desiderio di libertà. La fatticità degli affetti come dimensione costitutiva della vita politica, che pone al centro della riflessione machiavelliana la relazione tra contingenza e conflittualità, può trovarsi già nei suoi primi scritti[32]. Quello che ne Il Principe appare con forza e chiarezza è la relazione tra la virtù ed i desideri; di questo si tratta, di una riflessione sul desiderio secondo la prospettiva della virtù, ben lontana da qualunque preoccupazione antropologica, proprio perché la relazione desiderio-virtù non ha nulla a che vedere con la relazione passione-ragione, così come formulata dal pensiero classico e continuata dall’umanesimo rinascimentale.
VI. Ambizione
I gentiluomini sono “cagione d’ogni scandalo”, perché il conflitto scatena -per la logica stessa delle passioni che abbiamo esposto- effetti destabilizzanti. Machiavelli riconosce due passioni che esprimono le adesioni che si confrontano, caratteristiche della stessa dinamica della lotta; i desideri attribuiti all’”aristocrazia”, come onore, gloria e libertà, sono decodificati a partire da un altro desiderio, che permette di comprendere la sua costituzione: l’ambizione. Seguendo la dinamica della divisione, l’ambizione non si scontra con il suo effetto antagonico, che potrebbe essere la generosità, ma con il proprio contrario: l’odio del popolo che, dal canto suo, non dà luogo all’affetto contrario, l’amore. L’ambizione e l’odio fanno parte della trama affettiva del conflitto tra i grandi e il popolo (escludendo quegli affetti che non sarebbe difficile riconoscere come parte dell’ideologia religiosa, che definisce le virtù cardinali, e che Machiavelli riterrà “abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati”[33]). Come è già risultato evidente, gli affetti non sono proprietà di classe, sociali o naturali; perciò, in differenti contesti, Machiavelli potrà parlare di ambizione dei grandi, del popolo, dei governanti, dei privati, ecc. Rilevante per la politica è, tuttavia, il desiderio che permette di comprendere la dinamica conflittuale ed intervenire in una congiuntura. Nei Discorsi, sviluppa una genealogia di come i popoli perdano la libertà, apparentemente simile alla casistica polibiana delle forme di governo: l’ambizione compare nella descrizione dell’irrompere del potere oligarchico:
“Venuta dipoi questa amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la variazione della fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, alla usurpazione delle donne, feciono che d’uno governo d’ottimati diventassi uno governo di pochi, sanza avere rispetto ad alcuna civilità, talché, in breve tempo, intervenne loro come al tiranno”[34].
Il carattere precipuo dell’ambizione oligarchica si mostra nella propria genesi materiale: dall’acquisizione di beni all’acquisizione di potere. Una genesi che torna ad involucrare, nella costituzione del discorso del potere l’onore e la gloria, definendo un corpo complesso di cui l’avarizia non può rendere conto, se non come indice secondario del desiderio di ricchezze. In questo modo, l’ambizione che sorge da coloro che “non conoscendo la variazione della fortuna, non avendo mai provato il male” -giudizio il cui contenuto di disapprovazione morale non deve confonderci- è la cancellatura di qualunque genesi come genealogia delle lotte per il potere. Il disprezzo per “l’uguaglianza civica” risulta, quindi, un processo più complesso, che non può comprendersi solo ricorrendo alla corrotta natura umana e al desiderio di dominare, proprio di tutti gli uomini. Nel capitolo 5 del libro I, Machiavelli cerca di rispondere alla seguente domanda “Dove più sicuramente si ponga la guardia della libertà, o nel Popolo o ne’ Grandi”[35]: parte di questa risposta dipenderà dalla distinzione tra l’ambizione dei grandi e l’ambizione del popolo. Machiavelli espone entrambe le alternative e si posiziona chiaramente da un lato:
“E sanza dubbio, se si considerrà il fine de’ nobili e degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare ed in questi solo desiderio di non essere dominati, e per conseguente maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno sperare di usurparla che non possono i grandi; talché essendo i popolari preposti a guardia d’una libertà, è ragionevole ne abbiano più cura, e non la potendo occupare loro, non permettino che altri la occupi.”[36]
Sappiamo, tuttavia, che quel “e per conseguente”, congiunti il desiderio di non essere dominati con la volontà di vivere liberi, è retorico, nella misura in cui non c’è alcuna necessità in questo passaggio, né nessuna antropologia che assuma la via ascendente, dal desiderio alla volontà. Machiavelli prende posizione: facendolo, dimostra che questa posizione è pratica, non morale, e pertanto richiede la virtù. Ciò che è più significativo in questo capitolo è che l’analisi dell’ambizione sembra costituire il luogo di una reimpostazione della domanda con cui questo stesso si apre e, con ciò, vi è una ridefinizione del problema:
“Ma per tornare a discorrere quali uomini siano in una republica più nocivi, o quelli che desiderano d’acquistare, o quelli che temono di non perdere l’acquistato”[37].
La distinzione repubblicana tra il desiderio di dominio e il desiderio di libertà richiede più d’una postulazione; la libertà è un problema politico che dipende dalla virtù per intervenire nel conflitto, non una qualità etica. Si tratta quindi di abbandonare l’etica repubblicana per affrontare nuovamente la materialità stessa della conflittualità politica, tornando ad esplorare la sua trama affettiva. Valendosi dell’esposizione dello scontro tra nobili e plebe nell’anno 314 a.C. riportata da Tito Livio, in cui i nobili affermano rumoreggiando che non sono loro a perseguire gli onori per ambizione, ma i plebei, Machiavelli interpreta adeguatamente questa disputa:
“quale sia più ambizioso o quel che vuole mantenere o quel che vuole acquistare; perché facilmente l’uno e l’altro appetito può essere cagione di tumulti grandissimi. Pur nondimeno, il più delle volte sono causati da chi possiede, perché la paura del perdere genera in loro le medesime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare; perché non pare agli uomini possedere sicuramente quello che l’uomo ha, se non si acquista di nuovo dell’altro. E di più vi è, che, possedendo molto, possono con maggiore potenza e maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi è di più, che gli loro scorretti e ambiziosi portamenti accendano, ne’ petti di chi non possiede, voglia di possedere, o per vendicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in quelle ricchezze e in quelli onori che veggono essere male usati dagli altri”[38].
Si potrebbe ricondurre questo capitolo alle tesi antropologiche e sostenere il sillogismo cercando la premessa universale[39], ma saremmo lontani dal comprendere i movimenti argomentativi che Machiavelli svolge qui. E se, da un lato, in un’analitica del desiderio, questo sembra sempre portare a una mancanza ed apportare una negatività, dall’altro, l’analisi genealogica del desiderio è sempre positiva; positività che non può essere moralizzata nella misura in cui, come abbiamo sostenuto, definisce una relazione e non un fine e, quindi, niente garantisce che il suo fine sia la libertà. La domanda di Machiavelli conduce ad esporre una trama affettiva la cui relazione determinante è contingente, nella misura in cui una relazione (un desiderio) non riconduce sempre ad un’altra relazione (altro desiderio), per cui ogni desiderio, in senso stretto, è sempre la composizione determinata di una pluralità di affetti. Se l’ambizione del popolo porta una negatività, che sorge da una dimensione mimetica propria della dinamica affettiva, nel desiderare lo stesso che desiderano i grandi (onori ricchezze e, certamente, l’acquisizione del potere), il desiderio di libertà può o meno prendere consistenza. Ciò che deve risultare chiaro è che l’ambizione del popolo, anche se mimetica, esprime un conflitto che è un’occasione di virtù: da un lato, vivere liberi ed uguali, se il risultato repubblicano si rende possibile e, dall’altro, porre limiti a coloro che attentano alla libertà, dove si delinea l’ancor più complessa relazione tra repubblica e principato. A differenza dell’ambizione dei potenti, che è direttamente desiderio di dominare, l’ambizione del popolo non è necessariamente costitutiva del desiderio di libertà, anche se sì del desiderio di non essere dominati. Il desiderio dei potenti non ha limiti, poiché la paura di perdere ciò che possiedono mantiene permanente il desiderio di avere di più[40]; paura che non parla di una natura infinita della mancanza, ma di un avere che è sempre contingente, risultato di una lotta. E se il suo desiderio è un altro dei termini del conflitto, non lo è come una posizione che permetta un’alterazione, frutto dell’azione in questa congiuntura, ma come sua radicalizzazione. Il desiderio del popolo reca in seno il cambiamento possibile di uno stato di cose, non in modo necessario, ma come opportunità. In ogni caso, non vi è alcuna necessità che governi in modo assoluto il desiderio, né alcun ordine che vi ponga fine.
VII. Odio
La dinamica dell’ambizione contiene questa logica mimetica, rendendo necessaria un’analisi che possa andare oltre l’idea di passione “dei potenti”[41], ma possiede anche affetti che intensificano la conflittualità che esprime. Questa passione propria del popolo è l’odio[42], che Machiavelli considera in tutta la sua complessità oltre cioè ciò che potrebbe essere una ragionevole reazione alla dominazione. Per recuperare quest’analisi, risulta illuminante la tipologia delle passioni che Aristotele stabilisce nella Retorica:
L’ira dunque proviene da atti rivolti contro di noi, l’inimicizia [odio] invece sorge anche senza atti contro di noi; se infatti supponiamo soltanto che una persona sia di tal carattere la odiamo. Inoltre l’ira si rivolge sempre contro individui, ad esempio contro Callia o contro Socrate, invece l’odio sorge anche contro generi: così ognuno odia il ladro e il sicofante. E l’ira è guaribile con il tempo, l’odio invece è incurabile […] il primo vuole solo che l’avversario provi di rimando ciò per cui egli è adirato, il secondo invece vuole che l’avversario non esista”[43].
Il passaggio di Aristotele mette in luce qualcosa che attira l’attenzione sulla genealogia del desiderio, presente negli scritti di Machiavelli: il predominio dell’odio e il silenzio sulla nobile ira[44]. Forse in questa constatazione si rende più comprensibile quella che abbiamo chiamato dimensione collettiva del desiderio. Diversamente dall’ira, l’odio è diretto ad un genere (o classe), non ad un individuo particolare, successivamente ad un danno particolare; e non si placa se non con la “scomparsa” dell’oggetto verso cui è diretto, ragione per la quale il conflitto è costitutivo (insopprimibile) della città. Così, la possibilità di inesistenza di coloro che desiderano dominare è illusoria, come illusoria è la soluzione del conflitto invertendo la posizione di dominanti e dominati (si potrebbe dire di più rispetto alla passione dell’ira, come sentimento indice del silenzio relativo all’idea di giustizia, assumendo la stretta relazione che esiste tra entrambi i concetti nel corso dell’intera tradizione classica, e il modo in cui Machiavelli reintroduce il problema della giustizia a partire da una passione più complessa come la vendetta[45]). Come l’ambizione, anche l’odio può essere compreso come elemento di una trama passionale più complessa: “odiando gli uomini le cose o per timore o per invidia”[46] (nuovamente, una passione sempre rinvia ad altre). Così, l’invidia è una dimensione dell’odio, che lo mostra associato a questa logica mimetica che abbiamo esposto, allorché trattavamo dell’ambizione: l’invidia, desiderare ciò che altri possiedono, mostra come si costruisce questa relazione che modifica il conflitto a partire dalla composizione di molteplici passioni. E la stessa cosa accade con la paura, se pensiamo all’ambizione dei grandi come paura di perdere ciò che possiedono. Ma il vincolo tra l’odio e la paura come passione popolare, ha una propria complessità, che esprime con maggior chiarezza la dimensione attiva e passiva del desiderio (non negativa e positiva). Dal momento che, quando in questo complesso passionale costituito dall’ambizione, l’odio, l’invidia e la paura, quest’ultima passione è la prima rispetto alle altre -per effetto della dinamica che può assumere il conflitto-, dalla divisione segue anche la possibilità più reale della servitù; infatti l’odio rimane incastonato in un timore che conduce all’inattività oppure è catalizzatore dell’istituzione del principato (di un certo tipo di principato). Questa dinamica ci permette di comprendere il momento in cui, ne Il Principe, il popolo appare come una materia passiva. E se, d’altro canto, è solo per la paura dei grandi che il popolo istituisce un principe che lo protegga, è nello stesso momento, in cui il “principe popolare” si istituisce senza produrre un incontro con il popolo, che lo potenzia. Machiavelli ritiene che la paura non sia una passione ulteriore rispetto all’antagonismo, bensì un principio generale per la preservazione del potere e un limite per la produzione del nuovo. Ricordiamo come conclude la nota domanda relativa a se, per il principe, sia più conveniente essere temuto o amato[47]:
“è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno […]; l’amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai.”[48]
Abbiamo già fatto riferimento a questa caratterizzazione all’inizio del nostro lavoro. Ora è opportuno analizzarla nel contesto della domanda che formula Machiavelli in questo capitolo. Potremmo contrapporre questa descrizione che segue il problema così impostato, confrontandola con l’odio all’interno della dinamica che si apre a partire dalla determinazione del desiderio di libertà nei Discorsi: il popolo odia per paura di perdere la libertà[49], per i “danni i popoli e le città ricevino per la servitù”[50], e mette “freno alla eccessiva ambizione e corruttela de’ potenti”[51]. Ma non è questo il contesto de Il Principe. Nemmeno, d’altro canto, è l’affermazione della pura passività del popolo. L’odio del popolo produce degli effetti: “gli uomini [fa riferimento al popolo] cercono di non temere, cominciono a fare temere altrui”[52]. Aristotele ci offre di nuovo una chiave per pensare la dimensione del conflitto espressa da Machiavelli, dato che uno dei motivi della paura è lo stesso scontro radicale, dal momento che la paura è parte: “Anche [degli]antagonisti intorno alle stesse cose, quando non è possibile che entrambi le ottengano; giacché si è sempre in lotta con tali persone”[53]. Lotta permanente, che si trova al cuore di tutti gli scritti machiavelliani. Ma fino a qui arriva la prossimità con i momenti realisti di Aristotele: infatti, la virtù machiavelliana non è deliberativa (“Invece, perché si tema, occorre nutrire qualche speranza di salvezza nel proprio campo di azione. Ed eccone una prova: il timore, cioè, spinge a deliberare, e nessuno delibera intorno a cose senza speranza”[54]) e, per la stessa ragione, perché non esclude la possibilità di un incontro tra il principe e il popolo (“[i ragionamenti sulla virtù] non possono spingere i molti al decoro e alla bontà. Infatti i molti non sono per natura abituati a obbedire per rispetto, bensì per paura, né ad astenersi dalle cose cattive per la loro turpitudine, bensì per le punizioni”[55]). Sono differenti il timore e l’odio rivolti verso il principe da quelli rivolti verso i grandi, come lo sono il timore e l’odio verso le leggi di una città; in ciascun caso, rappresentano trame complesse, i cui affetti, sempre contingenti, impongono esigenze diverse alla virtù, che perciò deve adeguarsi al proprio tempo, intervenire in una congiuntura determinata. La virtù machiavelliana si costituisce nella contingenza di questa complessa relazione, tra la dimensione attiva e passiva del ruolo del popolo e la dimensione conservatrice e trasformatrice del ruolo del principe. E ciò accade poiché, come mostra l’intelaiatura passionale, non vi è alcuna necessità che questa dimensioni si incontrino, né che si incontrino in modo tale da poter produrre una novità.
VIII. La politica del desiderio
Contingenza, conflitto, desiderio e potere sono concetti che formano parte della costellazione più precisa della lettura che Claude Lefort realizza di Machiavelli. In Maquiavelo: la dimensión económica de lo político, concentrando gli argomenti più significativi della sua monumentale Le travail de l’oeuvre. Machiavel, polemizza con l’economicismo marxista trovato in Machiavelli da un pensiero politico sul conflitto e la divisione sociale che rende conto della società, ovvero del potere: di ciò che permette non solo la rappresentazione, ma anche l’unità stessa dell’essere sociale.
“Ciò che interessa al nostro autore non è la natura umana, in se stessa, ma è la divisione di un desiderio che non si forma nello stato sociale[…] Ciò che è sostanziale è la divisione, nella quale si costituiscono due classi antagoniste. Ciò che è essenziale è che queste due classi non occupano una posizione simmetrica. Il desiderio dei grandi punta verso un oggetto: l’altro, e si incarna nei segni che assicurano la sua posizione: ricchezza, rango, prestigio. Il desiderio del popolo, al contrario, parlando rigorosamente, non ha oggetto. E’ l’operazione della negatività […] perché, in quanto popolo, non potrebbe appropriarsi degli emblemi del dominante senza perdere la propria posizione. L’immagine che dirige il desiderio dei Grandi è quella di avere; l’immagine che dirige il desiderio del popolo è quella di essere. La negazione del dominio, dall’oppressione da quest’ultimo, genera come effetto la rappresentazione di un’identità senza riferimenti. Perciò, in tale divisione, la determinazione economica (intesa nel suo senso ristretto) è data con la determinazione politica.”[56]
La divisione non è causata né una natura umana desiderante, né dalla disuguaglianza economica. Non è, quindi, né un comune desiderio, né un oggetto di desiderio, né l’assenza di razionalità del desiderio ciò che causa il conflitto, ma la frattura originaria del soggetto a partire dall’affermazione della negatività: il desiderio di essere a partire dal desiderio di non essere oppressi. È il non essere del popolo ciò che si trova alla base di questa “operazione della negatività” a partire dalla quale emerge la figura del terzo, il principe e la legge (Stato) che, oltre ad intervenire nel conflitto, permettono di parlare di (rappresentare) la divisione di una città, di una società. L’Unità, l’Ordine, è sempre seconda rispetto alla divisione, e il Potere è sempre derivato. Secondo in ordine ontologico è, tuttavia, primo sul piano del discorso: il luogo del Potere, della Legge, del Sapere -la sua trascendenza- è ciò che permette la “costituzione simbolica del sociale”, però è la divisione “ciò che consente di decifrare la sua costituzione”. La divisione in quanto tale non si constata sul piano empirico, là si percepisce solo la dominazione, la disuguaglianza e, in certe occasioni, la lotta, con l’intero spettro passionale ivi implicato. Per Lefort, l’antinomia uguaglianza-disuguaglianza traduce l’opposizione tra monarchia e repubblica: di fronte alla disuguaglianza di fatto, il potere dominante occulta la divisione a partire dall’unità indissolubile del sociale, ma in realtà questa è l’effetto di un’“operazione della negatività”. Così, l’uguaglianza appare come un’“informazione simbolica in virtù della quale si è instaurata un’esperienza singolare del sociale […], l’esperienza sociale come tale, o meglio, che è dire lo stesso, della società politica”. Per Machiavelli, secondo Lefort, la forza del desiderio del popolo è ciò che mantiene “aperta la questione dell’unità dello Stato” e disincorpora l’identificazione del registro simbolico dell’universale con il registro fattuale del dominio di classe. In nessun caso la saturazione del desiderio si realizza, né può realizzarsi, ma è a partire dal suo modo di essere che “appare la negatività di questo desiderio e che esso concorda con la libertà della città, con la Legge […] I Grandi vogliono sempre avere ancora di più; più possiedono e più sono grandi. Il popolo, invece, nel proprio desiderio di non essere oppresso, dominato, fa prova di un’impossibilità radicale, che gli fa desiderare la metafora dell’essere sociale: la Legge -e lo Stato-, in quanto si istituisce nel proprio ambito”. La tesi di Lefort sul “vuoto ontologico” del Potere e la configurazione della costituzione simbolica della Legge a partire da un’”ontologia della contingenza”, eccedono, naturalmente, la questione del desiderio. Ciò che qui ci interessa segnalare, è il modo in cui Lefort capitalizza l’idea negativa del desiderio. Il problema, seguendo la nostra analisi, è che la produttiva tesi, proposta da Lefort, dell’anteriorità della “relazione” ai termini antagonici, finisce per costituirsi in relazione dialettica, dialettica inconclusa, diadica, ma alla fine dialettica: perché il desiderio, nella sua dimensione materiale, continua ad essere pensato come insoddisfazione, e la sua negatività come motore di una produzione simbolica dell’universale che sembra sottrarsi alla pluralità affettiva propria della conflittualità politica. Ha ragione Lefort, seguendo la nostra analisi del conflitto romano tra la plebe e i nobili, quando sostiene che la determinazione economica non definisce il desiderio e la dominazione in quanto tali, ma il problema non si risolve in una dialettica tra il desiderio di avere e il desiderio negativo di essere, come struttura dell’ordine sociale e politico. Il desiderio di non essere dominati è il risultato, sempre contingente, di una trama singolare di relazioni, il cui conflitto non ha un luogo preventivamente determinato. Riducendo il desiderio del popolo a negatività, si evita il problema che abbiamo voluto mostrare: che le lotte comprese a partire dalle passioni si danno nel centro della funzione-principe come della funzione-legge, perché il terzo -sia esso il principe o la legge- ne sono sempre parte. Di qui, la virtù non può essere compresa come legislatrice, nella classica figura del governo degli affetti. Se, come sostiene a ragione Lefort, il desiderio di questo o quell’oggetto non può universalizzarsi se non radicalizzando un antagonismo, aggiungiamo ora noi, il desiderio del popolo non può essere puramente negativo, a rischio di escludere dall’ambito della legge tanto la violenza propria del conflitto, che i desideri che essa esprime (rispetto a ciò, anche in Machiavelli, come succede esplicitamente in Spinoza, la legge non può concepirsi fuori dalla relazione paura-speranza, nel caso del primo pienamente esposta nell’analisi del desiderio di sicurezza[57]). In una lettura completamente opposta a quella di Lefort, Antonio Negri attribuisce a Machiavelli la positività assoluta del desiderio. In Potere costituente, analizza l’idea del “ritorno ai principi” (Discorsi III, 1) considerando esclusivamente il caso romano, cioè, il ritorno ai principi della repubblica. Con ragione commenta che “non è vero che tra l’uomo e il mondo si dà una relazione di conciliazione” […] e che “non esiste circolo che riassuma virtù e fortuna: esiste la possibilità che la virtù occupi il posto della fortuna, e nessuna altra […] Virtù è libertà”, inscrivendo il ritorno ai principi nella logica del conflitto prima che della conciliazione. Scontrandosi con tutta la durezza del libro III, si domanda e risponde:
“Come evitare quindi che l’espressione della virtù sia frantumata? Che sia pervertita o naturalizzata? I capitoli che dovrebbero dare risposta a questa questione sono estremamente ambigui [ soprattutto in rapporto ai capitoli dal 2 al 5 del libro III]. Infatti, la teoria delle passioni è ambigua; non è definizione genealogica, l’insistenza sulla sua capacità di dare origine, ma la sua fenomenologia, la sua descrizione. Così, ogni passione si manifesta come il retto e il verso, e l’esercizio della virtù diventa inumano, mentre la pietas patria diventa crudeltà; quanto alla prudenza, si rivela come repressione o castigo esemplare, mentre la concezione del nemico è totalitaria ed ossessiva. Però questa ambiguità non rivela un’incoerenza, ma rivela piuttosto la difficoltà di un ritorno logico che è un gioco di forze e contro-poteri”[58].
Non possiamo soffermarci qui sulla risposta che lo stesso Negri dà al problema radicato nella teoria delle passioni (che come sappiamo si trova in Spinoza, nel nesso cupiditas-amor[59]), ma vogliamo leggere la sua osservazione come un problema che tocca un nucleo costante della critica machiavelliana. Ovviamente, lo spettro affettivo che attraversa la scrittura di Machiavelli è più ampio di quello che trattiamo qui, anche il desiderio di libertà, l’amor di patria e i più nobili desideri del popolo contrastano con la genealogia delle passioni considerate più distruttive per la città (l’ambizione, l’odio): “E i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà”[60]. Abbiamo scelto di soffermarci su queste passioni per due motivi: in primo luogo, per mostrare una complessità che rende difficile concentrare tutta l’interpretazione del desiderio sulla figura negativa del “desiderio di non essere dominati” (in Lefort, ma soprattutto in Quentin Skinner); in secondo luogo, per evitare di cadere in una quadro di affetti a doppia entrata -da un lato, le passioni della servitù, dall’altro le passioni di libertà-, che risolva il problema politico in una metafisica del desiderio; per mostrare, in conclusione, che tutto l’arco affettivo trattato da Machiavelli pone in gioco entrambe le entrate ed è solo la virtù a poter fare la differenza. Solo la virtù occupa il luogo della fortuna -ha ragione Negri su questo-, però il realismo machiavelliano non fa sì che l’amore occupi il luogo della virtù, perché la virtù è politica, non etica. In questo modo ha senso l’espressione “virtù contro fortuna”, nella misura in cui la virtù non è mai un assoluto dove si risolve o riconcilia la conflittualità del politico. Il momento fenomenologico -continuando con la terminologia proposta da Negri- non si sovrappone al momento genealogico, ma fa, giustamente, della genealogia la possibilità di dare origine al nuovo, senza far ricorso ad un fondamento ontologico che suturi la divisione. Sebbene, in certi momenti, esistano affetti che riescono a determinare la trama, essi esprimono una relazione che non smetterà di essere contingente. La genealogia machiavelliana non contiene in sé la risposta alla possibilità che il l’incontro delle potenze produca il nuovo: l’occasione è il termine che non permette nessun tipo di sostantivazione della virtù di fronte alla fortuna. Conviene insistere qui sul fatto che la complessa trama affettiva che si tesse nelle multiple relazioni interne ai conflitti politici, non è un problema proprio del principato, né di quel popolo che, abituato a vivere sotto un principe, si trova corrotto dalla servitù, né, in generale, lo consideriamo un problema dell’”ambivalenza della moltitudine”[61]. Basta scorrere questo primo capitolo de Il Principe dedicato alle repubbliche per riconoscere quelle che saranno le lotte più drammatiche che attraversano i Discorsi, nei momenti della produzione del comune: “Ma nelle repubbliche è maggiore vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta; né li lascia, né può lasciare riposare la memoria della antiqua libertà: tale che la più sicura via è spegnerle o abitarvi”[62]. Avanzare nella lettura delle differenti filosofie che cercano di restituire al desiderio lo status ontologico -che, a ragione, si contrappongono al linguaggio contemporaneo della pulsione o dei sentimenti, che ci rinvia allo spazio di un’interiorità, privandoci della possibilità di comprendere la dimensione relazionale che possiede il linguaggio espressivo delle passioni- ci obbligherebbe a andare oltre Machiavelli (cominciando dall’incontro Machiavelli-Spinoza). D’altro canto, nel più ampio interesse attuale sulla relazione tra desiderio e politica, senza dubbio segno di un’epoca che lamenta la scomparsa delle passioni collettive che hanno mobilitato le esperienze storiche più radicali della trasformazione rivoluzionaria del mondo, la riflessione machiavelliana potrebbe essere una compagna, come lo fu, in diversi misure, per Merleau-Ponty, Louis Althusser e lo stesso Claude Lefort, i quali, lontani da ogni lamentela, si sono visti interpellare da un pensiero che cerca di comprendere ed intervenire nel presente. Per noi, soffermarci sul modo in cui Machiavelli tratta la questione del desiderio risulta il punto di partenza di una riflessione che -parafrasando Morfino-, fa della ragione lo strumento di conoscenza di una pluralità di relazioni che si intrecciano in ogni presente (la cui omogeneità è sempre immaginaria); relazioni che misurano il ritmo dell’intreccio dei corpi, delle passioni, delle idee, delle illusioni, delle pratiche, dei conflitti, della cui sostanza è fatta ogni congiuntura storico-politica. La ragione, lungi dall’essere luogo di annullamento di ogni trama affettiva, è, per questo, una sorta di archeologia del presente, quel “andare drieto alla verità effettuale della cosa” che apre all’intervento nella congiuntura.[63]
*Traduzione di Marta Libertà De Bastiani
[1] È pertinente qui menzionare l’importante lavoro di Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità, Feltrinelli Editore, Milano, 1991. Particolarmente illustrativa risulta l’Introduzione di Silvia Vegetti Finzi al suo libro Storia delle passioni, Laterza, Roma, 1995.
[2] Cfr. Judith Butler, Soggetti di desiderio, Laterza, Roma, 2009.
[3] In questo lavoro lasceremo intenzionalmente da parte la prospettiva “medica” sulle passioni. Un’interessante analisi è Mairie Gaille-Nikodimov, Conflit civil et liberté. La politique machiavélienne entre histoire et médicine, Honoré Champion, Paris, 2004.
[4] Niccolò Machiavelli, De Principatibus, Trillas, México, D.F., 1999, XVII, p. 239, (edizione bilingue a cura di E. Artega Nava e L. Trigueros Gaisman).
[5] Ibid., VI, p. 107.
[6] Cfr. Albert O. Hirchman, Las pasiones y los intereses, Fondo de Cultura Económica, México, D.F., 1978.
[7] Cfr. Quentin Skinner, Maquiavelo, Alianza, Madrid, 1995, pp. 38, 49-52.
[8] Rispetto al concetto di “relazione” seguiamo sempre Vittorio Morfino, “Ontologia della relazione e materialismo della contingenza”, in Oltrecorrente, nº 6, 2002.
[9] Niccolò Machiavelli, Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, a cura di G. Inglese, BUR, Milano, 2008, I, 27, p. 121. Anche “gli uomini non sanno essere onorevolmente cattivi o perfettamente buoni” (ivi., p. 122).
[10] Niccolò Machiavelli, , De Principatibus, cit., IX, pp. 161-163.
[11] Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, Proemio, in Istorie fiorentine e altre opere storiche e politiche, a cura di Alessandro Montevecchi, UTET, Torino, 2007, p. 281.
[12] Ivi, III, 1, p. 412.
[13] Ivi, III, 12, p. 434.
[14] Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit. I, 4, p. 70.
[15] Ivi, p. 71.
[16] Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit., I, 39, p. 145. In questo passaggio Machiavelli parla di desideri e umori ma, oltre le possibili fonti dei termini, non ci sembra d’individuare una differenza sostanziale nell’uso che ne fa.
[17] Ivi, I, 37, p. 139-140. Anche, “Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insaziabili perché, avendo dalla natura di potere e volere desiderare ogni cosa e dalla fortuna di potere conseguitarne poche, ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane ed uno fastidio delle cose che si posseggono”, Ibid., II, Proemio, p. 291.
[18] Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit., III, 46, p. 569. In questo passaggio, Machiavelli compie lo stesso percorso che nei passaggi precedentemente segnalati: muove dall’esame dei popoli all’esame degli individui.
[19] Secondo l’esposizione di Machiavelli la riforma agraria aveva “due capi principali. Per l’uno si disponeva che non si potesse possedere per alcuno cittadino più che tanti iugeri di terra; per l’altro, che i campi di che si privavano i nimici, si dividessono intra il popolo romano” (Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit., I, 37, pp. 139-140). Lo “iugero” è un’unità di misura dei terreni coltivabili determinata dalla quantità di terra che si può arare in un giorno.
[20] Ivi, p. 140.
[21] Ivi, p. 142.
[22] Ivi, p. 139.
[23] Ivi, pp. 141-142.
[24] Ivi, p. 142.
[25] Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit, III, 27, p. 534. Conviene insistere, a costo di essere ridondanti, sul senso che acquisisce qui l’“inclinazione naturale”: l’inclinazione sorge in seno alla lotta, pertanto, denomina semplicemente una passione nella misura in cui l’individuo o gli individui rimangono in qualche modo vincolati a ciò che appare come conflittuale; il conflitto, infatti, e con questo la scissione in “parti” che ne deriva, è ciò che determina il tipo specifico di passione che sorge (odio, invidia, ambizione, ecc.). Secondo l’interpretazione “hobbesiana” delle passioni, è la presenza di una passione, costante nella natura umana, a provocare il conflitto nel momento in cui non può essere soddisfatta.
[26] Idem, De Principatibus, cit., XXV, p. 329. Anche avere “uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandono” (Ivi, XVIII, p. 251).
[27] Ivi, XXV, p. 331. Anche: “un uomo che sia consueto a procedere in uno modo, non si muta mai, come è detto; e conviene di necessità che, quando e’ si mutano i tempi disformi a quel suo modo, che rovini” (Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit., III, 9, p. 496).
[28] Idem, Discorsi, cit. I, 25, p.120.
[29] “Ma nel principato nuovo consistono le difficultà. […] le variazioni sua nascono in prima da una naturale difficultà, la quale è in tutti e’ principati nuovi: le quali sono che li uomini mutano volentieri signore, credendo migliorare; e questa credenza gli fa pigliare l’arme contro a quello” (Niccolò Machiavelli, De Principatibus, cit., III, p. 59).
[30] Idem, Discorsi, cit., III, 21, p. 521.
[31] Ivi, III, 8, p. 494.
[32] L’unità tematica che si dà tra la storia, le condotte, le passioni e i rapporti di dominio si può apprezzare in un passaggio di un rapporto alla Cancelleria del 1503: “Io ho sentito dire che le istorie sono la maestra delle actioni nostre, et maxime de’ principi, et il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avute sempre le medexime passioni; et sempre fu chi serve et chi comanda, et chi serve malvolentieri et chi serve volentieri, et chi si ribella et è ripreso” (Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, in Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine e altre opere storiche e politiche, cit., p. 93).
[33] Idem, Discorsi, cit. II, 2, p. 299.
[34] Idem, Discorsi, cit., I, 2, pp. 66-67. La passione dell’ambizione appare molto volte insieme ad un altro blocco passionale che fa parte delle disposizioni che definiscono il modo specifico in cui si dà la prima, o che spiega da quali disposizioni precedenti essa nasca, così l’ambizione molte volte apparirà insieme all’”avarizia” (come nel presente passaggio), altre insieme all’“invidia”.
[35] Ivi, I, 5, p. 72.
[36] Ivi, p. 73. Successivamente sostiene: “coloro che mettono la guardia in mano di potenti fanno due opere buone: l’una che ei satisfanno più all’ambizione loro e, avendo più parte nella republica per avere questo bastone in mano, hanno cagione di contentarsi più; l’altra che lievono una qualità di autorità dagli animi inquieti della plebe, che è cagione d’infinite dissensioni e scandoli in una republica, e atta a ridurre la Nobilità a qualche disperazione che col tempo faccia cattivi effetti”.
[37] Ivi, p. 74.
[38] Ivi, pp. 74-75.
[39] “La natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa”, (Idem, Discorsi, cit., I, 29, p. 125).
[40] “Perché qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto potente ne’ petti umani che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona” (Idem, Discorsi, cit., I, 37, p. 139). Il carattere illimitato dei desideri umani corrisponde immediatamente al carattere altrettanto illimitato dell’ambizione dei potenti, diversamente dai desideri del popolo.
[41] Cfr. Quentin Skinner, “Acerca de la Justicia, el Bien Común y la prioridad de la Libertad”, in Agora. Cuadernos de Estudios Políticos, 2, n. 4, verano de 1996, pp. 103-115; “La idea de libertad negativa: perspectivas filosóficas e históricas”, in Richard Rorty, Jerome.B. Schneewind y Quentin Skinner (a cura di.), La Filosofía en la Historia, Paidos, Barcelona 1990, pp. 227-259.
[42] “Quell’altro per sua ambizione aveva fatto il tale ed il tale inconveniente. Di che ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio: donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle sètte, dalle sètte alla rovina” (Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit., I, 8, p. 84).
[43] Aristóteles, Retórica, Gredos, Madrid, 2000, 1382a-15, pp. 199-200 (il corsivo è nostro); anche Idem, Política, VIII, 10, 1312b25ss, pp. 216-217.
[44] A differenza dell’odio, l’ira non è praticamente menzionata nei testi di Machiavelli, il che è un dato significativo se pensato in relazione al posto che occupa l’ira nel pensiero classico e rinascimentale. Cfr. Mario Vegetti, “Pasiones antiguas: el yo colérico”, in Silvia Vegetti Finzi (a cura di), Historia de las pasiones, Losada, Buenos Aires, 1998. A proposito della valorizzazione della passione dell’ira in Bruni e Landino, si veda Hans Baron, “Las nuevas formas de pensamiento histórico y psicológico”, in En busca del humanismo cívico florentino, Fondo de Cultura Económica, México, D.F., 1993, cap. II, pp. 32-33.
[45] Relativamente a ciò, ci permettiamo di rinviare al nostro “ ‘Mirarse a la cara’: venganza, memoria y justicia, entre Hobbes y Spinoza”,in Revista Anacronismo e irrupción, vol. 2, n. 2, 2012. http://revistasiigg.sociales.uba.ar/index.php/anacronismo/issue
[46] Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit. II, Proemio, p. 289.
[47] Questa domanda deve essere letta alla luce dell’opposizione che realizza Aristotele nella propria tipologia delle passioni, in cui l’amore si oppone all’odio, nel momento in cui per Machiavelli il timore o paura formano parte della passione dell’odio. Cfr. Aristóteles, Retórica, cit., II, 4, pp. 193-200.
[48] Niccolò Machiavelli, De Principatibus, XVII, pp. 239-241. E’ importante notare che l’arte del principe si radica nell’essere temuto senza giungere ad essere odiato posto che, come afferma Machiavelli nei Discorsi: “quel principe o quella republica che ha paura de’ sudditi suoi e della rebellione loro, prima conviene che tale paura nasca da odio che abbiano i suoi sudditi seco; l’odio, da’ mali suoi portamenti; i mali portamenti nascono o da potere credere tenergli con forza, o da poca prudenza di chi gli governa: ed una delle cose che fa credere potergli forzare, è l’avere loro addosso le fortezze” (Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit., II, 24, p. 358-359).
[49] “La Toscana era libera; e tanto si godeva della sua libertà e tanto odiava il nome del principe” (Idem, Discorsi, cit., II, 2, p. 296).
[50] Ibidem.
[51] Idem, Discorsi, cit., I, 55, p.175.
[52] Ivi, I, 46, p. 157.
[53] Aristóteles, Retórica, cit., 1382b10, p. 202-203.
[54] Ivi, 1383a5, p. 204.
[55] Aristóteles, Etica Nicomáquea, 1179b, p. 285.Vi è, in Aristotele, un tentativo di conciliare la ragione con le passioni, tentativo che si rende evidente in espressioni come orexis dianoetike (desiderio razionale) e nous orektikon (pensiero desiderante), ma ciò non modifica la sua idea sulla costitutiva passionalità dell’animale “popolo”.
[56] Claude Lefort, “Maquiavelo: la dimensión económica de lo político”, in Las formas de la historia, Fondo de Cultura Económica, México, D.F., 1988, p. 116. Il passaggio citato continua così: “Ed è solamente osservandolo, misurando la lacerazione del desiderio, che possiamo apprezzare la posizione del Potere: qualla di un terzo, separato dagli antagonisti, nel quale si congiungono fantasiosamente la dominazione-oppressione e l’identificazione sociale, nel quale si vanno a condensare avere ed essere”. Questo è un testo del 1974, presentato in un convegno a Toronto, due anni dopo aver pubblicato il suo monumentale Le travail de l’oeuvre Machiavel (1972), e apparso per la prima volta in Les formes de l’histoire (1978). Comprendiamo che questa è la chiave fondamentale del lavoro di Lefort e del suo principale contributo alle letture machiavelliane; su questo punto rinviamo a Le travail de l’oeuvre Machiavel, Gallimard, Paris, 1986, II, 2 y 3, pp. 467-531.
[57] Rimandiamo al nostro “Machiavelli y Spinoza: entre securitas y libertas”, in Revista Conatus. Filosofía de Spinoza, Vol. 1, n.1, 2007. Edición digital, www.benedictusdespinoza.por.br.
[58] Antonio Negri, El poder constituyente. Ensayo sobre las alternativas de la modernidad, Libertarias-Prodhufi, Madrid, 1994, II. 2, pp. 107-108. Proponiamo un’altra analisi in“Machiavelli e il «ritorno ai principi»”, in Riccardo Caporali, Vittorio Morfino e Stefano Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto, Mimesis, Milano, 2012.
[59] Facciamo principalmente riferimento a “Reliqua desiderantur. Conjetura para una definición del concepto de democracia en el último Spinoza”, in Antonio Negri, Spinoza subversivo, Akal, Madrid, 2000, dove l’autore sostiene, a partire dal concetto della pietas, che “la potenza costitutiva dei soggetti è etica” (p. 79). Più in generale si vedano le sue riflessioni in Antonio Negri, Spinoza e noi, Mimesis, Milano, 2012.
[60] Niccolò Machiavelli, Discorsi, cit., I, 4, p. 72.
[61] Cfr. Paolo Virno, Grammatica della moltitudine, Rubbettino, Catanzaro, 2001. Riconosciamo le fondamentali osservazioni di Virno relativamente a questo aspetto, ma ce ne distanziamo in merito alla questione antropologica così come egli la sviluppa.
[62] Niccolò Machiavelli, De Principatibus, cit., V, p.98
[63] Parafrasiamo con qualche modifica un passaggio del suo Spinoza e il non contemporaneo, Ombro Corte, Verona, 2009, pp. 12-13. La relazione tra l’idea di “temporalità plurale” e l’analisi delle passioni guida gran parte del nostro Vida y tiempo de la república. Contingencia y conflicto político en Maquiavelo, Universidad Nacional de General Sarmiento-Universidad Nacional de Córdoba, Los Polvorines, 2013.