La luce minima. A partire da due poesie di P. Celan

Mario Pezzella

 

cultura-del-arte-paul-kleeIn due poesie – una in Filamenti di sole, una nella Rosa di nessuno – Celan si riferisce esplicitamente a Freud e alla sua opera. Francoforte, settembre inizia con il ricordo di una parete divisoria, che Celan aveva visto nel corso di una visita alla Fiera del libro di Francoforte; su di essa, un grande ritratto reticolato di Freud: “Cieca parete, con barba in luce”. E’ quasi il titolo di un quadro, e in effetti alcuni particolari ritornano in una poesia dedicata da Celan a un’opera di Rembrandt[1]. L’immagine sembra elevarsi autorevole come una barriera, un taglio, una cesura: è un impedimento, un ostacolo; ma perché cieca? E in che senso la barba di Freud è luminosa o lucente?

Nella poesia Tubinga, gennaio la “barba lucente”(Lichtbart) è quella dei patriarchi; però questo segnale di elezione –se così possiamo chiamarlo-, in tutta la sua sacralità, è oggi decaduto nel ridicolo e nella deformazione: “Venisse al mondo oggi un uomo/con la barba di luce dei patriarchi: potrebbe/se parlasse di questo/tempo/potrebbe solo/balbettare e balbettare/conti- e conti-/nuamente”(380). Con qualche ironia, Freud appare nell’immagine francofortese con una barba illuminata come quella di un patriarca o come quella dell’ebreo ritratto da Rembrandt; egli -Abramo o Giacobbe “di questo tempo”- fa quel che può, e del resto non è affatto inutile: interpreta residui, spostamenti, condensazioni e sogni contorti. Non ha la parola piena, rivelatoria, salvifica dei veri patriarchi: ma interpreta le balbettanti incongruenze dell’inconscio e della follia, dove si è ritratta l’Alterità, che una volta si esprimeva nei simboli e nelle parole del Sacro. La luce che illumina la barba del moderno patriarca coesiste però con la cecità attribuita alla sua immagine, un attributo che in modo ambivalente può significare veggenza interiore o insuperabile limitazione: può rinviare ad Omero o ad Edipo.

In Tubinga, gennaio, leggiamo ancora questi versi: “A cecità con-/vinti occhi”: l’accecamento o piuttosto l’abbagliamento che li colpisce è qui riferito a un passo della poesia di Hölderlin Il Reno, citato da Celan: “Un enigma è ciò che puro scaturisce”, ed evoca la follia conclamata del poeta, ricoverato nella torre di Tubinga: in quegli occhi c’è “il ricordo delle/torri ondeggianti di Hölderlin,/tra sfreccianti gabbiani”(380). Affidiamoci alla corrente del Reno, allontanandoci per il momento dalla barba di Freud: si tratta di capire il nesso follia-Hölderlin-cecità, con cui Celan vuole consegnarci una chiave cifrata della sua condizione.

Il verso citato da Celan è il 46esimo del Reno, e lo svolgimento, che conduce alla affermazione gnomica sull’enigma, inizia nella strofa precedente con un riferimento alla cecità: si tratta dell’accecamento psichico e morale, che minaccia metaforicamente il giovane fiume, se non rispetta misura, se travolge ogni limite e pieno di aorgica e distruttiva potenza incorre nella hybris di chi pretende la libertà assoluta e il divenire Dio. Per quanto affascinante sia questo impeto assoluto, Hölderlin contrappone ad esso la necessità e il destino. Sono i due poli tra cui il Reno cerca il suo equilibrio e la sua strada: “E’ irragionevole il desiderio di fronte al destino./I più ciechi/sono i figli di déi”[2]. Chi è più vicino al divino, che qui è la stessa aorgica intensità della natura, rischia maggiormente di farsi affascinare e inflazionare da un’immagine di potenza superumana, che sia egli un poeta o un eroe o un genio. In effetti il “figlio di dèi” è anche un migrante sradicato: “L’uomo conosce/ la sua casa e all’animale fu dato/dove costruirla”, mentre lui soffre di una mancanza fondamentale che lo spinge ad errare (Fehl), a non saper dove andare, con la sua “anima inesperta”.

Come è ovvio, questi temi: esilio, migrazione, mancanza, assenza di casa e di luogo e di patria, dovevano colpire profondamente l’altro poeta, Celan, il lettore in questo caso. Come pure il riferimento al linguaggio, che segue immediatamente il verso citato sull’ “enigma”: il canto “solo appena può svelarlo”. Non dunque la parola piena dei patriarchi compare qui, ma una parola franta, incerta di verità, anche se ineludibile. Questo passo si chiude con un nuovo richiamo al destino, che in questo caso assume figura di necessità astrale, “il raggio di luce che incontra il nuovo nato”, e che determinerà quasi per intero la sua vita. In questo quasi sta però intero il significato del Reno. Non si tratta di abbandonarsi all’ebbra libertà pulsionale dell’aorgico; non si tratta di costringersi totalmente nei limiti inalterabili del destino e della legge astrale; si cercherà una parola che congiunga ebbrezza e misura, che ci consenta lo “scarto minimo” di cui  parlava Sartre, per cui le situazioni di partenza ci determinano, ma ci distingue singolarmente ciò che riusciamo a fare di esse.

Nella seconda strofa di Francoforte, settembre, la fronte di Freud appare come un reticolo di lamenti, presumibilmente provenienti dalle oscurità dell’Acheronte, in cui egli, come lo stesso Celan, ha osato inoltrarsi. E’ da lì che proviene il pericolo di sentirsi accecati, da lì agiscono le potenze inquietanti che possono prendere possesso dell’Io e inflazionarlo fino alle soglie dell’autodistruzione. Ad esse si allude nel terzo e quarto verso: la luce che illumina la barba freudiana e paradossalmente può portare al rischio dell’accecamento, proviene da “un sogno di maggiolini”. Si allude qui concisamente ad alcune pagine di Freud nell’Interpretazione dei sogni, dedicate al sogno di una paziente in cui emerge un fondo di violenza e di aggressività perturbante: uno degli annunci più espliciti e sinistri di ciò che Freud chiamerà successivamente pulsione di morte. Il contenuto del sogno rivela una dirompente sessualità sado-masochista. L’elemento masochistico emerge per primo: ai maggiolini vengono strappate le ali e questa crudeltà rinvia la paziente al suo infelice matrimonio che giudica come una infelice prigione, una violenza –potremmo dire- che le tarpa le ali della vita (la paziente è del resto nata a maggio e il suo matrimonio ha avuto luogo nel mese di maggio).

Questa identificazione vittimaria e masochista si accompagna però o si rovescia in una inaudita fantasia di violenza sadica nei confronti del marito (forse impotente nella realtà): tenendo conto –dice Freud- che la cantaride (noto afrodisiaco) si prepara schiacciando insetti, questa associazione fa da ponte alla voce imperativa da cui la paziente è atterrita e che emerge dal suo inconscio: “Impiccati”, rivolta a suo marito. La frase in cui Freud descrive questa non troppo amorosa invocazione rivela uno dei gironi più oscuri da lui visitati nella sua discesa acherontea: “Si scoprì che poche ore prima aveva letto… che quando un uomo viene impiccato ha una forte erezione…”Impiccati” equivaleva a ‘abbi un’erezione a qualunque costo’ “[3], o crepa, potremmo aggiungere.

Nell’ultima poesia di Celan la figura della Mantide che gode uccidendo il maschio appare frequentemente. Si può pensare che la luce portata da Freud in queste oscurità abbia il coraggio di non arretrare di fronte a questi abissi del desiderio e di sottrarli all’inconsapevolezza. Il poeta che si era identificato con la figura beatifica e salvifica della Madre, patisce il rovesciarsi della sua imago in strega infera e distruttiva, sicché l’eros rischia di capovolgersi in fusione di morte.

Questa oscura implicazione di eros e morte è la luce che Freud ha osato sostenere o ha rivelato ad altri, a Celan stesso?

Rileggiamo alcuni passi del Reno  di Hölderlin, che sembra accompagnare sotto traccia la poesia di Celan. Il trauma è prodotto da chi “ha corrotto i vincoli d’amore e ha fatto di essi dei lacci”. L’amore, invece di essere riconoscimento di due differenze, si corrompe divenendo fusionale, mimetico, speculare; laccio mortale, perchè un simile narcisismo assoluto diviene “arrogante”, supera i limiti dell’umano, pretende il più che umano: “Agli déi cercarono di farsi simili”[4]. Di questa hybris le conseguenze sono dette poco più oltre: il verdetto degli dèi “è che la sua casa/ distrugga e il più caro/come nemico insulti e padre e figlio/tra macerie sotterri,/se alcuno, come loro, voglia essere e non/sopportare disparità, l’esaltato”[5]. Versi che devono aver colpito Celan, che la sua casa stava distruggendo[6], e che si riferiscono alla follia di Eracle. Il compito sovrumano è liminare allo smarrimento dell’umano. In Hölderlin a questo esito si oppone la lingua poetica e dionisiaca di Rousseau, capace di con-misurare l’umano e il divino, l’eccesso oltre i limiti troppo angusti dell’esserci e la capacità di tradurre il nuovo e gli inizi in linguaggio, nell’intepretazione del poeta: questa lingua è “divinamente folle”, oppone la sua sapienza, che sa confrontarsi con la “mania” traendone ispirazione, ritornando da essa al mortale, senza rimanerne travolta, senza sacralizzare o mitizzare il proprio essere vittima, come accade all’inconscia pulsione distruttiva degli “arroganti”, non-divinamente folli.

La sottile linea d’orizzonte del linguaggio separa così il giorno, “quando febbrile e incatenato appare ciò che vive”, e la notte “quando tutto si mischia/senz’ordine e torna/il caos primordiale”[7].

Celan ha un linguaggio infinitamente più minuto di quello di Hölderlin per confrontarsi con la propria condizione tragica, però, nonostante tutto, lo tiene fermo fino all’ultimo. E’ la voce esilissima di Kafka, voce di una “similcornacchia”, voce ridotta a un’occlusiva laringale, a un sordo fischio gutturale come quello di Josephine, la misteriosa cantante del popolo dei topi (allegoria del popolo ebraico): “L’occlusiva laringale canta”. Non si capisce neanche bene il fascino del suo canto, che è in realtà un fischio banale, come quello di altri, sembrerebbe. Anzi è più debole, “può darsi che non abbia nemmeno la forza per il solito fischio”[8], di cui è capace anche un umile operaio. E tuttavia un silenzio quasi sacro accompagna Josephine quando si ode il suo canto; forse si intuisce che ha dedicato ad esso ogni energia, che per il resto si è spogliata di tutto, forse è questa estrema e radicale essenzialità che dà fascino al suo inno dimesso, più che la sua qualità intrinseca: la sua dedizione. D’altra parte questa unica voce consola quando la situazione storica e politica si fa disperata: non c’è più la parola dei profeti, non c’è più il canto dei poeti e nemmeno gli eroi a cui lo dedicavano, solo l’esserci-ancora-appena del fischio di Josephine: “Se proprio esso non vince la sventura, ci dà per lo meno la forza di sopportarla”[9]. A questo compito minimo ma decisivo si consegna anche l’ultima poesia di Celan.

Più che un canto vero e proprio, quello di Josephine è un “nulla di voce”(Nichts an Stimme), un “nulla di effetto”(Nichts an Leistung); eppure questo richiamo ai limiti del nulla, proprio perché non maschera ma dichiara la propria debolezza, “giunge ai singoli quasi come il messaggio del popolo”, “quasi pari alla misera esistenza della nostra gente in mezzo al tumulto del mondo ostile”[10]. Un “vero artista di canto” –aggiunge Kafka- sarebbe in questi momenti inappropriato e ridicolo. La tragedia e il trauma non possono essere detti “in tono magniloquente”, “ma con voce lieve, bisbigliante, confidenziale, talvolta un po’ rauca”[11]. Da tutto ciò Josephine può ricevere il perdono per la sua vita, altrimenti giudicabile vana e avventata: “Se ne potrebbe dedurre che sta quasi fuori della legge, che può fare ciò che vuole e tutto le viene perdonato”. E’ un canto ridotto quasi a un sibilo animalesco e primordiale, eppure è anche l’ultimo segno sacro che ci sia rimasto.

A questo bisbiglio Celan affida la sua poesia e la sua vita.

Un riferimento esplicito al Freud di Al di là del principio del piacere e alla pulsione di morte, teorizzata in quest’opera, si trova nella poesia Auch keinerlei(862). Il preconscio situato in in un problematico strato intermedio tra la coscienza e l’Es è aggredito dalle “pulsioni viperine”, che provengono dalla profondità del trauma. Ferita non assorbita e non integrata nell’ordine simbolico, il trauma tende a ripetersi in allucinazioni e sintomi per emergere alla soglia della coscienza. Il “grigio-su-grigio della sostanza” esprime il carattere monotono sempre-uguale, della ripetizione: la conservazione del trauma in “vesciche di memoria” non giunge a buon fine, le pulsioni velenose si avviano sì a questo destino, ma l’immagazzinamento non riesce, restiamo a metà, in un mezzo dolore (Halbschmerz) e in un mezzo piacere (Halblust), e comunque a mezzavia (unterwegs). Questa ripetizione non lascia “traccia duratura”, non costituisce una vera memoria. Però siamo continuamente “mossi e occupati” da essa, assorti, distolti dalla vita, non ci è concessa la pace di cui parla il secondo verso.

Quale pace? Forse la quiete della morte a cui sembra rivolgersi la pulsione freudiana? In realtà nella poesia di Celan c’è la stessa ambivalenza che ritroviamo nel testo di Freud. Nella seconda parte di esso c’è senza dubbio una versione mitica della pulsione di morte e della coazione a ripetere, ritorno all’immobilità e al grembo primordiale della natura, mito che rinvia alla fantasia tristanica di dissolvimento e fusione nel grembo materno: “Allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte, e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi”[12]. La ripetizione è qui il destino mitico di ogni vivente, mistica fusione nel nulla.

Nella prima parte del libro, in una visione che non è facile porre d’accordo con questa, la coazione a ripetere sorge invece proprio per impedire che il dissolvimento abbia luogo: il trauma si ripete nell’immagine, perché la coscienza abbia la capacità di “pararlo” e così attenuarne la portata distruttiva: si tratta di una simbolizzazione del trauma, che altrimenti agisce come potenza infera e viperina, si presenta come “reale”, violenza che non ha ricevuto sublimazione simbolica. La ripetizione è allora funzione della memoria: “Penso che il concetto di trauma implichi quest’idea di una breccia inferta nella barriera protettiva, che di norma respinge efficacemente gli stimoli dannosi”[13]; questi sogni “cercano di padroneggiare gli stimoli retrospettivamente, sviluppando quell’angoscia la cui mancanza era stata la causa della nevrosi traumatica”[14]. In quest’ultima visione, la pulsione di morte può assumere il sopravvento in forma mitica proprio perché l’ordine simbolico non ha potuto costituirsi o è stato distrutto dall’evento traumatico e allora la Cosa –di cui parla Lacan- o la Madre dissolvente- acquistano un predominio unilaterale.

L’ultima poesia di Celan oscilla tra l’aspirazione mitica a dissolversi nel tutto, come l’Empedocle di Hölderlin, desiderio che è anche un ricongiungersi alla Madre morta nella Shoa, e il tentativo di esprimere simbolicamente il trauma, di non cedere al silenzio. Questa ambivalenza  -in realtà una scissione tra intenzioni opposte (non è così anche in Freud? Le due parti di Al di là del principio del piacere possono davvero essere accordate?)- si traduce drammaticamente nel continuo affiorare, dalla figura materna e femminile delle ultime poesie, di un tratto minaccioso e sadico-aggressivo.

Se –come hanno affermato Lacan e M. Klein- l’ordine simbolico può circoscrivere o contenere il desiderio dissolutivo dell’origine materna e il fantasma del corpo in frammenti, il trauma storico –abbattendo ogni riparo simbolico dell’individuo e della comunità, come è avvenuto nella Shoah- riconduce l’individuo alla sua condizione arcaica e primaria e fa sì che il suo impulso regressivo diventi illimitato. Il trauma storico agisce in tal modo come riproposizione di quello arcaico, riconduce alla nuda vita indifesa, abolisce anzi paradossalmente la cultura stessa, a cui l’individuo era aggrappato, e che costituiva la sua griglia simbolica di interpretazione del mondo. Gli effetti di questa precarizzazione dell’ordine simbolico sono così forti, che l’effetto disorientante può manifestarsi anche a distanza di molti anni, quando lo choc iniziale può sembrare assorbito o dimenticato (così è accaduto nelle biografie di Celan o di P.Levi).

Questi effetti del trauma non sono mai così forti, come quando esso è non è ri-preso dalla memoria e allora si ripresenta nel reale in forma allucinatoria o di aggressività distruttiva (l’oppresso può trasformarsi in persecutore o soccombere a una nuova volontà di sterminio). La ripetizione investe il rapporto vittima-carnefice, che estremizza in modo intollerabile quello servo-signore. Il trauma storico può anche presentarsi come crollo di un ordine simbolico preesistente, in cui crepe lungamente scavate si dilatano poi improvvisamente nel vuoto. Prima che si ricostituisca un nuovo linguaggio –se pure è possibile- l’individuo si trova ri-esposto al suo disorientamento primordiale, senza altro ricorso che la sua singolarità provvisoria. Il crollo di un ordine simbolico ha sempre qualcosa di implosivo, una miccia interna: è la sua contraddizione intima, divenuta scissione tra parti incompatibili, che lo predispone all’invasione e allo choc proveniente dall’esterno. Comprendere e avere memoria di questa distruttività interiore è altrettanto importante che comprendere le forze esterne che hanno determinato il disfacimento.

In quanto è fondato su una relazione di potere, ogni ordine simbolico nasce da una dissimetria interna, prima occultata o attenuata dalla sua apparente e proclamata universalità, e poi sempre più intensa e incontrollabile. Se la scissione non viene riconosciuta e non prende vita un nuovo patto sociale, il vecchio regime subisce l’impatto dissolutivo della contraddizione. Il trauma della morte di un mondo, che così si afferma, può anche non essere puntuale e intensivo, può dilatarsi nella durata di una vita disperata: di questo tenore era l’inferno storico, contemplato dall’Angelo delle tesi Sul concetto di storia  di W. Benjamin.

Nel trauma la forza storica del negativo, invece di essere padroneggiata e dar vita a un nuovo essere in comune, si afferma come negazione assoluta e cioè come guerra e pulsione di morte; invece di esprimere la critica dell’ordine esistente, si pone come muta brutalità del reale. Il pensiero critico e la negazione assoluta si oppongono come il principio che trascende la situazione esistente –e la vocazione al male radicale e alla morte.

Il rapporto tra la singolarità di ognuno e l’ordine simbolico, ma anche tra di essa e la fine di questo stesso ordine, è un esistenziale storico: esso indica gli estremi della situazione in cui il soggetto si trova suo malgrado ad essere, e insieme lo scarto minimo e decisivo con cui può trascenderne la fatalità.

 

Più che alla memoria del trauma collettivo della Shoah e al legame con la madre, nelle ultime raccolte di versi la lingua di Celan si rivolge al qui e ora del presente, si fa memoria micrologica dell’attimo. Si tratta di sottrarre all’insignificanza lo scorrere di un presente, di una cronaca, che sfugge via come un nudo reale, in cui affiorano segni inquieti di desolazione. Numerose sono le poesie dell’ultimo Celan che si ispirano direttamente a fatti del giorno, notizie tratte dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, avvenimenti politici, scientifici, personali. Celan pretende memoria di ciò che è assolutamente singolare e contingente, presente nell’imminenza del nulla.

A questo materiale applica il Solve et coagula, annunciato come metodo alchemico della poesia fin da Atemwende. Il materiale cronachistico viene sottoposto a nigredo, scomposto nelle sue componenti elementari, in frammenti che esplodono dal senso banalizzato e consacrato, infrangono la maschera spettacolare della chiacchiera (“Puttanesco altrimenti. E l’eternità/negra di sangue, soffocata di chiacchiere”(1111); poi viene rimontato, coagulato, attraverso un montaggio compositivo, che rinvia al multiversum di possibili che in quell’attimo coesistevano, inespressi. Il montaggio dei possibili divelti dall’attimo si contrappone all’univocità banalizzata del senso spettacolare.

Celan compie una gigantesca opera di détournement. La salvezza ora consiste nel ridestare la memoria dei possibili compresenti nell’attimo, nella radicale contingenza fuggevole, dove si anima e svanisce l’angelo effimero citato dal saggio di Benjamin su Kraus: “Sfigurato-un angelo, ancora una volta, smette-/un volto torna in sé”(1167): memoria dell’ora, nella sua irrisolta natura di evento, più che del passato.

Di fronte a un presente devastato –sia dal punto di vista personale che collettivo- Celan oppone un’attitudine di resistenza minimale, ribadisce un esserci-ancora-appena, che -disperato in Anders[15]– assume qui il tono di uno stare nonostante tutto di fronte alla contingenza, all’aggressione della pulsione di morte: “Non sottratto, dappertutto/raccogliti,/sta (steh)”(693); “Rinvigorito/trattieni l’ora dentro di te/tu parli/tu stai (stehst)…”(1193). Lo stesso messaggio è rivolto al figlio, come a lasciargli in eredità un atteggiamento esistenziale irrinunciabile: “Il nostro bicchiere/si riempie di seta,/noi stiamo (wir stehn)(1176). In una poesia ispirata probabilmente a Lord Jim di Conrad, così è descritta la situazione eistenziale del protagonista (e di Celan stesso): “Venire lottando, stando fermi (stehend), dietro/il ciglio, nella cappottina marinara,/unto dai rovesci”(1206).

Sia pure in un contesto tragico, in cui dominano a tratti il corpo frammentato e la pulsione di morte, Celan non rinuncia affatto a tradurre in un ordine simbolico le potenze che lo minacciano: solo che questo ordine non può essere quello dominante, dello spettacolo e del capitale; che deve anzi essere dissolto, perché i frammenti divelti possano essere ricomposti in un mosaico di segni, in un ri-assestamento del mondo. E’ lo stesso sentimento messianico e utopico umile, che anima gli ultimi scritti di Kafka e di Benjamin, e di cui infine Celan deve riconoscere la totale assenza nel filosofo Heidegger.

Questo restare, questo resistere, sono però possibili solo in un noi: solo un riconoscimento tra eguali può sfuggire al predominio della pulsione di morte, della coazione a ripetere, del fantasma del corpo in frammenti.

In una tradizione discontinua si compongono le brecce della rivolta che attraversano la storia, lo shibboleth da usare in tale contesto congiunge l’insurrezione operaia di Vienna, la Comune, l’anarchia spagnola, l’incrociatore Aurora, Pietroburgo città della rivoluzione, ma col nome che le dava l’anarchico ribelle Mandelstam: Petropolis; benjaminiana lettura della storia a contrappelo, che corre parallela al dolore del passato e al tentativo di far risorgere i morti. In questa e in altre poesie ribelli il riscatto non è più solo mistico, la teologia si fa politica, l’incompiuto si ricompone nella lotta presente: ricordo e rivolta si congiungono nell’immagine di Masada, la persecuzione antiebraica e la lotta contro l’Impero, contro gli Imperi: “Il soldato di Masada, soldato palustre -(forse come i partigiani nel maquis?)- si procura patria, nel modo che mai potrà essergli tolto, contro ogni spina del reticolato”; “Tutto ciò mi giunse desto di nome e di mano da quanto non può aver sepoltura”(912). Siamo in Filamenti di sole, Celan starà pure diventando matto, ma questo filo di ribellione percorre tutta la sua opera. Come Rosa si collegava a Spartaco, così Celan a Masada e l’immagine dell’Olocausto, termine da lui non amato, si rovescia in quella dell’insurrezione: in questo caso il ritorno di ciò che fu vinto non è solo Todeslied, ma si unifica, si coagula con la breccia della rivolta.

Poesia che si occupa non solo del trauma della Shoah ma anche di altri, nella storia connessi, come il colonialismo (“Il pescecane sputò l’Inca vivo, era tempo di colonizzazione in paese-uomo” (891) -e dietro tutto questo la circolazione del capitale e la sua desolazione: “Tutto circolava, rotti i sigilli, come noi”; oppressione dell’astratto sulla singolarità, il capitale è travolgimento permanente di ogni forma vivente, di ogni sigillo; alchimia nera, affatto consentanea alla dissoluzione delle vittime, terribile anche perché vista -nell’ottica perversa della mistica nazista (e non degli ebrei!)- come necessario sacrificio all’Utopia del Regno dei puri e depurati. Il soldato di Masada è la figura finale di una tradizione resistente: “Con te, Peuple de Paris. No pasaràn”(462). Schibboleth che segue il poeta Di soglia in soglia: “Pensa all’oscuro/ gemello rosseggiare/ a Vienna e Madrid…gridalo, lo Shibboleth,/ nella patria estraniata:/ febbraio, no pasaràn”(222). Un Tu che diventa un Noi, in questo Celan ha visto l’unica salvezza possibile, e la indica, benché forse –come diceva Kafka- non per se stesso, non per noi, ora.


[1] “Pietra a taglio unico: Rembrandt/a tu per tu con la luce affilante/deriflessa dalla stella, come ricciolo di barba, sulla tempia”; “Ti manda un bagliore intorno/all’angolo destro della bocca il/sedicesimo salmo”(P. Celan, Poesie, I Meridiani Mondadori, Milano 2001, p. 1204). D’ora in poi i numeri di pagina di questa edizione sono riportati direttamente tra parentesi nel testo.

[2] Il Reno è citato da F. Hölderlin, Poesie, a cura di L. Crescenzi, BUR, 2006.

[3] S. Freud, Opere 1886-1905, Newton Compton, Roma 1995, p. 603.

[4] Ivi, p. 263.

[5] Ivi, p. 265.

[6] Celan ha tentato due volte il suicidio e due volte di uccidere la moglie.

[7] Ivi, p. 271.

[8] F. Kafka, Racconti, Meridiani Mondadori, Milano 1970, p. 579.

[9] Ivi, p. 585.

[10] Ivi, p. 586.

[11] Ivi, p. 590.

[12] S. Freud, La teoria psicanalitica, Boringhieri, Torino 1984, p. 249.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 239.

[15] Che lo ha coniato in opposizione all’essere-per-la-morte di Heidegger. Sul pensiero di Anders, cfr. M. Cappitti, Pensare dal limite, Zona, Arezzo 2013, p. 97 e sgg.

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