Ruggero Savinio
Nella sedimentazione di letture che occupa la mia memoria c’è il libro “sullo sporco” di un Enzensberger, fratello del più noto Hans Magnus. E poi la frase scritta da Van Gogh in qualcuna delle sue lettere: Noi pittori facciamo un mestiere sporco. Lo sporco è una categoria – ammesso che possa esserne una – che sembrerebbe presiedere al lavoro della pittura. Spesso ho associato lo sporco a un’altra categoria, quella dell’ombra. L’ombra ha uno statuto più nobile di quello dello sporco. E’ accolta dalla psicanalisi per indicare tutto il non detto e non dicibile che ingombra la nostra anima e la intorbida, come fa, appunto, lo sporco. Ma l’ombra è anche il grembo fertile di tante immagini, sentimenti e fantasie che nutrono l’opera d’arte, oltre a arricchire di risonanze, echi e rimandi la nostra mente e, quindi, la nostra vita.
L’ombra è un elemento connesso alla pittura. Connesso strettamente: il rapporto con la sua antagonista, la luce, è quello che fa nascere le figure. Questo rapporto spesso è conflittuale: ombra e luce sono viste tenzonare fra loro. Spesso una prevale sull’altra. Spesso, invece, convivono. Il chiaroscuro, la loro convivenza, conferisce alle figure una plastica apparenza.
Se l’ombra prevale essa oscura certe epoche pittoriche – il tenebrismo caravaggesco – oltre le quali la luce riprende i suoi diritti. O meglio, cessa di essere l’antagonista dell’ombra per riposare insieme nello stesso letto, come si vede in molti postcaravaggeschi, per esempio in Orazio Gentileschi.
Aldilà, l’ombra e la luce trovano una convivenza in cui l’una non prevale sull’altra, ma attraverso sé fa trasparire l’altra. L’ombra custodisce la luce e viceversa. Qui l’esempio può essere Vermeer.
A me sembra che proprio l’incarnarsi della luce nell’ombra e dell’ombra nella luce sia il fatto della pittura, della sua naturalezza, aldilà delle tenebre secentesche o degli splendori bizantini.
Mi è venuta la parola naturalezza per indicare una pittura dove l’ombra e la luce non prevalgono l’una sull’altra. Infatti, mi sembra, il predominio di uno dei due elementi ha a che fare con scelte ideologiche, che informano quelle artistiche.
Nel caso dell’arte bizantina, essa è illuminata di luce teologica. Ma anche il tenebrismo secentesco ha origine teologica: qui la luce combatte l’oscurità dell’errore, della carne, del peccato. Le tele secentesche sono contemporanee di Carlo Borromeo e delle sue prediche: La peste, voi, ve la siete meritata coi vostri peccati.
Insomma, il gioco alterno della luce e dell’ombra è quello che ha segnato la storia della pittura. Alla luce d’atelier, o penombra opaca e spenta, gli impressionisti reagivano cercando la luce “vera” del mondo esterno. Dopo, e fino a noi, si è accesa la luce della tecnica, la luce implacabile che ha suscitato nella pittura l’avvento di colori assoluti, lontani da ogni sfumato e morbida sensibilità.
A me sembra che siamo ancora dentro un universo ideologico. La luce di tanta arte attuale è una luce ideologica, quella che sembra destinata a dar conto del nostro mondo dominato dalla tecnica.
Se vogliamo, invece, cercare di definire una pittura sgombra di istanze ideologiche, ma affidata alla sua semplice presenza, che ho chiamato prima naturalezza, dobbiamo associare alla pittura l’ombra come la luce, e anche lo sporco insieme col nitore.
La presenza contemporanea di questi elementi che si vogliono in conflitto avviene in tutta la grande pittura. Forse perché la pittura non sa che farsene dei motivi e delle dichiarazioni. Se essi sono presenti, lo sono come una presenza fisica, tattile, corporea, che è il corpo dell’immagine e che, come il nostro corpo proprio, ha in sé il senso della luce e dell’ombra, dello sporco e del pulito.
Non a caso mi è venuta stavolta la parola senso. E’ proprio il senso che noi abbiamo della vita, del mondo, e anche, secondo un libro letto recentemente, il senso interno, quello del loro reciproco appartenersi.
Ruggero Savinio
Roma, marzo 2014