Jodi Dean*
In un suo famoso articolo del 1999, intitolato “Resisting Left Melancholy”1, Wendy Brown adopera l’espressione “malinconia di sinistra”, presa in prestito da Walter Benjamin [Linke Melancholie], per diagnosticare la malinconia propria della sinistra contemporanea. Il saggio, che richiama da vicino la riflessione di Stuart Hall sulla nascita del Tatcherismo, si preoccupa principalmente di analizzare le ansie e le paure di una sinistra in declino: una sinistra che guarda all’indietro, si autopunisce, resta attaccata ai propri fallimenti e si mostra incapace di immaginare un futuro di uguaglianza ed emancipazione. Suggestivo e d’attualità, a detta di molti il saggio di Brown all’epoca coglieva un elemento di verità rispetto alla parabola finale di una certa sequenza storica attraversata dalla sinistra britannica, europea e nordamericana. Rilevando il sentimento della fine e della perdita originato dal disintegrarsi di quel “noi” un tempo condiviso dal discorso del comunismo – o con le parole di Brown “l’incalcolabile perdita” e “l’ideale, inconfessabilmente distrutto, significato contemporaneamente dai termini sinistra, socialismo, Marx e movimento” – l’autrice forniva una pista per riflettere sul fallimento e la persistenza dei progetti storici della sinistra, a partire da un’analisi dei desideri che li animano2. Perciò il modo in cui Brown trattava le sorti di questo “movimento storico perduto” restituiva l’immagine di una sinistra condannata ad accettare la realtà – la realtà del capitalismo neoliberista e la sconfitta dello stato sociale -o quanto meno a farci i conti.
Riletto a distanza di più di un decennio, tuttavia, il saggio di Brown suona meno convincente: oggi non sembra essere riuscito nell’impresa di rendere conto di che cosa è andato perduto e del perché. La sua ricostruzione di Benjamin è fuorviante, la sua lettura di Freud tendenziosa. Nonostante ciò, analizzando la sinistra come una struttura generale del desiderio che a sua volta definisce i contorni di una modalità teorica fondamentale del pensiero di sinistra, Brown dischiude la possibilità di sviluppare una teoria del desiderio comunista, possibilità che proverò ad approfondire nelle pagine che seguono.
“Malinconia di sinistra” (1931) è il titolo della recensione di Benjamin dell’opera poetica di Erich Kästner3. Kästner fu uno dei più rinomati poeti, scrittori e giornalisti della Repubblica di Weimar. La sua satira sobria conquistò i lettori di media cultura, attratti dalla maniera in cui l’autore ritraeva in modo apparentemente schietto e disadorno la cruda realtà dell’epoca. Benjamin, invece, disprezzava la poesia di Kästner rea di spalancare la porta al fatalismo e alla noncuranza di “coloro che sono più lontani dal processo di produzione, e che perciò cercano di ottenere il favore delle congiunture, nel buio – atteggiamento, questo, paragonabile a quello di un uomo che si rimetta interamente agli imperscrutabili colpi di fortuna della propria digestione”4.
In un saggio successivo intitolato “L’autore come produttore” (1934) Benjamin prende l’esempio di Kästner quale esponente paradigmatico della Nuova Oggettività, un movimento letterario che secondo il filosofo “ha fatto un oggetto di consumo della lotta contro la miseria”5. Citando “un critico giudizioso”, ovvero se stesso in “Malinconia di sinistra”, Benjamin riporta una parte del suo saggio precedente:
“Questi intellettuali (di sinistra) hanno poco a che fare con il movimento operaio. Sono invece un fenomeno di disgregazione borghese, che fa da contrappunto a quella mimetizzazione feudale che l’impero ha ammirato nell’ufficiale in congedo. I pubblicisti del tipo di Kästner, Mehring o Tucholsky, i radicali di sinistra sono la mimetizzazione proletaria della borghesia in sfacelo. La loro funzione è quella di creare, dal punto di vista politico, non partiti ma cricche, da quello letterario non scuole ma mode, da quello economico non produttori ma agenti. Agenti o routiniers che fanno grande sfoggio della loro povertà e si rallegrano del vuoto che si spalanca davanti a loro”6.
Dal punto di vista di Benjamin gli scrittori di sinistra come Kästner non hanno altra funzione sociale che quella di tramutare la situazione politica in un contenuto d”intrattenimento per il pubblico consumo: assimilando i temi rivoluzionari all’apparato borghese di produzione e pubblicazione, essi contribuiscono a tramandare il sistema di produzione invece di trasformarlo, senza mettere in discussione in alcun modo l’esistenza della borghesia. Scrive Benjamin: “Io chiamo routinier colui che rinuncia, per principio, a quelle correzioni nell’apparato di produzione che mirano a sottrarlo dalla classe dominante per metterlo a disposizione del socialismo”7. Più in generale la critica di Benjamin, sia in “Malinconia di sinistra” sia in “L’autore come produttore”, prende di mira il compromesso intellettuale, l’adattamento al mercato e il tradimento della causa del movimento operaio, soprattutto nella misura in cui simili attitudini capitalizzano gli autentici impulsi rivoluzionari, che sono già parte integrante della quotidianità della vita proletaria, per liquidarli.
Brown sostiene che la “malinconia di sinistra sia l’epiteto inequivocabile che Benjamin adopera per designare i routinier rivoluzionari che alla fine rimangono attaccati ad un’analisi politica o ad un ideale particolare – o anche al fallimento di tale ideale – più di quanto non siano interessati a cogliere le opportunità di produrre un cambiamento radicale al presente”8. Su questo però non sono d’accordo. Nella sua recensione della poesia di Kästner Benjamin non rimprovera mai l’autore per il suo persistente attaccamento a degli ideali politici. In realtà egli denuncia il problema opposto, accusando Kästner di scrivere poesie che sono sorde all’azione politica perché “il loro ritmo si conforma esattamente alle note con cui i poveri ricchi esprimono la loro malinconia”9. La lirica di Kästner difende “soprattutto gli interessi corporativi della categoria dei mediatori (agenti, giornalisti, capi del personale). […] Per contro la sua aggressività nei confronti dell’alta borghesia scema a vista d’occhio, e alla fine essa tradisce il suo anelare al mecenate con un sospiro: ‘Oh, se ci fosse soltanto una dozzina di saggi con molto denaro!’”10. La malinconia di Kästner è una posa, una moda, una merce. Egli non è legato a nessun ideale, viceversa ha corrotto gli ideali rivoluzionari facendone dei beni di consumo.
Brown non si sofferma sulla questione del compromesso messo in atto dal malinconico di sinistra, forse perché è più interessata a comprendere le inadeguatezze della sinistra contemporanea che non il discorso di Benjamin sul servizio che gli intellettuali rendono alla borghesia nel momento in cui trasformano i temi rivoluzionari in beni di consumo. Al contrario, nella critica che Benjamin muove a Kästner, Brown rinviene l’indicazione che “i sentimenti stessi possano diventare cose per il malinconico di sinistra, il quale ‘proverebbe nei confronti delle tracce di beni un tempo spirituali lo stesso orgoglio che provano i borghesi nei confronti dei loro beni materiali’”. Brown quindi rintraccia in questa perdita che si consuma all’insegna della reificazione un punto di contatto con la sinistra contemporanea: “Finiamo per amare le nostre passioni, ragioni, analisi e convinzioni di sinistra più del mondo reale, che presumibilmente vorremmo cambiare con questi strumenti, o del futuro, che dovrebbe conformarsi ad essi”11.
Va perciò notato che la linea lungo cui Brown procede non è la stessa di Benjamin. Benjamin non critica la sinistra per il suo attaccamento alle proprie passioni, ragioni, analisi e convinzioni, piuttosto punta il dito contro Kästner e contro il movimento della Nuova Oggettività condannandone gli atteggiamenti di compromesso che hanno avuto come esito “la trasformazione della lotta politica da coazione a decidere a oggetto di piacere, da mezzo di produzione ad articolo di consumo”12. Egli deride Kästner e gli altri “pubblicisti”, “i radicali di sinistra”, gli intellettuali scesi a patti che hanno convertito i loro “riflessi rivoluzionari […] in oggetti di distrazione, di divertimento, di consumo” prontamente destinati ad essere acquistati ai “grandi magazzini dell’intelligentsia”13. Contrariamente a quanto afferma Brown, il malinconico di sinistra ritratto da Benjamin è colui che dissolve l’impegno profuso dalla sinistra nella causa della rivoluzione e del proletariato; il ‘nuovo oggettivista’ è colui che, con il suo fatalismo, spiana la strada alla visione borghese del mondo esistente invece di darsi da fare nella lotta rivoluzionaria del proletariato per riorganizzare e trasformare la produzione. Brown sostiene che “se la sinistra contemporanea tende ad aggrapparsi alle formazioni e alle formulazioni di un’altra epoca – epoca in cui concetti quali quelli di ‘movimenti unitari’, ‘totalità sociali’ e ‘politica di classe’ sembravano essere categorie applicabili all’analisi teorica e politica – significa che essa aspira letteralmente ad essere una forza conservatrice nella storia: una forza che non solo s’inganna sul presente, ma che incamera il tradizionalismo al cuore della sua prassi al posto dell’impegno a rischiare e sovvertire le cose”14.
Nel nostro presente di palesi ineguaglianze, guerre di classe e continue crisi capitalistiche, l’importanza, o meglio la necessità, di movimenti unitari e di un’analisi che adotti una prospettiva di classe sembra innegabile, forse oggi in modo diverso rispetto al 1999. Probabilmente questa delucidazione aiuta a far chiarezza sulla posizione di Benjamin, che si colloca agli antipodi di Brown. Egli, del resto, non si preoccupa affatto del rischio che il tradizionalismo s’imponga nel cuore della prassi della sinistra, ma piuttosto di quel fenomeno di sublimazione degli ideali di sinistra che si riscontra nella pubblicistica destinata al mercato.
In “Malinconia di sinistra” l’autore che Benjamin prende a modello è Brecht, il Brecht totalmente devoto alla causa della rivoluzione comunista, quel Brecht che, secondo Badiou, “porte la question de ce que c’est que l’art sous condition du marxisme ou du communisme”, ovvero fa del marxismo e del comunismo la condizione necessaria per porre la domanda su che cos’è l’arte15. I versi di Kästner, contrariamente a quelli di Brecht, sono completamente distaccati del processo di produzione, sganciati dal movimento dei lavoratori e altrettanto distanti dall’universo della disoccupazione. Sono destinati alla “gente che guadagna molto, per quelle bambole tristi che camminano calpestando cadaveri”16. Le poesie di Kästner, e tutti gli scritti di quel tipo, partecipano alla trasmissione e alla riproduzione del potere di classe della borghesia. Sono in ultima istanza forze sociali conservatrici, a differenza dell’impegno profuso in nome degli ideali marxisti, dei movimenti unitari e della politica di classe. Per Benjamin Kästner è complice del processo di sublimazione del desiderio rivoluzionario in strumento di lucro intellettuale; la sua poesia “ha più della flatulenza che della sovversione”. Al contrario di quanto afferma Brown, il malinconico di sinistra di Benjamin è quindi colui che cede il passo a “compiacenza e fatalismo” abbandonando il desiderio, come “l’individuo saturo, che non può più dedicare tutto il suo denaro al proprio stomaco”17.
Che ne è dunque della malinconia? L’aspetto più apprezzabile dell’analisi condotta da Brown deriva dall’aver attinto allo scritto di Freud sulla malinconia (Lutto e melanconia, 1917) per formulare la descrizione di una struttura peculiare del desiderio della sinistra. Come è noto, Freud distingue il lutto dalla malinconia. Il lutto risponde alla perdita di un oggetto d’amore indipendentemente dal fatto che esso sia costituito da una persona, un paese, la libertà o un ideale18.
La realtà pone il soggetto a confronto con la sua perdita e, gradualmente, dolorosamente, e con il passare del tempo, egli revoca il suo attaccamento all’oggetto perduto, finché l’elaborazione del lutto si completa e l’ego torna libero, disinibito e capace di amare. La malinconia, sebbene simile al lutto per quanto riguarda l’assenza di interesse nei confronti del mondo esterno e la generale inibizione ad agire, si contraddistingue per una differenza cruciale. Nel malinconico infatti abbiamo a che fare con un abbassamento dell’autostima che si manifesta attraverso il rimprovero e la mortificazione di sé. Tali atteggiamenti eccedono l’autopunizione e arrivano perfino a sopraffare “[del]l’istinto che spinge ogni essere vivente a restare aggrappato alla vita”. La pulsione di morte, la forza della perdita, riformatta la struttura del desiderio stesso. Scrive Freud:
“Il malinconico ci presenta un’altra caratteristica che manca nel lutto: uno straordinario avvilimento del sentimento di sé, un enorme impoverimento dell’Io. Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso. Il malato ci descrive il suo Io come assolutamente indegno, incapace di fare alcunché e moralmente spregevole; si rimprovera, si vilipende e si aspetta di essere respinto e punito. Si svilisce di fronte a tutti e commisera a uno a uno I suoi cari perché sono legati a lui, una persona così indegna”19.
Per descrivere questo scarto di autostima Freud distingue fra la coscienza della perdita propria del lutto e la dimensione inconsapevole e inconscia della perdita dell’oggetto tipica della malinconia. Nella perdita malinconica qualcosa rimane incosciente. Benché il malinconico sia consapevole di aver perso qualcosa, non sa che cosa ha perso e ignora in che cosa consista la sua perdita. La psicoanalisi si occupa per l’appunto di questi aspetti inconsci della perdita malinconica. Freud accetta le accuse che il soggetto melanconico rivolge a se stesso: egli è realmente debole, disonesto, meschino ed egoista. Eppure osserva che molti di noi, affetti da nevrosi ragionevolmente sane, non si accorgono di tutti questi limiti e anzi si affannano a nasconderli a se stessi e agli altri. Perciò l’accuratezza della descrizione che il malinconico restituisce di sé è fuori discussione; è fondamentalmente corretta e Freud la condivide: il malinconico “ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo”. La questione fondamentale è capire perché il soggetto abbia perso la sua autostima, quale sia il “ buon motivo” da cui scaturisce questa perdita20.
Nel rispondere a tale domanda Freud osserva che nella malinconia vi è un’istanza critica che si scinde dall’Io, una voce della coscienza che critica il povero Io per il suo fallimento morale. L’esperienza clinica, spiega Freud, rivela che la specifica attitudine critica che il malinconico rivolge contro se stesso per lo più non è indirizzata al soggetto medesimo, ma piuttosto a colui/colei che egli/ella ama o vorrebbe amare: “Gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti a un oggetto d’amore – e da questo poi distolti e riversati sull’Io del malato”21.
Ciò che il paziente pare affermare rispetto a sé stesso riguarda in realtà qualcun altro. Il soggetto malinconico è colui che narcisisticamente ha identificato e attaccato sé stesso a qualcun altro, ovvero il suo oggetto d’amore ormai perduto. Invece di consentirgli di acquisire consapevolezza della perdita, l’identificazione narcisistica protegge il soggetto da tale consapevolezza, trasferendo l’oggetto nel soggetto e permettendo al malinconico di conservarlo come una parte di sé. Questa identificazione è carica di turbamento nella misura in cui nell’oggetto amato vi sono cose che il soggetto non ama, ma anzi odia. Per fronteggiare questo odio inconfessabile una “particolare istanza” dell’ego si scinde, così da poter giudicare e condannare l’oggetto d’amore divenuto parte del soggetto stesso. Freud spiega che “in questo modo la perdita dell’oggetto si […è] trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto fra l’Io e la persona amata in un dissidio fra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dell’identificazione”22. La risposta alla domanda relativa alla perdita di autostima del soggetto si riversa sull’oggetto: è l’oggetto interiorizzato che viene giudicato, criticato e condannato, e non il soggetto. Torneremo su questo punto più avanti.
Brown usa la descrizione che Freud ci dà della malinconia per provare a comprendere le paure e le ansie che impediscono alla sinistra di rivedere i suoi anacronistici modi di pensare. Pertanto evidenzia la persistenza di un attaccamento malinconico ad un oggetto perduto, una persistenza che, prendendo il sopravvento sul desiderio cosciente di riprendersi e andare avanti, fa della “malinconia una struttura del desiderio piuttosto che una reazione passeggera”. Brown sottolinea inoltre la natura inconscia, “inconfessata ed inconfessabile” della perdita malinconica e constata lo slittamento del “biasimo nei confronti dell’oggetto amato” – [la sinistra] – sul soggetto di sinistra, uno slittamento che preserva “l’amore o l’idealizzazione dell’oggetto anche quando la perdita di quest’amore è esperita con sofferenza da parte del malinconico”. Ripercorrendo alcune tra le tante perdite della sinistra – la perdita dell’appartenenza comunitaria a livello locale e internazionale, la perdita di una visione morale e politica capace di sostenere una strategia politica e la perdita di un’epoca storica – Brown si domanda se non vi sia ancora un’altra perdita, altrettanto inconscia ed inconfessabile, cioè la perdita della “promessa che le analisi della sinistra e l’impegno a sinistra possano fornire a chi vi aderisce una strada chiara e sicura in direzione di ciò che è buono, vero e giusto”23. Brown ipotizza che questa promessa abbia costituito la base dell’amore di sé della sinistra e del suo spirito di camaraderie; ma ritiene che finché tale promessa rimarrà fondante, inconfessata e inalterata, condannerà la sinistra all’autodistruzione.
Il saggio di Freud consente a Brown di porre in luce questo attaccamento inconfessato, che è all’origine dei violenti dibattiti sul post-strutturalismo e sulla condizione del soggetto caratteristici di un certo registro della produzione teorica di sinistra. Si chiede quindi: “Che cosa odiamo che ci permette di preservare l’idealizzazione di questa romantica promessa della sinistra? Cosa puniamo che ci permette di salvare le vecchie garanzie della sinistra dalla nostra amareggiata delusione?”24. La risposta, suggerisce Brown, è che l’odio e la punizione siano sintomi: colpi che infliggiamo a noi stessi in modo da preservare le promesse e le certezze della visione del mondo di sinistra.
Il disprezzo per le politiche identitarie e la denigrazione dell’analisi del discorso, del postmodernismo e delle “teorie letterarie alla moda” rappresentano la forma sostitutiva di un attaccamento narcisistico all’ortodossia. Si tratta di un attacco rivolto ad un oggetto interiorizzato, l’oggetto amato e perduto che prometteva unità, solidità, chiarezza e efficacia politica.
Un elemento proficuo che emerge dall’argomentazione di Brown è la messa in luce di una certa fantasia presente nel desiderio di sinistra: la malinconia di sinistra sottrae le esperienze di divisione, contestazione e tradimento dalla tradizione marxista sul piano teorico e dalla storia del Socialismo reale sul piano pratico. Al loro posto lascia la figura invincibile e reificata del Padrone, figura che a sua volta si divide tra le sue incarnazioni autorevoli e oscene. Secondo Brown la sinistra impantanata nel suo fallimento che imputa tale fallimento alla teoria post-strutturalista e alle politiche identitarie rinnega la non-esistenza di un simile Padrone. Così rimane aggrappata ad un marxismo impossibile e fantastico, che non è mai esistito, per evitare di misurarsi con la perdita del proprio tempo storico, con la fine di quella sequenza iniziata nel 1917, o forse perfino nel 1789. Si protegge così dalla scomparsa di un’epoca in cui aveva senso pensare il mondo attraverso il determinismo del capitale e il primato della classe.
Ha ragione Brown? Nel diagnosticare il carattere malinconico dell’immobilismo e dell’odio di sé della sinistra, l’autrice riesce a individuare correttamente cosa è andato perduto e cosa è rimasto? Ciò che è stato sostituito e quel che è stato sconfessato? La sua descrizione della malinconia quale struttura del desiderio esaurisce le potenzialità del contributo di Freud o, invece, altri elementi dell’analisi freudiana potrebbero rivelarsi utili nell’impresa di fare i conti con la condizione della sinistra contemporanea e l’impatto della perdita?
La malinconia di sinistra di cui parla Benjamin tematizza una perdita diversa da quella riscontrata da Brown: il tradimento degli ideali rivoluzionari e del proletariato. Benjamin critica Kästner e i “nuovi oggettivisti” non solo perché aderiscono ad una forma culturale segnata dalla rappresentazione delle brutalità del quotidiano, ma per la mercificazione di tale forma, perché confezionano tracce di beni spirituali in contenuti commerciali che possano essere immessi sul mercato e venduti alla borghesia. Come nota Benjamin in “L’autore come produttore”, per quanto la tendenza politica associata alla Nuova oggettività possa apparire rivoluzionaria, essa “ha tuttavia una funzione contorivoluzionaria finché lo scrittore si limita a essere solidale col proletariato sul piano della fede politica, ma non come un produttore”25. Il malinconico di sinistra, invischiato in un’esperienza solo ideologica di solidarietà, rinnega la sua pratica, ovvero gli effetti pratici della sua attività giornalistica. Mentre Brown registra una perdita reale degli ideali socialisti, che la sinistra si troverebbe a compensare per mezzo di un attaccamento ostinato e narcisistico, Benjamin riscontra compromesso e tradimento: un compromesso ed un tradimento che l’identificazione ideologica con il proletariato [da parte degli intellettuali] tenta di mascherare. Brown vede una sinistra sconfitta e arretrata in conseguenza dei mutamenti storici avvenuti; Benjamin ci fa riflettere sulle responsabilità di una sinistra che ha mollato e svenduto tutto.
La mossa di Freud riguardo alla perdita di rispetto di sé da parte del malinconico procede in una direzione simile. Per la verità Freud non è esplicito su questo punto. La sua trattazione dell’argomento, in un certo senso, tralascia le ragioni della perdita del rispetto di sé (sulla quale tornerò più avanti). L’esempio clinico che porta, tuttavia, accenna al perché un soggetto finisca per perdere il rispetto di sé: descrivendo “la donna che commisera fortemente il proprio marito per il fatto che costui è legato a una moglie così incapace”, Freud osserva che ella sta in realtà accusando il marito di incapacità. “I suoi autorimproveri”, alcuni dei quali sono sinceri, “possono imporsi perché servono ad occultare gli altri, e a rendere impossibile la comprensione di come stanno effettivamente le cose”. Del resto questi rimproveri “derivano dai pro e dai contro del conflitto amoroso che ha portato alla perdita dell’oggetto amato”26. Non potrebbe, allora, darsi il caso che la donna stia giustamente riconoscendo la propria incapacità di trovare un marito capace, che sia all’altezza di sostenere il suo desiderio? Non potrebbe essere che la donna stia punendo sé stessa per aver accettato un compromesso, per essercisi abituata ed aver permesso ai pro e ai contro del conflitto amoroso di confinare il suo desiderio, accondiscendendo ad uno stato di rassegnazione e accettazione rispetto al quale parrebbe non esistere alcuna alternativa? Se la risposta a queste domande è affermativa, allora la perdita del rispetto di sé di questa donna è un indicatore del suo senso di colpa per aver ceduto sul proprio desiderio. Per usare le parole di Lacan: “La sola cosa di cui si possa essere colpevoli è di aver ceduto sul proprio desiderio”27. L’identificazione della donna con suo marito è un compromesso, è il modo in cui ella sublima il suo desiderio così da poter rendere il marito oggetto di tale desiderio. La ferocia del suo super-io e l’inesorabile punizione a cui esso la sottopone indicano che la donna si è arresa all’impossibilità del desiderio, all’insoddisfazione costitutiva del desiderio stesso, per adeguarsi alla vita di tutti i giorni. Freud sottolinea il piacere che il super-io prova nel tormento ed anche il fatto che il soggetto ne gode:
“Quando l’amore per un oggetto si è rifugiato nell’identificazione narcisistica – ma si tratta di un amore a cui non si può rinunciare nonostante si sia rinunciato all’oggetto stesso – accade che l’odio si metta all’opera contro questo oggetto sostitutivo oltraggiandolo, denigrandolo, facendolo soffrire e derivando da questa sofferenza un sadico soddisfacimento. L’autotormentarsi del melanconico, certamente foriero di godimento, significa, proprio come il fenomeno corrispondente della nevrosi ossessiva, il soddisfacimento di tendenze sadiche o di odio; tali tendenze si riferiscono a un determinato oggetto e hanno trovato il modo di applicarsi alla persona stessa del soggetto…”28.
Nella sua analisi qui Freud usa la terminologia delle pulsioni definita nel saggio “Pulsioni e loro destini”. In questo testo Freud afferma che le pulsioni attraversano le seguenti vicissitudini: “Trasformazione nel contrario; il volgersi sulla persona stessa del soggetto. Rimozione. Sublimazione”29. Come evidenzia Lacan, nel discorso freudiano sulle pulsioni cruciale è il modo in cui esse dotano il soggetto di un altro modo per provare piacere. La pulsione non può evitare il godimento (jouissance), che il desiderio invece non può mai raggiungere. Incapace di soddisfare o sopportare un desiderio, il soggetto gode in altro modo, al modo delle pulsioni. Se il desiderio è sempre desiderio di desiderare, un desiderio che non può mai essere riempito, desiderio di una jouissance o godimento che non possono mai essere raggiunti, la pulsione funziona come un modalità per godere attraverso il fallimento. Nella pulsione non è necessario raggiungere l’obiettivo per godere. Le attività intraprese per raggiungere un obiettivo diventano soddisfacenti di per sé. Poiché procurano un assaggio del godimento, finiscono per prendere il posto dell’obbiettivo. Aderendo al processo, il godimento cattura il soggetto. Inoltre, come nota Slavoj Žižek, il passaggio dal desiderio alla pulsione produce un cambiamento nello status dell’oggetto. Laddove l’oggetto del desiderio è originariamente perduto, è ciò “che emerge come perduto”, nella pulsione oggetto è la perdita stessa30. In altre parole la pulsione non è la ricerca di un oggetto perduto, ma la messa in atto della perdita o la forza che la perdita esercita sul campo del desiderio. Quindi le pulsioni non orbitano intorno ad uno spazio precedentemente occupato da un oggetto ideale ed impossibile, ma sono piuttosto la sublimazione del desiderio che si avvolge su sé stesso e, questo suo avvolgersi produce il continuo ripetersi della pulsione fornendogli la sua carica peculiare.
Guardare alla dimensione pulsionale della malinconia, all’attenzione che Freud presta al modo in cui il sadismo nella malinconia si ritorce sul sé del soggetto, conduce ad una interpretazione dei contorni generali che danno forma alla sinistra che differisce da quella formulata da Brown. Al posto di una sinistra persistentemente attaccata ad un’ortodossia non dichiarata, abbiamo una sinistra che ha abbandonato il desiderio del comunismo, tradito il suo impegno storico nei confronti del proletariato e sublimato le sue energie rivoluzionarie in pratiche reazionarie che rafforzano la conservazione del capitalismo. Questa sinistra ha sostituito la dedizione alla causa delle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici per l’emancipazione e l’uguaglianza – dedizione che non si è mai espressa in forma ortodossa, ma che è sempre stata attraversata da divisioni, conflitti e controversie – con un attivismo incessante (non dissimile alla mania che Freud associa alla melanconia) che si accontenta di critica e interpretazione, piccoli progetti e azioni locali, battaglie circoscritte e successi legislativi, arte, tecnologia, procedure e processi. Questa sinistra sublima il desiderio rivoluzionario nella pulsione democratica (che sia rappresentativa, deliberativa o radicale) poiché ha già ceduto all’inevitabilità del capitalismo, o per dirla con Benjamin, poiché ha abbandonato “evidentemente qualunque forza d’urto contro la grande borghesia”. Per questa sinistra il godimento deriva dall’essersi sottratta al potere e alla responsabilità, dalla sublimazione degli obiettivi e delle responsabilità nelle pratiche dispersive e frammentate della micropolitica, della cura di sé e della sensibilizzazione. Perennemente offesa, ferita e annullata, questa sinistra resta prigioniera della ripetizione, incapace di interrompere i circuiti della pulsione in cui è intrappolata, incapace di uscire da questa immobilità, perché ne trae godimento.
Questo non potrebbe spiegare il motivo per cui la sinistra confonde disciplina e dominazione, e rinuncia alla collettività in nome di un’illusoria libertà individualista che tende continuamente a disintegrare e distruggere qualsiasi affermazione di un collettivo o di un comune? Le parole chiave della critica, all’interno di questa struttura del desiderio della sinistra sono: moralismo, dogmatismo, autoritarismo e utopismo, parole che fungono da avvertimento e mettono in atto un perpetuo processo di auto-monitoraggio per evitare il rischio che un argomento, una posizione, o un punto di vista incappi inavvertitamente in un uno di questi errori. Alcuni militanti di sinistra rifiutano partito e stato, divisione e decisione, assicurandosi così fin dall’inizio quell’inefficacia che potrà garantirgli gli sprazzi di soddisfazione prodotti dalle pulsioni.
Se questa sinistra può essere giustamente definita malinconica – e sono d’accordo con Brown che si tratti della definizione giusta – la sua malinconia deve essere ricondotta ai compromessi effettuati e ai tradimenti commessi, inestricabili dalla storia della sinistra – ovvero dai suoi accomodamenti con la realtà delle guerre nazionaliste, dell’accerchiamento capitalistico e delle esigenze del mercato. Lacan insegna che, al pari dell’imperativo categorico di Kant, il super-io si rifiuta di accettare la realtà come una spiegazione del proprio fallimento. L’impossibilità non è una scusa – il desiderio è sempre impossibile da soddisfare. Quindi non è sorprendente che un ampio ventaglio della sinistra contemporanea si sia arreso, in un modo o nell’altro, ad un capitalismo inevitabile o abbia interpretato i fallimenti pratici del marxismo-leninismo come la necessità di abbandonare la dedizione alla classe, all’antagonismo e all’impegno rivoluzionario per capovolgere gli assetti capitalisti della proprietà e della produzione. La fantasia malinconica – il Padrone comunista, autoritario ed osceno – e insieme le pratiche malinconiche sublimate – there was no alternative, non c’era alternativa – proteggono la sinistra, cioè ci proteggono, dal confronto con il senso di colpa per questo tradimento, risucchiandoci in attività che ci consentono di sentirci produttivi, efficaci, radicali.
Forse dovrei usare il il passato, ci proteggevano, perché sembra che progressivamente la sinistra abbia cominciato a superare o stia cominciando a superare l’impasse della sua malinconia. Pur ammettendo l’incompletezza della comprensione che la psicoanalisi elabora della malinconia, Freud osserva tuttavia che il lavoro inconscio della malinconia è destinato a volgere al termine: “Come il lutto induce l’Io a rinunciare all’oggetto dichiarandolo morto, e offrendo all’Io, in cambio di questa rinuncia, il premio di restare in vita, così ogni singolo conflitto d’ambivalenza allenta la fissazione libidica all’oggetto poiché lo denigra, lo svilisce e, in certo modo, lo distrugge. È possibile che il processo si concluda nell’Inc. [inconscio], o dopo che la collera si è esaurita o dopo che l’oggetto è stato abbandonato perché privo di valore”31. Freud fa riferimento a “ogni singolo conflitto di ambivalenza”, e ciò suggerisce che le attività ripetitive che ho associato con la pulsione e la sublimazione possano essere comprese meglio dialetticamente, cioè, non solo come forme di accomodamento, ma anche come pratiche fondamentali di distacco e riattaccamento, del disfare e del fare. Žižek, insieme a Mladen Dolar, sottolinea la dimensione distruttiva della pulsione, il modo il cui le ripetizioni finiscono per fare tabula rasa del vecchio per far spazio al nuovo32. Di conseguenza in un contesto segnato dalla generale accettazione della fine del comunismo e da ricerche politico-teoriche che s’indirizzano verso l’etica, gli affetti, la cultura e l’ontologia, sembra più opportuno far luce sulla frammentazione – o addirittura sull’inesistenza – della sinistra in quanto tale, che non provare a descrivere la sinistra nei termini di una struttura malinconica del desiderio.
Il saggio di Brown può essere considerato come una tappa e un contributo al processo di elaborazione e demolizione della malinconia di sinistra. Nello spazio un tempo occupato da quest’ultima figurano ora molteplici pratiche e modelli che circolano nell’ambito dell’impresa teorico-accademica, la quale è già stata essa stessa inglobata dal capitalismo comunicativo. Restano in circolazione alcune parole d’ordine all’insegna dell’antidogmatismo, benché dotate di un potere di richiamo minore, a cui si sostituisce progressivamente un più energico investimento in nuovi campi di ricerca e in nuovi oggetti d’interesse. La pulsione che dà forma alla malinconia, in altri termini, diventa una forza della perdita nel momento in cui si rovescia, si frammenta, si parcellizza. Col passare del tempo mentre il processo – il fallimento a raggiungere gli obiettivi – si ripete, la soddisfazione attiene a questa ripetizione e l’oggetto primario, l’oggetto perduto del desiderio, viene abbandonato in quanto inutile. Quindi per esempio diversi teorici contemporanei considerano la categoria analitica del soggetto ininteressante ai fini teorici ed essenzialmente inutile; per questo si sono rivolti agli oggetti ritrovando in essi nuove forme di attività, creatività, vitalità e politica.
Anche il recente revival del tema del comunismo testimonia della fine della malinconia quale struttura del desidero della sinistra. A proposito dell’entusiasmo sorprendente suscitato dalla conferenza di Londra del 2009 dedicata a The Idea of Communism, Costas Douzinas e Slavoj Žižek hanno interpretato “il bel clima e l’assenza di settarismo” che si è registrato durante i dibattiti come una chiara indicazione del fatto “che l’epoca della colpa è finita”33. Similmente, nel suo intervento sulla svolta comunista, Bruno Bosteels ha citato l’idea dell’orizzonte comunista invocato da Alvaro García Linera. A differenza dell’auto-inghiottimento malinconico, l’orizzonte comunista genera “un totale cambiamento di prospettiva, o una svolta ideologica radicale, in seguito alla quale il capitalismo non appare più come l’unico gioco possibile e noi non dobbiamo più vergognarci di rivolgere i nostri sguardi pieni di desiderio e di aspettative verso una diversa organizzazione dei rapporti sociali”34.
È possibile comprendere questa riattivazione del comunismo in termini di desiderio e se sì, come? Io credo che sia possibile. Nella prossima sezione offrirò un abbozzo provvisorio di quali potrebbero essere le caratteristiche di un tale desiderio comunista, asserendo due tesi: la prima sostiene che il desiderio comunista designi la soggettivazione di un divario necessario per la politica, un divario all’interno del popolo, e la seconda presuppone che questo processo di soggettivazione sia collettivo – il nostro desiderio e il nostro desiderio collettivo per noi.
II.
I tentativi contemporanei di ripensare il tema del comunismo suggeriscono almeno due piste da percorrere per indagare il concetto del desiderio comunista: il desiderio della moltitudine e quello del filosofo. Il primo indica il desiderio produttivo della moltitudine delle singolarità, desiderio d’inspirazione spinoziana e deleuziana evocato da Toni Negri, secondo cui la “la moltitudine è un insieme di desideri, di traiettorie di resistenza, di lotta, di potenza costituente”35. Il secondo, “il desiderio del filosofo” richiamato da Alessandro Russo, caratterizza l’insistenza di Badiou sull’eternità del comunismo36. Nel 1991 Badiou sosteneva che la cosiddetta “morte del comunismo” non costituisse un evento, poiché la sequenza politica inaugurata nell’Ottobre 1917 era già morta da tempo e poiché il comunismo, in quanto verità politica, nomina un’eternità e non una formazione statale storica; esso perciò non può morire ed eccede ogni sua particolare instanziazione37. Badiou dava ulteriore corpo alla sua idea di un comunismo eterno dotato di “costanti comuniste”— “la passione egualitaria, l’Idea della giustizia, la volontà di porre fine ai compromessi con il servizio dei beni [service des biens], la rinuncia all’egoismo, l’intolleranza nei confronti dell’oppressione, il desiderio d’abolizione dello Stato”38. Così da un lato Negri evidenzia che “il comunismo è possibile perché esso vive già dentro questa transizione, non come fine ma come condizione; esso è sviluppo della singolarità, sperimentazione di questa costruzione e – dentro il continuo ondeggiare dei rapporti di forza – tensione, tendenza, metamorfosi”39. Dall’altro Badiou tratta il comunismo come una verità trans-storica, un ideale regolativo in grado di radicare (Badiou usa il termine “incorporare”) un soggetto nella storia. Nell’un caso il comunismo è già immanente, nel mondo; nell’altro è il reale di una verità che introduce l’impossibile nel mondo.
I due approcci al desiderio comunista, apparentemente antagonisti, operano in realtà in maniera simile. Ciascuno, a modo suo, rinvia alla soggiacente necessità o inevitabilità del comunismo, una sorta di comunismo assoluto: il desiderio comunista appare dunque come un dato di fatto, che sia il potere esistente della moltitudine o il reale di una procedura di verità nella narrazione simbolica della storia (per mezzo di una soggettivazione individuale). Negri quindi colloca al presente, all’interno della totalità della produzione capitalistica, ciò che Badiou situa nell’eternità dell’idea filosofica.
Tutti e due, tanto Negri quanto Badiou, sono ognuno a modo suo rassicuranti. Per quanti si dedicano alla causa dell’universalismo egualitario e non vogliono arrendersi al realismo capitalista imperante, Negri e Badiou delineano dei posizionamenti in cui collocarsi, da cui poter pensare, agire e comprendere il pensiero e l’azione. Poiché il comunismo, il socialismo, la classe operaia e lo stato sociale sono stati ormai da tempo diffamati e liquidati come ideali utopici o derivati del compromesso del Dopoguerra, il genere di rassicurazione che si ricava dalle analisi di Negri e di Badiou ha contribuito in maniera essenziale ad alimentare l’investimento di coraggio, fiducia e sapere nelle teorie e nelle pratiche rivoluzionarie. Allo stesso tempo, come sottolinea Brown, queste rassicurazioni possono diventare, e talvolta diventano, l’oggetto di un attaccamento feticistico. Forniscono delle garanzie, come se il tempo delle garanzie non fosse tramontato del tutto, offrono qualcosa a cui aggrapparsi nel contesto di un’assenza, un contesto in cui la perdita opera come una forza. La rassicurante promessa di Negri consiste nel sostenere che il comunismo sia già presente e debba soltanto essere liberato dalle costrizioni capitalistiche. Il desiderio della moltitudine ,anziché essere inteso come un sistema politico-economico interrotto da divisioni e antagonismi, in cui i desideri e le attività dei produttori confliggono tra loro e con se stesse, appare come l’esito di una convergenza già prestabilita, come una ricchezza e una compiutezza già date, che ci schermano dal confronto con il divario che esiste in noi e tra di noi. Badiou, invece, ci rassicura del fatto non solo che ci sono delle verità, ma che queste verità vengono puntualmente incarnate nel mondo storico. La promessa implicita nella visione di Badiou stabilisce che la verità politica dell’idea del comunismo sarà ancora incorporata in nuovi soggetti. Il “desiderio del filosofo” rappresenta perciò una forma di pensiero che può guidare o dirigere gli attaccamenti affettivi di coloro che la contemplano, piuttosto che una convinzione in grado di forzare le divisioni che derivano dalla sua attuazione da parte di uno stato e di un partito. Anziché presentarsi come un campo interrotto di volontà e saperi teorici e pratici, tale desiderio si manifesta come una forma che si legge e si imprime sulle mutevoli soggettività ribelli della storia40.
Questi modi di concepire il desiderio comunista (soprattutto nella ricostruzione sommaria che ne ho dato qui) scombussolano le intuizioni della teoria critica degli ultimi trent’anni o giù di lì, e specialmente quei filoni della teoria postrutturalista e postcoloniale a cui Brown rimanda nel suo saggio. Eppure, sebbene il rifiuto di cedere al desiderio e di sguazzare nella malinconia sia di vitale importanza per l’efficacia di simili concezioni, si può anche imparare qualcosa da coloro che hanno accondisceso al compromesso. In primo luogo, non tutte le lotte politiche presenti o passate sono comuniste (così come, contra Rancière, non tutte le lotte politiche sono democratiche). La sussunzione di tutte le lotte attuali nell’alveo della moltitudine (anche se si tratta di una moltitudine fatta di singolarità) finisce per rinnegare le tensioni e le contrapposizioni che esistono tra di esse, così come i modi in cui queste tensioni vengono e possono essere manipolate negli interessi del capitale. Parimenti l’assimilazione di tutte le lotte popolari del passato a un contenuto immutabile nel corso dei millenni non tiene conto degli effetti delle lotte precedenti su quelle successive, così come non tiene conto delle determinazioni materiali e tecnologiche delle forze, delle capacità e degli interessi in gioco41. Non è necessario abbracciare il felice positivismo dello storicista per sostenere che la combinazione comunista di emancipazione e egualitarismo sia unica. Sicuramente ha preso forma attraverso molte altre lotte – come Marx ha illustrato, distinguendo, per esempio, tra rivoluzioni borghesi e proletarie, e come attestano le lotte del ventesimo secolo per i diritti civili e per i diritti delle donne e le lotte del ventunesimo secolo per i diritti di omosessuali e transessuali – e tuttavia è qualcosa di diverso. In secondo luogo, e conseguentemente, il comunismo è stato modellato dai suoi fallimenti e dai suoi errori – un aspetto questo messo a tacere e occultato dai confortanti appelli alla presunta interezza o invarianza comunista42. Per questo motivo assistiamo oggi all’impresa di ripensare il comunismo, interrogando il passato per imparare da esso e per poter provare la prossima volta a dar vita a qualcosa di meglio. Esistono lotte e storie specifiche che con i loro successi e i loro fallimenti possono continuare ad ispirare, che possono – se non si nega loro il potere di farlo – suscitare il desiderio di guardare al presente in modo diverso, e leggerlo alla luce dell’orizzonte comunista43.
Quale vantaggio trarremmo dal disconoscimento delle differenze che esistono tra le lotte implicate nel vasto spettro dell’eterna sostanza comunista? Se esistesse una struttura del desiderio di sinistra da intendersi opportunamente come malinconica, e se tale struttura non reggesse più, allora a un certo punto assisteremmo a una sorta di lavoro o di elaborazione [del lutto]. Una simile operazione avrebbe già rimesso in discussione le concezioni totalizzanti di un comunismo destinato a perpetuarsi a prescindere da (anziché attraverso e per mezzo di) i secoli di lotte e le tensioni sintomatiche che essi si lasciano alle spalle – un comunismo apparentemente incapace di imparare e adattarsi – nonché l’idea di un comunismo capace di unire le infinite lotte che con tutta evidenza rifiutano i suoi presupposti44 è presa in prestito da Eric Santner “Miracles Happen”, in S. Žižek, E. Santner and K. Reinhard (eds.), The Neighbor: Three Inquiries in Political Theology, University of Chicago Press, Chicago, 2005. Bosteels sottolinea che “le invarianti comuniste sono opera delle masse in senso lato. Non c’è una determinazione specifica di classe propria della logica della rivolta con cui gli schiavi, i plebei, i servi, i contadini o gli operai insorgono contro il potere dominante” (B. Bosteels, Badiou and Politics, cit., p. 277). Inoltre, nel delineare tre fattori fondamentali di contenuto ideologico, Bosteels menziona il “contenuto invariato del programma comunista, cioè, la sostanza popolare immediata di tutte le grandi rivolte, da Spartaco a Mao.” La mia critica di Badiou affronta proprio la pretesa dell’“invarianza”. Sono in disaccordo con l’idea che ci sia una sostanza popolare immutata e immediata in tutte le grandi rivolte, poiché ci sono diversi tipi di rivolte e non tutte le rivolte di massa o popolari hanno una “sostanza” comunista.]. Mentre alcuni potrebbero considerare questo lavoro di elaborazione come un “attraversamento della fantasia” o come uno spostamento dal desiderio alla pulsione, io ritengo che la sublimazione della pulsione catturi il soggetto nei circuiti ripetitivi del capitalismo comunicativo45. Che ne rimane? Un desiderio nuovo, dislocato, che riconosce l’impossibilità di raggiungere o conquistare il suo oggetto e resiste, rifiutando di cedere46. Žižek collega questo nuovo desiderio alla concezione di Lacan del “desiderio dell’analista”47. Tale desiderio è collettivo e sorregge una comunità, essendosi liberato dal bisogno di un qualche tipo di supporto fantasmatico. Collettivo, costruito intorno ad una mancanza, è espressione di un desiderio comune capace di spezzare il circuito chiuso della pulsione, senza ripristinare necessariamente una nuova autorità o nuove certezze48.
Pur considerando, in un certo senso, il desiderio comunista come un dato di fatto, Negri e Badiou contribuiscono anche ad una diversa aniera di concepirlo, associando – con Lacan – il desiderio al ruolo costitutivo della mancanza. Affinché ci sia desiderio, ci deve essere una lacuna, una domanda, una mancanza, e un’irriducibile insoddisfazione. Su questa scia, e in contrasto con il suo tradizionale approccio al tema del desiderio, Negri scrive: “è nel momento della rottura che l’immaginazione comunista si esalta”49. Badiou, seppure in altro modo, sottolinea ugualmente l’elemento della rottura, la rottura segnata dall’evento “nella disposizione normale dei corpi e dei linguaggi, così come si dà in una situazione particolare”. Ciascuno quindi collega il comunismo ad un divario o ad una rottura (anche se, ancora una volta, i due filosofi differiscono nella concezione delle coordinate spaziotemporali di tale divario). Badiou lo esprime bene nei suoi scritti anteriori: un’ostinazione militante, una certa forma soggettiva, “ha sempre e per sempre accompagnato le grandi rivolte popolari, quando non sono ostaggio ed opache (come tutto ciò che vediamo all’opera oggi: i nazionalismi, la seduzione del mercato, mafiosi e demagoghi innalzati sul piedistallo del parlamentarismo), ma quando sono piuttosto in rottura libera con l’essere-in-situazione, o con l’essere-contato che le tiene sotto controllo”50.
Queste insistenze sul momento della rottura da parte di Badiou e Negri richiamano l’enfasi posta da Rancière sulla divisione all’interno della politica tra politica e polizia51. Per Rancière, la politica accade in uno scontro di due processi eterogenei – il processo di polizia e il processo di uguaglianza. Rancière interpreta la polizia come “un disciplinamento dei corpi che definisce la pluralità tra i modi del fare, i modi dell’essere e i modi del dire […] un ordine del visibile e del dicibile”52. Egli poi usa il termine “politica” per designare ciò “che rompe la configurazione sensibile, in cui si definiscono parti e frazioni o la loro assenza, grazie a una presupposizione che per definizione non vi trova posto: quella di una parte dei senza-parte”53. La politica inscrive una frattura all’interno dell’ordine esistente dell’apparenza. La “parte dei senza-parte” è questo divario nell’ordine esistente dell’apparenza tra tale ordine e altre configurazioni possibili, questo spazio tra e all’interno dei mondi. La parte dei senza-parte non designa quindi un sottoinsieme di persone, un ‘noi’ o una “identità concreta”, che possa essere indicata empiricamente. Essa nomina piuttosto il divario, la divisione o l’antagonismo che segna la non-identità di ogni ordinamento con le proprie componenti. Il termine lacaniano per la parte dei senza-parte sarebbe objet petit a, un oggetto formale ed impossibile che rappresenta l’eccesso di un processo o di una relazione, ovvero, ancora una volta, una sorta di lacuna che stimola o disturba, la mancanza o la non adeguatezza che ci invitano a metterci in gioco. E’ il divario, la non identità tra qualcosa di semplicemente presente e qualcosa di desiderato, l’oggetto causa del desiderio o, tornando alla sfera politica, il divario che sussiste tra un popolo politicizzato e una popolazione o un gruppo di persone.
Rancière nota che la soggettivazione politica è di per sé una disidentificazione e la registrazione di un divario. Spiega che esistono “modi di soggettivizzazione politici […] solo nell’insieme delle relazioni che il noi e il suo nome pongono in essere con l’insieme delle “persone”, il gioco completo delle identità e delle alterità implicate nella dimostrazione, e dei mondi, comuni o divisi, in cui queste si definiscono”54.
Così abbiamo una rottura o un divario e la soggettivazione di questo divario. Ma in che senso parliamo di soggettivazione? Ci sono diverse strategie di politicizzazione, diverse mobilitazioni e diverse soggettivazioni che suscitano e organizzano opinioni e interessi diversi. Il divario necessario al desiderio comunista appare evidente nella non coincidenza del comunismo con la sua configurazione. Si tratta di un divario che è all’interno e parte della configurazione, come indicano i temi marxisti della negazione e il lascito comunista della rivoluzione. Tuttavia, il comunismo non è l’unica ideologia politica che mobilita negazione e rivoluzione – lo fanno e lo hanno fatto anche le rivoluzioni borghesi e liberal-democratiche. Inoltre esso condivide l’uso rivoluzionario della negazione con lo stesso capitalismo, da cui deriva la concezione del comunismo come “negazione della negazione”. La differenza nel modo in cui comunismo e capitalismo soggettivano il divario, perciò, è cruciale. La soggettivazione capitalista, e il desiderio che essa struttura e suscita, è individuale (anche se tende a sublimare il desiderio in pulsione, o, per dirla altrimenti, anche se i desideri individuati si lasciano catturare e danno luogo ai circuiti fortemente ripetitivi della pulsione). Invertendo Althusser si può dire che il capitalismo interpella i soggetti in quanto individui. Un comunismo che fa altrettanto non riesce a produrre una rottura né a instanziare un divario; per questo il desiderio comunista può essere solo collettivo: una comune relazione a una comune condizione di divisione.
La connessione posta da Rancière tra la soggettivazione politica e il divario che sussiste tra ‘noi’ e l’insieme delle persone va in questa direzione: descrive una una relazione comune a una comune condizione di divisione che viene soggettivizzata attraverso il ‘noi’ di un soggetto collettivo. Negri sottolinea direttamente ed esplicitamente il carattere collettivo del desiderio. Badiou, nel suo scritto sulla “morte del comunismo”, invoca un soggetto collettivo, anche se un soggetto che al momento del crollo del partito-stato sovietico “era stato inattivo per più di venti anni”. E inoltre osserva che “l’espressione ‘noi comunisti’ era una precisione nominale aggiunta a ‘noi rivoluzionari’, che a sua volta attribuiva forza politica e personale a questo ‘noi’ costruito come un referente ultimo – il ‘noi’ della classe, il ‘noi’ proletari, che non veniva mai articolato, ma che ogni comunità ideale poneva a suo fondamento come un assioma storico. O in altre parole: noi fedeli agli eventi dell’ottobre 1917”. Badiou racconta che questo senso del ‘noi’ ha influenzato la sua comprensione giovanile della frase di Sartre “ogni anti-comunista è un cane” perché, spiega Badiou, “ogni anticomunista manifestava il suo odio verso il ‘noi’, la sua determinazione ad esistere solo entro i limiti del possesso di se stesso, che corrisponde sempre al possesso di alcuni beni e proprietà”55. Una componente costitutiva della soggettivazione comunista del divario tra ciò che esiste e ciò che potrebbe essere, tra le classi capitaliste e quelle dei lavoratori, tra i rivoluzionari fedeli all’Ottobre 1917 e altre forme di soggettivazione politica, è l’opposizione tra un ‘noi’ collettivo e un individuo determinato nella e dalla padronanza individuale di sé. Il soggetto comunista non è un insieme o un assemblaggio di individui, ma una forza contraria a tale individualismo ed ai suoi accessori.
Badiou oggi ha ridimensionato questa visione delle cose. Anche se insiste sul fatto che ogni procedura di verità esige un Soggetto di questa verità, un Soggetto che, anche empiricamente, non può essere ridotto ad un individuo, egli in realtà dà risalto alla soggettivazione individuale: “Si tratta della possibilità per un individuo, definito come semplice animale umano e nettamente distinto da qualunque Soggetto, di decidere di diventare parte di una procedura di verità politica”. L’individuo decide, e Badiou interpreta questa decisione da parte dell’individuo come una “incorporazione” nel “corpo-della-verità”. L’individuo, quindi, materializza la verità nel mondo, funge da sito della sintesi di politica, ideologia e storia; l’Idea è la possibilità per un individuo di comprendere che la sua partecipazione ad un processo politico singolare (il suo ingresso in un corpo-della-verità) è anche, in un certo senso, una decisione storica56. Descrivendo una conversione molto simile a quella del cristiano che partecipa dello Spirito Santo, Badiou scrive:
“è il momento in cui un individuo dichiara di poter oltrepassare i limiti (di egoismo, di rivalità, di finitezza) impostigli dall’individualità (o dall’animalità, che è la stessa cosa). Lo può nella misura in cui, pur restando quell’individuo che è, egli diventa anche, per incorporazione, parte agente di un nuovo Soggetto. Chiamo soggettivazione questa decisione, questa volontà. In termini piu generali, una soggettivazione è sempre il movimento attraverso il quale un individuo fissa il posto di una verità rispetto alla propria esistenza vitale e al mondo in cui questa esistenza si dispiega”57.
Nella misura in cui Badiou sostiene che “comunista” non può più “qualificare una politica” o funzionare come un aggettivo per un partito o uno stato, è ragionevole che egli trovi un altro luogo per l’incorporazione del comunismo, cioè, per un intervento in grado di collegare la verità alla storia. Allo stesso modo, dal momento che nel nostro contesto contemporaneo la storia della missione storica della classe operaia industriale che annuncia l’avvento del comunismo non è più convincente, la questione del soggetto del comunismo resta aperta e si fa pressante. Eppure in Badiou la scelta dell’individuo quale locus privilegiato per questo processo cancella la differenza che conta nel desiderio comunista: esso è e deve essere collettivo, deve esprimersi nell’azione e nella volontà comuni di coloro che hanno esperito la proletarizzazione o l’indigenza, e sono disposti ad abbandonare il loro attaccamento a una individualità immaginaria. Comunismo non significa altro che azione, determinazione e volontà collettive.
Nelle attuali condizioni di culto capitalista dell’individualità, la valorizzazione degli atti di decisione e volontà individuali riduce il comunismo a una tra le tante opzioni possibili. Questa operazione perciò asseconda la forma capitalistica, facendo del comunismo semplicemente un altro contenuto, un oggetto del desiderio individuale, anziché il desiderio di un soggetto collettivo. Nella visione di Badiou la partecipazione attiva dell’individuo ad un nuovo soggetto non richiede alcun cambiamento radicale da parte del singolo – che può rimanere “l’individuo che è”. Ciò che si perde in tal modo è il comune che dà al comunismo la sua forza, perdita che fa andare avanti il capitalismo. Il comunismo viene a dipendere allora dalla decisione di un individuo, ma in tal caso il desiderio rimane individuale, non diventa comunista, poiché la sua struttura essenziale resta inalterata. In realtà il desiderio [individuale] finisce per essere sublimato all’interno dei più vasti circuiti della pulsione che costantemente esibiscono diversi oggetti di cui godere e offrono anche varie opportunità di godere del fallimento, della ripetizione e del movimento immediato dall’una cosa all’altra. Di sicuro le condizioni sociali, economiche e politiche potrebbero contribuire a creare un contesto in cui la scelta comunista diventi sempre più convincente per un numero sempre maggiore di persone, ma come sia possibile che simili individui riescano a costituirsi come qualcosa di più, come un ‘noi’, ci sfugge.
Anche se il problema politico con cui abbiamo a che fare oggi si distingue in modo essenziale da quello con cui si misuravano i comunisti all’inizio del XX secolo – noi dobbiamo organizzare individui mentre loro dovevano organizzare le masse – l’idea di G. Lukàcs, secondo cui l’individualismo sarebbe un ostacolo alla formazione della volontà collettiva, è un presupposto fondamentale per concepire un desiderio comunista che sia espressione di un desiderio collettivo. Lukàcs osserva che la ‘libertà’ di coloro che sono cresciuti sotto il capitalismo è “la libertà dell’individuo isolato a causa del possesso reificato e reificante”, una libertà che si afferma sopra e contro gli altri individui isolati, “una libertà che consiste nell’egoismo, nel ritirarsi in se stesso; una libertà per la quale la solidarietà e la relazione intervengono al massimo come inefficaci ‘idee regolative’”. Lukàcs sostiene che “volere coscientemente il regno della libertà può quindi significare soltanto fare coscientemente quei passi che conducono effettivamente verso di esso”58. Sulla scia delle distrazioni e delle ossessioni imposte dal capitalismo, è certamente possibile avere la sensazione che qualcosa non funzioni, che manchi qualcosa, che la situazione sia profondamente ingiusta. In reazione a ciò si può decidere di analizzare questa sensazione in profondità, o di contestualizzarla, o di dimenticarla e controllare l’email. Oppure si può provare a fare la differenza – firmando petizioni, aprendo un blog, votando, facendo la propria parte individualmente. Il problema è che in questi casi si continua a pensare e agire in modo individualistico. In un contesto capitalistico il desiderio comunista implica invece “la rinuncia alla libertà individuale”, la subordinazione deliberata e consapevole di sé ad una – e in una – volontà collettiva comunista. Questa subordinazione richiede disciplina, lavoro e organizzazione. Si tratta di un processo che deve essere portato avanti nel tempo e attraverso la lotta collettiva. Infatti, è la lotta collettiva attiva che cambia e rimodella il desiderio a partire dalla sua forma individuale (per Lukàcs, perciò, borghese e reificata) in una forma comune, collettiva.
Il resoconto più famoso e convincente del ruolo della lotta rivoluzionaria nella costituzione del desiderio comunista, cioè nella trasformazione degli interessi individuali in un interesse collettivo, ovviamente è quello che ci è stato tramandato da Lenin. Lenin insiste costantemente sulla lotta, la messa alla prova, l’apprendimento, lo sviluppo, la creazione. Il rovesciamento della vecchia società può verificarsi soltanto come “il risultato di un lungo lavoro, di una dura esperienza”. Ne L’estremismo malattia infantile del comunismo (1920), Lenin presenta “la legge fondamentale della rivoluzione” che si realizza “soltanto quando gli ‘strati inferiori’ non vogliono più il passato e gli ‘strati superiori’ non possono più vivere come in passato”; soltanto allora “la rivoluzione può vincere”. Gli strati inferiori devono desiderare in modo comunista. Se mirano a rovesciare il capitalismo e cominciare a fondare una società comunista, devono desiderare da comunisti. Senza il desiderio collettivo comunista il rovesciamento rivoluzionario può andare in diverse direzioni, ma fondamentalmente in direzioni contro-rivoluzionarie. Lenin scrive: “Il piccolo borghese “infuriato” per gli orrori del capitalismo è un fenomeno sociale caratteristico, come l’anarchismo, di tutti i paesi capitalistici. L’inconsistenza di tale mentalità rivoluzionaria, la sua sterilità, la sua proprietà di trasformarsi presto in sottomissione, apatia, fantasticheria e perfino in “folle” passione per questa o quella corrente borghese “di moda”, tutto ciò è universalmente noto”59.
In questo schizzo provvisorio di una teoria del desiderio comunista ho sottolineato la mancanza (l’apertura del desiderio) e la sua soggettivazione. Ho sostenuto che il desiderio comunista è la soggettivazione collettiva di un divario insormontabile. Il desiderio comunista nomina, infatti, il presupposto collettivo della divisione o antagonismo che sono costitutivi della politica. La collettività è forma del desiderio in due sensi: il nostro desiderio e il nostro desiderio per noi. Ovvero il desiderio comunista è il desiderio collettivo di un desiderare collettivo.
L’identità statistica fornisce una figura per concepire questo desiderio. Come ho già ricordato, Badiou collega le invarianti comuniste alle grandi sollevazioni popolari che si rivoltano contro ‘l’essere contato’. Poiché egli adopera questo concetto nel quadro della sua trattazione della “morte del comunismo”, l’idea dell’essere contato si combina con una più estesa critica dello Stato e della Legge, in particolare con l’operato dello Stato e della Legge nel dare ordine a una situazione e determinarne i fatti. Nell’ambito di un discorso critico un po’ più letterale a proposito del contare quale strumento di esercizio del potere da parte dello Stato moderno, Rancière punta il dito contro le votazioni elettorali responsabili di fornire una rappresentazione del popolo come identico “alla semplice somma delle sue parti”, come nient’altro che la somma delle sue componenti demografiche60. Anziché essere d’accordo con Badiou e Rancière, penso che sia il momento di prendere in considerazione gli elementi a sostegno della tesi contraria, ovvero la tesi secondo cui, nelle circostanze attuali, un conteggio può fornire uno strumento per esprimere collettività, e perfino per rompere con l’assetto originario da cui quello stesso conteggio proviene.
Uno degli slogan che sono emersi con maggior forza a partire dal 17 Settembre 2011 è stato quello del movimento di Occupy Wall Street: “We are 99%”. Invece di nominare un’identità, qui il numero evidenzia una divisione e un divario, il divario tra la ricchezza dell’1% della popolazione e noi. Mobilitando il divario tra l’1% che possiede più della metà della ricchezza del paese [gli Stati Uniti] e il rimanente 99% della popolazione, lo slogan afferma un collettivo e un comune. Non unifica questo comune in nome di una identità sostanziale – di razza, etnia o nazionalità. Piuttosto l’afferma come il ‘noi’ di un popolo diviso, il popolo diviso tra espropriatori ed espropriati. Nella Wall Street occupata questo ‘noi’ definisce una classe, una delle due classi contrapposte e ostili, quella di coloro che possiedono e controllano la ricchezza e quella di coloro che non possono fare altrettanto. In altre parole la dichiarazione “Siamo il 99%” nomina un’appropriazione, un torto, e in tal modo esprime un desiderio collettivo di uguaglianza e di giustizia, il desiderio di un cambiamento della situazione vigente in cui l’1% può permettersi di sequestrare la maggior parte della ricchezza collettiva per sé, lasciando il 99% con quel poco che resta. Inoltre lo slogan “Siamo il 99%” cancella la molteplicità degli interessi individualizzati, parziali, e divisi che frammentano e indeboliscono il popolo. Il conteggio de-individualizza l’interesse e il desiderio, riadattando entrambi entro un orizzonte comune. Contro i costanti tentativi del capitale di polverizzare e decomporre la collettività, la rivendicazione del 99% risponde con la forza di una appartenenza che non solo non può essere eliminata, ma che è il prodotto dei metodi di calcolo propri del capitale stesso: Oh, demografi e statistici! Che cosa avete scatenato? Mentre il capitale demolisce tutti i vincoli sociali precedenti, il calcolo da cui esso dipende fornisce una nuova figura dell’appartenenza. Il capitale deve misurarsi, calcolare i suoi profitti, il suo tasso di profitto, la sua quota di profitto, la sua capacità di sfruttare tale profitto, la sua fiducia o la sua apprensione rispetto alla capacità di produrre profitti futuri. Il capitale calcola e analizza chi ha cosa, rappresentandosi le misure del proprio successo. Questi stessi numeri possono essere messi a frutto, come avviene nello slogan “Siamo il 99%”. Non vengono risignificati, vengono rivendicati nella forma della soggettivazione del divario che separa la vetta dell’1% da noi, tutti gli altri. Per mezzo di questa rivendicazione il divario diventa uno strumento per esprimere il desiderio comunista, ovvero per una politica che afferma che il popolo (the people) può diventare una forza di divisione in vista di una grande trasformazione della società attuale che arrivi a costruirne una nuova, radicata nella collettività e nel comune.
In un’analisi ravvicinata della trattazione di Catherine Malabou delle lesioni cerebrali gravi, Žižek discute la logica delle transizioni dialettiche: “dopo negazione/alienazione/perdita, il soggetto ‘ritorna in sé stesso’, ma questo soggetto non è lo stesso che la sostanza che è andata incontro all’alienazione – esso viene costituito precisamente nel movimento stesso del ritorno-in-sé”61. Žižek conclude, “il soggetto è, in quanto tale, colui che sopravvive alla propria morte, un guscio che rimane dopo che è stato privato della sua sostanza”. Proletarizzazione è un termine che definisce il processo di questa privazione nell’era del capitale. La privazione della sostanza – sostanza comune, sociale – trasforma la collettività nel suo guscio: ne fa la forma che rimane per il desiderio comunista.
Questa forma collettiva si sovrappone all’oggetto-causa del desiderio comunista, il popolo inteso come la parte-dei-senza-parte. Come ho sostenuto in precedenza, la parte-dei-senza-parte nomina il divario o l’antagonismo che caratterizza la non-identità di ogni ordinamento con le proprie componenti. Ciò può quindi essere designato con l’objet petit a di Lacan, un oggetto formale impossibile prodotto come l’eccesso di un processo, una mancanza o un malfunzionamento che ci incita ad agire. Žižek osserva che per Lacan l’oggetto del desiderio rimane sempre ad una certa distanza dal soggetto; non importa quanto vicino arrivi il soggetto all’oggetto, l’oggetto rimane inafferrabile62. La distinzione tra l’oggetto e l’oggetto-causa rende conto di questa differenza; c’è un divario perché l’oggetto-causa non coincide con l’oggetto qualsiasi a cui viene assegnato. L’oggetto-causa è ciò che rende un oggetto desiderabile, non è una proprietà che inerisce all’oggetto. Ad esempio si potrebbe credere che l’oggetto del desiderio comunista potrebbe essere un mondo senza sfruttamento: un mondo caratterizzato da uguaglianza, giustizia, libertà, e dall’assenza di oppressione; un mondo in cui la produzione è comune, la distribuzione si basa sui bisogni e le decisioni realizzano la volontà generale. Però quando si comincia a descrivere questo mondo perfetto si finisce sempre per ottenere un risultato carente. Qualcosa manca sempre – che dire della fine del sessismo, del razzismo o dell’egoismo? E dell’abolizione delle gerarchie sociali? Che dire della libertà religiosa e dell’intolleranza? Della meschinità e della prepotenza? Non è una sorpresa che i detrattori del comunismo (almeno fin da Aristotele nella Politica) accusino il comunismo di essere utopistico e impossibile; è solo un altro modo per dire ‘perfetto’. Ma l’impossibilità del desiderio comunista non è la stessa della sua causa. L’oggetto-causa del desiderio comunista è il popolo e, di nuovo, non il popolo inteso come sinonimo dell’intero corpus sociale, ma come sinonimo della maggioranza produttrice e sfruttata.
Per qualsiasi governo, sistema, organizzazione, o movimento, il popolo resta elusivo, incompatibile e recalcitrante nei confronti dei tentativi di ridurlo, limitarlo, o rappresentarlo. Autoritarismo, oligarchia, aristocrazia, democrazia rappresentativa, democrazia parlamentare – nessuna di queste forme si preoccupa troppo del divario tra governo e popolo. Ma il distacco, il divario contano per il comunismo (e per il fascismo, per inciso, che si occupa di questo divario essenzializzando il popolo attraverso il sangue, il suolo, il Duce e tentando di espellere ed eliminare l’inevitabile antagonismo che resta), soprattutto perché il comunismo non è solo una forma di governo, ma anche una forma di organizzazione della produzione63. Il popolo sfugge, eccede la sua istanziazione simbolica, così come le immagini e le fantasie che cercano di colmare il divario. Il desiderio comunista, il desiderio collettivo di desiderare comunista, occupa e mobilita questo divario, riconoscendone l’apertura (ovvero l’impossibilità del popolo) e facendone il movimento del comunismo stesso nelle parole di Marx e di Engels ne L’ideologia tedesca: “chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”64.
Fin qui ho cercato di delineare l’ipotesi del desiderio comunista all’interno dello spazio delimitato dalla fine di una certa malinconia di sinistra e dalla ricerca di un’alternativa al percorso della pulsione. Mentre alcuni hanno interpretato la sublimazione della pulsione come un modo per superare il desiderio configurato sotto forma di legge e trasgressione della legge, io ho tracciato l’abbozzo di una concetto diverso di desiderio che, attraverso la collettività, rompe con i circuiti ripetitivi della pulsione. Invece di rimanere intrappolato nel fallimento e godere del fallimento a raggiungere l’obiettivo, il desiderio comunista soggettivizza la propria impossibilità, la sua costitutiva mancanza e apertura. Tale soggettivazione è inscindibile dalla lotta collettiva, dall’impatto dei cambiamenti che avvengono nel tempo e che consentono quel che James Martel chiama il ‘riconoscimento del misconoscimento’, cioè il riconoscimento delle false partenze e degli errori, delle costruzioni di fantasia e dei miti della totalità e dell’inevitabilità65. Proprio perché tale lotta è necessariamente collettiva, essa perviene a forgiare un desiderio comune, a partire dai desideri individualizzati, sostituendo progressivamente la debolezza individuale con la forza collettiva.
* Il saggio “Communist Desire” è apparso nel volume a cura di S. Žižek, The Idea of Communism 2. The New York Conference, Verso, London/New York, 2013. La traduzione è a cura di A. Capoferro e J. M.H. Mascat.
- W. Brown, “Resisting Left Melancholy”, in boundary 2, vol. 26, 3, pp. 19-27. ↩
- Ivi, p.22. ↩
- Cfr. “Malinconia di sinistra” in W. Benjamin, Opere complete. IV. Scritti 1930-1931, tr. it. di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino, 2002, pp. 263-267. Kästner è noto per essere l’autore di Emil e i detective (1929), un libro di narrativa per ragazzi, tradotto in più di cinquanta lingue, che racconta una storia realistica ambientata nella Berlino degli anni Venti ed incentrata intorno a un furto di denaro (NdT). ↩
- Ivi, p.267. ↩
- W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, tr. it di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1973, p. 210. La Neue Sachlichkeit è una corrente letteraria sorta in Germania durante il primo Dopoguerra (NdT). ↩
- Ivi, p. 211. ↩
- Ivi, p. 210. ↩
- W. Brown, op. cit., p. 20. ↩
- W. Benjamin, “Malinconia di sinistra”, in Opere complete. IV, cit., p. 266. ↩
- Ivi, pp. 263-264. ↩
- W. Brown, op. cit., p. 21. ↩
- W. Benjamin, “Malinconia di sinistra”, in Opere complete. IV, cit., p. 265. ↩
- Ivi, pp. 264-265. [Parte della traduzione è stata modificata seguendo l’edizione inglese del testo di Benjamin, che è quella adoperata da Dean: “Intelligenzmagazin” è stato reso in inglese “intelligentsia’s department store” e da noi con “grandi magazzini dell’intelligentsia”; la traduzione italiana, invece, traduce “giornale di annunci pubblicitari” (NdT). ↩
- W. Brown, op. cit., p. 25. ↩
- A. Badiou, Le siècle, Éditions du Seuil, Paris 2005, p. 68. ↩
- W. Benjamin, “Malinconia di sinistra”, in Opere complete. IV, cit., p. 266. ↩
- Ivi, pp. 266- 267. ↩
- S. Freud, “Lutto e melanconia”, in Opere, vol. 8 (Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, 1915-1917), a cura di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, pp. 102-118. ↩
- Ivi, p. 105. ↩
- Ivi, p. 106. ↩
- Ivi, p. 107. ↩
- Ivi, p. 108. ↩
- W. Brown, op. cit., pp. 20-22. ↩
- Ivi, p. 22. ↩
- W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, tr. it. di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1973, p. 205. ↩
- S. Freud, “Lutto e malinconia”, cit., p. 107. ↩
- J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), a cura di G.B. Contri, tr. it. di M. Contri, Einaudi, Torino, pp. 404-405. ↩
- S. Freud, “Lutto e malinconia”, cit., p. 107. ↩
- S. Freud, “Pulsioni e loro destini”, in Opere, vol. 8 (Metapsicologia), a cura di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 13. ↩
- S. Žižek, In Defense of Lost Causes, Verso, London, 2008, p. 328 (tr. it. In difesa delle cause perse, Ponte alle Grazie, Milano, 2013). ↩
- S. Freud, “Lutto e malinconia”, cit., p,117. ↩
- M. Dolar, “Freud and the Political”, in Theory and Event,12, 3, 2009. ↩
- C. Douzinas, S. Žižek (a cura di), L’idea di comunismo, Derive Approdi, Roma, 2011, p. 7. ↩
- B. Bosteels, The Actuality of Communism, Verso, Londra, 2011, p. 228. ↩
- A. Negri, “Comunismo: qualche riflessione sul concetto e la pratica”, in L’idea del comunismo, cit., p. 188. ↩
- A. Russo, “La Rivoluzione culturale ha messo fine al comunismo?” in L’idea del comunismo, cit., p. 215. ↩
- Badiou scrive: “Poiché ‘communismo’ è stato il nome di questa eternità, non può più adeguatamente nominare una morte”, cfr. A. Badiou, Of an Obscure Disaster, JVE, Maastricht, 2010, p. 19. ↩
- A. Badiou, Of an Obscure Disaster, cit. p. 17. Bruno Bosteels sottolinea che queste invarianti sono “l’opera delle masse in senso lato” e “la sostanza popolare immediata di tutte le grandi rivolte”, in B. Bosteels, Badiou and Politics, Duke University Press, Durham, 2011, pp. 277-278. ↩
- A. Negri, “Comunismo: qualche riflessione sul concetto e la pratica”, in L’idea del comunismo, cit., p.188. ↩
- B. Bosteels, Badiou and Politics, cit., p. 277. ↩
- Cfr. ivi, p. 278. ↩
- Questa convinzione deve molto alle mie conversazioni con James Martel, e ai suoi convincenti argomenti formulati in J. Martel, Textual Conspiracies, University of Michigan Press, Ann Arbor, 2011, pp. 147-149. ↩
- Vedi anche l’approccio dialettico di Bosteels alla “storia concreta e al nocciolo astorico delle politiche emancipatrici” in B. Bosteels, The Actuality of Communism, cit., pp. 275-283. ↩
- L’espressione signifying stresses [qui tradotta con ‘tensione sintomatiche’ ↩
- Rinviamo a J. Martel, op. cit. per una panoramica di questi dibattiti. ↩
- Martel sviluppa questa idea attraverso la lettura della metafora di E. A. Poe dell’anima come vortice (Una discesa nel Maelström). ↩
- S. Žižek, The Ticklish Subject, Verso, Londra, 1999, p.296 (tr. it. Il soggetto scabroso, Raffaello Cortina, Milano 2003). ↩
- Ovvero senza ritornare a quel che James Martel chiama ‘idolatria’. ↩
- A. Negri, “Comunismo: qualche riflessione sul concetto e la pratica”, cit., p.185. ↩
- A. Badiou, Of an Obscure Disaster, cit., pp. 6, 17-18. ↩
- Si veda la mia discussione dell’opera di Rancière in J. Dean, “Politics without Politics”, in Parallax, 15, 3, 2009. ↩
- J. Rancière, Il disaccordo, tr. it. di B. Magni, Meltemi, Roma, 2007, p. 48. ↩
- Ibidem. ↩
- Ivi, p. 76. ↩
- A. Badiou, Of an Obscure Disaster, cit., pp. 11-12. ↩
- A. Badiou, “L’idea del comunismo”, L’idea di comunismo, cit., p. 11. ↩
- Ivi, pp. 11-12. ↩
- G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. it. di G. Piana, Mondadori, Milano, 1973, p. 389. ↩
- V. I. Lenin, “L’estremismo malattia infantile del comunismo” (1920), in Opere scelte in due volumi, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948-49. Cfr. http://andriacomunista.wordpress.com/formazione-e-teoria/l%E2%80%99estremismo-malattia-infantile-del-comunismo-lenin/. ↩
- J. Rancière, Il disaccordo, cit. p. 132. ↩
- S. Žižek, Living in the End Times, Verso, Londra, 2011, p.307. ↩
- Ivi, p. 303. ↩
- Alberto Toscano argomenta questa idea con particolare efficacia ne “La politica dell’astrazione: comunismo e filosofia”, in L’idea di comunismo, cit., pp. 217-228. ↩
- B. Bosteels osserva l’ubiquità di questo passaggio in The Actuality of Communism, cit., p. 19. ↩
- Si veda di nuovo J. Marcel, op. cit. ↩