Francesco Toto*
L’acquiescentia in se ipso viene definita nell’Etica di Spinoza come «una gioia con la coscienza di sé come causa»[1], «che nasce dal fatto che l’uomo contempla sé stesso e la propria potenza di agire»[2], e ricompare poi come «la gioia che nasce dalla contemplazione di noi stessi» e che si ripete «ogni volta che qualcuno immagina le sue azioni» o «contempla le sue virtù»[3]. Coincidendo con la felicità[4], questa forma di acquiescentia si impone inoltre come «la cosa somma che possiamo sperare»[5], «il sommo bene che ognuno ama»[6], e quindi anche come l’oggetto di una aspirazione universale, comune all’uomo che ragiona e a quello che immagina, a colui che non desidera se non i beni di cui può essere certo, perché seguono dalla sua sola natura e sono pienamente in suo potere, e a colui che si abbandona alle passioni eccitate da cause esterne e dipendenti per il loro appagamento da circostanze che non sono in suo potere. Il funzionamento di questo affetto in un ambito razionale è chiaro, ma si oscura quando si passa al piano dell’immaginazione. Cosa significa, in effetti, assumere sé stesso ad oggetto di immaginazione? Cosa, inoltre, attribuirsi immaginariamente una potenza di agire o virtù? Cosa, infine, immaginarsi felice?
Secondo E1app «gli uomini credono di essere liberi perché sono consci delle loro volizioni e dei loro appetiti e non pensano neppure per sogno alle cause dalle quali sono disposti ad appetire e volere, perché ne sono ignari». La stessa formula ricompare con sottili variazioni prima in E2p35sch, dove l’idea che le azioni umane dipendano dalla volontà viene usata quale esempio di come l’errore non consista in una «assoluta ignoranza», ma in una «privazione di conoscenza», e poi in E4praef, dove l’appetito viene identificato con la «causa efficiente» dell’azione ma distinto dalla sua «causa primaria». Come è noto per Spinoza la volontà è l’aspetto mentale di un appetito che coincide con l’essenza o natura dell’uomo, e che può essere chiamato desiderio in quanto accompagnato da coscienza[7]. Che lo sappiamo o meno, quando affermiamo a parole che le nostre azioni dipendono da una libera volontà intendiamo che esse dipendono dai nostri desideri come dalla propria «causa primaria», e dunque dalla nostra «sola natura»[8]. Quello usato scorrettamente dall’immaginazione è in altre parole il concetto razionale dell’attività: l’uomo che si illude di essere libero crede di «agire» nel senso tecnico stabilito in E3def2, di essere la causa adeguata dell’azione o dei suoi effetti. Il desiderio è una causa dell’azione, ma non la sua causa adeguata, perché l’azione segue dal desiderio, e quindi dalla natura dell’uomo, ma solo per il modo in cui questa è «determinata» da antecedenti causali ulteriori[9]. L’uomo che immagina di essere libero e di agire secondo la propria volontà non lo fa per una «assoluta ignoranza», ma solo perché ignora –senza saperlo– la presenza di questi fattori causali ulteriori, e scambia perciò la sua conoscenza inadeguata per una adeguata, la propria confusa coscienza di sé con la realtà: consapevole del proprio appetito come la causa che determina le sue azioni e le loro conseguenze, ma non di quella da cui l’appetito è a sua volta necessariamente determinato, finisce col pensare l’azione come soltanto «possibile», la sua causa come «indeterminata», sé stesso come tale da doversi determinare ad agire «da sé solo»[10], le conseguenze fortuite della propria condotta come dei propri successi.[11]
Riassumendo quanto già detto ed esplicitandone alcune conseguenze è possibile comprendere le condizioni della soddisfazione di sé. L’uomo che immagina, ed è per ciò stesso necessariamente passivo[12], può comunque illudersi di agire perché ignora le cause che ne determinano l’appetito ed interpreta le proprie “azioni” come il risultato di una libera decisione della mente. Una volta riconosciuto un evento come un’azione e sé stesso come il suo unico responsabile l’uomo non ha però problemi ad attribuirsi la potenza di agire o virtù: come il successo dei suoi sforzi gli permette di attribuirsi una capacità sufficiente a eseguire le “azioni” di cui si suppone l’autore ed altre consimili, così, poiché giudica buono tutto ciò che desidera e si sforza di realizzare, l’idea della propria responsabilità gli permette di attribuirsi una certa virtù. L’uomo costruisce un’idea immaginaria di sé come soggetto morale ed astratto, ridotto a una serie di facoltà che possono essere pensate come il suo nucleo invariante solo in quanto preliminarmente separate dalle modificazioni alle quali l’uomo è necessariamente esposto nella relazionalità della propria esistenza. Questa coscienza di sé come agente morale costituisce la condizione dell’applicazione immaginaria della definizione razionale dell’acquiescentia come gioia che nasce dalla contemplazione di sé e della propria potenza, ma lascia ancora aperti diversi interrogativi. L’uomo può davvero essere soddisfatto di sé per il solo fatto di formare una idea astratta di sé e delle proprie capacità? Come posso godere della contemplazione di me stesso e delle mie presunte capacità senza farmi un’idea delle circostanze in cui dovrò farne uso, e nelle quali le mie capacità potrebbero essere sufficienti o insufficienti?
Quando facciamo astrazione dall’affetto della soddisfazione di sé i desideri dell’uomo ci appaiono rivolti unicamente agli oggetti che favoriscono il suo sforzo di perseverare nell’essere, aumentano la sua potenza di agire, e vengono esperiti come fonte di gioia ed oggetto d’amore. Questi desideri rappresentano altrettante determinazioni di un unico sforzo, quello rivolto alla conservazione del proprio essere, ma il Sé non è ancora, propriamente, l’oggetto del desiderio: il desiderio è per definizione cosciente, mentre lo sforzo di perseverare nell’essere –che non accede alla coscienza se non nelle sue forme determinate, come desiderio di questo o quell’oggetto– resta di per sé stesso inconscio. La vita pratica e affettiva dell’uomo appare allora come governata da una pluralità di desideri e di fini, priva di un principio di organizzazione unitario e di un orientamento comune: desideriamo come un mezzo, come qualcosa di utile e che aumenta la nostra potenza di agire, tutto ciò che favorisce la realizzazione delle cose che amiamo e crediamo di per sé stesse buone, le quali non sono però desiderate come mezzi per un unico fine, strumenti della nostra stessa conservazione o felicità, ma come una pluralità di fini in sé che non rimanda a nessuna finalità ulteriore e sovrordinata. Cosa succede, però, quando si prende in considerazione la soddisfazione di sé?
Quando io amo Claudia desidero preservarne l’integrità o renderla felice, e non posso fare a meno di amare anche Mario se tende anche lui a conservare ed allietare Claudia e contribuire così alla mia felicità[13]. Quando ho successo nel realizzare, conservare o allietare la cosa che amo, però, io amo me stesso esattamente allo stesso modo in cui amo Mario. Il Sé non è direttamente, immediatamente oggetto di amore o desiderio, perché non è di per sé causa di gioia ed oggetto di godimento, ma lo diventa, come potrebbe divenirlo un terzo, perché pone l’esistenza della cosa amata, si giudica buono, e diventa così un fine a sé stesso. Anche se non è un affetto primario, originario, semplice, però, la soddisfazione di noi stessi è un affetto che non può fare a meno di generare un desiderio: quello di perseverare in questa soddisfazione conservando noi stessi e rendendoci felici, e quindi conservando ciò che ci conserva o rallegra e distruggendo ciò che ci distrugge o intristisce. Questo desiderio non ci chiude in noi stessi, perché il godimento di sé non esclude, ma implica, quello delle cose esterne. Mossi dall’amore verso noi stessi noi desideriamo esattamente le stesse cose che avremmo desiderato a prescindere da questo amore, ma con la differenza che tutti i nostri desideri ci appaiono ora quali forme determinate e subordinate di un solo desiderio fondamentale: non desideriamo più le cose soltanto per poterne godere, ma sempre anche come mezzi di un unico fine, quello di aumentare la nostra potenza di agire, la nostra capacità di soddisfare i nostri stessi desideri, di essere soddisfatti di noi e godere nel riconoscerci degni del nostro stesso amore, capaci di conservare, realizzare ed affermare noi stessi. Questo desiderio rivolto alla realizzazione di sé, nel quale tutti gli altri trovano la propria sintesi, è allora al tempo stesso quello nel quale il conatus –la nostra stessa natura, lo sfondo comune dei nostri desideri– diventa finalmente cosciente e dischiude in questo modo la possibilità di un rapporto pratico e riflessivo con il proprio Sé[14]. Dato poi che la soddisfazione di sé è la gioia che ognuno può provare nel riconoscersi come causa di ciò che desidera e causa la sua gioia, il desiderio di essere soddisfatti di sé in quanto causa della soddisfazione dei propri desideri non è altro che il desiderio di rendersi attivi, autonomi: che la propria soddisfazione dipenda non dal concorso fortuito delle cause esterne, ma dalla propria sola potenza di agire[15].
Possiamo ora rispondere anche alla terza delle domande da cui siamo partiti, relativa al rapporto tra soddisfazione di sé e felicità. Spinoza chiama «costituzione del corpo» l’intera moltitudine di affezioni da cui esso è affetto in un certo momento, che si accordano o confliggono tra loro e corrispondono agli stimoli sensoriali attuali o a quelli passati di cui il corpo ha conservato la traccia. Allo stesso modo, chiama «costituzione della mente» l’intera molteplicità di idee che la attraversano, che possono affermare o negare l’una il contenuto dell’altra e corrispondere non solo alla percezione delle cose presenti, ma anche al ricordo di quelle passate o all’immaginazione di quelle future. Dopo aver identificato il desiderio con «l’essenza stessa dell’uomo, in quanto è concepita come determinata a fare qualcosa da una sua qualunque affezione data», l’explicatio di Aff.def1 assimila questa «affezione dell’essenza umana» non con un singolo affetto, con l’unità cioè di un’affezione del corpo e della sua idea, ma con la «costituzione di questa essenza», che equivale alla totalità degli affetti interconnessi da cui l’uomo è preso in un certo momento[16]. Non solo il desiderio non si dà per definizione se non come determinato, ma questa sua determinazione è inoltre intrinsecamente complessa, perché i desideri “semplici” esistono solo quali componenti di un unico desiderio complesso, coincidente a mio avviso con quello di essere felici o soddisfatti di sé. Ma come possiamo sperare di essere felici in questa vita?
Immaginiamo che in un certo momento io sia preso da desideri diversi e mi riconosca capace delle azioni necessarie a soddisfarli, che però sono incompatibili nella simultaneità. Questa incompatibilità, in realtà, non necessariamente mi impedisce di essere pienamente soddisfatto di me, perché la gioia che provo nell’immaginare qualcosa come attualmente presente non differisce, caeteris paribus, da quella che provo nell’immaginarla come presente nel futuro[17], e posso dunque essere soddisfatto di me per un successo che non ho ancora ottenuto, ma ho fiducia di ottenere. In una situazione in cui la soddisfazione di un desiderio esclude la simultanea soddisfazione di tutti gli altri una piena soddisfazione di me stesso è dunque possibile a condizione di poter immaginare che le mie azioni si inscrivano secondo una connessione temporale coerente in un progetto unitario, capace di garantire a tempo debito la soddisfazione di tutti i desideri da cui sono preso in quel momento. Il desiderio di essere soddisfatti di sé coincide dunque col desiderio di poter realizzare tutti i propri desideri, di poter superare tutti gli ostacoli che si frapponessero alla loro soddisfazione, di poter trasformare attivamente sé stessi e il mondo esterno eliminando tutte le fonti interne od esterne di paura e frustrazione, rendendo sé stessi e l’ambiente ugualmente adeguati ad una piena espressione o ad un continuo incremento della propria potenza di agire. La soddisfazione o l’amore di sé possono davvero coincidere con la felicità, con la gioia che racchiude in sé tutte le altre, ma solo a condizione di rapportarsi al Sé non più come al soggetto astratto di facoltà immutabilmente identiche a sé stesse, ma come il centro della concatenazione di eventi o di possibilità che costituiscono la singolarità della sua storia, e di rivelare quindi la propria intima connessione con l’intera autobiografia del soggetto, con una narratio che si estende all’«intero spazio della vita» passata e futura[18].
L’identificazione della «natura determinata» od «essenza attuale» dell’uomo con la sua constitutio, e della sua coscienza di sé con una coscienza per così dire narrativa, solleva però un nuovo problema. Una qualche permanenza dell’organizzazione affettiva da cui è determinato il rapporto pratico e cognitivo dell’individuo con sé stesso e con il mondo può essere garantita da una certa stabilità dell’ambiente e dal conseguente ripetersi delle esperienze, contrarsi delle abitudini, fissarsi delle attitudini e delle disposizioni. È così che l’individuo diventa in qualche modo uno dei vari “caratteri” che compaiono nell’Ethica: l’ingordo, il libidinoso, il timido, l’avaro, la ciarliera, e via dicendo[19]. L’identità dell’uomo, però, si costruisce attorno a un gioco non solo di continuità, ma anche di discontinuità: basta pensare al caso del poeta amnesico o a quello del bambino che diventa adulto[20]. Se l’uomo non è nella propria singolarità niente di diverso dalla sua constitutio affettiva; se il continuo mutare di questa costituzione lo rende da un istante all’altro continuamente diverso da sé; se colui che decide di agire, colui che agisce, e colui che raccoglie i frutti dell’azione è un uomo di volta in volta diverso, preso da desideri altrettanto diversi e capace quindi di risposte analogamente differenti ai medesimi fatti: cosa gli consente di “riconoscersi” in sé stesso, e solo a questa condizione essere soddisfatto di sé, amare sé stesso? Cosa gli garantisce che la sua autobiografia sia la storia di uno stesso protagonista, e non un film di David Lynch?
Per rispondere a quest’ultima domanda può essere utile partire da una storia. Immaginiamo che in un certo tempo un famoso poeta spagnolo di nome Giuseppe ami Maria, desideri renderla felice, e decida perciò di dedicargli tutti i propri componimenti; che in un momento successivo questa azione produca effettivamente l’effetto desiderato; che infine tra il primo momento e il secondo il poeta Giuseppe si renda conto che Maria non è più quella che amava, o che non lo è mai stata, e l’amore e la stima cedano il posto all’odio e al disprezzo[21]. Cosa succede in questo caso? Riconoscendo sé stesso come causa della propria tristezza, Giuseppe potrebbe pentirsi, provare cioè «una tristezza accompagnata dall’idea di sé stesso come causa»[22], e questo pentimento potrebbe coincidere con l’affetto che Spinoza chiama esplicitamente, almeno una volta, «odio di sé»[23]. Ora, un uomo che odiasse sé stesso dovrebbe rapportarsi a sé nello stesso modo in cui si rapporta con un altro ostile: godere della propria distruzione o tristezza, desiderare di distruggersi o rattristarsi, essere soddisfatto di sé ed amare sé stesso nella stessa misura in cui ha successo in questo suo sforzo di distruggersi e ridursi all’impotenza, fomentando così il proprio odio verso di sé e il desiderio di infliggersi una sofferenza ancora maggiore. Non è certo che Spinoza ammetta la possibilità di un simile «odium sui», che pare anzi radicalmente esclusa dalla sua teoria del conatus, ma mi domando se esso non corrisponda in qualche modo alla paradossale coabitazione di uno stesso individuo da parte di due nature differenti e contrarie attraverso la quale E4p20sch spiega il suicidio, e se il sentimento di estraneità, lacerazione, sdoppiamento da cui sarebbe preso colui che odiasse sé stesso non debba dunque essere letto come il correlato esperienziale del conflitto interno che talvolta costringe l’uomo a sforzarsi di non esistere, a lavorare attivamente al proprio annientamento o alla propria passività. A prescindere dalla soluzione di questo problema, resta sicuramente aperta un’alternativa al pentimento e all’odio di sé. La tendenza fondamentale di tutta l’attività immaginativa consiste infatti non solo nell’«affermare di noi e della cosa amata» tutto ciò che è causa di gioia ma anche, per ciò stesso, nel «negare» tutto ciò che è causa di tristezza[24]. Quando lo sforzo di preservare intatta l’immagine idealizzata di Maria, e l’odio prende il posto dell’amore, Giuseppe si sforza di negare o rimuovere l’idea di Maria o della sua gioia, che sono per lui fonte di tristezza, o quantomeno l’idea delle poesie che rendendo felice Maria lo avevano reso falsamente soddisfatto di sé, e con esse quell’idea di sé come poeta alla quale sono legati oramai solo pentimento ed odio di sé. Visto poi che l’amore per una cosa può essere così intenso e pervasivo da monopolizzare l’intera vita affettiva di un uomo[25], e la completa conversione dell’amore nell’odio può rappresentare uno strappo così violento, una cesura così profonda da impedirgli di riconoscersi in sé stesso e di tenere assieme con tutta la loro diversità il Sé passato e quello presente, Giuseppe può cadere preda di una profonda amnesia, oppure, meno radicalmente, immaginare di non essere più lo stesso di prima, ed indirizzare il proprio odio contro il sé stesso che non è più. Sono proprio questi meccanismi di difesa, volti ad espellere dalla coscienza gli aspetti intollerabili della propria vita affettiva e della propria storia e a proteggere il proprio rapporto positivo con sé stesso, a costruire un Sé idealizzato e dotato di una sia pure immaginaria e parziale coerenza e stabilità, e a consentire al soggetto di continuare a riconoscersi in un sé stesso perennemente mutevole e di trovare in esso quella fonte di soddisfazione e quell’oggetto di amore senza i quali la morte −quella di Seneca o quella del poeta spagnolo− diventa il minore dei mali[26].
Per concludere, mi sembra che non appena se ne ammette la possibilità l’odium sui si imponga come un riconoscimento di sé che costringe il soggetto a rifiutare sé stesso e a misconoscersi, e l’amore di sé come un affetto di per sé stesso identico sia quando è costruito su una piena accettazione di sé sia quando è fondato su una rimozione e su un misconoscimento di questo o quell’aspetto della propria identità, nel quale una costanza e una coerenza reali o immaginarie consentono all’uomo di sentirsi tutt’uno con sé stesso, di riconoscersi in sé stesso, e di godere di questa unità. Per proseguire questo discorso occorrerebbe prendere in considerazione le modalità concrete attraverso le quali l’amore di sé può imprigionare l’uomo in sé stesso e nella propria identità immaginaria[27] o aprirlo alla ricerca di un sé più autentico[28], schiacciarlo nell’impotenza e nella passività[29] o spingerlo al contrario a divenire attivo e virtuoso[30], ed affrontare quindi le ripercussioni che l’amore o l’odio degli altri (la lode e il biasimo, la gloria e la vergogna[31]) possono avere sul rapporto dell’uomo con sé stesso. Per ora, però, devo lasciare in sospeso questi problemi, e accontentarmi di aver evidenziato la centralità dell’aspetto immaginario e passionale dell’acquiescentia in se ipso o amor sui all’interno dell’antropologia spinoziana e della sua teoria degli affetti.
* Questo testo è la versione italiana di F. Toto, «Acquiescentia in se ipso y constitución imaginaria del Sí mismo», in D. Tatiàn (comp.), Spinoza. Noveno Coloquio , Córdoba, Brujas, 2013, pp. 131-140.
[2] Aff.def.25.
[3] E3p55sch1.
[4] Cfr. E4p18sch, dove felicitas equivale a «poter conservare il proprio essere» e rinvia quindi alla contemplazione di sé e della propria potenza. Vedi Cristofolini, P., Spinoza edonista, ETS, Pisa, 2002, pp.71-83 e Ramond, Ch., “Spinoza: un bonheur incomparable? Béatitude et félicité”, in Schnell, A. (ed.), Le bonheur, Vrin, Paris, 2006, pp. 59-78.
[5] E4p52sch.
[6] E4p58sch.
[7] E3p9sch.
[8] E1def7.
[9] Vedi il riferimento alla determinazione presente già nella definizione del desiderio, Aff.def.1.
[10] Per la possibilità cfr. E4def4; per l’indeterminatezza della causa e la sua conseguente capacità di determinarsi da sola ved E1p27 e 26; sul concetto di fortuna TTP3. Su questi problemi vedi Levy, L., L’automate spirituel. La subjectivité moderne d’après l’«Ethique» de Spinoza¸ Van Gorcum, Assen, 2000, chapitre 4, e in particolare pp. 62-71.
[11] Cfr. Rutherford, D., “Salvation as a State of mind: the place of «acquiescentia» in Spinoza’s Ethics”, in «British journal for the history of philosophy», 1999, vol. 7, n. 3, p. 452.
[12] E3p3.
[13] E3p19, 21 e 22.
[14] Questa forma immaginaria di coscienza di sé e del proprio conatus, nella quale in cui l’uomo coglie la propria essenza e potenza come distinta dall’essenza o dalla potenza divine, rende evidente l’infondatezza dell’argomento sviluppato in LeBuffe, M., “Spinoza’s sommum bonum”, in «Pacific Philosophical Quarterly», 2005, n. 86, pp. 243-66, secondo il quale la conoscenza di Dio può essere coerentemente considerata da Spinoza come il sommo bene dell’uomo perché questa conoscenza è inseparabile dalla conoscenza di sé come un essere la cui natura consiste nel conatus, conoscenza a propria volta sommamente utile a contrastare le passioni dannose e dunque alla sopravvivenza: non c’è bisogno di conoscere Dio, e attraverso di esso la propria vera natura, per evitare una sbronza o per smettere di fumare.
[15] Diversamente da quanto sostenuto da de Dijn, H., “Naturalism, Freedom, and Ethics in Spinoza”, in «Studia Leibnitiana», 1990, vol. 22, n. 2, p. 142, non credo che questo desiderio di attività o libertà sia per Spinoza una caratteristico del saggio ed estraneo all’uomo dominato dalle passioni: l’autonomia conquistata dall’uno costituisce la soddisfazione di un desiderio da cui neanche l’altro, persino quando scambia la propria servitù per libertà, può essere immune.
[16] Per l’uso del termine «constitutio» in rapporto al corpo, alla mente e all’uomo come unità di entrambi vedi rispettivamente, tra gli altri passi, E2p17cor2, E3p17sch, Aff.def1. Su questo tema vedi Toto, F., “La costituzione dell’essenza umana. Un’identità in divenire”, in Sangiacomo, A., Toto, F. (a cura di), Essentia actuosa. Riletture dell’«Etica» di Spinoza, Mimesis, Milano, 2014.
[17] E3p18.
[18] E5p39sch. Il concetto di «narrazione» assume un ruolo politico esplicito e importante in TTP5, ma è presente, ad esempio, anche in E3p47sch, E3p55sch1, Aff.def29expl, E4p37sch1. Sull’uso spinoziano di questo concetto vedi Rosenthal, M. H., “Spinoza and the philosophy of history”, in Huenemann, Ch., Interpreting Spinoza. Critical essays, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, pp. 111-26, e James, S., “Narrative as the means to freedom: Spinoza and the uses of imagination”, in Melamed, Y. Y., M. A. Rosenthal, Spinoza’s Theological-political treatise. A critical guide, Cambridge university press¸Cambridge, 2010, pp. 250-267. Il livello narrativo della costruzione del Sé oggetto dell’amor sui mi sembra incompatibile con la lettura offerta da L. Bove. La distinzione proposta da Bove tra amor proprio e amore di sé, come anche la riduzione di quest’ultimo al «sentimento della presenza immediata e attuale che l’esistente ha di sé», riecheggia tacitamente quella sistematizzata da Rousseau nel secondo Discorso, con la definizione dell’amore di sé a partire dal «sentimento della propria esistenza attuale». Cfr. Bove, L., La strategie du conatus. Affirmation et résistence chez Spinoza, Vrin, 1996, p. 87 e. Rousseau, J.-J, “Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes”, texte établi, présenté et annoté par J. Starobinski, in Rousseau, J.-J, Œuvres complètes, édition publiée sous la direction de B. Gagnebin et M. Raymond, vol. III, Paris, 1964, p. 144.
[19] Vedi ad esempio E3p2sch, E3p39sch, Aff.def48expl.
[20] E4p39sch.
[21] Cfr. E3p38.
[22] E3p51sch.
[23] Aff.def28expl.
[24] E3p25 e 26.
[25] E4p44sch.
[26] Non ho inteso, qui, spiegare l’esempio del poeta spagnolo, sul quale vedi ad es. Vinciguerra, L., Spinoza et le signe. La genèse de l’imagination, Vrin, Paris, 2005, pp. 153-62 e Moreau, P.-F., “L’amnésie du poète espagnol”, in «Klesis. Revue philosophique», 2007, n. 5.1.
[27] E3p26sch.
[28] E3p53.
[29] E4p56.
[30] E4p52.
[31] Cfr. E3p29sch ed E3p30sch.