Jacopo Branchesi
Recensione:
A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica,
Pensa MultiMedia, Lecce 2012, pp. 253.
È passato circa mezzo secolo da quando negli anni Sessanta e Settanta i motivi della Scuola di Francoforte animavano le rivolte nelle università americane ed europee, riecheggiavano nelle contestazioni contro la guerra in Vietnam e nelle lotte operaie. In quegli anni la teoria critica, dopo aver già esercitato un profondo influsso sul marxismo, raggiungeva l’apice del successo nella cultura occidentale, ma al tempo stesso si apprestava a consumare gli ultimi bagliori come «tempo di essa appreso con il pensiero»[1].
Oggi la teoria critica «sembra essere diventata una figura del pensiero abbandonata al passato»[2]; di qui l’intento del volume (Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica) di ricostruirne la storia, mostrando la ricchezza dei temi sviluppati e facendo emergere dalla «pluralità delle sue voci»[3] il profondo carattere unitario, così come la capacità di illuminare ancora il presente.
Il motivo che conferisce unitarietà alla teoria critica e che costituisce il filo conduttore della ricostruzione di Honneth è «l’idea fondamentale secondo cui le condizioni di vita nelle moderne società capitalistiche generano pratiche sociali, atteggiamenti e strutture della personalità che si abbattono sotto forma di deformazioni patologiche sulla nostra capacità di ragionare»[4]. Questo il tema condiviso dagli esponenti della Scuola di Francoforte attraverso cui rileggere la storia della teoria critica come un corpus unitario e individuarne possibili percorsi per tradurla in una teoria della società contemporanea.
È bene rilevare fin da subito che l’obiettivo di riattualizzare la teoria critica è tutt’altro che banale, se si pensa che in una tale operazione occorre confrontarsi con idee avvolte in «un’atmosfera di obsoleto e antiquato, di irrevocabilmente perduto»[5], idee quali la critica radicale della scienza e della tecnica, il pessimismo nei confronti del progresso, il netto rifiuto della società moderna capitalistica, i miti della rivoluzione e della palingenesi totale della società. Un’operazione resa ancor più ardua alla luce della difesa della dialettica hegelo-marxiana da parte degli studiosi intorno alla Scuola di Francoforte sulla scia della linea interpretativa tracciata da Lukács[6] in Storia e coscienza di classe[7]. La dialettica hegelo-marxiana costituisce, infatti, uno dei tratti metodologici che contraddistingue la Scuola, soprattutto da quando Horkheimer assunse la direzione dell’Istituto di Ricerca Sociale nel 1929. Ed è appena il caso di ricordare al lettore quanto Bernstein ebbe a dire circa la dialettica hegeliana: «è l’elemento infido della dottrina marxista, l’insidia che intralcia ogni considerazione corrente delle cose»[8], ponendo così l’accento sul rapporto vizioso tra dialettica e rivoluzione. Pertanto, mostrare l’attualità della teoria critica significa implicitamente mostrare che tra la dialettica e quei miti, che – come ha osservato Bedeschi – «sembrano appartenere a una sorta di infanzia dell’umanità»[9], non c’è un indissolubile rapporto di consequenzialità logica.
Veniamo ora ad una lettura più dettagliata del volume. Patologie della ragione, composto da 11 capitoli, raccoglie saggi scritti da Honneth in diverse occasioni. Se osservati nel loro insieme essi tracciano una «storia filosofica»[10] della teoria critica, secondo cui le riflessioni dei diversi pensatori affrontati rappresentano tappe nella ricostruzione della genesi di deformazioni patologiche della ragione, tema attraverso cui riflettere sull’attualità della teoria critica.
Il fatto che si tratti di una storia ideale della teoria critica – e pertanto di una storia teleologicamente orientata – spiega perché sono affrontati pensatori, quali Kant (Cap. 1) e Freud (Cap. 7), che non possono essere ascritti tra gli esponenti della Scuola di Francoforte, mentre sono omessi o solo rapidamente nominati pensatori autorevoli della Scuola, quali Fromm, Pollok e Marcuse.
Il volume si apre con un saggio dedicato alla filosofia della storia di Kant[11] in cui Honneth si sofferma dapprima sui modelli che il filosofo di Königsberg ha elaborato per giustificare l’idea di progresso nella storia; poi, sull’articolazione che negli scritti kantiani assume il processo storico. Nella trattazione Honneth fa emergere i nessi che intercorrono tra la filosofia della storia di Kant e quella di Hegel.
Kant è molto critico nei confronti di quelle concezioni della storia che interpretano il processo storico come un declino. Chi abbraccia tali concezioni, non solo dimostra di non essere cosciente del proprio presente, ma diviene egli stesso causa di futuri declini. Una tale argomentazione suggerisce che la concezione kantiana della storia come progresso non si esaurisce nei due modelli fondativi condizionati dalla teleologia naturale comunemente accettati dalla critica: l’uno, teoretico-cognitivo, l’altro, pratico-morale. Honneth, infatti, accanto a questi due modelli ne individua un terzo, definito ermeneutico-esplicativo, che non presenta alcun riferimento alla finalità della natura, ma pone le basi per una de-trascendentalizzazione della ragione pratica nella storia: una storia in cui il progresso non è più affidato ad un disegno volontaristico, ma è determinato dalla partecipazione effettiva degli uomini impegnati nel «processo morale e politico di trasformazione storica»[12]. Tanto più i soggetti che esercitano un uso libero e pubblico della ragione comprendono l’andamento progressivo della storia cogliendo ciascuno dei traguardi morali e politici raggiunti come «segno di un successo intermedio», tanto più essi riusciranno «a situarsi storicamente nel contesto del loro presente»[13] ed agiranno attivamente nella marcia verso il progresso. È in questo accenno di de-trascendentalizzazione della ragione nella storia che è possibile – afferma Honneth – cogliere un avvicinamento della concezione kantiana della storia alla filosofia della storia di Hegel.
Un avvicinamento a Hegel confermato – osserva Honneth – dall’articolazione che assume il processo storico negli scritti kantiani: la storia come processo progressivo di realizzazione della ragione è il risultato dello svolgersi del processo intergenerazionale di apprendimento. Ogni società – sostiene Kant – beneficia di una riserva di conoscenza razionale lasciata in eredità dalla generazione precedente e che costituisce la base per il progresso futuro. Lo svolgersi di questo processo di apprendimento intergenerazionale attraverso cui la ragione si realizza nella storia consente di concepire il processo storico come un progresso. Inoltre, i traguardi morali di portata universale raggiunti nel corso della storia consentono di leggere tale processo anche come processo di emancipazione umana.
Malgrado sia possibile scorgere un avvicinamento di Kant a Hegel, tuttavia – prosegue Honneth – il carattere prettamente ermeneutico del discorso kantiano impedisce di giungere alle conclusioni hegeliane di una teleologia oggettiva del processo storico e di un processo di apprendimento collettivo. La storia, infatti, appare come un progresso fondato sul processo intergenerazionale di apprendimento solamente ad «un pubblico illuminato»[14], a coloro che attraverso l’uso pubblico della ragione comprendono il significato profondo della propria epoca e sono impegnati nelle trasformazioni morali, civili e politiche. A tal proposito, Honneth pone l’accento sull’intima connessione istaurata da Kant tra progresso storico, pensiero e il tema delle condizioni politiche – e sociali – di uso pubblico della ragione: un tema che non si ritrova in Hegel, ma che ha un ruolo centrale in Kant. Infatti, è sulla base di questa connessione che egli getta luce sul condizionamento che la struttura gerarchica della società – in aggiunta (e grazie) alla pigrizia, alla codardia e al conformismo, caratteri costitutivi delle natura umana – esercita sullo sviluppo delle capacità cognitive e riflessive degli individui e di qui sulle loro capacità di partecipare attivamente alle trasformazioni morali e politiche.
Torneremo in seguito sul significato che questo primo saggio assume nella riflessione di Honneth sulla storia e l’attualità della teoria critica, per ora basti tenere presente che per Honneth a poter essere considerate ancora attuali nella filosofia della storia di Kant sono la de-trascendentalizzazione sul piano ermeneutico della ragione nella storia e una lettura sociologica di come l’organizzazione gerarchica della società ostacoli lo sviluppo delle capacità cognitive e riflessive degli individui. Quest’ultimo punto ci riporta così al tema che costituisce il filo conduttore del volume, ovvero le cause sociali di deformazioni patologiche nella nostra capacità di ragionare.
Nel secondo capitolo Honneth ripercorre la storia della teoria critica, ricostruendo dalla molteplicità delle sue voci la genesi delle patologie della ragione, parallelamente all’analisi delle cause sociali che le hanno generate. L’intento di Honneth è mostrare che il tema della patologia sociale della ragione, tema che conferisce unità alla teoria critica, conserva un potenziale dirompente nel presente. L’argomentazione si articola in tre passaggi, rispettivamente incentrati sul presupposto etico dell’idea di patologia sociale della ragione; sul capitalismo come causa di deformazioni patologiche della razionalità; sul rapporto tra teoria in prassi.
Nel primo passaggio Honneth muove dall’idea, condivisa da tutti gli esponenti della teoria critica, che le cause della negatività della società, delle sue deformazioni alienanti e quindi delle patologie sociali vadano ricercate in una razionalità deficitaria. Se per Horkheimer le patologie sociali sorgono da un’organizzazione della società che non riflette il potenziale di razionalità già presente nelle forze produttive, per Marcuse la patologia sociale è la conseguenza di una repressione operata dalla società della razionalità che risiede nel mondo della vita; per Habermas invece la patologia sociale si sviluppa quando la riproduzione simbolica della società non riflette il livello di razionalità incarnato dalle forme dell’intesa linguistica.
In tutte queste formulazioni, Honneth mostra come sia possibile rintracciare la profonda influenza della riflessione hegeliana, in particolare della Filosofia del diritto.
E a ben vedere – prosegue Honneth – anche il presupposto etico che sottende l’argomentazione secondo cui le patologie sociali dipendono da una razionalità deficitaria ha le sue origini nel pensiero di Hegel: infatti, l’idea – rintracciabile seppur in diverse formulazioni in tutti gli esponenti della teoria critica – «di una forma di prassi comune in cui i soggetti possono pervenire all’autorealizzazione tramite rapporti reciproci o cooperativi»[15] risente sensibilmente dell’idea di comunità etica di Hegel, quell’eticità pienamente dispiegata e «realtà della libertà concreta»[16] in grado di realizzare e tenere insieme volontà soggettiva e volontà oggettiva, attraverso rapporti inter-soggettivi di reciproco riconoscimento che conducono all’autorealizzazione degli individui. Il “lavoro umano” di Horkheimer, il “bene universale” e “l’agire non finalistico” di Adorno, “la vita estetica” di Marcuse, “l’intesa comunicativa” di Habermas, tutte queste rappresentazioni di un presupposto etico risentono dell’ideale di universale razionale elaborato da Hegel.
Il presupposto etico elaborato dagli esponenti della Scuola di Francoforte marca così la distanza della teoria critica sia dalla tradizione liberale sia dal comunitarismo. Da un lato, l’universale razionale necessità di un grado di accordo inter-soggettivo che non può essere spiegato dalla logica degli interessi individuali, poiché la prassi cooperativa richiede anche di trascurare il proprio interesse egoistico per una riuscita socializzazione. Dall’altro, l’ideale della prassi cooperativa è frutto di atteggiamenti razionali e non di legami predeterminati di natura culturale come nel comunitarismo. Quest’idea di una «libertà cooperativa»[17] come condizione di una riuscita socializzazione – che come si è visto ha le sue origini nel pensiero di Hegel – è presentata da Honneth come un’eredità della teoria critica per il presente.
Nel secondo passaggio Honneth si sofferma sul carattere sociologico che la teoria critica acquisisce per tradursi in una teoria del “rischiaramento” in grado di chiarire le cause sociali delle ingiustizie e delle sofferenze sociali dovute ad una razionalità deficitaria. Ciò che emerge fin da subito – osserva Honneth – è un allontanamento dal linguaggio della filosofia dello spirito di Hegel con l’intento di calare la ragione hegeliana nella società, traducendo la sua realizzazione nella storia in un processo collettivo di apprendimento.
Il tentativo di spiegare con categorie sociologiche le patologie della ragione – afferma Honneth – è un aspetto centrale della Scuola di Francoforte e rappresenta un lascito per le teorie sociali del presente.
La tesi centrale che si delinea attraverso le formulazioni di Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas, è che il capitalismo è una forma di organizzazione sociale che impedisce la realizzazione di una razionalità già potenzialmente presente nella società, vincolando gli individui ad una razionalità angustamente individualistica; una forma sociale reificata che impone agli individui di percepirsi come cose e di relazionarsi agendo secondo una razionalità meramente strumentale; una forma di prassi che impedisce relazioni intersoggettive di riconoscimento e con esse la piena auto-realizzazione degli individui. Il capitalismo genera deformazioni della razionalità – che implicano ingiustizie e sofferenze sociali – e con esse anche quei feticci dissimulatori della realtà e quelle forme culturali di vita che impediscono agli individui di comprendere l’illegittimità delle condizioni sociali effettive. Compito della teoria critica è smascherare la coltre mistificatoria che nel capitalismo avvolge la società, ricostruendo la genesi delle patologie della ragione in relazione al processo che le ha generate e «mettendo in relazione il male sociale con il chiarimento del processo che ha contribuito alla sua generale dissimulazione»[18].
In questa rappresentazione del capitalismo risuona l’eco dell’analisi marxiana sulla reificazione e la dissimulazione, l’eco delle riflessioni di Weber sulle forme dell’agire, ma ancor di più si ode la critica radicale di Lukács al capitalismo in quanto forma limitata di razionalità. Parallelamente inizia ad emergere anche l’influsso che Freud esercita sulla teoria critica: si pensi al rapporto istituito tra le patologie sociali e il processo che le ha generate.
Nel terzo passaggio, Honneth ricostruisce il rapporto tra teoria e prassi: malgrado la teoria critica, sulla scia del marxismo e più in generale della sinistra hegeliana, abbia sempre rivendicato il compito di generare una prassi volta al superamento delle patologie sociali come una sua prerogativa essenziale, oggi il rapporto tra teoria e prassi sembra essere stato abbandonato.
Per plasmare una prassi che possa contribuire al superamento della patologia sociale, la teoria critica deve chiarire i motivi per cui i soggetti, pur accecati e afflitti da una razionalità distorta, dovrebbero essere disposti ad accogliere e ad apprendere la conoscenza razionale della teoria. Attraverso la disamina delle molteplici riflessioni in seno alla Scuola di Francoforte, Honneth ricostruisce il percorso concettuale attraverso cui la teoria critica si traduce in prassi critica. Ciò che emerge è che a rendere possibile questa trasformazione è la ragione stessa, quell’Io razionale deformato dalla patologia sociale che soffre per i danni e le ingiustizie subite e dalla cui sofferenza sorge il desiderio di riacquisire una razionalità integra, che fa tutt’uno con il desiderio pratico di liberazione dalla patologia sociale.
«Dal fatto che un deficit di razionalità conduca a sintomi di patologia sociale, va innanzitutto tratta la conclusione che i soggetti soffrono per la situazione determinatasi nella società»[19]. Nessun individuo può essere indifferente ai mali sociali prodotti da una razionalità deformata, poiché essa nega a ciascuno la possibilità di raggiungere l’autorealizzazione. Pertanto – afferma Honneth – a differenza della tradizione marxista, non è più il proletariato il soggetto eletto per ingaggiare una prassi critica di emancipazione, ma tutti gli individui si ergono a soggetti potenziali. Ora – prosegue – al di là che questa tesi assuma i toni del “ricordo della prima infanzia” in Horkheimer, o quelli “dell’istinto vitale” in Marcuse e “dell’interesse emancipatorio” in Habermas, ciò che traspare è l’idea freudiana che mette in relazione la malattia nevrotica con la sofferenza e il desiderio di liberazione.
Dunque, il presupposto etico di universale razionale, il carattere sociologico della critica al capitalismo, il rapporto tra teoria e prassi sono temi che costituiscono un’eredità della teoria critica per il presente; tuttavia essi necessitano di una revisione profonda per affermarsi nella contemporaneità: essi possono rappresentare ancora oggi i motivi di una critica sociale solamente se saranno di volta in volta rifondati da un rigoroso metodo critico-interpretativo.
Agli aspetti metodologici della teoria critica è dedicato il terzo capitolo, in cui emerge l’atteggiamento di Honneth nei confronti della Scuola di Francoforte, un atteggiamento che porta alla luce le difficoltà che questa tradizione incontra nel presente. Egli dapprima ricostruisce dal punto di vista metodologico l’idea di critica sociale della Scuola di Francoforte, per comprendere poi quanto e a quali condizioni essa possa ancora oggi essere difesa e ritenuta valida.
Sulla base della differenziazione di modelli di critica sociale proposta da Walzer in Interpretazione e critica sociale[20], Honneth distingue due grandi modelli di teoria critica: uno costruttivo, secondo cui la critica delle dinamiche sociali è animata da principi che derivano da un procedimento di costruzione teorica – si pensi alla prima teoria della giustizia di Rawls; l’altro ricostruttivo, secondo cui i principi o i valori per criticare una determinata società sono solamente quelli che sono stati già accettati da un dato ordine sociale e sono quindi desunti dalla ricostruzione della realtà sociale stessa.
La Scuola di Francoforte, impregnata della tradizione della sinistra hegeliana e della dottrina marxiana, ha seguito un metodo critico ricostruttivo: il capitalismo poteva essere criticato facendo appello a princìpi, valori e idee normative rintracciabili nella realtà sociale stessa del capitalismo.
Allo stesso tempo, però, per i francofortesi solamente quei valori che incarnano la razionalità sociale ed esprimono il progresso nella realizzazione storica della ragione nella società assumono validità normativa e costituiscono il punto di vista da cui criticare le condizioni effettive della società. Ciò presuppone – osserva Honneth – «se non proprio una filosofia della storia, almeno una concezione di progresso orientato dalla ragione umana»[21].
Inoltre – prosegue – all’interno di questo modello la Scuola di Francoforte sviluppa un punto di vista «metacritico»[22], fondato su un modello di critica genealogica, rintracciabile in Nietzsche, secondo cui occorre valutare sulla base del contesto di applicazione, quanto princìpi, norme e valori individuati mantengano o meno nella società il loro significato originario. È probabilmente l’esperienza del nazionalsocialismo ad aver mostrato agli esponenti della Scuola di Francoforte quanto un ideale normativo possa mutare nella società il proprio significato originario, dando vita ad una prassi coercitiva.
La conclusione che Honneth trae da questa analisi è una decisa pretenziosità metodologica della teoria critica, che però risulta essere la condizione necessaria per poter ancora difendere l’idea di critica sociale elaborata dalla Scuola di Francoforte.
Fin qui Honneth ha ricostruito i temi centrali e gli aspetti metodologici della teoria critica elaborata dalla Scuola di Francoforte, individuandone i punti deboli o obsoleti, così come gli aspetti che invece costituiscono un’eredità per la critica sociale. Nei successivi capitoli egli si sofferma sulle riflessioni di alcuni esponenti della teoria critica, quali Adorno, Benjamin, Freud, Neuman, Mitscherlich e Wellmer. Attraverso il confronto con questi pensatori, Honneth lascia emergere aspetti che ci aiutano nell’intento di comprendere la sua idea di teoria critica.
Al pensiero di Adorno sono dedicati i capitoli 4 e 5, rispettivamente sugli scritti critico-sociali[23] e sull’introduzione della Dialettica negativa[24]. Nel primo, Honneth rilegge l’analisi sociologica del capitalismo di Adorno come «ermeneutica di una forma mancata di vita»[25] volta a far emergere «la seconda natura reificata della realtà storica»[26]. Influenzato da Lukács, Adorno riteneva che la generalizzazione della logica dello scambio delle merci comportasse una oggettivazione dei rapporti umani e con essa una deformazione patologica della ragione. Lo sviluppo della ragione avviene attraverso un comportamento mimetico in cui gli individui introiettano i desideri degli altri e imparano a relazionarsi con le loro diverse e molteplici prospettive. Il capitalismo comporta una deformazione della ragione e svuota di umanità i rapporti inter-soggettivi, poiché costringe gli individui a ragionare in modo strumentale secondo la logica dello scambio, ovvero a concentrarsi sul proprio interesse egoistico e a perdere di vista i desideri degli altri, che sempre più vengono percepiti come oggetti, come mezzi sfruttabili per un fine egoistico. Per raffigurare la perdita di senso della prassi umana prodotta dal capitalismo, Adorno ricorre alle immagini “ideal-tipizzate” weberiane. Ciò che emerge dalle due immagini su cui Honneth si sofferma – “l’organizzazione” e il “narcisismo collettivo” – è una denuncia della perdita di potere e autonomia degli individui, del ribaltamento mezzi-fini, del trionfo dell’omologazione e dell’esclusione del dissimile, una denuncia della tendenza dell’individuo a chiudersi in un gruppo di uguali per fuggire l’incontro con l’altro da sé. La sofferenza connessa all’esperienza della reificazione è per Adorno l’impulso con cui gli individui reagiscono alle condizioni capitalistiche di vita, un impulso che freudianamente porta con sé il desiderio, sorretto dalla memoria dell’infanzia eretta a simbolo dell’umano, «di essere liberati dai rapporti che tengono incatenato il nostro potenziale di ragione imitativa»[27].
Il saggio sull’introduzione alla Dialettica negativa consente di comprendere in modo più approfondito perché l’analisi sociologica del capitalismo di Adorno debba essere intesa come parte di un’ermeneutica e non come una chiarificazione della società a sé stante. In questa introduzione Adorno spiega che la filosofia non è stata in grado di coincidere con la realtà, né di produrla. Il fallimento di Hegel nel «dare una forma di ragione alla realtà»[28], quanto «il fallimento dell’ideale marxiano della rivoluzione»[29] impongono alla filosofia di ripiegare in un’autocritica dei propri presupposti. Questa autocritica per Adorno dovrebbe assumere la forma di una dialettica negativa, libera dallo scopo di determinare in modo razionale la realtà: l’oggetto è infatti troppo complesso per essere ridotto all’unidimensionalità del suo concetto. Di qui, Honneth si sofferma sull’importanza che Adorno conferisce all’esperienza soggettiva come medium di conoscenza, perché in grado di cogliere le molteplici sfumature del reale che erano state celate da una pretesa di conoscenza concettuale e oggettiva. È compito di coloro che hanno le capacità per cogliere la ricchezza del reale svelarla a chi o non possiede tali doti o è sedato dal conformismo. Anche in questo caso ad emergere dall’Adorno di Honneth è una critica all’omologazione, al conformismo e al contempo un’esaltazione del non identico, dell’alterità, dell’originalità del soggetto.
Nel capitolo 6 Honneth affronta il saggio Per la critica della violenza[30] di Benjamin. Al di là delle riduzioni e delle monopolizzazioni, a cui comunque il saggio si presta facilmente, Honneth ritiene che il significato profondo vada ricercato nella convinzione di Benjamin che nella società moderna le pratiche umane siano intrappolate nella dimensione degli interessi individuali dalla violenza del diritto e ridotte alla logica dell’agire strumentale. L’unico potere morale in grado di liberare gli uomini dalle loro catene – sostiene Benjamin – è «la violenza sacra di Dio»[31]. Attraverso una “filosofia della storia della violenza”, Benjamin ricostruisce la genealogia di due distinti tipi di violenza: impura e pura. La prima, che ha le sue origini nella violenza degli dei pagani e che nella società moderna è esercitata dal diritto, è una violenza strumentale, determinata da interessi esterni – come il potere – e imbriglia la prassi umana nello schematismo mezzi-fini. La violenza pura, invece, è la violenza di Dio: pura perché non determinata da scopi esterni, una violenza diretta «esclusivamente al benessere»[32] – e perciò etica – originata da un impulso naturale ed immediato dell’essere umano. Sul piano sociale solo questo tipo di violenza, che scaturisce dalla misera condizione di accecamento, di deformazione della ragione e dal desiderio di emancipazione, può tradursi in una rivoluzione culturale in grado di spezzare le catene dello schema mezzi-fini in cui gli uomini sono violentemente imprigionati.
Nel capitolo 7, dedicato a Freud[33], l’oggetto di indagine non è più l’organizzazione sociale capitalistica, ma diviene il mondo interiore degli uomini, poiché – questo il convincimento che emerge – non è possibile affrontare le patologie sociali senza che gli individui abbiano prima compiuto un processo di auto-comprensione della propria condizione e di ri-appropriazione di una libera volontà interiore. Il titolo del capitolo “L’acquisizione della libertà” indica fin da subito quale sia secondo Honneth l’aspetto che rende ancora attuale la teoria freudiana e che occorre non smarrire: «l’intuizione secondo cui l’uomo è anzitutto un essere scisso, interiormente tormentato, il quale però, grazie all’interesse ivi connesso di allargare la sua libertà interiore, possiede anche l’abilità di ridurre e a volte superare questa condizione di lacerazione per mezzo della sua attività riflessiva»[34].
Osservandola più da vicino la teoria freudiana si articola nel modo seguente. Ogni uno di noi ha esperito nella propria vita – e nel proprio processo di socializzazione – un travaglio interiore dovuto al sorgere di desideri inconsci e di cui non capiamo l’origine, desideri eterogenei al nostro quotidiano comportamento e ai nostri piani di vita razionali che cercano appagamento nella fantasia. Il travaglio interiore è dovuto alla nostra incapacità di gestire questi desideri spiacevoli che reprimiamo ma che ogni volta riemergono e scuotono la nostra vita. Freud individua le cause della rimozione di tali desideri nell’angoscia che essi generano nel soggetto, poiché il loro appagamento metterebbe a rischio il rapporto o l’amore con una persona di riferimento (un’angoscia questa che rimanda all’angoscia primaria del bambino di essere abbandonato dalla figura materna). La presenza di desideri spiacevoli compromette la libertà della nostra volontà e reprimendoli nell’inconscio non facciamo altro che acuire la scissione interna che ci lacera, quella tra Io razionale e Io istintuale, tra conscio e inconscio. Per ri-acquisire la nostra libertà interiore occorre secondo Freud riappropriarsi di se stessi attraverso un duplice processo di auto-relazione e di rivalutazione critica del proprio passato, volta a rimuovere la negazione che abbiamo compiuto della parte di noi che ci procurava angoscia. Quest’ultima operazione, che possiamo definire come una “negazione della negazione”, consente al soggetto di ri-appropriarsi di quella parte di sé che aveva forzatamente estraniato da sé e di comprenderla. Gli uomini – sostiene Freud – possiedono una disposizione naturale a relazionarsi con se stessi per auto-comprendersi razionalmente, tuttavia ripercorrere la propria biografia e ri-appropriarsi della parte di sé che era stata rimossa ed estraniata è tutt’altro che facile, poiché è un processo che comporta l’ammissione dell’angoscia e con essa la sofferenza del soggetto. Sennonché, è questo tortuoso processo di auto-relazione e di riappropriazione che conduce alla libertà interiore. Malgrado i presupposti della teoria freudiana siano divenuti per la maggior parte discutibili, questo processo – osserva Honneth – costituisce un eredità per la teoria critica. I temi dell’angoscia, della libertà interiore e dell’auto-relazione, emersi in questo saggio su Freud, saranno al centro dei capitoli 8, 9 e 10, rispettivamente dedicati a Neumann, Mitscherlich e Wellmer, i cui contributi rappresentano diversi modi di declinare il rapporto tra sfera pubblica democratica, forme di relazione inter-soggettiva e stati del mondo interiore.
Nel saggio Angoscia e politica[35], Neumann istituisce uno stretto rapporto tra libertà interiore e partecipazione alla sfera pubblica democratica, sostenendo che «sono i soggetti liberi da limitazioni interiori imposte dalla paura i soli che possono spontaneamente presentarsi nella sfera pubblica politica e agire come cittadini democratici»[36]. La paura cui Neumann si riferisce è l’angoscia nevrotica individuale che egli identifica come alienazione psicologica, forma primaria di alienazione da cui derivano l’alienazione sociale e quella politica. Seguendo Freud, Neumann considera l’angoscia nevrotica come una forma negativa di angoscia – originata da relazioni affettive primarie distorte – che paralizza il soggetto arrestando le funzioni dell’Io. Egli pone questo tipo di angoscia alla base del processo di formazione della massa: l’angoscia provoca nell’individuo una rinuncia ai poteri dell’Io ed una identificazione con un leader carismatico che conduce alla dissoluzione dell’Io razionale nella massa. Di qui, Neumann individua i fattori che consolidano la tendenza a forme regressive della razionalità e così all’identificazione libidica dell’Io alienato con la figura del leader. Tra questi: «l’angoscia sociale provocata dalla perdita di stima nella prospettiva della deprivazione e della decadenza»[37]; l’angoscia provocata da un collettivo strumentalmente identificato come fonte dei mali sociali più temuti dai membri del movimento di massa; l’angoscia provocata dal terrore psicologico e dalla propaganda politica. Queste forme di angoscia impediscono lo sviluppo interiore di una soggettività libera e pertanto ledono le condizioni interiori necessarie per la libera formazione della volontà nella sfera pubblica, non consentendo così il corretto svolgimento della prassi democratica.
Honneth considera estremamente interessante l’idea di Neumann di concepire le angosce di massa come forma di patologia sociale che può inibire la capacità dell’individuo di partecipare alla formazione della volontà nella sfera pubblica democratica. Tuttavia – prosegue Honneth – la sua costruzione teorica è inficiata da due fattori: innanzitutto, la troppo stretta dipendenza dalla psicanalisi ortodossa freudiana lo conduce a non poter istituire un rapporto di continuità tra forme primarie di angoscia infantile e angosce sociali nell’età adulta. A tal proposito Honneth introduce la teoria delle relazioni oggettuali di Fromm[38], che avrebbe consentito a Neumann di leggere i diversi tipi di angoscia come forme dell’angoscia causata dall’intersoggettività. In secondo luogo, nel corso del saggio appare sempre più sensibile il condizionamento dell’esperienza tedesca del nazionalsocialismo che limita la capacità interpretativa del modello. Infine, Honneth delinea le possibili implicazioni normative della riflessione di Neumann, individuando due percorsi alternativi che lo Stato democratico può intraprendere per incidere sulle angosce individuali: da un lato un atteggiamento liberale, ovvero azioni negative volte a minimizzare le angosce e a generare fiducia; dall’altro, un atteggiamento paternalistico che prevede l’adozione di atteggiamenti positivi per curare le angosce e sviluppare la soggettività individuale.
Sulla scia della linea tracciata da Neumann si inserisce, seppur con le dovute differenze, il contributo di Mitscherlich. Egli si interroga sulla questione di quali debbano essere le condizioni interiori che mettano al riparo gli individui dalle tentazioni di sciogliere il proprio Io nella massa oggettivante e che consentano una partecipazione attiva e senza coercizioni alla prassi democratica – questo, osserva Honneth, il motivo profondo e di notevole interesse che anima la sua riflessione. La risposta cui Mitscherlich giunge ruota intorno alla categoria della tolleranza: gli individui devono imparare a comportarsi in modo tollerante con se stessi, solo così essi si libereranno dalle angosce che li scuotono e li imprigionano. Egli sostiene che per instaurare una forma tollerante di relazione con se stessi occorre, innanzi tutto, imparare ad articolare nel linguaggio quegli impulsi spiacevoli che si volevano reprimere, al fine di definirli in modo compiuto; successivamente dobbiamo imparare a comprenderli e a riconoscerli come parte di noi; infine aiuterebbe osservare noi stessi con una giusta dose di ironia derivante dalla presa d’atto della compresenza in noi di impulsi tra loro molto diversi. L’idea conclusiva di Mitscherlich che la tolleranza e la libertà nel mondo interiore costituiscono una sorta di precondizioni della tolleranza inter-soggettiva sul piano sociale e della partecipazione democratica nella sfera pubblica costituisce per Honneth un aspetto importante e che merita di essere approfondito dalla critica sociale.
A Wellmer è dedicato il capitolo 10. Malgrado il carattere non del tutto lineare delle sue ricerche, esse – afferma Honneth – testimoniano «quanto il dialogo sotterraneo tra Adorno, Benjamin e Habermas non sia del tutto terminato e come la storia della teoria critica non sia ancora completamente esaurita»[39]. Honneth mostra infatti come la riflessione di Wellmer sia animata da motivi “dissonanti”, che se apparentemente stridono tra loro, tuttavia nel profondo delineano un ideale di «vita etica democratica»[40], in cui si intravede un singolare recupero del concetto hegeliano di eticità plasmato alle forme della società contemporanea. Non alla ragione comunicativa, bensì – sulla scia di Adorno – all’esperienza trasgressiva ed eccentrica della soggettività estetica è affidato da Wellmer il potere di determinare la libertà dell’individuo, un individuo che fatta un’esperienza anche egocentrica della libertà, si riscopre soggettivamente orientato al potenziale razionale dell’intesa comunicativa, in quanto «forma relazionale dell’essere con gli altri»[41]. Dalla trattazione di Neumann, Mitscherlich e Wellmer emerge che la soggettività pienamente libera – autonoma, tollerante e democratica in interiore homine – rappresenta un valore per lo svolgimento della dialettica democratica e per la stabilità delle moderne democrazie pluraliste.
Il volume si chiude con un’appendice sui caratteri che distinguono la teoria critica nell’epoca dominata dalla figura «dell’intellettuale normalizzato»[42]. Honneth muove dalla critica delle qualità individuate da Walzer[43] che la critica sociale oggi dovrebbe possedere: “coraggio”, “compassione” e “buon occhio”. Mentre il coraggio, come già osservato da Dahrendorf[44], in un contesto liberale non rappresenta più una virtù intellettuale, le altre due – sostiene Honneth – si adattano meglio alla figura del intellettuale contemporaneo, che prende parte al dibattito pubblico nei talk show televisivi, nelle radio e sulla carta stampata. “Compassione” e “buon occhio” sono qualità utili per l’intellettuale di oggi che accetta i modelli descrittivi condivisi nella sfera pubblica democratica e si preoccupa di generare consensi, formare opinioni e riscontrare successi nel breve periodo. Questo “intellettuale normalizzato” che si occupa di questioni quotidiane, che si è adeguato ai meccanismi della sfera pubblica democratica e dei circoli mediatici di formazione delle opinioni, che riproduce inconsapevolmente i vizi della sfera pubblica in cui si muove, non può essere secondo Honneth l’erede della teoria critica. Al contrario, egli ritiene che a caratterizzare la teoria critica siano l’osservazione delle pratiche diffuse nella società da una distanza che consenta di osservarle nella loro totalità e nelle relazioni che tra esse intercorrono; il carattere esplicativo delle indagini, ovvero porre in questione le prassi sociali e i bisogni accettati nella sfera pubblica democratica con l’intento di smascherare i miti sociali e di svelare la genesi di un ordine sociale problematico. «La critica sociale non ambisce ad un successo rapido entro lo scambio democratico delle opinioni»[45], bensì – afferma Honneth – «al motivato riorientamento dei processi futuri»[46].
A questo punto occorre soffermarsi brevemente sul significato complessivo del volume e quindi sull’idea di teoria critica che Honneth delinea per il presente. Ciò consente anche di avanzare alcune ipotesi per tentare di risolvere le questioni lasciate aperte: il significato del capitolo su Kant; il rapporto della teoria critica con il marxismo e quindi, con la dialettica, con il rifiuto senza appello della società capitalistica e con la concezione escatologica della rivoluzione.
Innanzitutto la storia della teoria critica è, come già osservato, una «storia filosofica»[47] della teoria critica secondo cui le riflessioni dei diversi pensatori affrontati rappresentano tappe nella ricostruzione della genesi di deformazioni patologiche della ragione, tema attraverso cui procedere verso una riflessione sull’attualità della teoria critica.
A ben vedere, questa storia filosofica costituisce un “momento” dell’autocritica della teoria critica stessa, condotta da Honneth adottando il metodo ricostruttivo e genealogico che la caratterizza. Egli, infatti, ripercorre la storia della teoria critica individuando al suo interno motivi centrali e princìpi unificatori; li pone in discussione e li osserva nella loro genesi, prestando attenzione a quanto essi abbiano mantenuto o meno il loro significato originario in relazione ai tempi e ai contesti di applicazione, fino ad analizzare il significato che essi hanno nel presente.
Il risultato della autocritica filosofica è un parallelo e progressivo delinearsi di un manifesto della teoria critica per il presente, i cui temi centrali sono: l’idea critica della razionalità deficitaria della società, il rigoroso metodo critico-ricostruttivo e la nozione di “riserva genealogica”. Accanto a questi temi già affrontati nel corso del lavoro, ritengo sia possibile individuarne altri che contribuiscono a dar forma all’idea di teoria critica di Honneth. Tra questi: la fiducia nell’idea di progresso storico; la scelta riformistica e la progressiva identificazione dell’universale razionale con l’ideale della società democratica; il valore della libera soggettività; una rinnovata concezione della società capitalistica e il rifiuto della concezione escatologica della rivoluzione; l’interrelazione marxiana tra uomo e ambiente.
Iniziamo dalla concezione della storia: l’idea hegeliana di progresso del processo storico come realizzazione della ragione viene ad assumere grazie al carattere ermeneutico desunto dalla riflessione kantiana – e richiamato seppur in un diverso contesto nella trattazione di Adorno – una rinnovata attualità. L’approccio ermeneutico consente di sfuggire da concezioni eccessivamente deterministe del progresso storico e facilmente confutabili nella realtà, si adatta meglio alla non linearità del progresso, ma allo stesso tempo ne ribadisce l’inarrestabilità.
Ciò chiarisce già il significato del capitolo su Kant, sennonché ritengo che esso assuma nell’economia dell’opera anche un valore simbolico che suggerisce l’allontanamento dell’idea di teoria critica delineata da Honneth dal mito della rivoluzione – un aspetto questo che ci conduce al secondo tema individuato. Una rinnovata fiducia nell’idea di progresso nella dimensione kantiana, infatti, contribuisce a rafforzare la scelta “riformistica” e anti-rivoluzionaria sulla base della convinzione che la marcia verso il progresso sia nel lungo periodo inarrestabile. Ed in effetti l’idea di un atteggiamento non rivoluzionario è supportata in altri luoghi del volume. Si pensi alla presa di distanza dall’ideale rivoluzionario di Benjamin; all’idea espressa da Honneth nell’appendice che l’obiettivo della teoria critica è quello di instillare «un dubbio che gradualmente pone in questione i modelli di prassi»[48] e che nel lungo periodo possa tradursi nell’«emanazione di provvedimenti politico-giuridici»[49] in grado di condurre «alla trasformazione delle condizioni sociali»[50].
Inoltre, l’ideale di universale razionale con la sua carica di eticità sembra progressivamente identificarsi nel corso del volume con un’immagine idealizzata di democrazia pluralista e partecipativa, caratterizzata sul piano sociale da relazioni inter-soggettive di riconoscimento e di mutua cooperazione – si pensi all’idea di «vita etica democratica»[51] che emerge dalla trattazione su Wellmer.
Passiamo al tema della soggettività: a ben vedere, più volte nel volume emerge, seppur declinato in modi diversi, il valore della libera soggettività e della sua unicità. Si pensi al capitolo su Kant e al ruolo centrale che assume nella storia il soggetto che fa un uso libero e pubblico della ragione, al capitolo su Adorno e all’accento posto da Honneth sul valore della libera esperienza soggettiva nella conoscenza. E ancora, si pensi al tema della libertà interiore nel capitolo su Freud; all’impulsività immediata dell’essere umano nel capitolo su Benjamin; al valore della soggettività autonoma, tollerante ed estetica per lo svolgimento della prassi democratica nei capitoli su Neumann, Mitscherlich e Wellmer. Nel corso del volume Honneth sembra insomma delineare in modo progressivamente più deciso l’idea che l’universale razionale, incarnato in rapporti di libera e mutua cooperazione, possa essere realizzato solamente da una soggettività infinitamente libera, anzi che proprio il raggiungimento e l’esperienza di quella libertà conducano la soggettività a comprendere in modo autonomo la razionalità insita in relazioni sociali di reciproca cooperazione.
Osserviamo a questo punto il tema della rinnovata concezione della società capitalistica e del rifiuto – cui si è già accennato – della concezione escatologica della rivoluzione. Se agli aspetti fin qui evidenziati si affianca l’idea critica fondamentale di una razionalità deficitaria della moderna società capitalistica – le cui condizioni di vita «generano pratiche sociali […] che si abbattono sotto forma di deformazioni patologiche sulla nostra capacità di ragionare»[52]– si pongono le basi nel volume per inquadrare la “forma capitalistica della società” in una posizione sistematica non distante da quella che la “società civile” hegeliana occupa nella Filosofia del diritto. Ricondurre l’immagine della società capitalistica al momento dialettico della “società civile” hegeliana consentirebbe di continuare a concepirla come fase negativa o dialettica e allo stesso tempo di sfuggire dalla necessità elaborata da Marx di sopprimerla – scardinando così il rapporto tra dialettica e rivoluzione.
La moderna società capitalistica è minata da contraddizioni, «offre lo spettacolo in pari modo della dissolutezza […] fisica ed etica»[53], genera patologie sociali e deformazioni della ragione: agire strumentale, ristretto individualismo, alienazione e reificazione. Tuttavia, se calata in una concezione della storia come processo progressivo di realizzazione della ragione, la negatività che la caratterizza non comporta la sua soppressione rivoluzionaria, bensì la sua mediazione dialettica, ovvero la negazione determinata delle sue unilateralità. In altre parole, la moderna società capitalistica va trasformata e plasmata secondo princìpi razionali. Una trasformazione che, come abbiamo visto, nella riflessione di Honneth sembra assumere l’andamento graduale del percorso riformistico nel terreno delle istituzioni democratiche: compito della teoria critica in questo quadro è mettere in atto una “rivoluzione culturale”, ovvero rischiarare le coscienze, smascherare i falsi miti e svelare le effettive condizioni sociali, al fine di produrre nel lungo periodo una graduale trasformazione politico-culturale e delle pratiche sociali.
Quanto detto fin qui non può non avere effetti nel rapporto tra teoria critica e marxismo. Da un lato, l’idea di teoria critica delineata da Honneth sembra prendere le distanze da una concezione escatologica della rivoluzione e si allontana dalla critica senza appello della società capitalistica – e della democrazia liberale come sua forma politico-culturale – entrambe proprie di un marxismo estremistico che considera la negazione radicale di quella società come un fattore storicamente necessario. Dall’altro, invece, essa sembra riproporre al suo interno l’ispirazione illuminista del marxismo, così come il suo profondo umanismo.
Veniamo infine al tema dell’interrelazione tra uomo e ambiente: l’idea di teoria critica che prende forma nel volume sembra riconoscere come suo presupposto quello che per Mondolfo[54] era il nucleo centrale del marxismo, espresso nella terza glossa a Feuerbach, secondo cui se è vero che l’uomo è prodotto dall’ambiente, è altrettanto vero che l’ambiente è prodotto dall’uomo; pertanto – e ciò è quanto emerge dal volume di Honneth – per trasformare le pratiche sociali che producono deformazioni nella capacità di ragionare, occorre una teoria in grado di rischiarare le coscienze e liberare la razionalità dai vincoli impostegli da un ambiente sociale distorto.
Al di là delle sue interpretazioni e consapevole del carattere puramente soggettivo ed opinabile della lettura da me suggerita, sono convinto che il pregio di questo volume di Honneth risieda nella ricchezza di spunti che offre al lettore per ripensare la teoria critica nel presente.
[1] G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, Prefazione, a cura di G. Marini, edizione con le Aggiunte di Eduard Gans, trad. it. di B. Henry, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 15.
[2] A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, trad. di A. Carnevale, Pensa MultiMedia, Bari – Brescia 2012, p. 47. Per la traduzione di questo volume e per il saggio introduttivo, colgo l’occasione per ringraziare Antonio Carnevale.
[3] Ivi, p. 25.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 47.
[6] György Lukács collaborava all’«Archivio per la storia del socialismo e del movimento operaio», la rivista fondata da Grünberg nel 1910 che divenne l’organo scientifico dell’Istituto di Ricerca Sociale.
[7] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973.
[8] E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della social democrazia, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 58.
[9] G. Bedeschi, Introduzione a La Scuola di Francoforte, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 4.
[10] B. Croce, Il concetto filosofico della storia della filosofia, in Il carattere della filosofia moderna, Laterza, Bari 1945, pp. 53-56.
[11] I saggi presi in esame da Honneth sono: I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista Cosmopolitico, pp. 123-136, Sopra il detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», pp. 237-273, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, pp. 141-151, in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, trad. di G. Solari e G. Vidari, UTET, Torino 1995; Id., Il conflitto delle facoltà, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 223-239.
[12] A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, p. 36.
[13] Ivi, p. 38.
[14] Ivi, p. 36.
[15] Ivi, p. 55.
[16] W. G. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 260, p. 201.
[17] A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, p. 54.
[18] Ivi, p. 59.
[19] Ivi, p. 68.
[20] M. Walzer, Interpretazione e critica sociale, a cura di A. Carrino, Edizioni lavoro 1990.
[21] A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, p. 84.
[22] Ivi, p. 85.
[23] Nel testo Honneth fa riferimento in particolare alla relazione Tardo capitalismo o società industriale? e al saggio Riflessioni sulla teoria delle classi, entrambi in Id., Scritti sociologici, trad. di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1967, pp. 314-330 e pp. 331-349.
[24] T. W. Adorno, Dialettica negativa, trad. e cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2004.
[25] A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, p. 89.
[26] Ivi, p. 88.
[27] Ivi, p. 105.
[28] Ivi, p. 113.
[29] Ibidem.
[30] W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id. Opere complete, voll. 7, a cura di E. Gianni, Einaudi, Torino 2000-2011, vol.1 2008, pp. 467-488.
[31] A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, p. 166.
[32] Ivi, p. 165.
[33] I saggi a cui Honneth fa maggiormente riferimento sono: S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, vol. 4, pp. 51-297, Lutto e melanconia, vol. 8, pp. 102-118, Inibizione, sintomo e angoscia, vol. 10, pp. 231-237, Negazione, vol. 10, pp. 193-201, in Opere, Boringheri, voll. 12, Torino 1967-1980.
[34] Ivi, p. 168.
[35] F. Neumann, Angoscia e politica, in Id., Lo stato democratico e lo stato autoritario, trad. di G. Sivini, introduzione di N. Matteucci, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 113-147.
[36]A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, p. 189.
[37] Ivi, p. 195.
[38] E. Fromm, Fuga dalla libertà, trad. di C. Mannucci, Edizioni di Comunità, Milano 1963.
[39] A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, p. 224.
[40] Ivi, p. 223.
[41] Ibidem.
[42] Ivi, p. 225.
[43] Il saggio a cui Honneth si riferisce è M. Walzer “Prefazione alla seconda edizione”, in Id., L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, Il Mulino, Bologna 2004, pp. VII-XVI.
[44] R. Dahrendorf, “Theorie ist wichtiger als Tugend”, in Neue Zürcher Zeitung, 12 dicembre 2000.
[45] A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, p. 234.
[46] Ibidem.
[47] B. Croce, Il concetto filosofico della storia della filosofia, pp. 53-56.
[48] A. Honneth, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, p. 234.
[49] Ivi, p. 238.
[50] Ibidem.
[51] Ivi, p. 223.
[52] Ivi, p.25.
[53] W. G. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 185, p. 156.
[54] Si vedano a tal proposito: R. Mondolfo, Umanesimo in Marx, Einaudi, Torino 1997; Id., Sulle orme di Marx, Cappelli, Bologna 1923.