Roberto Evangelista
Uno dei fuochi principali delle ricerche di Ernesto de Martino ha a che fare con l’osservazione del Mondo popolare subalterno (come scrive nell’articolo del 1949)[1] nell’Italia meridionale. De Martino porta la sua attenzione sulle condizioni arretrate di questa parte del Paese, proprio mentre il capitalismo italiano si sviluppa attraverso il ruolo dirigista dello Stato. Le forme magiche proprie del mondo contadino si conservano in una certa maniera grazie a condizioni di vita che non ne permettono il superamento. Stando ai risultati del saggio Morte e pianto rituale, si vede che de Martino traccia una vera e propria mappa storico geografica a partire dalle antiche civiltà del Mediterraneo, ripercorrendo l’elaborazione delle strategie di risoluzione dei momenti critici propri di una comunità umana che ancora alla metà del XX secolo si ripropone agli occhi dell’etnologo.
Da questi presupposti si cercherà di inquadrare il problema della resistenza di un mondo ancestrale in un momento in cui la civiltà industriale sembra vivere uno dei suoi cicli più propulsivi, con ripercussioni sulla vita e sui rapporti sociali che teoricamente dovrebbero permettere di superare le modalità arcaiche proprie di antichi sistemi di riproduzione delle condizioni dell’esistenza umana.
1. Coerenza economica e opera umana.
Il concetto di economico si presenta come un concetto chiave per la metodologia antropologica di de Martino. Fin dall’inizio del suo saggio Morte e pianto rituale l’etnologo si confronta con il problema del riscatto culturale della vita umana. La vita umana è sempre costretta ad affrontare problematicamente e con angoscia il rischio dell’annichilimento, vale a dire il rischio di perdere la possibilità di produrre la sua opera. L’opera umana, così come la descrizione e l’ampliamento degli spazi di operatività, permette di confrontarsi e misurarsi con il potere della natura e fa in modo che la vita umana non passi con ciò che passa, ovvero non dilegui nel divenire della natura. «L’economico segna il distacco inaugurale che l’umano compie dal meramente vitale, dischiudendo con ciò l’ordine della vira civile»[2]. Ma l’economico più che un concetto astratto segna un rapporto fra le utilitates degli uomini[3]; si configura, infatti, come una forma di coerenza tra gli strumenti di cui l’uomo si dota e l’uso che viene fatto di questi strumenti.
È la coerenza economica che fa associare gli uomini ai fini della produzione, ripartisce il lavoro, e instaura determinati regimi produttivi dotati di un più o meno esteso raggio di azione efficace; è la coerenza economica che ordina l’immediatezza del vivere e del patire in un sistema mutevole di “oggetti naturali” che indicano le linee dei nostri desideri e delle nostre avversioni, e che racchiudono l’immagine e la memoria di possibili comportamenti efficaci; è la coerenza economica che appresta gli strumenti artificiali – materiali o mentali – che estendono e intensificano il potere del corpo umano e dei suoi organi; è la coerenza economica che elabora il linguaggio in quanto strumento di comunicazione interpersonale; è infine la coerenza economica che regola la potenza dei gruppi umani e li inserisce in quella sfera di rapporti che va sotto il nome di politica[4]
Con l’istituzione di questo particolare rapporto di coerenza economica inizia la civiltà umana. «Il trascendimento inaugurale», scrive de Martino, «costituisce soltanto la porta stretta di accesso al regno della cultura»[5]. La civiltà umana e il regno della cultura, nei quali all’uomo è permesso entrare grazie alla coerenza economica, si caratterizzano come il piano razionale di produzione dei beni che segue le regole dell’azione comune e prepara gli strumenti artificiali (materiali e mentali) con i quali l’uomo può organizzare e dominare la natura.
Tra gli strumenti artificiali materiali e mentali che attraverso la coerenza economica vengono preparati e utilizzati dall’uomo, ne esiste uno che ha avuto una particolare fortuna e che si presenta come un crocevia tra le diverse strade che l’umanità ha intrapreso nella lotta per conquistare spazi di riproduzione della propria esistenza: la narrazione mitica. La narrazione mitica porta con sé anche la memoria delle historiae, attraverso la ripetizione delle pratiche rituali. Proverò a considerare il rapporto tra la coerenza economica e il mondo magico del Sud Italia.
2. Le narrazioni mitiche e la pratica dei rituali. Differenza tra arcaico e primitivo.
Tra il 1950 e il 1960 de Martino si accorgeva della sopravvivenza nell’Italia meridionale di pratiche religiose risalenti all’orizzonte pre-cristiano del paganesimo greco o italico, che con il cristianesimo non si erano completamente amalgamate. Considererò in particolare il lavoro sul pianto funebre in Lucania, dal momento che l’indagine sulla taranta pugliese, affrontata ne La terra del rimorso, si confronta con acquisizioni di tipo psicanalitico e psichiatrico, complicando lo sfondo di riferimento. Nel contesto del pianto rituale si vede, inoltre, con molta precisione la forza e il valore performativo del legame tra il mito e il rito. Un evento perturbante mette gli uomini di fronte alla possibilità dell’annichilimento ovvero del rischio di passare senza lasciare la propria traccia e perdendo il controllo su alcune forze naturali. Ogni livello di sviluppo tecnologico ed economico permette e dà forma a soluzioni differenti per soddisfare il bisogno di controllare la natura. Il legame tra il mito e il rito è una di queste soluzioni che riflette un determinato livello di sviluppo economico e culturale[6]. L’evento perturbante può essere superato tramite una sospensione del divenire, in modo che il piano degli eventi, ovvero la storia, possa essere sospeso temporaneamente per risolvere la crisi individuale. Questa sospensione soddisfa due bisogni differenti e complementari: 1. prendere tempo per trovare e riproporre un insieme di rappresentazioni stabili e tradizionali attraverso cui fermare la crisi individuale e trovare alcuni punti di riferimento, alcuni valori, nell’ambito di una forma culturale determinata; 2. lasciare funzionare questa sospensione attraverso la risoluzione della crisi in una ripetizione codificata di modelli (ad esempio i riti, e il loro valore prescrittivo). In questo modo la situazione critica può essere amputata del suo contenuto negativo[7].
Per dare alla vita sociale umana la continuità di un progetto culturale ed economico che possa essere tramandato alle generazioni future è essenziale superare la crisi, ovvero il momento nel quale la nostra esistenza, sia come individui che come comunità, è in pericolo. La formazione di valori sociali prende piede attraverso una selezione, più o meno conscia, tra le rappresentazioni condivise connesse in una narrazione comune e in una forma di linguaggio con i suoi riferimenti a quelle immagini che sono i valori di una comunità. Allo stesso tempo, questo linguaggio costituisce una vera e propria grammatica, o almeno delle regole con cui è possibile riprodurre questo orizzonte di valori in un modo più stabile. Il legame tra mito e rito ripropone la relazione tra linguaggio e grammatica e permette di preservare (anche da un punto di vista normativo) pratiche e narrazioni nella memoria dei popoli. La memoria culturale non è definita nel conflitto tra i libri e i costumi[8], ma è definita in una ripetizione di situazioni critiche e dal dubbio di poterle risolvere. Vale a dire che la memoria culturale si sviluppa in una cultura della memoria che costituisce e conserva vive alcune norme e le ripete attraverso narrazioni reiterate e pratiche rituali riprodotte a partire dalle rappresentazioni condivise e dalle azioni e dalle regole che stabiliscono la coerenza di queste rappresentazioni.
A partire da questi rilievi è possibile tracciare una differenza tra arcaico e primitivo. Il primitivo sarebbe una ripetizione della crisi e soprattutto del rischio dell’impossibilità di risolverla. L’arcaico sarebbe, invece, la possibilità di rifugiarsi in un contesto di valori tradizionali, di narrazioni mitiche e di pratiche protettive, che riporta alla memoria una azione vantaggiosa compiuta in illo tempore. La narrazione mitica che ripropone questa storia si attesta come l’arché (o una delle arché) di una comunità, che è condiviso e conservato attraverso pratiche rituali[9].
Le situazioni critiche ricorrenti in un determinato regime esistenziale, e i rischi di crisi che comportano sono in tal modo ricondotti alla ripetizione di un identico simbolo inaugurale di fondazione metastorica, un simbolo in cui tutto, in illo tempore, fu già deciso da numi o da eroi, onde poi ora non si tratta che di rendere ritualmente efficace l’origine mitica esemplare[10].
Questo meccanismo di connessione tra mito e pratiche rituali emerge in maniera visibile in tutti i fenomeni legati al mondo magico delle popolazioni rurali, tra i quali troviamo le pratiche funerarie, che descrivono una vera e propria grammatica del pianto.
3. La rielaborazione del lutto: morte e pianto rituale.
Nel suo libro Morte e pianto rituale nel mondo antico, de Martino mette in risalto il valore esemplare delle modalità di rielaborazione del lutto nella campagna lucana, nel quadro della funzione protettiva propria della connessione tra mito e pratiche rituali. In occasione dei funerali era possibile imbattersi nei gruppi di lamentatrici che avevano il compito di accompagnare o guidare il coro per sostenere il pianto dei parenti. Diversamente da altre prospettive di studi che consideravano i lamenti delle prefiche come forme di letteratura popolare o, peggio, come una forma di ipocrisia convenzionale e socialmente accettata, ma senza un valore reale e pratico, de Martino affronta questi fenomeni come una espressione culturale che ricopre una particolare funzione. Nello specifico, questa espressione può essere classificata come una ritualità di tipo protettivo. La protezione avrebbe reso possibile, per gli uomini coinvolti nel lutto, superare l’evento tragico e rinnovare l’opera (e l’operatività) umana nella storia.
La morte costituisce l’evento che nessuna civiltà può controllare e superare. L’uomo è carente di possibilità interpretative quando si trova di fronte alla morte, e la sua possibilità di rielaborazione culturale risulta decisamente diminuita, al punto che si ripresenta il rischio di cadere in una crisi che può annichilire e annullare ogni ulteriore possibilità di operatività umana. Con le dovute differenze a seconda delle condizioni di sicurezza garantite da una società, nessuno può affrontare l’evento in solitudine ma diventa necessario compiere delle operazioni che ristabiliscono un controllo sugli eventi. Queste operazioni coinvolgono la famiglia e, più generalmente, la comunità.
Ciascuno ha bisogno di essere sicuro della memoria delle generazioni future, ha bisogno di accogliere e di lasciare una eredità. Questo stimolo permette di direzionare la nostra potenza verso un progetto che mantiene e dà continuità alle forme culturali che permettono alla comunità di continuare il proprio lavoro per i vivi e per le generazioni a venire. Il parossismo caotico della crisi individuale può diventare un pianto collettivo attraverso le regole e i rituali del lamento funebre. Le regole di modulazione della voce e dei movimenti del corpo, il bilanciamento tra il lamento del coro e il pianto individuale, permettono di superare la crisi e di condurre il funerale in uno schema mitico-rituale. Dal momento che le prefiche non sono parenti del morto e non sono, dunque, direttamente coinvolte nel lutto, possono essere il medium della tecnica ritualizzata del pianto. La morte può diventare qualcosa di neutro e impersonale, dove – scrive de Martino – «Si attenua l’asprezza dell’insopportabile situazione storica reale (questo lutto che ha colpito me), e allo stesso tempo si stabilisce un rapporto con le tentazioni irrelative della crisi, e soprattutto con gli impulsi del planctus caotico»[11].
De Martino traccia una vera e propria mappa del pianto funebre e delle tecniche rituali di protezione. È una mappa che si estende nello spazio e nel tempo e che descrive la zona geografica e culturale che viene chiamata area euromediterranea. L’osservazione si muove dalla Lucania alla Sardegna e fino alle frontiere del Caucaso, attraverso la Jugoslavia e la Romania. Questo spazio geografico incontra uno spazio temporale che ha inizio nei riti dell’antico Egitto e dei popoli Medio-orientali. È qui che inizia a formarsi l’orizzonte mitico della passione vegetale e cereale. Le civiltà mediterranee sono lo spazio in cui è possibile trovare il nesso tra il momento critico del raccolto e il pianto rituale. La civiltà umana – scrive de Martino – «è la potenza formale di far passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte»[12]. In questo modo, con la creazione di valori, l’uomo riesce a produrre e rendere stabile una forma culturale in cui può fermare ciò che passa e ciò che finisce nonostante e contro la sua opera e il suo lavoro.
Il bisogno di dare regole alla morte comincia nel momento dello sviluppo della civiltà agricola e cerealicola. Il passaggio dal mezzo agricolo della zappa al mezzo agricolo dell’aratro rappresenta un’importante evoluzione dello sviluppo economico e culturale di un popolo. Con l’aratro diventa possibile ottenere una nuova esperienza dei ritmi stagionali e una relazione più attiva con la polarità vita-morte. L’umanità guadagna maggiori spazi di controllo contro la natura, ottenendo una più grande possibilità di affermare la propria presenza. Non di meno, il momento del raccolto rimane un momento critico. Il confronto tra la tecnica dell’uomo e la potenza della natura risulta ancora un combattimento dai risultati incerti. La semina non dà ancora abbastanza sicurezza da credere nella ricrescita della pianta colta. Diventa dunque necessario costruire un orizzonte culturale per superare il momento critico del raccolto, per riguadagnare sicurezza nelle tecniche agricole, al fine di sentirsi pronti a compiere il raccolto e a ripetere la semina[13].
De Martino fonda la sua analisi della genesi di questo tipo di orizzonte religioso, sui materiali di studiosi come Jensen, Dalman, Frazer, Moret e Oppenheim[14]. Attraverso questi materiali è possibile considerare la relazione tra lo sviluppo delle tecniche di raccolta e la costituzione dei miti e delle ritualità che poi prendono posto nella grammatica del pianto. Ma è possibile, allo stesso tempo, considerare la prossimità tra importanti aree del Mediterraneo come Egitto, Mesopotamia, e mondo greco. Così, diventa possibile vedere una sorta di osmosi culturale che è rimasta viva, nelle narrazioni mitiche e nelle pratiche rituali, fino al secolo XX nell’area del pianto euromediterraneo. Piuttosto che esaminare I documenti archeologici che vengono presi in considerazione, è possibile porre la domanda sul perché de Martino utilizzi questi materiali. Si tratta, qui, di segnare un collegamento tra gli spazi e le possibilità operative delle civiltà e le loro forme culturali. Per fare questo de Martino restituisce al mito il suo carattere principalmente operativo che può essere visto nelle sue forme ed espressioni rituali. Soprattutto, viene disegnata una mappa dove civiltà diverse, lontane nel tempo e nello spazio, sono descritte attraverso le loro somiglianze dovute alla condivisione di importanti aspetti culturali.
De Martino pone in collegamento i riti funebri di fronte ai quali si trova nei paesi e nelle campagne lucane con le leggende arcaiche sulla passione vegetale che si trovano nei racconti e nei miti di Lityerses, Lino, Maneros, Bormos[15]. I miti legati alla passione vegetale e cereale servono a sciogliere il senso di colpa per aver raccolto una pianta senza sapere con certezza se quella pianta crescerà ancora. La crisi che il contadino vive di fronte alla raccolta, alla mietitura e alla vendemmia deve essere sospesa attraverso il racconto e il richiamo alla memoria (soprattutto attraverso la ritualità) della passione di un dio che ha subito la stessa sorte della pianta, del grano o dell’uva. Ma in questo racconto, la colpa del raccolto ricade su qualcun altro, qualcuno che non è l’uomo che si sta occupando di commettere l’azione critica – cioè la raccolta. Così l’inizio o la fine del raccolto diventa un momento rituale in cui viene rappresentata questa storia attraverso metafore gestuali, linguistiche, corporee, attraverso travestimenti e rappresentazioni che permettono di superare l’inattività propria dell’incertezza. Ma se questo momento può essere superato, è necessario in seguito sopportare il vuoto lasciato dalla pianta. Per fare questo c’è bisogno di una sorta di compensazione dell’assenza della pianta, che avviene attraverso una narrazione avvenuta in illo tempore, su un piano che si situa fuori della storia (un piano metastorico, appunto) e che racconta un riscatto, una azione andata a buon fine. Il dio che aveva sofferto per mano di qualcun altro lo stesso destino della pianta viene rimpiazzato da un dio più saggio e più forte, oppure risorge a una nuova vita, in una nuova forma[16]. Le antiche civiltà agricole andavano formando la loro esperienza della morte nel contesto del lavoro agricolo, specialmente nel tempo del raccolto o della vendemmia.
L’osservazione diretta di de Martino si basava sul materiale disponibile quando ci si trovava di fronte alla morte individuale, e in queste esperienze era possibile vedere gli elementi risolutivi di una forma culturale, ai quali ciascun membro di una comunità poteva attingere per superare la crisi grazie al lavoro della memoria collettiva e delle abitudini sedimentate e condivise. Il procedimento codificato nei rituali funebri era basato sulla forma dei riti agrari, come è stato possibile vedere a proposito delle civiltà mediterranee pre-cristiane. Nella Lucania contadina del XX secolo, si trovano temi simili a quelli che sono stati visti nella ritualità legata alle passioni vegetali, specialmente a proposito del ritorno del morto, come nume tutelare o come presenza spaventosa che non si staccava dalla dimensione dei vivi impedendo il superamento del lutto e pregiudicando le operazioni del lavoro quotidiano.
Nell’Italia meridionale sopravvive questo forte contesto magico che minaccia la vita dei suoi abitanti, ma se codificato e ritualizzato può mettere capo a momenti sociali che costituiscono un contesto protettivo. La grammatica del pianto e le regole del lamento sono preservate attraverso un bagaglio di ritualità e attraverso la necessità di mantenere la memoria del morto. Questi rituali sono tanto più fondamentali, quanto più il passaggio che ne consegue implica trasformazioni radicali delle vite di chi rimane. In particolare, quando muore un uomo ancora valido per il lavoro tutti i ruoli della famiglia subiscono un vero e proprio stravolgimento e in questo caso, nei lamenti funebri, si presentava con più forza il motivo del ritorno del morto. Proprio in questo contesto tematico, de Martino può distinguere una memoria cattiva da una memoria culturale che può essere risolta negli elementi di riscatto offerti da una forma culturale. De Martino riporta diversi casi nei quali i contadini e le contadine lucani incontrano e parlano con il fantasma di un parente o di un conoscente defunto. Il ritorno del morto assume le caratteristiche di una allucinazione ossessiva o di un richiamo persecutorio, al quale non si può rispondere se non con la paura senza riscatto. Questa è una forma cattiva di memoria, una forma in cui i morti tornano come presenza irrelativa, ovvero senza proporre nessuna nuova relazione all’operatività e alla vita quotidiana e impediscono al vivo di staccarsi dall’aspetto negativo dell’esperienza del lutto. Questi eventi esprimono una crisi non risolta, che può condurre a espressioni parossistiche, in alcuni casi alla follia, in qualche esperienza alla morte più o meno lenta. Per controllare questa crisi, la grammatica del pianto permette di incaricare qualcuno riconosciuto come medium, strumento di risoluzione, per guidare il dialogo e la relazione con il morto che ritorna, in modo da gestire una presenza che rischia di invalidare l’operatività di un individuo, di una famiglia, di una comunità. Il ritorno dei defunti, allora, viene riassorbito in una tecnica culturale che permette ai parenti, liberi da una ossessione incontrollata, di sopportare l’assenza del congiunto e di ritornare al lavoro quotidiano portato avanti per i vivi[17].
Il nesso mitico-rituale tende a stabilire e a preservare la memoria, anche inconsciamente, in una serie di pratiche e abitudini. Ma la memoria culturale non lavora da sola. Per mantenere la funzione protettiva della memoria e per farla lavorare nei binari rituali in cui funziona come espressione culturale e non come relitto storico, è necessario che alcuni aspetti di incertezza siano preservati e che alcuni eventi critici non vengano superati dalla società.
4. La forma culturale del capitalismo e lo svuotamento del mito.
Perché una società come l’Italia della seconda metà del XX secolo, che corre verso l’industrializzazione e promette uno sviluppo sociale che non sarà possibile in futuro deve fare i conti con una realtà così primitiva come il suo meridione rurale? Se non è facile rispondere a questa domanda, si può d’altro canto provare a inquadrarla nel problema del sottosviluppo.
La civiltà capitalistica è diversa da ogni altro tipo di regime economico. Infatti si relaziona al problema del sottosviluppo come a qualcosa di paradossale e assurdo. Allo stesso tempo, però, il capitalismo pone le condizioni che permettono al passato di ripresentarsi come arretratezza, ovvero, come primitivo.
De Martino ha dedicato gli ultimi anni della sua vita al tema delle apocalissi culturali[18]. Ogni civiltà costruisce frontiere culturali, delimitate dalle forme e dalle espressioni culturali, oltre le quali sta il pericolo della loro fine. L’orizzonte mitico-rituale funziona come schema per sostenere il peso della morte, che è – certamente – la morte individuale così come la morte della intera comunità, la fine del mondo, appunto. A partire da questo punto di vista, il capitalismo si rappresenta come una civiltà in continuo sviluppo e crescita, come una civiltà che permette un continuo allargamento del controllo sulla natura, senza paura di finire e di crollare. Ma allo stesso tempo, il capitalismo è minacciato da una scienza che è incontrollabile e che attraverso la bomba atomica ha mostrato potenza sufficiente da distruggere l’umanità. La forma culturale propria del capitalismo sembra non riuscire a pensare più la crisi. Se da una parte questo “insuccesso” è dato da una mondanizzazione della vita umana, dall’altro lato il rischio a cui si presta il fianco è un nichilismo culturale che lasci l’uomo privo di un rifugio operativo.
La “crisi” nelle arti figurative, nella musica, nella narrativa, nella poesia, nel teatro, nella filosofia e nella vita etico-politica dell’occidente è crisi nella misura in cui la rottura con un piano teologico della storia e con il senso che ne derivava (piano della provvidenza, piano dell’evoluzione, piano dialettico dell’idea) diventa non già stimolo per un nuovo sforzo di discesa nel caos e di anabasi verso l’ordine, ma caduta negli inferi, senza ritorno, e idoleggiamento del contingente, del privo di senso, del mero possibile, del relativo, dell’irrelato, dell’irriflesso, dell’immediatamente vissuto, dell’incomunicabile, del solipsistico, ecc[19].
Questa apocalisse senza possibilità di ritorno è l’effetto di una civiltà che ha fatto della tecnica il proprio orizzonte mitico-rituale. Da questo punto di vista, in senso diverso da quello marxiano, il capitalismo si presenta (e si rappresenta) come contraddittorio. La perdita di ogni anabasi diventa la modalità di affermazione dell’umano, esprimendo la forma culturale della civiltà contemporanea come nichilismo assoluto. L’apocalisse del capitalismo diventa una apocalissi totale in cui la fine del mondo non riesce a riproporre figure di salvezza e di riscatto. Tutte le forme religiose rivestivano il tema della fine con il tema della rinascita in un nesso rituale nel quale questi aspetti venivano a coincidere muovendo speranze, paure e memorie che stringevano e lasciavano esprimere i legami sociali. La forma apocalittica della guerra nucleare e della bomba atomica, invece, non presenta vie di scampo penetrando lo spirito e la carne della società.
La guerra nucleare è la fine del mondo non come rischio o come simbolo mitico-rituale di reintegrazione, ma come gesto tecnico della mano, lucidamente preparato dalla mobilitazione di tutte le risorse della scienza nel quadro di una politica che coincide con l’istinto di morte[20].
Il paradosso sta nel fatto che il capitalismo si trovi minacciato precisamente dallo stesso strumento culturale che afferma la sua supremazia sulla natura. Detto in altri termini, si potrebbe ben dire che il capitalismo è minacciato dalle stesse forze che scatena. Questa affermazione, però, non deve far perdere di vista il contesto tematico in cui si muove de Martino. Il problema è sempre affrontato dal punto di vista della forma culturale, e la consapevolezza di questo orizzonte fa prendere a de Martino una posizione forte nei confronti di un certo materialismo marxista che viene accusato di essere eccessivamente oggettivo e di dimenticare la praxis che per de Martino si dà solo nelle mediazioni. La mediazione di cui si parla è la radice stessa dell’uomo; ovvero, la forma culturale soggettiva attraverso cui la materia viene mediata per rientrare in un progetto di addomesticazione del mondo[21].
Come se fosse una visione distorta, la forma culturale del capitalismo non permette di vedere la minaccia dell’appropriazione della scienza e della subordinazione della tecnica al profitto. In questo vuoto valoriale dove il nuovo non è ancora nato e il vecchio fatica a morire, si presenta la mostruosità del sottosviluppo. Meglio, la permanenza del vecchio si presenta come la mostruosità della resistenza del primitivo. Il concetto di sottosviluppo è inscritto nell’auto-rappresentazione mitologica del capitalismo; una mitologia, però, che si presenta come mitologia senza divino e, cosa ben peggiore, senza umanità, riempita solo del vuoto e freddo gesto tecnico della mano. La resistenza del primitivo non può che essere inefficace, ma non trova alcun orizzonte valoriale che può sostituire la sua funzione ormai mutilata. Le pratiche rituali continuano a esistere, sebbene condannate a rimanere relegate tra i relitti di un passato che non riesce a superarsi, in una ripetizione inane, che può solo rendere più visibile l’entità dell’esclusione dai processi produttivi e dalle forme della vita cosiddetta civile.
Non bisogna, però, dimenticare che uno schema culturale è allo stesso tempo, secondo de Martino, una forma economica che implica relazioni sociali e richieste produttive. Bisogna allora dirigere l’attenzione verso la funzione che la condizione di sottosviluppo ricopre all’interno della stessa espansione del capitalismo, e quali sono le ragioni di questo legame. Nel farlo si andrà oltre de Martino tentando la riproposizione di una lettura peculiare del tema.
5. Il sottosviluppo nell’Italia meridionale e il suo ruolo conservativo.
Il sottosviluppo deve essere posto come problema, come un complesso di relazioni sociali, che, sebbene faccia capo a un progetto comunitario dell’utilizzabile che non serve più, risponde a condizioni e scelte precise. La categoria di sottosviluppo non è semplicemente un concetto applicato erroneamente o il pregiudizio di una civiltà che si presenta in continua crescita, ma torna a essere categoria economica e culturale. Così permangono i presupposti per la conservazione di memorie ancestrali che restano vive, ma allo stesso tempo sono escluse dalla vita culturale del presente, perdono il loro ruolo culturalmente e attivamente egemone, ma soprattutto rimangono relegate a un orizzonte sempre più ristretto, oltre il quale c’è il nichilismo della civiltà moderna. L’ultimo rifugio contro il nichilismo dei valori non è altro che la vuota ripetizione di pratiche arcaiche che hanno perso la loro funzione positiva e attiva. La scelta è quella tra il nulla e l’inservibile. Ma se le pratiche mitico-rituali risultano svuotate o quantomeno mutilate della loro funzione di riscatto, bisogna comprenderne il perché anche dal punto di vista strutturale.
Nel 1972 la questione dell’arretratezza del Mezzogiorno d’Italia veniva posta dal saggio di Luciano Ferrari-Bravo Forma dello Stato e sottosviluppo[22].
In Italia subito dopo la seconda guerra mondiale, scrive Ferrari-Bravo, viene riaperta la discussione di un antico problema: la questione agraria, ovvero la riforma del latifondo e della distribuzione delle terre[23]. Ferrari-Bravo richiama i primi interventi a proposito di questa materia, compiuti tra il 1946 e il 1950[24]. Attraverso l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, lo Stato interveniva direttamente per organizzare le forze produttive del Meridione. Una gran parte della forza lavoro, però, risultava totalmente improduttiva per gli standard del capitalismo in espansione. La politica economica repubblicana, portata avanti attraverso lo strumento della Cassa, non perseguì la strada di una divisione e assegnazione delle terre tra i contadini, ma pianificò un sistema di incentivi economici volti a modificare il lavoro agricolo in lavoro produttivo secondo i modelli del moderno regime economico. Probabilmente questo nuovo corso produsse, nella gestione dei rapporti di lavoro agricoli, alcuni risultati nel superamento di residui feudali o pre-unitari che erano rimasti in vigore fino alla fine del fascismo. Non c’è dubbio che l’intervento della Cassa del Mezzogiorno riuscì ad accelerare la penetrazione del capitalismo nei territori rurali, iniziata forzosamente all’indomani dell’unità[25]; eppure questo processo non risultò indolore. Se nel periodo post-unitario l’ingresso del capitalismo nelle campagne obbligò il contadino a sottomettersi a un nuovo regime di sfruttamento e a riconoscere nuove modalità di mercato, intensificando il suo lavoro[26], adesso, con il sistema dei prestiti sotto condizione, l’intervento dello Stato divide ed estromette dalla sfera produttiva una serie di rapporti residuali che per il nuovo modello capitalistico risultavano improduttivi[27]. In questo modo emerge un grande numero di lavoratori in eccesso, non valorizzabili dal nuovo regime produttivo. Queste persone non potevano soddisfare le richieste per ottenere i prestiti né potevano risultare utili in alcun modo. Si trattava, in breve, di un esercito di persone tagliate fuori dalle nuove condizioni di sviluppo e non compatibili con esse[28]. Il risultato più importante di questa situazione, fu l’emigrazione di massa nelle zone più industrializzate del Paese[29]: chi non poteva emigrare al Nord rimaneva, pertanto, condannato a una vita che non presentava nessuna prospettiva (o se lasciava qualche spiraglio si trattava di possibilità molto ridotte) di riprodurre autonomamente le proprie condizioni di esistenza. La presenza di un gran numero di persone che condividevano non solo memorie di ritualità arcaiche, ma anche una precisa condizione di dipendenza rispetto alle proprie capacità produttive, fu ragione fondamentale della resistenza di relitti arcaici di protezione magica che si ridussero a manifestazioni primitive. D’altro canto, comunque, questo grande numero di persone senza prospettive, rimase utilizzabile come forza lavoro di riserva per il capitalismo italiano in espansione. Appare in maniera chiara la stretta relazione che sussiste tra sviluppo e sottosviluppo dove il secondo termine, nelle sue diverse forme, rimane funzionale all’esistenza del primo. Ma la condizione di esclusione non risparmiava neppure quella parte di popolazione che in qualche modo aveva accesso ad alcuni dei benefici della Cassa del Mezzogiorno.
Se una parte della manodopera rimaneva esclusa dai rapporti produttivi, un’altra parte doveva occuparsi, con strumenti inappropriati, di una terra spesso arida e secca[30]. L’intervento dello Stato ha mantenuto e rafforzato una situazione, si potrebbe dire, di sottosviluppo sistemico che permetteva di governare e disciplinare la forza lavoro. Il tessuto sociale (già messo duramente alla prova dal fascismo e dalla guerra) si andava rompendo a causa dell’emigrazione e dell’impoverimento di chi rimaneva, le masse rurali erano escluse dai processi decisionali e spesso anche da quelli produttivi, i debiti ossessionavano i contadini che erano riusciti a comprare una proprietà. Tutte queste situazioni critiche lasciavano che le memorie di un orizzonte mitico-rituale si preservassero, anche solo come abitudine sociale a cui aggrapparsi. Ma queste memorie comuni sopravvivevano in un contesto capitalistico, vale a dire, in una situazione decisamente e radicalmente diversa da quella in cui erano nate: sopravvivevano come frontiere della forma culturale del capitalismo. In questo senso, l’utilizzo di strumenti arcaici per risolvere le situazioni critiche non serviva allo scopo. L’uso di queste pratiche e di queste memorie riproduceva comportamenti che risultavano, nel contesto moderno, come un modo di vita primitivo. Le comunità arcaiche mantenevano vive queste memorie culturali, ma in un orizzonte più stretto e più precario, dove le possibilità di successo erano sempre meno, perché le decisioni sullo sviluppo delle condizioni di vita venivano prese in altri luoghi e con fini che non si preoccupavano dei bisogni della popolazione agraria. Come il primo uomo di fronte all’incertezza di raccogliere la pianta si percepiva assente dal processo che decideva della possibilità di ricrescita e di successo della semina, così i contadini lucani degli anni ’50 si sentivano assenti dalle decisioni che avrebbero determinato non tanto se il grano fosse ricresciuto, ma se il raccolto fosse bastato, se il prezzo del grano avesse permesso di pagare le tasse e i debiti, se la medicina risultasse efficace contro la malaria, se l’acqua fosse bastata a superare l’estate. Per risolvere i problemi delle popolazioni rurali non bastava più la narrazione mitica o la pratica rituale, ma c’era bisogno di ambulatori, medici preparati, sgravi fiscali, prestiti a basso interesse, reti fognarie e acquedotti e soprattutto nuovi strumenti di partecipazione politica. Le antiche pratiche protettive continuavano a funzionare ma si attestavano sempre più come una permanenza di un primitivo livello di civilizzazione; non potevano, cioè, più garantire la possibilità di trovare nuovi strumenti di riscatto. L’aggravante, in sintesi, era data dal fatto che la resistenza dell’arcaico come primitivo risultava un modo di vita alieno, totalmente altro, sul quale si poteva spendere solo l’interesse dell’etnologo trattando la ritualità rurale come un oggetto di studio. Pratiche che un tempo servivano a dominare territori, a scambiare risorse commerciali, a costruire stabili gerarchie sociali, a non perdere il ritmo del lavoro quotidiano, diventavano inservibili in un momento storico in cui il territorio veniva dominato e suddiviso dalle banche, in cui il mercato perdeva ogni confine controllabile, e la scala gerarchica della società non sembrava nemmeno lontanamente accessibile a chi si trovava lontano dalle cinture urbane o dai centri più sviluppati del Paese. Il mondo popolare subalterno sembrava continuare a subire la sorte che gli era già toccata all’indomani dell’unità nazionale, quando il capitalismo aveva iniziato a muovere i primi passi nelle campagne modificando profondamente gli stili di vita, ma senza arrivare al punto da liberare le popolazioni rurali del loro orizzonte mitico-rituale arcaico. Il capitalismo si è “limitato” a svuotare antiche pratiche di riscatto e a renderle inservibili, senza sostituirle né con pratiche nuove e più “umanizzate” né con la consapevolezza di poterne fare a meno. Il mondo popolare subalterno si presentava, agli occhi dell’etnologo, come la riproposizione senza possibilità di riscatto di un passato inane, in un presente vuoto di capacità creative.
A partire da queste posizioni, oggi molte cose sembrano mutate, ma non radicalmente: l’equilibrio tra sviluppo e sottosviluppo in Italia è configurato su scala europea e si complica con gli aspetti legati ai flussi migratori extra-europei e le migrazioni mantengono una importanza centrale in tutta l’area mediterranea, e non solo[31]. Questi fenomeni si attestano come una frontiera non solo geografica, ma anche culturale e giuridica. Gli esperimenti di segregazione e di precarizzazione legati alla condizione di clandestinità dei migranti[32], sembrano costituire un tassello del concetto stesso di sviluppo, anzi una delle poche possibilità che permette di tenere ancora in piedi un modello produttivo che si trova davanti a una crisi non inaspettata, ma certamente epocale. La migrazione rimane frontiera economica e culturale, perché si stigmatizza come sottosviluppo e arretratezza, e allo stesso tempo come alterità culturale esterna. Ma questa rappresentazione sembra reggersi sempre meno, perché proprio le forme brutali di detenzione dei migranti sembrano far emergere in maniera più chiara il ruolo funzionale di ciò che impropriamente definiamo come sottosviluppo.
A partire, dunque, dalla posizione di de Martino, sembra possibile acquisire elementi e linee interpretative per situare la domanda sul rapporto tra sviluppo-sottosviluppo in uno spazio problematico che affronta il rapporto tra regime economico e forma culturale.
[1] E. de Martino, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, in «Società», 1949, V, n.3, pp.411-435.
[2] Id., Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p.18
[3] Il riferimento all’utile/economico rimanda alla distinzione crociana delle categorie dell’utile/economico e del vitale. In effetti è proprio in Morte e pianto rituale che de Martino rivede il problema delle categorie alla luce della critica che Croce aveva espresso a proposito de il Mondo magico; B. Croce, Intorno al magismo come età storica, in Id., Filosofia e storiografia, Laterza, Bari, 1949, pp. 193-208. Il rapporto fra Croce e de Martino, soprattutto dal punto di vista filosofico è analizzato in maniera approfondita e non senza rilevare alcune aporie della riflessione crociana in G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli, 2001. In Morte e pianto rituale, dove è contenuta la cosiddetta autocritica di de Martino rispetto ai rilievi di Croce, il problema centrale è piuttosto la riformulazione della categoria di economico e il rapporto con il vitale, che de Martino separa dall’utile. Nella separazione tra utile/economico e vitale sta la distanza di de Martino dal sistema crociano, ed è grazie a questa riformulazione che l’etnologo napoletano prova a “scagionarsi” dal sospetto di aver storicizzato le categorie. De Martino distingue una categoria (l’economico) che finisce col determinare la dialettica tra materia e forma nelle costruzioni culturali del mondo e della storia umana. Per approfondimenti su questo tema è importante segnalare la critica al Mondo magico di Enzo Paci, che mette elementi nuovi che de Martino in parte accoglierà: E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Taylor, Torino, 1950, pp. 123-133. A proposito del rapporto fra Croce e Paci si veda A. Vigorelli, La dialettica del vitale. Sulla polemica di Enzo Paci con Benedetto Croce, «Rivista di Storia della Filosofia», 39, 4 (1984), pp. 751-777; E. Vitiello, Il dibattito Croce-Paci, ovvero: il sillogismo nascosto, in S. Zecchi (a cura di), Vita e verità. Interpretazione del pensiero d Enzo Paci, Bompiani, Milano 1991, pp. 51-85; G. Orecchioni, Il dibattito tra Benedetto Croce ed Enzo Paci e le ultime meditazioni crociane sulla vitalità, in Zecchi (a cura di), Vita e verità, cit., pp. 251-262. Sulla considerazione del problema del vitale e dell’economico in Croce e de Martino rimando a S. F. Berardini, Ethos presenza storia. La ricerca filosofica di Ernesto de Martino, Dipartimento storia e filosofia, Trento, 2013, in particolare pp.181-206 e anche Id., De Martino, Croce e il problema delle categorie, in I. Pozzoni (a cura di), Benedetto Croce . Teoria e orizzonti, Limina Mentis, Villasanta (Mi), 2010, pp. 327-375.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ho sintetizzato qui alcune importanti acquisizioni che de Martino sviluppa a partire dall’elaborazione del concetto di presenza e della sua crisi, come si può vedere in E. de Martino, Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino, 2007. Ma il nesso tra la narrazione mitica e la pratica rituale, oltre che in Morte e pianto rituale, cit., verrà esplicitamente considerato in Id., Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 2000.
[7] Cfr. Id. Sud e magia, cit., p.96.
[8] Prendo in prestito questa espressione da Jan Assmann. Cfr J. Assmann, Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München, 1992.
[9] A proposito di questo argomento mi permetto di rinviare a R. Evangelista, Storia e opera umana in Ernesto de Martino in «Atti dell’accademia di scienze morali e politiche», CXXII, 2012, pp. 193-221.
[10] E. de Martino, Mito scienze religiose e civiltà moderna, in Id., Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano, 1962 p.113.
[11] Id. Morte e pianto rituale, cit., p. 80.
[12] Ivi, p. 214 .
[13] Queste acquisizioni sono menzionate da de Martino. Cfr., Ivi, pp. 216-221.
[14] Questi sono I materiali più importanti considerati da de Martino: G. Dalman, Arbeit und Sitte in Palästina, vol 1 and 2, 1928; for the legend of Lityerses, J Frazer, The golden bough, part V: Spirits of the Corn and of the Wild, vol.1, 1903 pp.131-305; a proposito delle leggende collegate al raccolto de Martino prende in considerazione studiosi come A. Moret, la mise à mort du dieu en Egypt, Paris, 1927, and Id. Rois et dieux d’Egypte, Paris, 1911. Generalmente, a proposito del nesso tra raccolto e morte, de Martino fa riferimento A.E. Jensen, Das reliogiöse Weltbild einer früher Kultur, Stuttgart, 1948, L. Oppenheim, Mesopotanian harvest song, in “Bullettin of american Schools of oriental Research”, vol. 103, 11-14 (1946).
[15] Cfr., E. de Martino, Morte e pianto rituale, pp. 237-259.
[16] Ivi, p. 262-263.
[17] Cfr., Ivi, pp. 97-102.
[18] Cfr., Id. Fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini e M. Massenzio, Einaudi, Torino 2002 .
[19] Si Ivi, §263, pp.471-472, L’apocalisse nel sistema culturale del capitalismo viene definita da de Martino come apocalisse senza escaton.
[20] Ivi, §268, p. 476.
[21] Ivi, § 241, p. 437: «Il principale difetto di tutto il materialismo passato… sta nel fatto che l’oggetto, la realtà, e il mondo sensibile vi sono considerati solo nella forma di “oggetto” e di intuizione, ma non in quanto attività umana concreta, non in quanto praxis, non in maniera soggettiva». E ancora: «La “natura esterna resistente” non è un in sé indipendente in cui si innesta il lavoro umano, ma, al contrario, esteriorità e resistenza sono possibili solo in quanto emerge un compito di valorizzazione utilizzatrice intersoggettiva, e in quanto la vita deve innanzitutto manifestarsi nella prospettiva e nei limiti di questo “utilizzante sapere” […]. È il lavoro umano che “fa mondo”, e che fonda esteriorità e resistenzza come vissuti interni al lavorare: il reaismo ingenuo e il materialismo volgare non sono atro che l’assolutizzazione di una prospettiva che appartiene unicamente al “dovere” di lavorare per utilizzaare».
[22] L. Ferrari-Bravo, Forma dello stato e sottosviluppo, in L. Ferrari-Bravo, A. Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, Feltrinelli, Milano, 1972, pp. 11-124.
[23] A proposito del problema agrario, si veda A. Gramisci, La questione meridionale, Editori riuniti, Roma, 2005. Per un’analisi economico-finanziaria del problema agrario prima della seconda guerra mondiale, rimando ai risultati di P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi, Torino, 1945, in particolare al capitolo VI, pp.68-110; e anche, relativamente al periodo post-unitario, E. Sereni Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino, 1947.
[24] L. Ferrari-Bravo, cit., pp. 16-17. Sul tema del sottosviluppo in Italia dopo la seconda guerra mondiale cfr. V. Ajmone Marsan, Recenti contributi all’analisi economica delle aree arretrate, in G. De Maria (a cura di), Problemi sullo sviluppo delle aree arretrate, Il Mulino, Bologna, 1960, pp. 3-76.
[25] Si veda ancora E. Sereni, il capitalismo nelle campagne, cit.
[26] Ivi. Questa, in sintesi, la tesi di fondo di Sereni che traccia un legame profondo tra sviluppo capitalistico e sottosviluppo.
[27] A questo proposito si veda L. Ferrari-Bravo, cit., pp. 43-66. Per una analisi generale del problema del sottosviluppo nella politica economica italiana si veda anche A. Graziani, La politica per il mezzogiorno: sue realizzazioni e sviluppi, in, Nord e sud nella società e nell’economia italiana di oggi, Einaudi, Torino, 1968, pp. 147-166, e V. Marrama, Saggio sullo sviluppo economico dei paesi arretrati, Einaudi, Torino, 1958.
[28] L. Ferrari-Bravo, cit., pp. 43-66.
[29] Soluzione, quest’ultima, non possibile nel periodo post-unitario perché il tessuto industriale italiano non poteva assorbire una grande quantità di manodopera. L’emigrazione di massa, infatti, si rivolse principalmente all’estero, descrivendo, così, un fenomeno dalle conseguenze differenti.
[30] Il ruolo che gioca la situazione disagiata del lavoro agricolo nelle campagne del Sud Italia nella persistenza della ritualità ancestrale viene considerata nel documentario di G. Mingozzi, La taranta (1962). Questo documentario si è avvalso del materiale delle ricerche antropologiche di de Martino.
[31] Sulla migrazione e la sua valenza economica si veda G.A. Di Marco, Migranti ed emancipazione umana nel mercato mondiale della globalizzazione capitalistica, in L. Chieffi (a cura di), Bioetica pratica e cause di esclusione sociale, Mimesis, Milano, 2012, pp. 119-172.
[32] Molto interessante a questo proposito A. Ravenda, Alì fuori dalla legge. Migrazione, biopolitica e stato di eccezione in Italia, Ombrecorte, Verona, 2011.
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