Mariannina Failla
1. Arte e lutto
Iniziamo da alcune riflessioni sull’arte che non ricalcano i tipici passaggi freudiani sulla fantasia[1], anche se in seguito troveranno un possibile punto di incontro con essi. Le considerazioni che vogliamo fare mettono, piuttosto, sul tappeto un altro aspetto della produzione artistica: il suo rapporto con l’eterno e conseguentemente con il caduco. Entriamo così nella sfera dell’ebraica insuperabile opposizione – come voleva Hegel[2] – di caduco ed eterno, nei cui confronti Freud assume una posizione interessante: è il caduco ad aumentare il valore dell’arte. «Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione di possibilità di godimento aumenta il suo pregio [corsivi nostri]»[3]. Rimane incomprensibile, continua Freud, «come il pensiero della caducità del bello debba turbare la nostra gioia al riguardo. Quanto alla bellezza della natura [poi], essa ritorna dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno. Nel corso della nostra esistenza vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto [corsivi nostri]. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida. E così pure non [riesco] a vedere come la bellezza e la perfezione dell’opera d’arte o della creazione intellettuale debbano essere svilite dalla loro limitazione temporale»[4].
L’effimero dunque potenzia il bello ed il suo godimento. L’opera d’arte invece è caduca in senso negativo, patologico quando con essa e in essa si cerca l’eterno, quando sia il suo autore sia il suo fruitore desiderano il dominio assoluto sul tempo attraverso la sua contraddizione ultima: l’eternità. Anche se per via oppositiva, nella ricerca di eternità l’arte finisce per legarsi alla morte. L’eternità e la sua ricerca, mossa dalla negazione e repulsa per l’effimero, sono in definitiva il tentativo “psichico” di ribellarsi al lutto.
«Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento del bello [agli occhi cioè del poeta e del suo amico con cui Freud instaura una conversazione proprio sulla caducità]. L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire […] il lutto per la sua fine; e poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi [ossia il poeta e il suo amico n. d. A.] avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità. Il lutto per la perdita di qualcosa che abbiamo amato o ammirato sembra talmente naturale che il profano non esita a dichiararlo ovvio. Per lo psicologo invece il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare, ma ai quali si riconducono altre cose oscure. Noi reputiamo di avere una certa capacità d’amare – che chiamiamo libido – la quale agli inizi dello sviluppo è rivolta al nostro stesso Io [narcisismo n. d. A.]. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per dirigersi sugli oggetti che noi accogliamo per così dire nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti […] la nostra libido torna libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare provvisoriamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per ora non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi [corsivi nostri]»[5].
Ciò che nel complesso emerge dalla pur breve analisi freudiana della coppia caducità/eternità nella produzione e fruizione artistiche è un ribaltamento del loro significato ordinario: caduco corrisponde a vitale, bello, durevole, in un certo qual modo eterno per i nostri vissuti [Freud parla di rarità del tempo grazie proprio al suo essere effimero, di ritorno eterno, facile, forse troppo facile è volare con il pensiero a Nietzsche]; l’effimero sembra, inoltre, mantenere il legame con il reale percettivo[6], con il corporeo (il volto della donna e il corpo che invecchiano, cui allude Freud nella precedente citazione); l’eterno, invece, è connesso alla morte, al luttuoso, a qualcosa che ha a che vedere non con l’acquisizione di realtà, di essere, ma con la sua perdita, con la perdita oggettuale.
- 2. Lutto e fantasia
Ed è proprio grazie alla perdita oggettuale che Freud nel saggio Lutto e melanconia definisce il lutto come reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto: la patria, ad esempio, la libertà, o un ideale; per la perdita dell’oggetto sui cui si era investita la propria libido il lutto è, inoltre, analogo alla melanconia: «la melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in auto rimproveri e auto ingiurie e culmina nell’attesa delirante di una punizione»[7]. A queste analogie la malinconia, però aggiunge alcune caratteristiche del tutto peculiari: «nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella malinconia impoverito e svuotato è l’Io stesso»[8] L’io si svuota e al tempo stesso resiste e avversa qualsiasi investimento libidico verso l’esterno, si svuota e si chiude in modo narcisistico e delirante nel proprio sé. Il ritorno narcisistico a sé come conseguenza della perdita oggettuale è, quindi, il tratto dominante nella malinconia [come anche il suo tendere a diventare mania] su cui però qui non ci possiamo soffermare anche se è senz’altro interessante accennare come il ritorno narcisistico su se stessi sembra essere quella caratteristica che fa della melanconia una patologia muta, senza parola, e molto toglie alle dinamiche psichiche temporali, in particolare alla dimensione del futuro[9]. È essenziale, invece, richiamare in questo contesto il «lavoro» del lutto; è essenziale cioè analizzare il lutto – come suggerisce il tecnicismo freudiano – dal punto di vista economico. L’oggetto amato non c’è più; la perdita dell’oggetto richiede che la libido nel suo complesso venga ritirata da ciò che ha in qualche modo relazioni con l’oggetto perduto, de-realizzato o con il vuoto oggettivo. L’ingiunzione ad abbandonare l’oggetto, ormai perso, viene però avversata dall’io e se tale avversione è intensa può sfociare nel suo opposto, ossia in una fortissima e delirante adesione all’oggetto, denominata da Freud nel Complemento metapsicologico alla dottrina dei sogni «psicosi allucinatoria di desiderio». Lo stato allucinatorio è una reazione a una perdita che la realtà impone all’io, ma che egli vuole e deve negare per timore di non sopportarla. L’io rompe il suo legame con la realtà e ritira dal sistema cosciente delle percezioni il proprio investimento oggettuale-mondano. In tal modo, la prova della realtà viene evitata e i fantasmi del desiderio possono insinuarsi nella coscienza e venire accettati come realtà addirittura migliori. Il lavoro del lutto è quindi un lavoro di simbolizzazione ed introiezione della perdita e fa sì che l’io riesca ad attraversare il dolore, inevitabile ed altamente enigmatico secondo Freud, fa sì, cioè, che l’io riesca a compiere l’esperienza dell’oggetto negato, assente, ricostruendo la possibilità dell’esperienza libidica del mondo con uno spostamento oggettuale (ossia investendo su oggetti diversi). L’essere reali o astratti, anche nel caso dello spostamento oggettuale non incide sul fatto che essi – i nuovi oggetti che proponiamo di chiamare “oggetti di seconda natura” – siano l’esito del processo di simbolizzazione della perdita di oggetti.
Ora la riconquista della realtà attraverso la simbolizzazione della sua perdita e la produzione di nuove relazioni oggettuali possono far venire in mente la doppia dinamica della fantasia artistica di cui Freud parla nella Lezione 23 de L’introduzione alla psicoanalisi[10]. Anche la fantasia implica la perdita oggettuale; essa (fantasia) sembrerebbe seguire solo il principio di piacere e avverserebbe o eviterebbe il principio di realtà (rapporto oggettuale-percettivo mondano):
«Con l’introduzione del principio di realtà si è differenziata una specie di attività di pensiero che, serbatasi libera dall’esame di realtà, è rimasta soggetta soltanto al principio di piacere. Si tratta dell’attività del fantasticare che incomincia già con il gioco dei bambini, e che successivamente, portata avanti nella forma dei sogni ad occhi aperti, rinuncia alla dipendenza dagli oggetti reali»[11]. La fantasia artistica aggiunge a questa dinamica, che potrebbe portare anche a stati deliranti e/o nevrotici, come in fondo accade o può accadere con il lutto, la dinamica inversa quella del ritorno alla realtà. Questa seconda via, la via del ritorno, è offerta dall’arte; si tratta del ritorno ad una realtà che potremmo definire migliore, non contrapposta al sentimento di piacere, anzi in sintonia con esso (gli oggetti-simbolo di seconda natura ipotizzati per il lutto). «[…] Io sono convinto che ogni piacere estetico procuratoci dal poeta ha il carattere [di un piacere preliminare, detto premio di allettamento] e che il vero godimento dell’opera poetica provenga dalla liberazione di tensioni nella nostra psiche. Forse contribuisce non poco a tale esito il fatto che il poeta ci mette in condizione di gustare d’ora in poi le nostre fantasie senza alcun rimprovero e senza vergogna [corsivo nostro]»[12].
- 3. Mosè e il perturbante
A questo punto si potrà a ragione affermare che le precedenti riflessioni abbiano rispettato solo parzialmente le promesse contenute nel titolo: ancora non sono stati pronunciati il nome Mosè, non è altresì comparsa alcuna allusione alla religione ebraica, salvo un brevissimo cenno iniziale alla scissione della coscienza religiosa ebraica [nota 2]. Abbiamo solo insistito su un possibile parallelismo fra il processo di simbolizzazione proprio del lutto e quello della fantasia poetica, creatrice, sulla dinamica della perdita dolorosa dell’oggetto e della sua riacquisizione, sul movimento di andata e ritorno all’oggetto che nel caso della fantasia, però, ha una peculiarità, dobbiamo dire ora, del tutto assente nel lavoro simbolizzante del lutto. Si tratta della capacità della fantasia di rendere familiari (heimlich), privi di giudizi negativi, privi di rimproveri di vergogna o divieto anche oggetti perturbanti (unheimlich). Possiamo allora portare avanti la nostra ipotesi di lavoro fino a dire che la riconquista di una relazione oggettuale grazie alla fantasia artistica introduce un nuovo elemento che ora possiamo legare al nome Mosè, o per meglio dire alla religione mosaica; si tratta del perturbante e in particolare della sua dinamica più propria: quella della rimozione di un trauma e del ritorno del rimosso. Apparentemente il perturbante implica la contrapposizione antitetica di familiare, patrio, natio, affidabile, confortevole (heimlich) e di estraniante, spaventoso, disorientante, inquietante (unheimlich). Ma, domanda Freud, si tratta di una vera e propria antitesi? Ispirandosi ad un’interpretazione di Schelling, Freud continua affermando che il termine heimlich non implica solo il familiare, l’accogliente, ma anche ciò che è nascosto, segreto, un-heimlich può essere inteso allora non come opposizione antitetica e irriducibile a ciò che è heimlich, ma come suo svelamento; svelamento che Freud denomina ritorno di ciò che è rimasto segreto e nascosto ad opera della rimozione. Il perturbante allora non è antitetico al familiare, è il ritorno del suo segreto più intimo.
«La nostra attenzione è attirata da un’osservazione di Schelling che contiene un’affermazione completamente nuova sul contenuto del concetto di Unheimlich. […] Unheimlich – dice Schelling – è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto e che è invece affiorato. […] Heimlich è quindi un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente fino a coincidere in definitiva con il suo contrario: unheimlich. Unheimlich è in un certo modo una variante di heimlich»[13], è il suo emergere, il suo tornare alla coscienza, è il ritorno del rimosso[14]. Ma perché lo possiamo legare a Mosè?
Per dar conto della relazione fra religione mosaica e perturbante, dobbiamo ricorrere ad uno scritto tardo di Freud L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-38)[15], in cui egli mette in atto una serie di rovesciamenti luoghi comuni storici ed esegetici circa la nascita del monoteismo ebraico-giudaico. In prima battuta si assiste al rovesciamento del mito dell’esposizione e della figura dell’eroe: nel mito dell’esposizione, il cui nucleo centrale è l’abbandono del “futuro eroe”, e nella dinamica dell’abbandono entrano in gioco sempre due famiglie: la famiglia d’origine, nobile e ricca, e quella che accoglie ed educa l’eroe (abbandonato), di umili natali. «Del tutto diverso è il caso di Mosè. Qui la prima famiglia, altrove aristocratica, è piuttosto modesta. È figlio di Leviti ebrei. La seconda famiglia, quella umile, in cui l’eroe cresce, è sostituita dalla casa regale d’Egitto: la principessa lo alleva come proprio figlio»[16]. A questo si aggiunge il rovesciamento dell’origine del nome Mosè: Mosè non è un nome ebraico, ma egizio e significa bimbo. Dall’origine egizia del nome, Freud fa poi derivare il rovesciamento più significativo, quello religioso, relativo alle origini del monoteismo: la nuova religione mosaica, con forti aspirazioni monoteiste, non si oppone al politeismo e all’organizzazione civile e culturale degli Egizi, ma nasce in Egitto e costituisce una rottura del tutto interna alle dinastie faraoniche.
Freud illustra questa tesi utilizzando indizi storico-archeologici, non condivisi in realtà pienamente dagli studiosi, ma grazie ai quali si può risalire ad un giovane faraone della XVII dinastia Amenofi IV, il quale tentò di imporre agli egizi una nuova religione monoteistica in contrasto con le loro tradizioni millenarie. «Già sotto Amenofi III – scrive Freud – padre e predecessore del riformatore, la venerazione del Dio solare aveva guadagnato nuovo slancio, probabilmente in opposizione ad Amòn di Tebe, divenuto troppo potente. Fu rimesso in auge un nome arcaico del dio solare, Atòn, e in tale religione di Atòn il giovane re trovò un movimento che egli non doveva neppure risvegliare, al quale poteva unirsi»[17]. In quel periodo l’Egitto mise in atto un’espansione imperialistica il cui riflesso religioso si mostrò sotto forma di universalismo e monoteismo. Pur cresciuto alla corte faraonica successiva di una dinastia, Mosè conosceva probabilmente tale religione e volle divenirne il prosecutore e per questo scelse un popolo, un popolo straniero a sé e all’Egitto. Ora ciò che più importa di questa ricostruzione, giudicata – come si diceva – per lo più storicamente poco attendibile, sono fondamentalmente due elementi:
1) all’opposizione fra monoteismo e politeismo, Freud fa corrispondere quella fra razionalismo universalizzante (ciò che egli chiama elevazione spirituale della religione mosaica) e pluralità tribale, espressione della rozzezza istintiva cui non sfuggivano le stesse tribù ebraiche.
2) L’interiorizzazione della razionalità universalizzante, di uno stato spirituale elevato “adulto”, avviene attraverso un atto orrifico e tremendo: l’uccisione di Mosè. Possiamo affermare così che «il più profondo nucleo di verità contenuto nelle religioni del ceppo ebraico cristiano […] è quello dell’interiorizzazione delle legge attraverso la ribellione, il delitto e il rimorso»[18].
«Mosè e Ekhnatòn (il maestro del monoteismo egizio) incontrarono il medesimo destino, il destino che attende tutti i despoti illuminati. Il popolo ebraico di Mosè era tanto poco in grado di sopportare una religione così altamente spiritualizzata, di trovare in ciò che essa offriva il soddisfacimento dei propri bisogni quanto lo erano gli Egizi della diciottesima dinastia. In entrambi i casi accadde la stessa cosa, coloro che si sentivano tenuti sotto tutela e sminuiti si ribellarono e gettarono via il fardello della religione loro imposta. Ma mentre i docili Egizi attesero finché il destino li sbarazzò della sacra persona del faraone, i selvaggi semiti presero il destino nelle loro mani e tolsero di mezzo il tiranno»[19]. La morte, l’uccisione del padre, sembra essere il passaggio necessario per giungere al monoteismo; la via che conduce alla spiritualità universalizzante, propria del monoteismo, sembra essere così la negazione radicale di ogni sua traccia sensibile, corporea, ovvero di ogni traccia sensibile e corporea del profeta che la incarna.
Con la morte di Mosè si elimina, in realtà, il segno sensibile, fisico, reale, il residuo materiale dell’astrazione e della razionalità universalizzante promulgata dal monoteismo. Detto altrimenti e con accenti dialettico negativi: la morte del corporeo sembrerebbe il passaggio obbligato per guadagnare la razionalità astratta.
Il monoteismo razionalizzante e universalistico, tuttavia, rappresenta anche un processo emancipatorio dalla brutalità e aggressività istintuale.
Cerchiamo innanzitutto di capirne il senso e il valore: l’unicità di Dio implica in primo luogo la non coincidenza e identificazione con una realtà o esistenza particolare. Fa parte del processo di astrazione proposto dal monoteismo lo stesso Bildverbot, portatore di un’immaterialità che pone Dio oltre ogni incarnazione sensibile, Dio diviene «[…] ulteriore e superiore ad ogni concretizzazione naturalistica»[20]. Il divieto di raffigurazione implica così l’oltrepassamento di ogni limite raffigurativo e sensibile. Quando si accettò l’obbligo di venerare un Dio che non si poteva/doveva vedere, esso esercitò un’azione veramente profonda nell’animo umano – scrive Freud – significò posporre la percezione sensibile a favore di una rappresentazione astratta e in termini rigorosamente analitici questo comportò mettere in atto un rinuncia pulsionale (Triebverzicht). Il Bildverbot mosaico-ebraico esige allora la capacità di rinunciare all’immediato soddisfacimento pulsionale e all’aggressività che ne deriva, esige in termini antropologici andare oltre le società primitive tribali.
È stato giustamente detto come il Bildverbot porti con sé la nascita «di un’antropologia spiritualizzata in grado di coltivare la raffinatezza dell’astrazione, della combinazione dei concetti e della mediazione del ragionamento, rispetto all’impellenza e all’agire irriflesso delle movenze passionali»[21]. Ma il popolo ebraico cui si rivolse storicamente Mosè, ancora legato ad arcaismi tribali, non capì, non sopportò l’ingiunzione propria di ogni processo di spiritualizzazione, reagì uccidendo il padre, il patriarca Mosè, il portatore di una razionalità astratta e immateriale e guadagnò successivamente la via verso la razionalità astratta attraverso il rimorso e, aggiungiamo noi, il perturbante.
Il delitto è, infatti, il contenuto perturbante della religione ebraica, l’orrifico rimosso che ritorna nel momento in cui dopo anni dalla morte violenta di Mosè (paragonata all’eliminazione del capo dominante e alle ritualità cannibaliche descritte in Totem e tabù) gli ebrei accettano di unire la religione mosaica, proseguita e conservata dai Leviti, con la venerazione di un dio rozzo «di animo meschino, violento ed assetato di sangue [di nome Jahweh]. Nel rimorso, il perturbante avanza, si fa strada e favorisce il sopravvento del Mosè egizio sul dio sanguinario e guerriero di nome Jahweh. Mosè d’Egitto «[…] aveva fornito ad una parte del popolo un’altra rappresentazione di Dio, assai più spirituale, l’idea di una divinità unica che abbracciava il mondo intero, ed era tanto onniaccogliente quanto onnipotente, contraria ad ogni cerimoniale e magia, proponeva agli uomini, come meta suprema, una vita vissuta secondo verità e giustizia»[22].
Ci troviamo qui davanti alla chiara descrizione della scissione originaria del popolo ebraico, la scissione fra pulsione, pulsioni tribali, e razionalità astratta; essa può venire interpretata anche come il conflitto fra particolarismi storico-religiosi e universalismo superabile solo con il sopravvento della razionalità universalizzante del profeta Mosè. La declinazione politica del diffondersi del monoteismo dovrebbe far riflettere anche sulle posizioni freudiane relative al sionismo, basato sul tema biblico dell’elezione divina di uno specifico e concreto popolo storico. La scissione fra particolare ed universale ha però bisogno di un evento orribile, l’uccisione di Mosè, ovvero il rimosso dell’ebraismo, e del suo affiorare (il perturbante) per risolversi nel sopravvento dell’elemento universalistico, razionale e spiritualizzato sull’istintualità tribale e politeista.
Il Mosè di Michelangelo, che a stento trattiene le Tavole della legge (razionalità universalistica) di fronte alle ritualità politeiste, magiche, tribali ed arcaiche, anticipa nel 1914 i temi trattati successivamente da Freud. La statua descritta da Freud fissa nel marmo ed esprime proprio il lacerante dualismo di impulso e rinuncia pulsionale, fissa ed esprime il travaglio della loro opposizione[23]. La volontà razionale di Mosè di non rompere le Tavole, di non infrangere la legge della ragione minacciata dal sopravvento delle pulsioni, testimonia già il grande sforzo del carattere ebraico di compiere il passaggio dal soddisfacimento violento, barbarico, totemico degli impulsi pulsionali al loro differimento e contenimento. Il Mosè di Michelangelo si mostra capace di condurre l’uomo alla legge, al logos perché con un immenso sforzo muscolare e razionale (si potrebbe dire con una razionalità incarnata, la volontà) rinuncia alla rabbia verso il popolo dedito alla venerazione del vello d’oro e non manda in frantumi la legge scritta, fonte di spiritualità ed elevazione.
«[…] Michelangelo ha posto nel mausoleo del papa un altro Mosè, che va al di là del Mosè storico o tradizionale. Elaborando il motivo delle Tavole della legge infrante, egli non le lascia spezzare dalla collera di Mosè, ma fa acquietare quest’ira attraverso la minaccia che esse possano rompersi o per lo meno la frena mentre sta per passare all’azione»[24]. «In un eccesso d’ira [Mosè], dimentico delle Tavole, voleva balzare in piedi e vendicarsi; ma la tentazione è stata superata, egli continuerà a stare seduto frenando la collera, in un atteggiamento di dolore misto a disprezzo. Non [manderà] le Tavole ad infrangersi contro i sassi, perché proprio per causa loro ha dominato la sua ira, proprio per salvarle ha frenato la sua passione. Quando si era abbandonato al suo sdegno appassionato aveva dovuto trascurare le Tavole, distogliendo da esse la mano che le tratteneva. A quel punto cominciarono a scivolare correndo il rischio di spezzarsi. Fu un ammonimento per lui. Gli risovvenne la sua missione e rinunciò per essa a soddisfare il suo affetto»[25]. Mosè dunque è in grado di mettere in atto il Triebverzicht, la rinuncia pulsionale che segna il passaggio dall’arcaicità tribale ancora presente nel popolo ebraico alla razionalità spirituale ed astratta[26]. Puntando il dito sulla scissione originaria del popolo ebraico Freud consente a noi di coglierne il perturbante: il fatto che il razionalismo e la spiritualità si avvalgono dell’affiorare di un rimosso: la morte del corporeo [Mosè portatore fisico, concreto del messaggio universalizzante del monoteismo].
Nella riflessione su Mosè Freud ci invita a cogliere fondamentalmente due elementi: il passaggio necessario attraverso il dolore e il rimorso, provocati da una morte originaria, fondativa, per giungere al “regno” della spiritualità e astrattezza razionale. La possibilità, inoltre, di educare il potenziale distruttivo dell’impulso originario, e dunque superare anche il rimorso per i suoi effetti, tramite il concetto di rinuncia, altro ingrediente essenziale per la formazione del pensiero astrattivo e della spiritualità ideante. A questo punto non potremmo che concludere queste brevi riflessioni ponendo alcune domande: nella rinuncia quale relazione instaura l’io con la primordialità istintiva? Ovvero come è caratterizzata la relazione fra pulsione e rinuncia nella formazione della razionalità? Tale relazione implicherebbe modelli antropologici di razionalità non più basati sulle categorie di dominio e antagonismo?
[1] Sigmund Freud, Il poeta e la fantasia (1907), Opere ,vol 5, Bollati Boringhieri, Torino 1972, pp. 375-383; id., Precisazioni sui due princìpi dell’accadere psichico (1911), Opere, vol.6, Bollati Boringhieri, Torino 1974, pp. 453-460;
[2] Hegel. come è noto propone un’analogia fra la coscienza scettica e la religione ebraica. Come nell’ironia romantica il poeta scopre se stesso considerando effimeri, vani i vari personaggi che via via va escogitando ed in cui via via si immedesima, così la coscienza scettica, anzi l’autocoscienza dello scettico, si rende sicura di sé annientando tutte le forme dell’essere. Nell’autocoscienza scettica ciò che dilegua – dice Hegel – è il determinato. L’infinità dell’autocoscienza si rivela nel suo potere identificante. La coscienza scettica pone la sua propria certezza solo attraverso la negazione di ciò che le è altro. Ma questo vuol dire che l’essere altro, l’alterità che va negando e nullificando, le diviene essenziale; la certezza di sé è quindi coscienza della scissione fra sé e tutto ciò che nega in un modo del tutto peculiare: per un verso la coscienza scettica si innalza su tutto ciò che nega, essa si sa nel profondo certa di sé proprio per questo suo negare. Quindi essa nega continuamente le situazioni concrete in cui vive ed affonda considerandole per quelle che sono: inessenziali, nulle; d’altro canto però essa rimane impigliata in tali situazioni perché essa stessa continua ad appetire, sentire, eseguire, essere quella stessa accidentalità che nega e vanifica. Proclamando che tutto è vanità e la vita solo l’ombra di un giorno, la coscienza si eleva sicuramente sopra ogni vanità e dà una grandezza sublime alla propria auto certezza, ma al tempo stesso la coscienza è quella stessa accidentalità che giudica vana. Il problema per lei è che la sua certezza immutabile non può prescindere dal contatto con lo scorrere della vita. Così nella sua soggettività l’autocoscienza è una coscienza duplice. Ora mette il mondo tra parantesi, attua l’epoché scettica del mondo, si eleva sopra tutte le forme dell’essere da lei istituite, ora però è lei stessa impigliata, presa dentro questo mondo, ed è presa nel fluire della vita come frammento accidentale, la sua eternità è dunque un’eternità sempre temporanea, sempre accidentale, questa è la sua dualità, la sua scissione. Georg W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano, 2004, b. La confusione e l’autocontraddizione della coscienza scettica, pp. 303 e ss. Anche l’ebraismo presenta un’opposizione insanabile fra caduco, mutabile ed eterno nella quale si concretizza il rapporto fra Dio e uomo. L’ebraismo pone l’essenza al di là dell’esistenza, Dio fuori dall’uomo. Di fronte all’immutabile, all’essenza semplice, l’uomo non è che mutabile, anzi la nullità del mutabile. Col prendere coscienza della dualità dei termini, l’uomo si mette dal lato dell’inessenziale, del trasmutabile. Io sono un niente e la mia essenza mi trascende. Che la mia essenza non sia in me, ma posta fuori di me, comporta necessariamente lo sforzo teso a raggiungere me stesso, ossia a liberarmi della non essenza. La vita dell’uomo sarà allora lo sforzo infinito di raggiungersi, sforzo vano perché l’essenzialità, l’immutabile, la coscienza intrasmutabile sono posti in via di principio come trascendenza. Ivi, p. 309.
[3] Sigmund Freud, Caducità (1915), in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 174.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, pp.174-175.
[6] In quanto veicolo della scarica completa dell’impulso motorio che ristabilisce l’equilibrio iniziale dell’io=0 e dà spazio ad altri soddisfacimenti motori, niente sembra essere più caduco ed effimero, in senso positivo, della dinamica percettiva descritta da Freud. A differenza delle pulsioni l’attività percettiva non incontra resistenze, per sua natura è destinata a svanire e dileguare, è l’effimero per eccellenza. S. Freud, Pulsioni e loro destini (1915), Opere, vol. 8, cit., p. 14-16; id. Progetto per una psicologia (1950), Newton Compton, Roma 2012 (2. edizione), pp. 221-229.
[7] Sigmund Freud, Lutto e melanconia (1917), cit., pp. 102 e ss.
[8] Ivi, p. 105.
[9] In una discussione seminariale del 2013 sul testo Lutto e melanconia (Università degli Studi Roma3), questo punto è stato molto discusso. Le ipotesi interpretative avanzate sul rapporto melanconia/tempo sono state sostanzialmente tre: nel ritorno dell’io a se stesso la successione temporale passato-presente futuro è fagocitata dal passato il quale coincide con la fase orale dell’io, del tutto caratterizzata dal narcisismo e va ricordato che quello del “narcisismo” è uno stato (primitivo) in cui però la dimensione temporale è del tutto assente. Per usare la stessa terminologia “fenomenologica” emersa nella discussione si deve dire che la seconda ipotesi sul ruolo del tempo è stata formulata in questo modo: la perdita passata esercita un dominio tale sul soggetto da impedirgli una qualsiasi forma di elaborazione e pertanto da negargli la stessa protensione temporale, per cui il rapporto temporale con il passato nella chiusura narcisistica è solo ritentivo. La terza ipotesi formulata riconosce il potere dominante del passato, ma si differenzia dalla seconda e soprattutto dalla prima perché non nega una protensione temporale nel soggetto malinconico, ma vuole sottolineare la natura patologica di tale protensione. La formulazione di questa ipotesi è resa possibile dalla supposizione che il rapporto narcisista patologico instaurato con se stesso da parte del melanconico è comunque una forma di elaborazione della perdita oggettuale, dunque una protensione anche se distorta e patologica.
[10] Le argomentazioni sul lavoro del lutto come dinamica dialettica di perdita e riconquista di oggettualità è stata suscitata dalla relazione di Giuseppe Armogida su Lutto e malinconia discussa all’interno del lavoro seminariale del 2013 sulla Metapsicologia di Freud (Università Roma Roma3). Ringrazio il relatore per gli stimoli, forse inconsapevoli, dati alla presente riflessione sul rapporto lutto-fantasia nell’arte.
[11] Sigmund Freud, Precisazioni sui due princìpi dell’accadere psichico (1911), Opere, vol.6, pp. 456-457.
[12] Sigmund Freud, Il poeta e la fantasia (1907), Opere, vol 5, cit., p. 383.
[13] Sigmund Freud, Il perturbante (1919), Opere, vol. 9 , Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 86.
[14] «Anzitutto – scrive Freud ne Il perturbante (1919) – se la teoria psicoanalitica ha ragione di affermare che ogni affetto connesso con un’emozione, di qualunque tipo esso sia, viene trasformato in angoscia qualora abbi luogo una rimozione, ne segue che tra le cose angosciose deve essercene un gruppo nel quale è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna. Questo tipo di cose angosciose costituirebbe appunto il perturbante». Ivi, p. 102.
[15] Sigmund Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-38), Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino, 1979, pp. 337-453.
[16] Ivi, pp. 340-341.
[17] Ivi, pp. 342-343.
[18] Remo Bodei, Le logiche del delirio, Laterza, Roma-Bari 2000, p.49.
[19] Sigmund Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-38), Opere, vol. 11, cit. p. 349.
[20] Roberto Finelli, Freud, Mosè e l’ebraismo, in S. Freud, Mosè e il monoteismo, Newton Compton, Roma 2010, p. 13.
[21] Ivi, pp. 14.
[22] Sigmund Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-38), Opere, vol. 11, cit. p. 359.
[23] Sull’indugiare colmo di rabbia di Mosè davanti alla scelta pagana e politeista del suo popolo ha scritto Joseph Vogl, Sull’esitare, O Barra O Edizioni, Milano 2010.
[24] Sigmund Freud, Il Mosè di Michelangelo, Bollati Boringhieri, Torino 2010 (ristampa), p. 54.
[25] Ivi, pp.48-49.
[26] L’interpretazione della religione ebraica qui delineata viene rivendicata da Freud stesso non come un attacco alla religione ebraica, ma alla religione in quanto tale.«Ogni analisi scientifica – sostiene Freud – deve basarsi sull’incredulità»; Peter Gay, Un ebreo senza Dio. Freud, l’ateismo e le origini della psicoanalisi, Il Mulino 1989, p. 112. Per l’illuminismo ateo di Freud si veda in particolare il capitolo: «Unico Dio il Logos», ivi, pp. 59-84.