Il momento messianico di Marx

Étienne Balibar

Paul-Klee-In-the-Style-of-Kairouan Im düstern Auge keine Träne,

Sie sitzen am Webstuhl und fletschen die Zähne:

Deutschland, wir weben dein Leichentuch,

Wir weben hinein den dreifachen Fluch –

Wir weben, wir weben!1

 

Nel presente articolo vorrei riesaminare, e se possibile chiarire, una questione ricorrente dell’interpretazione del pensiero di Marx: quale rapporto c’è tra il suo concetto di politica e la sua dimensione religiosa (teologica)? In vista del confronto che questo numero della Revue Germanique Internationale vuole indicare, ma anche in ragione dell’importanza strategica che bisogna, credo, conferirgli, mi interesserò essenzialmente ad un testo: l’articolo pubblicato nel marzo 1844 negli Deutsch-Französische Jahrbücher sotto il titolo Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung, nel quale appare per la prima volta in Marx il nome di “proletariato”2. Sosterrò che, preso alla lettera e ricollocato nel suo contesto, esso rappresenta il “momento messianico” del suo pensiero, e permette di interrogare la permanenza ma anche le metamorfosi di questa dimensione lungo tutta la sua opera. Isolando così un momento singolare, mi vorrei porre al di là dei dibattiti sul rapporto tra la “formazione del pensiero di Marx” e la sua “sistematizzazione” o il suo “sviluppo”, visto secondo i casi come continuità o discontinuità, che hanno la tendenza a decontestualizzare le formulazioni e a sostituire delle ricostruzioni totalizzanti alle necessarie letture differenziali.

Scelgo l’espressione di “momento messianico” per simmetria con quella di “momento machiavelliano” (attinta da Pocock) di cui si è servito Miguel Abensour in uno studio che ha fatto epoca, centrato sull’interpretazione del testo immediatamente anteriore: il “Manoscritto del 1843” conosciuto con il titolo di Critica del diritto statuale hegeliano, redatto da Marx prima del suo arrivo a Parigi, dove è possibile che egli abbia avuto quell’intenzione a cui l’Einleitung avrebbe dato inizio3. Quel che voglio mostrare è che tra questi due scritti dal titolo quasi identico, ma di stile radicalmente differente, c’è un contrasto di fondo riguardo alla concezione della politica e all’enunciazione dei suoi fini. Ciò non risiede tanto in un capovolgimento dell’idealismo nel materialismo, o nella transizione dal democratismo al comunismo, sebbene queste questioni meritino di essere poste, quanto nel sorgere di una dimensione “impolitica” nel cuore della politica stessa, associata alla funzione redentrice che vi assume il proletariato4. Filosoficamente, la questione essenziale è allora comprendere come si articolino in un’autentica unità di contrari il “momento machiavelliano” (prevalentemente politico, a-teologico e radicalmente democratico, se seguiamo l’interpretazione di Abensour) e il “momento messianico” non soltanto dal punto di vista della loro concatenazione, ma anche da quello della loro correlazione concettuale e per così dire della loro mutua presupposizione. Se fosse proprio così, e qualunque sia l’estrema differenza delle figure sotto le quali è stata richiamata manifestandosi in seguito in Marx e nei suoi successori, avremmo a che fare con una struttura di pensiero in quanto tale irriducibile.

Cominceremo descrivendo la struttura dell’Einleitung a partire dalle sue caratteristiche stilistiche e dalla sua economia concettuale5. E probabilmente, considerando il nostro obiettivo, conviene farlo cominciando dalla fine: «Quando le condizioni interne [ad es. l’alleanza della filosofia o “teoria” tedesca e del proletariato, di cui l’una è la “testa” e l’altra il “cuore” dell’emancipazione umana] saranno soddisfatte, il canto del gallo francese suonerà come una tromba per annunciare il giorno della resurrezione tedesca [wird der deutsche Auferstehungstag verkündet durch das Schmettern des gallischen Hahns]». Fra i commentatori che non riducono questa riga profetica ad un effetto giornalistico, nessuno a mia conoscenza ne indica la provenienza, tuttavia decisiva6. Essa non esclude l’ironia, e non impone di attribuirgli un significato univoco, ma proibisce di farne una semplice trovata. Variando un verbo simile, si tratta della ripresa di un celebre testo di Heine, scritto per salutare la Rivoluzione di Luglio, nel quale si trova anche evocata la relazione storica tra la Riforma luterana, la Rivoluzione francese e la Filosofia tedesca che si ritroverà nell’Einleitung: «Ecco che il gallo francese ha cantato (gekräht) per la seconda volta, e anche in Germania il giorno sorge (…) Ma che facevamo durante la notte? Eh certo sognavamo alla nostra maniera tedesca, cioè facevamo filosofia (…) Non è strano, però, che l’attività pratica del nostro vicino dell’altro lato del Reno abbia questa affinità elettiva con il sogno filosofico che noi perseguiamo nella tranquillità tedesca? (…) La filosofia tedesca non sarebbe nient’altro che la Rivoluzione francese riprodotta in sogno? … »7. Il canto del gallo francese che annuncia il giorno dell’emancipazione segnala dunque un’interpretazione delle rivoluzioni moderne come un ciclo storico e intellettuale trans-europeo di cui Marx crede di poter profetizzare la “risoluzione” imminente (come farà nel Manifesto del partito comunista del 1847), nello stesso tempo in cui egli proclama nella comparsa del proletariato l’arrivo di un salvatore del mondo8. Questa congiunzione dipende quindi da un dispositivo di scrittura caratterizzato da una sovrapposizione breve, ma intensa e reciproca, tra le “voci” proprie di Marx e di Heine, che soltanto oggi comincia ad essere conosciuto meglio9. Cosa chiarisce l’insieme del significato del testo? Io proporrei schematicamente tre chiavi di lettura.

La prima concerne il rapporto tra questa conclusione e le formule introduttive molto più celebri che riguardano la religione («oppio dei popoli»): «In Germania la critica della religione, che forma la condizione di tutta la critica, adesso è stata essenzialmente portata a termine (…) Il fondamento della critica irreligiosa è il seguente: non è la religione che fa l’uomo, è l’uomo che fa la religione (…) Ma l’uomo è il mondo dell’uomo, ovvero lo Stato, la società. Questo Stato e questa società producono, con la religione, una coscienza invertita, perché formano essi stessi un mondo all’inverso (…) La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro questo mondo di cui essa è come l’aroma spirituale. La miseria religiosa è simultaneamente l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale (…) La critica della religione è dunque nel centro critico di quella valle di lacrime di cui la religione è essa stessa la sacralizzazione illusoria …».

Lasciamo qui da parte il dibattito su ciò che queste formule debbano a Feuerbach, il cui «capovolgimento antropologico» della teologia, come sappiamo, ha rivestito un’importanza capitale per i giovani hegeliani in generale, così come l’ateismo proveniente dagli “illuministi radicali” a cui Marx è molto vicino e che ispira la sua denuncia della restaurazione europea monarchica e clericale, e passiamo subito al significato teologico-politico generato dal confronto tra l’inizio dell’articolo, che formula l’atto di morte della religione, e gli enunciati messianici della fine relativi al proletariato. Potremmo esprimerlo in latino maccheronico (o della Chiesa) con la formula: exit religio, adveniunt proletarii. Rapportando l’illusione o mistificazione religiosa all’espressione contraddittoria di un mondo reale alienato, Marx coglie un problema politico, ma che appare nell’immediato senza soluzione, perché ad esso non corrisponde attore o forza pratica. Questa forza si “trova” però, al termine di una discussione storico-teorica complessa, nella figura materiale del proletariato (sotto la condizione, sulla quale tornerò, di un’alleanza o fusione organica con la filosofia che si è resa autonoma nel corso di una lunga contesa con la religione). Il proletariato è dunque l’altro (o l’antagonista) della religione, ma è anche l’espressione della sua contraddizione interna, la rivelazione del segreto di cui, in quanto “protesta” contro la sofferenza, essa era stata portatrice. Abbiamo a che fare qui con uno schema che viene da molto prima di Marx e che si prolungherà oltre lui: quel che la religione tradisce o perverte (una promessa di emancipazione o di redenzione), il messia, o meglio, la “forza messianica” lo rivela, lo ristabilisce e lo fa trionfare contro di essa. Stiamo attenti a non vedere qui una “sostituzione” dialettica della religione: si tratta piuttosto di una rottura o di una interruzione, anche se è concepita come un ritorno all’autenticità originaria.

Questo movimento era al cuore della riforma protestante, in quanto denunciava nell’istituzione della Chiesa “visibile” una nuova Babilonia che prostituisce la rivelazione al servizio delle potenze di questo mondo, prima di essere respinto in secondo piano dal conflitto tra Lutero e Thomas Müntzer e dalla guerra dei contadini10. Sarà presente inoltre nella maniera in cui i “nuovi cristianesimi” e i socialismi romantici annunceranno l’avvento di una religione dell’Uomo sgombra dalle superstizioni teologiche11. È più vivente che mai ai nostri giorni nella maniera in cui i “teologi della liberazione” oppongono, all’idolatria che rappresenterebbe il culto capitalista del denaro, la funzione escatologica del “Dio liberatore” che fa dei poveri collettivamente una reincarnazione di Cristo, vittima offerta in sacrificio ma anche figura di protesta e di rivolta12. Più significativamente forse per l’interpretazione del nostro testo, ciò attraversa tutte le interpretazioni sia cristiane che ebree (cabaliste), che in maniera antinomica, identificano l’avvento del messia con l’abolizione della legge scritta, istituita. In Marx questa interruzione della religione attraverso l’elemento messianico, al centro della storia moderna in modo da (ri)divenire quella dell’uomo (o della realizzazione dell’umanità), è rappresentata dall’avvento di una forza paradossale, essenzialmente passiva («Die Revolutionen bedürfen nämlich eines passiven Elementes…») e tuttavia radicalmente trasformatrice, abitata dall’“entusiasmo” del nuovo e capace di comunicarlo: le masse dei proletari.

Può darsi, evidentemente, che affinché queste si trovino investite di caratteristiche antitetiche, congiungano il nulla dell’abbandono, dell’annientamento e della pauperizzazione assoluta con il tutto di una realizzazione dell’essenza umana in quanto “comunità” o pienezza del “genere” (einer Sphäre endlich … welche mit einem Wort der völlige Verlust des Menschen ist, also nur durch die völlige Wiedergewinnung des Menschen sich selbst gewinnen kann…). Questa “rappresentazione negativa della società” nell’essere del proletariato si esprime nelle varie lingue tra le quali il testo di Marx circola incessantemente. Una fra queste rinvia alla tradizione rivoluzionaria francese e alle rivendicazioni politiche che associano la sovranità del popolo all’uguaglianza: «Io non sono nulla, allorché dovrei essere tutto», scrive Marx in una personificazione della classe rivoluzionaria, evocando le formulazioni di Sieyès che lanciarono la Rivoluzione francese13 e che preannunciano i versi dell’Internazionale.14 Ma queste formule stesse si inscrivono in una lunga scena significante che passa per la mistica (il todo y nada, o nada per todo, di Jean de la Croix) e la teologia negativa15. Marx li assocerà ad una fenomenologia della crisi della società civile-borghese di cui bisogna seguire da molto vicino la terminologia per comprenderne il doppio significato storico ed escatologico: Auflösung (la “dissoluzione” della società nelle condizioni d’esistenza del proletariato, strappata alle condizioni di vita e alle forme di riconoscimento istituzionale che “integrano” una classe all’ordine sociale) comunica con Lösung (la “soluzione” o “risoluzione” del problema politico dell’emancipazione, che non hanno potuto apportare né la Riforma religiosa né la Rivoluzione politica borghese), e di conseguenza invoca la redenzione (Erlösung) e il redentore (die Rolle des Emanzipators).

Quindi, a beneficio del proletariato che la sua oppressione ha ridotto ad un’umanità elementare e generica allo stesso tempo, privo di tutta la “proprietà” o che non possiede nulla «in proprio» (Eigentumslos), Marx può riattivare il mito biblico dell’elezione liberatrice: la schiavitù “radicale” si capovolge in missione redentrice di un “popolo del popolo” operante per tutta l’umanità. Questa missione si radica nella sofferenza e nell’umiliazione (è, se vogliamo, l’elemento “cristico” del proletariato)16. Ma essa riposa soprattutto sull’idea (che siamo tentati di considerare, questa volta, come più prossima al messianismo ebraico) di un’ingiustizia “in sé” o di un “torto assoluto” («kein besondres Unrecht, sondern das Unrecht schlechthin») che determina l’uscita dalla storia e l’entrata nell’umanità («welche nicht mehr auf einen historischen, sondern nur noch auf den menschlichen Titel provozieren kann…»)17. Come nella Cabala, e particolarmente nelle varianti “utopistiche rivoluzionarie” del messianismo ebraico, la risoluzione dell’ingiustizia storica è concepita come una ricreazione del mondo, al prezzo della sua distruzione («Auflösung der bisherigen Weltordnung»), piuttosto che come un’uscita dalla vita, o un passaggio nell’altro mondo18. E da questo punto di vista la straordinaria insistenza del termine «mondo» (Welt) (e dei suoi composti) da un’estremità all’altra dell’Einleitung ha un carattere emblematico: nello stesso tempo in cui significa (nel linguaggio stesso di una teologia che oppone il “secolo” al “cielo”, all’ “al di là”) la critica radicale di tutto il dualismo (caratteristica precisamente della “religione”, comprese le forme secolarizzate della politica borghese), essa insiste sulla materialità di questa Terra Promessa alla quale perveniamo attraverso l’emancipazione “umana”. Ma ben inteso, quando non cessa di attingere dalle tradizioni della “resurrezione” e della “redenzione”, eterogenee fra loro benché niente affatto disgiunte storicamente, è un messianismo nuovo che Marx abbozza qui (o con il quale egli gioca, di un gioco di cui, nel suo proprio “entusiasmo”, non è forse veramente il maestro): ciò che le Tesi su Feuerbach, un anno più tardi, riformuleranno identificando la “prassi rivoluzionaria” con la “trasformazione del mondo”, e che il Manifesto comunista riassumerà nella forma, di nuovo, di un avvertimento profetico, indirizzato a tutte le “classi dominanti”: «Tremino davanti alla possibilità di una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere che le loro catene. Essi hanno un mondo da guadagnare»19. Questo messianismo non è soltanto militante, esso afferma che la trasformazione del mondo è fin d’ora in corso dal momento in cui un certo ordine sociale ha forgiato o “formato” delle scene insopportabili, incompatibili con la sua propria sopravvivenza. Sotto i nostri occhi la “passività” radicale si trasforma allora in “attività”.

Fermiamoci qui un istante. Ciò che noi abbiamo appena descritto, abbreviando i riferimenti ma provando a riprodurre le formulazioni più caratteristiche, dipende da una retorica, o meglio da una stilistica. Pur essendo significativa, essa non basta per determinare una problematica20. Per passare a questo livello, bisogna procedere per delle letture comparative, alcune delle quali riguardano i materiali e le formule che tali frasi hanno attinto dal contesto nel quale sono state scritte, e gli effetti di identificazione o, al contrario, di distacco che ne risultano, mentre le altre riguardano il rapporto che esse intrattengono con l’insieme degli scritti di Marx dello stesso periodo, quello delle evoluzioni e delle cristallizzazioni più rapide del suo pensiero. Accontentiamoci qui di evocarle schematicamente.

Bisognerebbe innanzitutto prendere la misura della pregnanza del vocabolario teologico, e soprattutto profetico e apocalittico, nella letteratura europea del periodo che va dalla Rivoluzione francese del 1789 alla rivoluzione del 1848 passando per la “restaurazione”. Ciò non vale soltanto per le produzioni del socialismo e del comunismo “utopistici”, ispirati o meno dall’idea di un “nuovo cristianesimo”, o inversamente per quelle della controrivoluzione “teocratica”, ma anche per il nazionalismo. Ci sono a questo proposito delle grandi differenze di tonalità tra i contesti, cioè tra il seguito della grande affermazione nazionale francese che apre come aveva detto Goethe «un’era nuova nella storia dell’umanità», e l’attesa interminabile dell’unità nazionale tedesca. Non è impossibile che Marx (vicino su questo punto a Hess) si sia appoggiato sulla retorica rivoluzionaria francese per elaborare un discorso più “attivista” rispetto a quello dei comunisti tedeschi come Weitling che cercavano semplicemente nella tradizione evangelica il modello di una società fondata sulla comunione dei beni21. Ma per l’interpretazione delle formule dell’Einleitung – in cui possiamo dire che Marx si «approccia tutt’al più alle preoccupazioni di un pensiero nazionale tedesco»22 – il confronto più decisivo sarebbe quello che si stabilisce con l’idea della salvezza nazionale e della missione universale della Germania, in ragione stessa dell’idea che forma il filo conduttore della sua analisi: il blocco delle possibilità della rivoluzione antifeudale e anticlericale dopo la svolta conservatrice della monarchia prussiana, alla quale si aggiunge l’incapacità della borghesia tedesca di trasformarsi in “classe universale”, ossia di farsi la rappresentante degli interessi e dei diritti di tutta la società (e dell’anima popolare: Volksseele) contro un regime di oppressione, sfociano nella possibilità paradossale di proiettare l’Europa intera al di là del regime politico borghese. Sono sorprendenti le analogie con la maniera in cui Fichte, nel Discorso del 1807, aveva descritto la nazione tedesca come una forza spirituale metapolitica, la cui liberazione dal dominio straniero sarà anche quella di tutta l’umanità perché ne concentra l’energia morale23. Così come sono sorprendenti con la maniera in cui Cieskowski, inventore della filosofia dell’azione ripresa da Hess e da Marx, combinava l’idea del superamento dell’antinomia tra teoria e prassi nella storia universale con la funzione redentrice della nazione polacca24.

Ben inteso, il senso di questo confronto non è di identificare, sostituendo un “soggetto della storia” con un altro (la nazione, la classe), i discorsi del messianismo nazionale e del messianismo proletario, almeno nella sua forma marxiana originale – come tende a fare Voegelin. È piuttosto di comprendere meglio, in un contesto discorsivo conflittuale, come l’uno si definisca e si enunci contro l’altro25. Da questo punto di vista anche l’omogeneità di pensiero e di scrittura fra Marx e Heine nell’anno 1844 costituisce un argomento fondamentale: vi troviamo l’origine dell’idea secondo la quale «i proletari non hanno patria», più tardi rimessa al centro dall’argomentazione del Manifesto comunista, dove figura simultaneamente una delle manifestazioni della negazione generalizzata che conferisce al proletariato il suo statuto di «classe che non è una classe della società», e il punto d’appoggio della parola d’ordine internazionalista nella quale si esprimerà l’universalismo della rivoluzione comunista. Nello stesso tempo in cui Marx redigeva l’Einleitung, e per così dire nel saggio affine, Heine scriveva il suo grande ciclo poetico Deutschland: Ein Wintermärchen, la cui prefazione trasforma il patriottismo in missione cosmopolitica26.

All’esame del contesto storico e letterario, conviene tuttavia aggiungere quel che costituiscono, presi insieme, gli scritti marxiani degli anni 1843-1844, pubblicati o inediti. La complessità della configurazione teorica in seno alla quale, nello spazio di qualche mese, si effettua la “mutazione” del pensiero di Marx da un “umanesimo democratico” ad un “comunismo rivoluzionario”, distinto simultaneamente dal ritorno ad una comunità immediata e da una generalizzazione della proprietà privata27, è stata spesso discussa e lo sarà ancora a lungo. Da parte mia, vorrei attirare l’attenzione su una caratteristica notevole di questi testi, che regga ciò che la costellazione dei concetti generalmente considerati come determinanti il cuore della problematica del “primo Marx” (prima delle rivoluzioni del 1848): comunismo, emancipazione umana o “sociale”28, proletariato come “classe universale”, “fine dello Stato politico”, alienazione (Entfremdung) ed «esteriorizzazione» (Entäusserung)29 dell’essenza generica dell’uomo, prassi rivoluzionaria, non sia mai interamente data in nessuno dei testi tradizionali, in cui ognuno del resto nota un genere di scrittura differente e corrispondente ad una destinazione distinta (pubblica o privata)30. Questa dispersione non significa che ci sarebbe incompatibilità pura e semplice tra concetti corrispondenti, ma che il loro confronto resta fonte di tensione tra più punti di vista e più discorsi, la cui unità non può che essere problematica. È esattamente nella comprensione di queste tensioni che possiamo sperare di trovare le chiavi della mobilità e l’incompiutezza intrinseca del pensiero di Marx, perciò anche dei suoi rilanci possibili nelle altre congiunture31. Per concludere questa analisi necessariamente parziale, mi soffermerò dunque come avevo annunciato su un confronto pertinente: quello che riguarda le due “critiche della filosofia del diritto di Hegel”, dette altrimenti il Manoscritto del 1843 e l’Einleitung del 1844, e che possiamo ricondurre all’oscillazione tra il punto di vista del “démos” e quello del “proletariato”, rispettivamente portatori dell’aspetto politico e dell’aspetto impolitico della rivoluzione.

Io propongo di riassumerne il senso leggendovi due modi di rapportare la questione dell’attività o della prassi alla definizione di un “soggetto collettivo”, e di conseguenza alle trasformazioni (e all’interminabile decomposizione) dell’idea di sovranità. Non si tratta di considerare che una fra esse sarebbe più “materialista” dell’altra, in virtù dell’accento messo da un lato sulla realtà empirica dei conflitti della società civile-borghese, e dall’altro sulla condizione determinante delle rivoluzioni, ossia l’incontro di una forza sociale e di una teoria radicalmente critica. Bisogna piuttosto, mi sembra, considerare che la sintesi della filosofia della prassi e del materialismo, che le Tesi su Feuerbach presenteranno come una dialettica che attraversa tutto il pensiero moderno, resta in sospeso in questa tensione persistente fra i due punti di vista.

Miguel Abensour ha molto giustamente mostrato come la critica sviluppata da Marx ai margini della Filosofia del diritto di Hegel (una parte della sezione consacrata al “diritto pubblico interno”, che va dal §261 al § 313) non si accontenti di dimostrare, attraverso una lettura del testo hegeliano che possiamo ben dire “sintomale”, che la dialettica speculativa si areni in attesa del suo obiettivo: fare dello Stato costituzionale la risoluzione in atto, nel sistema delle sue istituzioni, dei conflitti della “società civile” (così come della famiglia), ed erigerlo così ad assoluto politico in cui l’idea di libertà (che è l’idea stessa del diritto) sarebbe allo stesso tempo realizzata ed autonomizzata32. Da questo capovolgimento, che prende per bersaglio l’astrazione delle determinazioni dello Stato moderno (come lo Stato degli “individui” proprietari e della loro rappresentazione politica nel sistema della divisione dei poteri), alla quale Hegel si è accontentato di aggiungere l’apparato di una deduzione speculativa per produrre l’illusione della sua necessità (accentuando da quella stessa parte la sua analogia con il dualismo teologico del “cielo” e della “terra”), Marx non ha estratto l’astrazione inversa di una teoria della “società” in quanto base o soggetto reale (economico) delle figure della politica, come sarà la tentazione permanente del marxismo (e forse di egli stesso nella sua sistematizzazione dei principi del materialismo storico)33. Al contrario, ne ha tratto l’idea di un soggetto politico che sarebbe allo stesso tempo all’origine dell’emergenza dello Stato moderno, fondamentalmente laico e universalista, contro le istituzioni clericali e gerarchiche dello Stato dell’Ancien Régime, e del suo superamento o della sua “fine” prevedibile, inscritta nell’insostenibilità dei suoi propri limiti. Cogliendo un’espressione convincente che sorge dalla penna di Marx nel momento in cui egli denuncia il tentativo hegeliano di concentrare l’espressione della sovranità politica nel “momento” della decisione monarchica (cioè del “capo dello Stato”), Abensour chiama questo soggetto istituente o costituente il «demos totale»34. Egli lo mette in relazione, da una parte con la tesi di Marx (di nuovo prodotta da un capovolgimento delle formulazioni di Hegel) secondo la quale, nella storia degli Stati moderni, è il «potere legislativo» che «ha fatto le grandi rivoluzioni organiche universali» (in opposizione alle “piccole rivoluzioni”, cioè alle reazioni), e di conseguenza è lui che, presentandosi come il rappresentante della totalità del popolo, precede di diritto e di fatto le costituzioni invece di formarne semplicemente un organo o di legiferare attraverso la loro autorizzazione; e d’altra parte con l’idea che, nei conflitti della società civile con se stessa che hanno in ultima analisi la loro origine nella “religione della proprietà privata” e alle quali lo Stato “politico” non apporta che una soluzione formale (che alimenti il suo proprio interesse particolare, burocratico), si annuncia la possibilità di una vera democrazia (o di una «democrazia contro lo Stato», non statale e non rappresentativa) nella quale il potere legislativo si “realizza” “abolendosi”, cioè trasformandosi in associazione35. È questo processo, che conduce il popolo al di là della formalizzazione statale dei conflitti sociali (e dunque del controllo esercitato sull’agire politico della comunità da quella burocrazia di cui Hegel è stato il vate), a partire dalla potenza stessa che lo ha fatto esistere nella storia delle rivoluzioni, che Abensour considera come il “momento machiavelliano” di Marx. Detto altrimenti è la possibilità di pensare una pratica politica autonoma che non sia assoggettata ad una sovranità, sia trascendente o immanente, e che “istituisce il sociale” in maniera permanente invece di riflettere passivamente le sue divisioni: «Marx, vicino in ciò all’ispirazione di Machiavelli (…) ha per oggetto di introdurre nell’“ambiente proprio della politica”, di aiutare a pensare l’essenza del politico, a circoscriverne la particolarità» (che non è né nello Stato, né nella Società)36. Seguendo una via stretta tra l’anarchismo (al quale possiamo unire le proposizioni contemporanee di Moses Hess) e un socialismo del lavoro che vuole riassorbire la politica nell’«amministrazione delle cose» (come prima la scuola saint-simoniana), Marx vorrebbe fare dell’emancipazione del soggetto popolare il luogo pubblico stabile della sua autocostituzione, il luogo di emergenza della dimensione “generica” dell’esistenza umana.

Abensour è ben cosciente però delle difficoltà interpretative che incombono su questa figura del soggetto, alla quale riconducono in fin dei conti tutte le questioni relative alla “vera democrazia” e alla possibilità di pensare una politica non-statale. Ed è questa la ragione per la quale, nelle ultime pagine del suo saggio, egli giunge praticamente a spiegare che è mancato a Marx quell’elemento critico presente in Machiavelli come una “finitudine” essenziale al pensiero del politico. Ciò dipende dalla sua incapacità di pensare il popolo come “totalità” senza conferirgli anche, nello stesso tempo, le caratteristiche dell’unità: «È giocoforza osservare che Marx pensa la vera democrazia sotto il segno dell’unità, cioè agitata in permanenza da una volontà di coincidenza con sé, dunque al margine di un pensiero della democrazia come forma di società che si costituisce per dare accoglienza alla divisione sociale, che si distingue per riconoscere la legittimità del conflitto nella società. Contrariamente a Machiavelli […] Marx vede nell’unità un bene schiettamente positivo, senza sospettare, sembra, che possa esistere un legame tra alcune forme di unità e il dispotismo, e inversamente dei legami tra la divisione sociale e la libertà…»37.

Potremmo, mi sembra, riformulare la difficoltà dicendo che nella teorizzazione del 1843, nonostante la sua funzione critica (o forse a causa di essa, cioè a causa della maniera in cui è pensato a partire dall’idea hegeliana e del suo capovolgimento), il demos come soggetto istituente, essenzialmente pieno o effettivo, è minacciato permanentemente da due pericoli simmetrici, in qualche modo per difetto o per eccesso38. Da una parte resta un soggetto virtuale, che si proietta al di là delle sue forme di esistenza presenti nel “fondo” delle contraddizioni dello Stato politico, o come il superamento delle divisioni della società prodotte dalla proprietà privata, che Marx non chiama ancora “lotte di classe” e le cui modalità restano completamente nebulose. In altri termini, il tempo della sua emergenza storica non è l’idea speculativa di un rilancio del “movimento delle rivoluzioni” venute “dal basso”, che il Manoscritto identifica anche con l’idea del “progresso”39. Ma dall’altra parte lo stesso soggetto tende ad apparire di fronte allo Stato non tanto come un principio di dissoluzione quanto come una sua immagine capovolta, o almeno l’immagine capovolta della sua sovranità: non soltanto in ragione della maniera in cui Marx rivendica la tradizione costituente del popolo rivoluzionario che si eleva sovranamente «dalla particolarità al dominio»40 contro il compromesso corporativista hegeliano tra il liberalismo e la monarchia, ma in ragione della “coscienza” del suo ruolo storico senza la quale appunto non potrebbe liberarsi dall’alienazione politica incarnata dai meccanismi burocratici di rappresentanza.

Ciò che vorrei allora suggerire, è che, nel momento messianico immediatamente successivo, Marx non ha, propriamente parlando, risolto queste aporie (forse inerenti a tutto il pensiero della democratizzazione come movimento “ininterrotto” della storia), ma le ha spostate da un estremo all’altro. Al proletariato cui egli rivendica per la prima volta il nome, egli conferisce in effetti delle caratteristiche ontologiche e una funzione storica che sono, per molti aspetti, esattamente opposte a quelle che ho appena riassunto sulla scia di Abensour: non quelle di un “soggetto pieno”, ma quelle di un “soggetto vuoto”, se non addirittura di un soggetto come vuoto. Per questo, tale vuoto che esprimono una dopo l’altra le formulazioni “negative” dell’Einleitung (e per cominciare quella della “dissoluzione” della società civile-borghese nell’essere del proletariato, immediatamente assimilabile ad un nulla politico) non è in nessun modo privato delle determinazioni pratiche. Forse al contrario forma la condizione affinché alcune dimensioni della pratica, in quanto “trasformazioni rivoluzionarie” delle condizioni esistenti, siano pensate come tali, benché sotto una forma che possiamo dire “impolitica”. Mi sembra lo si veda bene in due punti, in cui il discorso dell’Einleitung contrasta fortemente con quello del Manoscritto del 1843.

Lo vediamo nella maniera in cui nell’Einleitung si rappresenta la temporalità rivoluzionaria, elevando alla generalità di una struttura ciò che appariva innanzitutto come un’eccezione contingente: il “ritardo politico” della Germania del Vormärz, e dunque l’anacronismo che caratterizza il suo rapporto simultaneamente sfasato e necessario con l’evoluzione europea. Meglio, l’Einleitung fa di questa contingenza e di questa eccezione la struttura stessa della storicità, poiché è essa che permette di comprendere come una forza del passato (o venuta dal passato) vada a trovarsi nella posizione di far entrare l’umanità nell’avvenire. Siamo tentati di dire che, nella descrizione di Marx, irriducibile alla logica del processo stesso della “dialettica”, come a quella per cui il proletariato è una «classe della società che non appartiene alla società», la Germania è una «nazione della storia che non appartiene alla storia», e nel caso del proletariato tedesco queste due determinazioni negative ne fanno più di una. Perché la Germania, in un certo modo, «non ha presente», ma cristallizza in maniera “aberrante” una “preistoria” e una “post-storia”, essa rappresenta già l’avvenire in seno al passato, essa non può rientrare nel movimento della storia altrimenti che facendone esplodere i “limiti” di tutte le evoluzioni precedenti, che sono i limiti della politica come tale («Deutschland als der zu einer eigenen Welt konstituierte Mangel der politischen Gegenwart wird die spezifisch deutschen Schranken nicht niederwerfen können, ohne die allgemeine Schranke der politischen Gegenwart niederzuwerfen»). Sappiamo che questa condensazione del ritardo e dell’anticipo nella struttura dell’evento rivoluzionario sarà periodicamente riaffermata nella tradizione marxista, talvolta come tesi programmatica (Lenin a proposito della rivoluzione russa, e dopo di lui i marxisti “terzomondisti”), talaltra come matrice di un “concetto del tempo storico” non-lineare, dunque non-determinista, fondato sull’idea della “non-contemporaneità” a sé (concetto comune, sorprendentemente, a Ernst Bloch e a Louis Althusser, Eredità del nostro tempo 1935 e Per Marx 1965)41.

Lo vediamo poi nella maniera in cui l’Einleitung pensa il rapporto del proletariato con la filosofia, attraverso la celebre metafora della “testa” e del “cuore”, che risponde a ciò che Marx chiama la «difficoltà principale» (Hauptschwierigkeit) su cui si imbatte l’idea di una «rivoluzione tedesca radicale»: l’assenza di una “base materiale” di cui la teoria dell’emancipazione umana elaborata dalla filosofia potrebbe “impadronirsi”, per diventare a sua volta una forza storica dopo aver “capovolto” la critica dell’autorità religiosa in critica dell’alienazione umana. «Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, allo stesso modo il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali (…) La testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato». Di nuovo queste formulazioni sono da interpretare in un contesto, o piuttosto in una serie di contesti. Il confronto è stato spesso fatto, per sottolineare la sorprendente coincidenza di terminologia e di data, con le tesi di August Comte pubblicate lo stesso anno sull’«alleanza dei proletari e dei filosofi»42. Ma il confronto, chiaramente, è interessante anche con la concezione kantiana della sintesi trascendentale (che evoca almeno indirettamente la formula: «La filosofia non può realizzarsi senza l’abolizione del proletariato, il proletariato non può abolirsi senza la realizzazione della filosofia»)43. Senza dubbio abbiamo qui formalmente l’applicazione di un vecchio schema filosofico, destinato a pensare i rapporti del corpo e dell’anima, dunque la costituzione dell’individualità, e che possiamo far passare successivamente all’intelligibile e al sensibile, al concetto e all’intuizione, alla teoria e alla pratica. Ma precisamente il “cuore” non è esattamente il “corpo” (benché attraverso un lapsus rivelatore alcuni commentatori abbiano operato la sostituzione)44. E ciò che Marx cerca di pensare, o di designare allegoricamente, non è tanto la costituzione di una individualità (o di una soggettività collettiva dotata contemporaneamente di una materia e di una forma) quanto il fatto di un intervento storico, che risulta dalla congiunzione su scala mondiale della “coscienza” e della “sofferenza”, o almeno dell’imminenza di questo fatto45. In questa teorizzazione del rovesciamento della passività in attività che è essa stessa il cuore del momento messianico, la “prassi” non è dunque uno dei lati della sintesi, ma sarebbe piuttosto il risultato della congiunzione di due condizioni di possibilità dell’azione, di cui ciascuna presa in sé non è che una passività, o ancora una mancanza. L’evento (comparato da Marx ad un «lampo»: Blitz des Gedankens) non è più dell’ordine della rappresentazione, ma ne costituisce piuttosto il limite, il punto di realtà che dissolve le forme della rappresentazione, in senso politico come in senso metafisico («die faktische Auflösung dieser Weltordnung»)46.

Il momento messianico non è dunque altra cosa, in un certo modo, che l’inverso o la controparte del momento machiavelliano, quindi questo libera un’aporia che non riguarda soltanto la possibilità di pensare la politica al di là dello Stato e perfino contro di esso, ma la rappresentazione del “soggetto politico” al quale dobbiamo imputarne le azioni, e che bisognerebbe potersi rappresentare simultaneamente come una totalità (il popolo), e come una mancanza (il popolo del popolo, sempre ancora da venire)47. Sarebbe certamente errato credere che le formulazioni qui presentate – se caratteristiche della congiuntura del 1844, nella quale Marx ha “cambiato luogo”, in tutti i sensi del termine – rappresentano un punto di realizzazione. Ma sarebbe anche errato credere che il “differenziale” teorico di cui esse testimoniano sia destinato a sparire: al contrario, possiamo avanzare l’ipotesi che esso non cesserà di approfondirsi, non foss’altro in ragione della persistente difficoltà persistente del marxismo nel caratterizzare la “lotta delle classi” (paragonata dal Manifesto del 1847 ad una “guerra civile” ora aperta e ora latente) come “politica” o come “non politica” o “apolitica”48. Quanto al lato messianico della definizione del proletariato, se dipenderà dal cedere il posto ad una definizione più “positiva” della classe operaia o della «classe dei lavoratori» (Arbeiterklasse) in rapporto con il meccanismo di sfruttamento della forza lavoro e dell’organizzazione del pluslavoro, si sposterà infatti sulla rappresentazione apocalittica dello scontro finale tra la rivoluzione e la contro-rivoluzione, indotti dalla violenza della repressione statale delle insurrezioni popolari e proletarie del XIX secolo (Le lotte di classe in Francia, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte). Comprendiamo dunque, mi sembra, contemporaneamente l’interesse e i limiti di una presentazione della teoria di Marx come una filosofia della storia, che avrebbe ripreso a sue spese lo schema della “storia della salvezza” attraverso la secolarizzazione hegeliana, non tanto per fornirne un equivalente realista quanto per intensificarne la «tensione escatologica»49. Essa designa il luogo – o uno dei luoghi – delle operazioni discorsive praticate da Marx, ma ne semplifica la posta in gioco e ne inverte, in un certo modo, le intenzioni riconducendole sotto la categoria inglobante della “religione”.

 

 

traduzione di Giovanni Campailla

 

 

*Questo saggio è già apparso in “Théologies politiques du Vormärz. De la doctrine à l’action (1817-1850)”, Revue Germanique Internationale, 8/2008, p. 143-160. È stato poi ristampato nel libro Citoyen Sujet et autres essais d’antropologie politique, Presses Universitaires de France, Paris 2011. L’autorizzazione alla presente traduzione è stata gentilmente concessa dallo stesso Étienne Balibar.

 

 

 

1 Heinrich Heine, Die armen Weber [Die schlesischen Weber], pubblicato il 10 giugno 1844 nel Vormärz (1ª strofa).

2 Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 190-204, che citerò qui di seguito Einleitung (Marx-Engels Werke, Dietz Verlag, Berlino 1970, vol. 1, p. 378-391).

3 Marx, Kritik des Hegelschen Staatsrecht, M.E.W., vol. 1, p. 201-333 [trad. it., Critica del diritto statuale hegeliano, traduzione, cura e commento di R. Finelli e F. S. Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983]. Citerò la prima edizione del saggio di Miguel Abensour, Marx et le moment machiavélien. “Vraie démocratie” et “modernité”, in Phénoménologie et politique. Mélanges offerts à Jacques Taminiaux, Editions Ousia, Bruxelles 1989, p. 17-114 (vedere anche la nuova edizione apparsa nel 2004 per le Editions du Félin, La démocratie contre l’Etat [trad. it., La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, a cura di M. Pezzella, Cronopio, Napoli 2008])

4 Nel suo articolo Proletariat, Pöbel, Pauperismus (Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon der politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Klett Verlag Stuttgart 1972-1997), Werner Conze mostra come, nel corso degli anni 1835-1840, la parola “proletariato” importata dall’uso dei socialisti francesi sia stata sostituita in Germania con quella di Pöbel (“plebaglia”) impiegata da Hegel per designare la massa “senza” (proprietà, domicilio, professione, statuto…) o la classe impoverita esteriore al sistema corporativo della «società civile-borghese» (bürgerliche Gesellschaft). Sullo sfondo dell’inasprimento degli antagonismi sociali, egli ha finito per designare i lavoratori salariati i cui interessi si oppongono a quelli del capitale manifatturiero. Conze confronta allora gli usi che ne sono stati fatti da due “hegeliani”: Lorenz von Stein (1842) e Marx (1844), rispettivamente sotto il titolo di nemico interno della società industriale e di agente della “decomposizione” dell’ordine esistente. Da parte sua Georges Labica (articolo “Prolétariat” del Dictionnaire critique du marxisme, PUF 1982) insiste sul ruolo di Moses Hess nella ricezione del termine proletariato in Marx a partire dalla lettura di Stein, e nella combinazione di una critica della pauperizzazione con una filosofia dell’azione.

5 A rigore bisognerebbe qui ricordare le principali interpretazioni esistenti dell’Einleitung, sia quelle che le consacrano uno studio separato sotto il titolo di “svolta” nella storia della costituzione del marxismo, sia quelle che la citano per predilezione nel loro tentativo di caratterizzare quel che ne fa l’essenza (come teoria della lotta delle classi, critica del capitalismo, filosofia della storia, e perfino «religione secolare»). Non dispongo dello spazio per farlo, e ci tornerò brevemente in conclusione. Ricordiamo, in maniera non limitata, i nomi di Shlomo Avineri, Ernst Bloch, Auguste Cornu, Hal Draper, Jürgen Habermas, Eustache Kouvélakis, Georges Labica, Karl Löwith, Michael Löwy, Pierre Macherey, Emmanuel Renault, Eric Voegelin…

6 Eustache Kouvélakis, nel suo importante studio, rinvia molte volte a questo “segno” della comunità di pensiero tra Marx e Heine nel 1844 (op. cit., p. 90, 117, 335). Egli ne propone un’interpretazione congiunturale incontestabile legata alla circolazione della problematica rivoluzionaria tra la Francia e la Germania nella prima metà del XIX secolo (rinviando in particolare ai lavori di Lucien Calvié), ma non ne esplora la dimensione allegorica alla quale qui mi riallaccio.

7 Introduzione a Kahldorf über den Adel, in Briefen an den Grafen M. von Moltke, 1831 (Heinrich Heine, Historisch-Kritische Gesamtausgabe der Werke, Hamburg 1979, Bd. XI, s. 174). Dell’influenza di questa frase su Marx testimonia la sua ripresa nell’articolo del 12 novembre 1848 della Neue Rheinische Zeitung, che commenta il ciclo delle rivoluzioni e delle contro-rivoluzioni in Europa: «Von Paris aus wird der gallische Hahn noch einmal Europa wachkrähen». L’opera dalla quale Marx ha attinto l’essenziale della sua concezione dell’influenza della Riforma luterana sulla filosofia e del significato “rivoluzionario” comune tanto all’idealismo tedesco (Kant, Fichte, Hegel) quanto alla politica francese moderna è “Sur l’histoire de la religion et de la philosophie en Allemagne” (1834/1835) (riedita nel 1993 dalla Imprimerie Nationale da J. P. Lefebvre).

8 Nel canto del gallo francese identificato con una tromba escatologica (schmettern) è lecito vedere la condensazione di due linee allegoriche. Il “gallo” è un simbolo nazionale francese inventato nel Rinascimento, associato durante la Rivoluzione all’idea di fratellanza, poi iscritto sulle monete dal Consolato e sulle bandiere dalla rivoluzione del Luglio 1830, prima dei suoi usi nazionalisti e sportivi più recenti. Il canto del gallo che annuncia l’imminenza del giorno è un tema messianico allo stesso tempo cristiano (inizialmente legato all’episodio del “rinnegamento di San Pietro”, nei vangeli di Matteo e di Luca) ed ebraico medievale (risalente all’esilio di Babilonia: cfr. JewishEncyclopedia.com, art. «cock»).

9 Cfr. in particolare J.P. Lefebvre, Marx und Heine, in Schriften aus dem Karl-Marx Haus, Trier, 1972; J. Grandjonc, Marx et les communistes allemands à Paris, François Maspero, Paris 1974; Lucien Calvié, Le renard et les raisins. La Révolution française et les intellectuels allemands (1789-1845), Paris, Edi, 1989; Christoph Marx, Heinrich Heine als politischer Dichter und das ideologische Verhältnis zu Karl Marx 1843/44, Studienarbeit, GRIN Verlag für Akademische Texte, 1997 (ebook); Eustache Kouvélakis, Philosophie et Révolution de Kant à Marx, Paris, PUF, 2003[trad. it. Filosofia e Rivoluzione. Da Kant a Marx, Edizioni Alegre, Roma 2010].

10 Sappiamo che i marxisti dopo Engels, e al suo seguito Ernst Bloch, gli attribuiranno il significato di una prima apparizione storica del proletariato rivoluzionario in Germania. Questo conflitto è periodicamente riattivato nella storia del protestantesimo, con o senza traduzione “politica”, in particolare sotto la forma di un’opposizione tra il “Gesù storico” e il “Cristo della Chiesa” (cfr. John Lewis, “The Jesus of History”, in Christianity and the Social Revolution, New York, 1935/1972).

11 Pierre Leroux, De l’Humanité. De son principe et de son avenir (1840), riedito nel Corpus des Œuvres de philosophie en langue française, Fayard 1985.

12 H. Assmann et F.J. Hinkelammert, L’idolâtrie du marché, Editions du Cerf 1993 [trad. it. Idolatria del mercato, Cittadella editrice, Assisi 1993]; cfr. il commentario di Michaël Löwy,Le Marxisme de la Théologie de la Libération”, http://www.lcr-lagauche.be/cm…, 19 luglio 2000 (e il suo libro La guerre des dieux, Religion et politique en Amérique Latine, Editions du Félin, Paris 1998).

13 «Il piano di questo scritto è molto semplice. Abbiamo tre domande da farci: 1° Che cos’è il terzo stato? Tutto. 2° Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla. 3° Che cosa domanda? Diventare qualcosa» (Abate Sieyès, Qu’est-ce que le tiers-état? 1789 [trad. it., Che cos’è il terzo stato?, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1992]). Sull’importanza che rivestono per il Marx del 1843 il pensiero e l’azione di Sieyès, in quanto fondano l’unità della nazione politica sull’“autodeterminazione del popolo”, cfr. J. Guilhaumou, “Marx, la Révolution française et le Manuscrit de Kreuznach”, in E. Balibar et G. Raulet (a cura di), Marx démocrate. Le Manuscrit de 1843, PUF 2001, p. 79-88.

14 Tutta la prima strofa è infatti analoga al testo dell’Einleitung di Marx: «In piedi! Dannati della terra / In piedi! Forzati della fame / La ragione tuona nel suo cratere: / È l’eruzione finale / Del passato facciamo tabula rasa / Folle, schiavi, in piedi! In piedi! / Il mondo sta cambiando radicalmente: / Non siamo niente, saremo tutto!» (Eugène Pottier, 1871). [La versione italiana, scritta nel 1901 da Bergeret, è diversa da quella francese, n.d.t.]

15 Per questo esse hanno trattenuto l’attenzione di Stanislas Breton: «La forza del primo marxismo, profetico e critico allo stesso tempo, è di aver convertito, in controtendenza all’epoca, la massa umana, presunta inerte, di una “classe nulla” in un’energia trasformatrice, di ampiezza universale e d’intensità senza pari. Tale è, se non mi inganno, il senso profondo del “nulla” e del “tutto”; nella loro reciproca implicazione, che sottende la fiducia di un nuovo popolo eletto, dopo secoli di disprezzo…» (Esquisses du politique, Messidor, Paris 1991, p. 37-38).

16 Si leggano le spiegazioni di Georges G. M. Cottier sull’eredità della cristologia dello “svuotamento” [kenosis] nella figura del proletariato come lo caratterizza, o piuttosto lo annuncia, l’Einleitung di Marx («Il Proletariato, caricato della sofferenza universale, è l’eco del Servitore sofferente di Isaia. Egli è il Messia, e come il Cristo di una certa teologia di ispirazione luterana, deve per compiere la sua missione redentrice, essere innanzitutto peccato e maledizione (…) per essere il positivo deve svuotarsi nel suo altro» (L’athéisme du jeune Marx. Ses origines hégéliennes, Librairie Vrin, 1959, p. 176 [trad. it. L’ateismo del giovane Marx. Le origini hegeliane, ed. Vita e Pensiero, Milano 1981]). Ma soprattutto bisogna interessarsi alla traiettoria teologico-politica che il motivo dell’identificazione messianica del proletariato al Cristo come incarnazione della sofferenza umana universale ha conosciuto passando dal “marxismo utopistico” di Ernst Bloch alla “teologia della croce” (Moltmann), e da qui ai teologi della Liberazione (cfr. Richard J. Baukham, Moltmann. Messianic Theology in the Making, Marshall Pickering, London 1987). Jean-Luc Nancy confronta su questo punto il testo di Marx e quello di Hegel (“L’insacrifiable”, in Une pensée finie, Galilée, 1990, p. 79 [trad. it. Un pensiero finito, trad. Luisa Bonesio, Marcos y Marcos, Milano 1992]).

17 Alcuni filosofi sono stati particolarmente sensibili a questa dimensione etica del messianismo di Marx, legato alla problematica del “torto assoluto”: in un passaggio cruciale del suo libro Le Différend (Editions de Minuit, 1983) [trad. it. Il dissidio, trad. A. Serra, Feltrinelli, Milano 1985], Jean-François Lyotard cita l’Einleitung e interpreta la rivendicazione di un’emancipazione derivante da un «torto assoluto» (Unrecht schlechthin) come quella di un’abolizione dei generi, e dunque di una comunicazione dell’umanità con sé stessa nell’enunciazione delle sue sofferenze (§§ 236-237).

18 Vedere in particolare G. Scholem, “L’idée de rédemption dans la Kabbale”, in Le messianisme juif, Essais sur la spiritualité du judaïsme, tr. fr. Calmann-Lévy, 1974, p. 71. In una certa tradizione ebraica il popolo di Israele in esilio dal mondo intero di cui prepara la “riparazione” è egli stesso il Messia: un “popolo-messia” al servizio di tutta l’umanità che possiamo per questa ragione chiamare “popolo dei popoli”, come il proletariato di Marx è, per la risoluzione che egli apporta al problema della rivoluzione, il “popolo dei popoli”.

19 La tematica delle catene della schiavitù (che, con la strana espressione, «delle catene radicali», lega l’Einleitung alla conclusione del Manifesto, ma che ritroviamo anche nel Capitale sotto forma di «catene invisibili» che vincolano il proletariato alle sue condizioni di sfruttamento), è indice dell’appartenenza del testo di Marx al discorso messianico dell’“uscita dall’Egitto”. Sarebbe però semplicistico non rendersi conto di questa relazione, perché anche l’antichità greco-romana ha lasciato la problematica del rovesciamento della schiavitù in sovranità. Esse si fondono nell’opera di San Paolo con l’idea di un apostolo che si fa «schiavo del tutto» (cfr. Dale B. Martin, Slavery as Salvation. The Metaphor of Slavery in Pauline Christianity, Yale University Press 1990).

20 Enrique Dussel ha studiato le «metafore teologiche di Marx» in Las metaforas teologicas de Marx (El Verbo Divino, Estella 1993), ma il suo studio riguarda soprattutto la teoria del “feticismo del mercato” e dipende più dall’ermeneutica che dalla storia delle idee.

21 Cfr. Jacques Droz, “Le socialisme allemand du Vormärz”, in Histoire générale du socialisme, tomo I, Des origines à 1875, PUF, Paris 1972, p. 424 e sgg.; Auguste Cornu, Karl Marx et Friedrich Engels. Leur vie et leur œuvre, tomo secondo, Du libéralisme démocratique au communisme, PUF 1958, p. 150 e sgg.

22 Eric Voegelin, “Marx: The Genesis of Gnostic Socialism”, in From Enlightenment to Revolution, Duke University Press, 1975, p. 282.

23 Cfr. É. Balibar, “Fichte et la frontière intérieure. À propos des Discours à la nation allemande”, in La crainte des masses. Politique et philosophie avant et après Marx, Galilée, Paris 1997 [trad. it. “Fichte e la frontiera interna: a proposito dei Discorsi alla Nazione tedesca”, in La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, trad. A. Catone, Mimesis, Milano 2001]. Ciò che Fichte chiama «nazione» o «popolo» non si lascia ridurre all’alternativa divenuta oggi banale tra il démos e l’ethnos; per interpretarlo bisogna fare appello ad una terza categoria, quella del laos (parola omerica di cui i Settanta si sono serviti per “tradurre” il ‘am ebreo, popolo (eletto) di Dio in opposizione ai goyim). Uno studio comparativo generale non potrebbe del resto limitarsi al contesto europeo. Così come ha mostrato Pocock, precisamente in The Machiavellian Moment (Princeton 1975) [trad. it. Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, Il Mulino, Bologna 1980], il tema della «Nazione Eletta», nel XVII secolo, è passato in America con i puritani inglesi. Ed è negli anni 1840 che è stata forgiata negli Stati Uniti la terminologia del «destino manifesto» del popolo americano che permette di vedere in sé una «nuova Israele» (cfr. Anders Stephanson, Manifest destiny : American Expansionism and the Empire of Right, New York 1995 [trad. it. Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, trad. U. Mangialaio, Feltrinelli, Milano 2004]).

24 Cfr. Selected Writings of August Cieskowski, edito e tradotto con un saggio introduttivo di André Liebich, Cambridge University Press, 1979.

25 Si darebbe così la possibilità di completare, e forse di rettificare, le brillanti intuizioni di Foucault nel suo corso al Collège de France (1975-1976) sul dibattito relativo al tema della “lotta delle razze” tra il XVII e il XIX secolo, e il suo contributo alla formazione dei discorsi moderni sulla nazione, sulla classe e sulla razza («Il faut défendre la société», corso edito da M. Bertani et A. Fontana, Editions du Seuil/Gallimard, 1997 [trad. it. «Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano 2009]).

26 «Quando avremo annientato la servitù fino al suo ultimo sbarramento celeste, salvando così il Dio che abita nell’Uomo sulla terra del suo avvilimento, quando saremo diventati i redentori di Dio, quando avremo ristabilito nella loro dignità il povero popolo privato del suo diritto alla felicità, il genio trasformato in derisione, la bellezza disonorata, così come hanno annunciato i nostri vecchi maestri (…) il mondo intero diventerà tedesco! Sogno spesso una tale missione e una tale dominazione universale quando passeggio sotto le querce. Ecco qual è il mio patriottismo…» (cit. in Christoph Marx, Heinrich Heine als politischer Dichter…, p. 19). Kouvélakis (op. cit. p. 116 e sgg.) dà a mio avviso una buona interpretazione insistendo sul rovesciamento del discorso dei “teutonici” al quale procede qui Heine. Nello stesso momento Engels scopre questa disposizione rivoluzionaria e questa missione universale nel proletariato industriale inglese (cfr. Die Lage der arbeitenden Klasse in England. Widmung, M.E.W., cit., vol. 2, p. 230-231).

27 Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 2004.

28 Sui riferimenti storici e gli usi del termine “emancipazione”, cfr. Geschichtliche Grundbegriffe, cit. (article de K.-M. Grass et R. Koselleck), e Dictionnaire critique du marxisme, cit. (l’articolo di G. Bensussan).

29 O, come propone oggi di tradurre Fischbach, seguendone da più vicino l’etimologia: «perdita dell’espressione».

30 Ciò vale in particolare per il proletariato, che “segna” l’Einleitung, ma che i Manoscritti del ’44 ignorano a profitto del lavoro e del lavoratore, a parte un’eccezione che è veramente notevole: «Comprendiamo facilmente che l’economia nazionale non considera il proletariato (…) che in quanto lavoratore (…) Essa non lo considera nel tempo in cui non lavora, cioè in quanto uomo, ma abbandona questa considerazione alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, ai dati statistici e al prevosto dei mendicanti…» (op. cit., p. 83). Inversamente l’Einleitung ignora la democrazia come pure il comunismo.

31 Su questo punto faccio completamente mia l’osservazione di Abensour: «in questo momento del suo cammino, Marx non non si impegnava in maniera univoca nella direzione apparentemente sovrana che, retrospettivamente, egli intende conferire al manoscritto non pubblicato del 1843 (…) al disprezzo delle tensioni e delle virtualità multiple che [lo] attraversano…» (op. cit., p. 60). Sono queste virtualità, evidentemente oggi più interessanti rispetto alle sistematizzazioni del “marxismo”, che cerco qui di completare di un elemento supplementare.

32 Non torno qui su quel che ho sottolineato altrove (Marx démocrate, op. cit.), ossia la singolarità della scrittura del testo di Marx che si installa nel “dialogismo” del testo di Hegel stesso, e così lo smaschera.

33 Non discuto qui questo punto ultrasensibile per l’apprezzamento del pensiero di Marx e l’uso che ne faranno i suoi successori: cfr. la mia opera La philosophie de Marx, Editions La Découverte, Paris 1993 [trad. it. La filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 2005].

34 È discutibile questa traduzione, presa da A. Baraquin [K. Marx, Critique du droit politique hégélien, traduzione francese di A. Baraquin, Editions Sociales, 1975], che serve bene il progetto di Abensour: il testo tedesco parla piuttosto di «momenti della totalità del démos» («Die Demokratie ist die Wahrheit der Monarchie, die Monarchie ist nicht die Wahrheit der Demokratie … In der Demokratie erlangt keines der Momente eine andere Bedeutung, als ihm zukommt. Jedes ist wirklich nur Moment des ganzen Demos. In der Monarchie bestimt ein Teil den Charakter des Ganzen», M.E.W., vol. 1, p. 230).

35 Qui possiamo ancora discutere alcune letture: il testo di Marx sul quale egli si appoggia (e di cui egli mostra bene il rapporto con gli scritti dei socialisti francesi contemporanei, in particolare il Manifeste de la démocratie au 19ème siècle di Victor Considérant, pubblicato nel 1843) non evoca la “vera democrazia” come una figura, ma dice che «die neueren Franzosen haben dies so aufgefasst, das in der wahren Demokratie der politische Staat untergehe …» (M.E.W., I, 232). Cioè che, secondo gli autori francesi più recenti, lo Stato politico si estingue, o si abolisce, nella “democrazia autentica”, quando essa diventa autenticamente ciò che deve essere. Non c’è dubbio però che questa prospettiva corrisponde all’ipotesi di un principio democratico o popolare radicale che agisce nella successione dei regimi politici (di cui essa costituisce la “verità”), e sfocia almeno idealmente sul deperimento dello Stato in quanto organismo separato. Shlomo Avineri, in The social and political thought of Karl Marx (Cambridge University Press 1968) [trad. it. Il pensiero sociale e politico di Marx, Il Mulino, Bologna 1997] va più lontano di Abensour nella sostanza dell’espressione «true democracy». Il suo riferimento non è il «démos totale» ma la «classe universale»: Hegel al posto di Machiavelli come pensatore del “politico”.

36 Abensour, op. cit., p. 101.

37 Abensour, op. cit., p. 107.

38 Nel suo commentario dei testi di questa costellazione (L’être et l’acte. Enquête sur les fondements de l’ontologie moderne de l’agir, Vrin 2002, capitolo IV, “L’agir libéré (Marx)”, p. 131 e sgg.), Franck Fischbach insiste sulla fusione, nel soggetto sociale o trans-individuale della trasformazione rivoluzionaria, delle determinazioni dell’agire e del fare (che tradurrà ne L’Ideologia tedesca la categoria di Selbstbetätigung). Mi sembra che questa fusione sia anche la risorsa di quel che qui chiamo la “pienezza” del soggetto politico.

39 M.E.W., I, 259: «… damit der Mench mit Bewusstsein tut, was er sonst ohne Bewusstsein durch die Natur der Sache gezwungen wird zu tun, ist es notwendig, dass die Bewegung der Verfassung, dass der Fortschritt zum Prinzip der Verfassung gemacht wird, dass also der wirkliche Träger der Verfassung, das Volk, zum Prinzip der Verfassung gemacht wird…».

40 «… wo sie in ihrer Besonderheit als das Herrsschende auftrat…» (M.E.W., I, 260).

41 Non possiamo eludere l’affinità con la maniera in cui Derrida, in Spettri di Marx (1993) [trad. it. G. Chiurazzi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994], usa l’immagine escatologica dell’Amleto di Shakespeare per interpretare la concezione marxiana della rivoluzione da venire: «Time is out of joint». Tuttavia Derrida cita molte opere di Marx, ma mai l’Einleitung: Ciò dipende, mi sembra, dal fatto che la sua interpretazione tenta di cogliere l’eredità della «messianicità senza messianismo». E dunque, a fortiori, senza la figura del messia – ciò che è per eccellenza il proletariato del 1844. Su questo punto almeno c’è contraddizione tra i due punti di vista.

42 Auguste Comte, Discorso sullo spirito positivo, 1844, Capitolo terzo [trad. it. a cura di A. Negri, Laterza, Roma-Bari 2003]. Il progetto di «alleanza» elaborato da Comte riposa essenzialmente su un programma d’insegnamento popolare “superiore”, destinato a superare la cesura sociale che minaccia il progredire del progresso come sviluppo dell’ordine, e a fondare sulla riunione delle forze opposte allo spirito teologico e metafisico (la scienza, l’industria) la possibilità di un nuovo potere spirituale, che metta fine all’era delle rivoluzioni. In questo senso, è esattamente l’inverso del progetto di Marx. Il parallelo è stato discusso dettagliatamente da Pierre Macherey nel suo commentario dell’espressione «Im Anfang war die Tat» e delle sue interpretazioni successive, disponibile sul sito: stl.recherche.univ-lille3.fr/seminaires/philosophie/macherey/Macherey20012002/

43 Marx arriva a questa formula alla fine dell’Einleitung al termine di tre saggi successivi di cui essa rappresenta la «soluzione» ma anche la conversione in «parola d’ordine» (Lösung/Losung): « Ihr könnt die Philosophie nicht aufheben, ohne sie zu verwirklichen (…) Sie glaubte, die Philosophie verwirklichen zu können, ohne sie aufzuheben», «Die Waffe der Kritik kann allerdings die Kritik der Waffen nicht ersetzen», che approcciano di bene in meglio una reciprocità trascendentale della forma: i concetti senza intuizione sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche.

44 Michaël Löwy, La théorie de la révolution chez le jeune Marx, Maspero, Paris 1979, p. 69 [trad. it. Il giovane Marx e la teoria della rivoluzione, Massari, Bolsena 2001] (non intendo sminuire i meriti di questo libro, che implicava a suo tempo spiegazioni molto utili, e a cui il suo autore ha fatto seguire, poi, degli studi fondamentali sull’importanza degli elementi “utopistici” e “messianici” nel marxismo).

45 Vedere anche le formulazioni della corrispondenza con Ruge, pubblicati in apertura dei Deutsch-Französische Jahrbücher, sulla critica come interiorizzazione (innewerden) attraverso il “mondo” della propria coscienza (M.E.W., I, 346).

46 Immediatamente dopo la redazione dell’Einleitung, Marx vedrà nell’insurrezione dei tessitori della Slesia la verifica della sua concezione. Questa sarà l’occasione della sua rottura con i democratici liberali come Ruge, coeditore dei Deutsch-Französische Jahrbücher (vedere Kritische Randglossen zu dem Artikel « Der König von Preussen und die Sozialreform. Von einem Preussen del 31 luglio 1844, M.E.W., I, 392 e sgg.). Il fatto che la poesia di Heine, Die armen Weber, che aveva pubblicato egli stesso nel Vormärz, sia stata ripresa dagli insorti come canto di lotta e di lutto, gli apparirà come la prova del fatto che il proletariato tedesco sia il “più teorico” d’Europa. In esso la differenza tra la testa e il cuore svanisce, i due lati della passività critica non sono più realmente separati, e dunque la pratica è già lì.

47 A dire il vero questa congiunzione non è assente in Machiavelli: non tanto quello dei Discorsi, che serve da riferimento privilegiato ad Abensour, ma quello del Principe, il cui ultimo capitolo fa appello alla venuta di un “redentore” dell’Italia contro l’azione dissolvente e antinazionale della Chiesa.

48 E prima del Manifesto, questa formulazione è centrale nelle formulazioni di Miseria della filosofia (1846) sul carattere “politico” della “lotta da classe a classe” tra il capitale e i proletari coalizzati contro si esso, che approdano ad una “rivoluzione totale” esclusiva di tutto il “nuovo potere politico”(Seconda parte, § 5, “Gli scioperi e le coalizioni degli operai”).

49 Karl Löwith, Weltgeschichte und Heilgeschehen. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie, cap. II: Marx (in Sämtliche Schriften, K.B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, Stuttgart, 1983, Bd. II, p. 61).

 

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