Rousseau e Hegel: due concetti di riconoscimento

Frederick Neuhouser

 


fr. revAbstract
: This paper investigates the subtle differences between Rousseau’s and Hegel’s concepts of recognition.  It argues that the most important difference lies in the way each conceives of the relation between recognition and freedom.  For Rousseau, relations of equal recognition as citizens constitute a necessary condition of (political) freedom, whereas for Hegel freedom (“being-with-oneself-in-the-other”) consists in satisfying forms of recognition.  The second half explicates this Hegelian conception of freedom and reveals further important differences between the concepts: a) for Hegel recognition is a practical, normative phenomenon that implies placing limits on one’s own will; b) Hegel emphasizes the ethical advantages that the recognizer (not merely the recognized one) enjoys, namely, that in recognizing others we constitute ourselves as selves with a determinate identity; c) Hegel’s attention to relations in which individuals are recognized not merely as abstract equals (as in Rousseau’s republic) but also for their particularity allows him to develop a social theory that goes beyond political institutions to institutions more generally, where individuals do not confront one another as identical units; d) the tight connection that Hegel posits between recognition and freedom enables him better to explain why satisfying recognition is ethically important.


Un’ampia parte della mia produzione  filosofica ha alla base la convinzione che i punti più oscuri della filosofia sociale di Hegel, la quale risulta spesso di assai difficile comprensione, possano essere chiariti al meglio dapprima ricostruendo gli aspetti principali della teoria di Rousseau, e poi provando a interpretare Hegel come continuatore ed erede di quest’ultimo. Una simile strategia può senza dubbio rivelarsi fruttuosa. Nel mio ultimo libro (Neuhouser 2008), ad esempio, mi faccio guidare dall’idea che ciò che Hegel intende con il concetto di riconoscimento divenga in molti casi più comprensibile una volta che si sia considerato in che modo Rousseau tratta un analogo complesso di questioni: ossia quel per lui costituisce l’aspetto fenomenico della passione fondamentale dell’essere umano, che egli denomina l’amour-propre. Tuttavia questa stessa strategia ermeneutica può anche portare a dei fraintendimenti: essa, infatti, comporta il pericolo di commettere esagerazioni nel leggere Hegel attraverso gli occhi di Rousseau, e di conseguenza di non riconoscere gli aspetti di novità presenti nel primo. Dopo essermi occupato a lungo della teoria roussoviana dell’amour-propre, mi è divenuto chiaro che tra i due pensatori intercorre una netta differenza in relazione al tema del riconoscimento; tale differenza riguarda, in particolare, le loro concezioni del rapporto tra riconoscimento e libertà. Nel presente contributo cercherò di spiegare in cosa essa consista e perché sia così importante.
Sebbene Rousseau non impieghi mai la parola réconnaissance nel senso specifico che Hegel più tardi conferirà al termine Anerkennung (riconoscimento), si potrebbe dire che proprio Rousseau sia il primo grande teorico del riconoscimento – vale a dire, il primo pensatore che ha posto il tema del riconoscimento al centro della sua filosofia sociale, morale e politica. Questa affermazione diventa più convincente se solo si pone attenzione al fatto che il concetto-chiave della filosofia roussoviana del riconoscimento non è la réconnaissance, bensì l’amour-propre (ciò che in tedesco verrebbe reso come Eigenliebe). È risaputo, tra gli studiosi, che l’idea di amour-propre ha un ruolo fondamentale nel pensiero di Rousseau, ma su quale sia esattamente questo ruolo non vi è alcun accordo diffuso.
Quando si voglia mettere a confronto la trattazione roussoviana del tema del riconoscimento con quella hegeliana, è importante notare che Rousseau prende le mosse da un concetto analogo a quello di riconoscimento: ossia dall’esistenza di una passione (une passion, Rousseau, 1975, p. 208) che spinge gli esseri umani ad aspirare alla stima o alla considerazione da parte dell’altro. Degno di nota è anche il fatto che, nella teoria di Rousseau, l’attenzione che gli esseri umani ricercano per sé sulla spinta del loro amour-propre può assumere forme molto diverse tra loro. Il plauso, l’ammirazione, la lode, l’onore, il rispetto e molti altri atteggiamenti positivi da parte dell’altro costituiscono per Rousseau forme di riconoscimento, e questa notevole varietà nelle manifestazioni di esso è il corrispettivo dell’estrema plasticità che egli attribuisce all’amour-propre. Quest’ultimo è infatti una “passione plastica”, nel senso che, almeno in via di principio, esso può cercare e trovare soddisfazione in forme tra loro molto differenti.
Il fatto che Rousseau assuma un simile punto di partenza è importante, in quanto rivela chiaramente come egli faccia poggiare la sua filosofia del riconoscimento su una teoria della natura umana – in altre parole, su una teoria delle predisposizioni e delle capacità che, per natura, appartengono a tutti gli esseri umani (Rousseau, 1975, pp. 87, 91, 121-124). Hegel rifiuterà un simile punto di partenza, ma se egli sia riuscito davvero a farlo, e se lo potesse effettivamente fare, sono questioni molto complesse, delle quali non posso occuparmi in questa sede. La teoria della natura umana tracciata da Rousseau aveva prima di tutto una funzione descrittivo-esplicativa: il suo scopo era fissare e chiarire le differenti fonti generative dei motivi dell’azione umana. Il fatto che per Rousseau l’amour-propre sia la passione fondamentale dell’essere umano significa anche che ad essa spetta un proprio status indipendente, in quanto costituisce una delle tre sorgenti fondamentali dell’azione umana, a fianco dell’amour-de-soi-même, ossia della tendenza all’autoconservazione (Rousseau, 1975, p. 208). La terza di esse, nonché quella di gran lunga più debole, è la pitié, la pietà, ossia la capacità di provare sim-patia per l’altro (Rousseau, 1975, p. 122).
Com’è noto, la teoria della natura umana delineata da Rousseau ha anche una funzione normativa. Rousseau infatti stabilisce, nella sua filosofia politica, che le finalità dettate da una delle due forme dell’amore di sé, ossia l’amour de soi-même, ottengano lo status di interessi fondamentali, la cui soddisfazione sia assicurata a tutti dalla società qualora tali interessi si rivelino razionali, buoni o legittimi. In altre parole, uno Stato razionale deve garantire a tutti i soggetti che ne fanno parte la conservazione della vita e i presupposti sociali di base del benessere individuale (Rousseau, 2003, p. 79). Nella filosofia politica di Rousseau, tuttavia, l’altra forma di amore di sé, l’amour-propre, al contrario dell’amour de soi-même, non sembra essere associato ad alcun rilevante interesse umano fondamentale. Nel Contratto sociale, ad esempio, l’espressione «l’amour-propre» non ricorre nemmeno una volta, e nella descrizione dei compiti principali della filosofia politica il riconoscimento non viene fatto rientrare negli interessi di base che, in uno Stato legittimo, vanno garantiti a tutti i cittadini. Nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza (il cosiddetto Secondo discorso), similmente, non vi è traccia del fatto che la soddisfazione dell’amour-propre abbia un qualsivoglia ruolo positivo, in virtù del quale essa possa venir considerata uno degli interessi fondamentali dell’uomo. Naturalmente, non c’è dubbio che l’amour-propre abbia un posto importante del Secondo discorso. Esso però ha tale ruolo in quanto costituisce il nucleo della risposta di Rousseau alla principale questione trattata in quel saggio, ossia da dove abbia origine la disuguaglianza sociale: all’amour-propre pertiene quindi una funzione esclusivamente negativa e di tipo diagnostico. E, in quanto principale origine dell’ineguaglianza, l’amour-propre è caricato anche della pesante responsabilità per i molti altri mali che da questa ineguaglianza derivano: la guerra, le sofferenze degli uomini, la perdita di libertà, i vizi e l’auto-estraniazione.
Per i nostri scopi è di grande interesse il fatto che, secondo la tesi centrale del Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, l’amour-propre rappresenta una delle principali cause della perdita della libertà umana. Invece di concepire il riconoscimento come un fenomeno in grado di promuovere un avanzamento della libertà, Rousseau evidenzia nel Secondo discorso come, tra la libertà e l’aspirazione umana al riconoscimento, si dia una tensione profonda e pregna di conseguenze. La ragione di questa tensione risiede nel fatto che l’amour-propre porta con sé un particolare bisogno umano – il bisogno di essere in qualche modo riconosciuti – che ancor più del bisogno di autoconservazione provoca uno stato di durevole e reciproca dipendenza tra gli esseri umani; e questo, per Rousseau, costituisce il pericolo maggiore per la libertà umana (Neuhouser, 2008, pp. 79-80). In altre parole, questo pressante bisogno umano di essere in qualche modo stimati dagli altri è fonte di continua minaccia per la nostra capacità di ubbidire solo alla nostra volontà, capacità che per Rousseau coincide con l’essenza della libertà (Rousseau, 2003, p. 79). La libertà viene quindi compresa come la condizione del non essere sottoposti alla volontà di un altro, o, cosa che porta agli stessi risultati, come l’assenza di dominio da parte di una volontà estranea (Rousseau, 1971b, p. 40). Ogni tipo di dipendenza tra gli esseri umani, non ultima quella che si determina a partire dall’amour-propre, porta quindi con sé il pericolo della perdita della libertà: e questo perché, nella propria situazione di dipendenza e al fine di poter soddisfare il loro bisogno di stima, gli esseri umani sono continuamente tentati a far dettare le loro azioni da coloro la cui cooperazione è per essi irrinunciabile. Nella misura in cui, quindi, qualcuno di noi prova un bisogno di riconoscimento – e tutti, in quanto esseri umani, lo proviamo – ciascuno è costantemente in pericolo di conformarsi ai valori e alle preferenze, a lui estranei, di coloro la cui opinione positiva nei suoi riguardi ha per lui una sì pressante importanza.
Il fatto che nel Contratto sociale il tema dell’amour-propre non venga nemmeno menzionato è tanto più sorprendente allorché si consideri che la soluzione elaborata da Rousseau rispetto al problema della dipendenza poggia implicitamente proprio su una politica del riconoscimento. Il motivo di base dell’opera è, infatti, il seguente: se la dipendenza umana non deve portare alla perdita della libertà, allora essa deve venire destrutturata dallo Stato attraverso i principi della volonté générale (Neuhouser, 2000, pp. 73-78). Ovvero: le leggi e le istituzioni dello Stato devono essere conformate in tal modo da assegnare lo stesso valore agli interessi fondamentali di tutti i cittadini, o, in altre parole, da trattare tutti gli individui come eguali in riferimento ai loro interessi di base, e da riconoscerli in quanto tali.
Il riconoscimento politico di tutti i cittadini come eguali costituisce quindi per Rousseau una condizione necessaria della realizzazione della loro libertà. E, ciononostante, questo riconoscimento – il loro essere-riconosciuti – resta qualcosa di diverso dalla loro libertà. Esso viene conseguito dagli individui già in quanto componenti passivi dello Stato che vivono sotto leggi e istituzioni uguali per tutti, le quali trattano gli interessi di ciascuno come aventi lo stesso valore. La loro libertà – o il tipo specifico di libertà che attiene loro in quanto cittadini dello Stato – secondo Rousseau può essere però realizzata solo attraverso la loro partecipazione attiva ai processi di legiferazione, o, meglio ancora, unicamente nella misura in cui i cittadini si accordino collettivamente per leggi giuste e le approvino alla fine di tali processi. Per Rousseau la libertà dei cittadini dello Stato consiste quindi nel fatto che essi limitino la propria volontà per mezzo di principi razionali che derivano da loro stessi (Rousseau, 2003, p. 100). Nella misura in cui un cittadino si identifica con la volontà generale, la quale impone un limite alla sua volontà particolare, e in qualche modo giunge a vederla come la sua propria volontà, egli risulta limitato solo dalla sua stessa volontà, invece che da una volontà estranea.
Per come io comprendo la teoria roussoviana dell’amour-propre, è possibile dire, se ci si spinge un po’ oltre la lettera del Contratto sociale, che la capacità di un cittadino di identificarsi con la volonté générale sussiste proprio grazie all’amour-propre. In altre parole, un essere umano può acquisire la capacità di farsi guidare dai principi della ragione solo per mezzo di una forma di amour-propre risultante da una ben definita Bildung: solo quest’ultima può metterlo in grado di sviluppare quella specifica forma di onore che lo porterà a sottomettersi ai principi della ragione (Neuhouser 2008, pp. 239-240). Che in via di principio anche l’amour-propre possa avere un simile ruolo positivo è evidente innanzitutto nell’Emilio, in cui uno dei compiti principali di una buona educazione è quello di indirizzare l’amour-propre di Emilio in modo tale che egli possa ricavare una forma di onore attraverso l’azione razionale, e quindi giungere a un’almeno parziale soddisfazione del suo stesso amour-propre (Rousseau, 1969, p. 479). Sebbene l’amour-propre possieda anche simili potenzialità positive, è comunque difficile rintracciare nei testi di Rousseau l’idea che, in una prospettiva di filosofia sociale, il riconoscimento vada considerato come un interesse o un bene fondamentale dell’essere umano, e quindi come qualcosa che non è solo buono in sé, ma lo è anche in quanto permette l’accesso ad un altro fondamentale bene umano, come ad esempio la libertà politica.
Ci si potrebbe spingere però un passo più in là di quanto non faccia Rousseau, e assegnare al riconoscimento, sulla base della potenza e dell’irresistibilità che nel Secondo discorso viene attribuita all’amour-propre, lo status di un bisogno elementare dell’essere umano, la cui soddisfazione debba essere garantita da una società razionale. Anche questa mossa, la quale si spinge oltre ciò che Rousseau afferma nelle sue opere, troverebbe però la propria giustificazione non nel fatto che il riconoscimento sia un bene importante di per sé; bensì nel fatto che, se la società non permettesse una qualche forma di armonica soddisfazione della tensione umana a ottenere la stima dell’altro, l’amour-propre necessariamente diverrebbe una fonte continua di conflitto, malevolenza, dominio e malcontento. Anche attraverso questa revisione della filosofia sociale di Rousseau il riconoscimento non potrebbe quindi venir collocato nella medesima categoria in cui egli pone i beni fondamentali dell’essere umano, ossia l’autoconservazione, le condizioni sociali del benessere individuale e il bene più importante di tutti, la libertà.
Sulla base di questa proposta sarebbe possibile comprendere la filosofia sociale di Rousseau come implicitamente orientata dalla seguente domanda: come dovrebbe conformarsi una società in cui potessero venir egualitariamente soddisfatti gli interessi fondamentali di tutti – l’autoconservazione, la libertà, le condizioni basilari del benessere individuale – e ciò venisse fatto in modo da poter garantire al contempo, a tutti i cittadini, una misura sufficiente di riconoscimento (o, meglio, il tacitarsi del loro impulso al voler ottenere la considerazione altrui)? Tuttavia, lo ripeto: anche se il riconoscimento venisse interpretato, nella filosofia di Rousseau, come un bisogno umano – come qualcosa senza il quale la passione dell’amour-propre non può trovare requie – sarebbe comunque difficile reperire gli appoggi, nei testi roussoviani di filosofia sociale, per poter attribuire alla soddisfazione dell’amour-propre un qualche valore positivo in sé.

Se invece cerchiamo di determinare in che rapporto il riconoscimento si ponga rispetto alla libertà nella filosofia sociale di Hegel, va innanzitutto notato che qui non si tratta di un rapporto esterno, in cui, così come avviene nella filosofia politica di Rousseau, le relazioni di riconoscimento andrebbero concepite come condizioni necessarie della libertà. Secondo Hegel, il riconoscimento è una cosa sola con la libertà. Per dirlo ancor meglio, a costituire l’essenza di un determinato tipo di libertà è un determinato tipo di riconoscimento. Il concetto fondamentale di libertà, nella filosofia sociale hegeliana, è ciò che io altrove ho chiamato «libertà sociale» (Neuhouser, 2000, p. 17). È quest’ultima che Hegel intende illustrare quando parla della libertà come un «essere-presso-di-sé» nell’altro, la quale va naturalmente differenziata dalla libertà negativa – il diritto di agire indisturbati dall’interferenza di altri soggetti – che per Locke determina invece il modello paradigmatico della libertà. Al contrario, nella libertà-come-riconoscimento le relazioni con gli altri soggetti hanno una valenza positiva; questa libertà dev’essere un trovare-sé nell’altro, e la domanda che a questo punto può porsi è: come va compreso tutto ciò?
Un’esplicazione di questa idea hegeliana della libertà si trova nei passi della Filosofia del diritto in cui Hegel impiega per la prima volta l’espressione «essere-presso-di-sé-nell’-altro» /Bei-sich-Selbst-Sein-im-Anderen (PhR, § 7, Aggiunta). Lì il concetto di libertà sociale viene chiarito in riferimento agli esempi dell’amicizia e dell’amore. Particolarmente degna di nota è la spiegazione hegeliana di come amicizia e amore siano da intendersi quali realizzazioni della libertà: «nell’amicizia e nell’amore {…} si è non unilaterali entro di sé, bensì ci si limita di buon grado in relazione ad un che d’altro, ma si sa sé in questa limitazione siccome se stessi. Nella determinatezza l’uomo non deve sentire sé determinato, bensì mentre si ha la considerazione di ciò che è altro in quanto altro, si ha in ciò per la prima volta il proprio sentimento di sé. {…} {L}a libertà è un volere un che di determinato, ma in questa determinatezza esser presso di sé» (PhR, § 7, Aggiunta). Sebbene la parola «riconoscimento» non ricorra mai in questo testo, ha perfettamente senso intendere il passaggio appena citato nei termini di un’esplicazione della libertà come riconoscimento. Che qui l’oggetto del discorso sia il riconoscimento è evidente dal riferimento all’autolimitazione nei confronti dell’altro. Nell’amore, per colui che ama, i desideri e gli interessi della persona amata hanno il valore di limitazioni alla propria volontà, ed è esattamente questa spontanea autolimitazione in favore dell’altro che per Hegel costituisce l’essenza del riconoscimento. Ciò però non spiega ancora perché il riconoscimento dovrebbe configurare un luogo della libertà, o, ancora, perché esso vada inteso come un essere-presso-di-sé-nell’-altro.
Il rapporto tra libertà e riconoscimento diviene più chiaro qualora si presti attenzione a un’ulteriore differenza nelle concezioni del riconoscimento che troviamo in Hegel e in Rousseau. La descrizione hegeliana del riconoscimento come autolimitazione del soggetto che riconosce dimostra che per Hegel, al contrario che per Rousseau, il riconoscimento è effettivamente qualcosa dotato di effettività pratica – qualcosa, cioè, che è sempre connesso a un volere, a una determinazione della volontà. Un altro aspetto a ciò strettamente legato è che il riconoscimento, per Hegel, costituisce sempre un fenomeno normativo. Quando si riconosce un altro soggetto, lo si fa sempre sulla base di una qualche concezione del valore o dello status di chi viene riconosciuto, la quale viene considerata come una delle norme che ci portano a limitare la nostra volontà. Riconoscere un altro soggetto, per Hegel, vuol dire allo stesso tempo riconoscere una determinata norma come dotata di validità pratica. Quando, ad esempio, il servo riconosce il signore come unico soggetto autonomo tra loro due, egli nello stesso tempo considera l’autonomia del signore come limitazione normativa della propria volontà (PhG, p. 285). Riconoscere il signore come soggetto autonomo equivale ad accettare la validità di quelle norme che stabiliscono come vada trattato un tale soggetto, e anche che cosa costituisca il fondamento di un rapporto pratico tra soggetti del riconoscimento. In questo caso la conseguenza del riconoscimento è che colui che riconosce considera la volontà di colui che è riconosciuto – nell’esempio, i particolari desideri del signore – come una sorta di autorità pratica. L’amore costituisce anch’esso, per motivazioni analoghe, una forma di riconoscimento: quando amo un’altra persona, stimo questa come degna d’amore – come, in un certo senso, preziosa – e lascio che i suoi desideri ed interessi agiscano come limitazioni sulle mie azioni particolari. Per il servo come per chi ama, i desideri e gli interessi della persona che essi riconoscono valgono come un «dovere», ma non come un dovere esterno quale quello che Hegel afferma di ravvisare nella teoria morale di Kant (PhG, p. 835). In un rapporto di riconoscimento, i desideri e gli interessi di chi viene riconosciuto hanno lo status di «qualcosa che va rispettato» o «qualcosa che va promosso». Rousseau intendeva il riconoscimento in senso di gran lunga più ampio di Hegel, ossia lo identificava in prima istanza con le opinioni o i giudizi – les opinions – dei soggetti coinvolti. Come abbiamo accennato precedentemente, per Rousseau il plauso, l’ammirazione, la lode e l’onore costituiscono tutti esempi di riconoscimento. Questo significa che, nella misura in cui essi ottengono una qualche espressione pubblica, contribuiscono tutti a soddisfare la passione dell’amour-propre, anche quando non implicano nessun’altra azione pratica da parte di colui che accorda il proprio riconoscimento all’altro.
In questo modo diventa più chiaro perché, per Hegel, il riconoscimento sia connesso alla libertà molto più strettamente che per Rousseau. Se chi riconosce si trova a limitare la propria azione in accordo con la volontà di colui che viene riconosciuto, il processo di riconoscimento può in una qualche misura assumere le sembianze di una perdita di libertà. Dall’altra parte, tuttavia – e qui troviamo il nucleo dell’equiparazione hegeliana di riconoscimento e libertà – la mia autolimitazione in favore dell’altro non rappresenta alcuna rinuncia alla mia libertà, in quanto si dà il caso che colui alla cui volontà io obbedisco sia anche, in qualche modo, «me stesso» (si pensi qui alla caratterizzazione hegeliana del compiuto rapporto di riconoscimento come «Io che è Noi, e Noi che è Io», PhG, p. 273). In altre parole, a rendere possibile questo mio atto di identificazione con la persona da me riconosciuta è solamente il fatto che il mio auto-limitarmi nei confronti dell’altro sia conciliabile con la mia libertà – o, più esattamente, che questa autolimitazione costituisca la mia stessa libertà. E questo perché, sulla base di una tale identificazione con la persona da me riconosciuta, l’autolimitarmi che compio in favore di essa diviene un autolimitarmi che compio per me stesso; ciò che in precedenza sembrava essere determinato dall’esterno si rivela come autodeterminazione.
In che modo va però intesa l’identità tra chi riconosce e chi viene riconosciuto, la quale è necessaria per sostenere un’equiparazione tra riconoscimento e libertà? Si potrebbe dire che il soggetto che riconosce, nel suo autolimitarsi, rimane libero come prima quando può – come afferma Axel Honneth – «scorgere in chi viene riconosciuto l’altro di se stesso» (Honneth, 2011, p. 86, corsivo mio). Questa espressione ricorda la concezione aristotelica dell’amicizia, e richiama altresì la descrizione che Hegel compie della lotta per il riconoscimento nella Fenomenologia dello spirito, là dove egli parla del raddoppiamento dell’autocoscienza e afferma che l’autocoscienza impegnata a lottare per il riconoscimento vede «se stessa nell’altro» (PhG, p. 275). Anche nei primi abbozzi di sistema tracciati da Hegel si trovano analoghe formulazioni, come per esempio: «il godimento {del riconoscersi a vicenda} è in questo intuire se stesso nell’essere dell’altra coscienza» (Hegel, 1984, p. 40). Da questi passaggi testuali si potrebbe facilmente ricavare l’impressione che il soggetto che lotta per il riconoscimento cerchi la propria soddisfazione nella possibilità di trovare un’esatta immagine di sé, come il riflesso di uno specchio, nel mondo esterno – un soggetto qualitativamente identico, che gli rifletta semplicemente la propria immagine. In verità, un rapporto di identificazione inteso in questo senso forte – tra più soggetti qualitativamente identici – si può trovare in forme di riconoscimento che sia in Hegel che in Rousseau hanno notevole importanza, come ad esempio nel riconoscimento tra persone giuridiche nel diritto astratto (in Hegel, PhR, § 71, Annotazione) o tra i cittadini dello Stato nel Contratto sociale di Rousseau. Sarebbe sbagliato, tuttavia, interpretare in questo modo l’identità che per Hegel è alla base dell’equiparazione di riconoscimento e libertà. La forma di identificazione in cui chi viene riconosciuto considera colui che lo riconosce come mero rispecchiamento di sé non è infatti un elemento essenziale della concezione hegeliana del riconoscimento come libertà; questo punto può essere notato a partire dal fatto che, nelle forme di riconoscimento che hanno più importanza nella teoria dell’eticità elaborata da Hegel, una siffatta modalità di identificazione non è presente.
Non è una coincidenza che, nella sua trattazione dei concreti rapporti di riconoscimento in cui la libertà sociale trova realizzazione, Hegel si discosti dal suo predecessore Aristotele nell’eleggere a modello del riconoscimento intersoggettivo l’amore tra soggetti diversi, piuttosto che l’amicizia tra soggetti uguali. Nella sua descrizione dell’amore matrimoniale, ad esempio, egli sottolinea le differenze tra gli sposi – tra cui, innanzitutto, il fatto che essi appartengono per natura a due generi sessuali diversi (PhR, §§ 165-166) – e nega quindi espressamente l’idea che due persone che si riconoscano reciprocamente per mezzo dell’amore e del matrimonio vedano l’uno nell’altro un semplice riflesso di sé. Al contrario, ognuno di essi vede nel suo partner un essere di natura diversa dalla propria, e questo – qui è Hegel a parlare, non io – rende la loro relazione più spirituale di quanto possa esserlo quella di amore, o di amicizia, tra due donne o tra due uomini. Lo stesso vale per i rapporti di riconoscimento nelle altre sfere sociali: i membri della società civile e dello Stato vengono riconosciuti per le loro caratteristiche particolari, che li differenziano dai loro concittadini.
Se quindi l’essere-presso-se-stesso-nell’altro, che per Hegel costituisce il centro della libertà sociale, non consiste in un rapporto con un altro soggetto qualitativamente identico, come dobbiamo comprendere l’identità generatrice di libertà che dovrebbe sussistere tra due soggetti che si riconoscono reciprocamente? La chiave per rispondere a questa domanda si trova nelle parole di Hegel che abbiamo precedentemente citato: «nell’amicizia e nell’amore {…} ci si limita di buon grado in relazione ad un che d’altro {…}. Nella determinatezza l’uomo non deve sentire sé determinato, bensì mentre si ha la considerazione dell’altro in quanto altro, si ha in ciò per la prima volta il proprio sentimento di sé» (PhR, § 7, Aggiunta). Qui Hegel evidenzia nuovamente la reciproca differenza di cui sono consapevoli i soggetti che si riconoscono, e chiarisce esplicitamente perché il mio riconoscere un soggetto qualitativamente diverso da me rappresenti al contempo una realizzazione della mia libertà: poiché, in tal modo, io pervengo anche al sentimento di me stesso (PhR § 147).
Il concetto di «sentimento di sé» deriva sicuramente dalla trattazione roussoviana di ciò che entra in gioco quando gli esseri umani cercano soddisfazione per il loro amour-propre. I termini in cui Hegel parla del sentimento di sé – presumibilmente un’appropriazione dell’idea roussoviana del sentiment de son éxistence (Rousseau, 1975, p. 162) potrebbero far pensare che, nei rapporti di riconoscimento, si abbia a che fare semplicemente con un sentimento (di soddisfazione). L’esperienza di un riconoscimento riuscito è sì, certamente, un sentimento di soddisfazione – un sentiment – ma è anche un sentimento che richiama, a partire da sé, l’éxistence del sé. Per entrambi i pensatori (sebbene questo aspetto in Rousseau rimanga piuttosto implicito), al sé umano, che qui è al centro della questione, pertiene una forma di esistenza differente da quella di un mero oggetto naturale. Esso, nel senso in cui viene qui inteso, ottiene propriamente esistenza quando può contare qualcosa agli occhi di un altro soggetto – e cioè quando è riconosciuto da altri come dotato di valore. L’esserci di un sé è quindi essenzialmente un essere-per-l’-altro – un essere che si sente a casa propria nelle opinioni apertamente espresse dagli altri soggetti nei suoi confronti, o negli atteggiamenti pratici che questi tengono verso di lui. In Hegel viene esplicitato, e dotato di importanza fondamentale, ciò che in Rousseau rimaneva in gran parte implicito: noi ci costituiamo in quanto sé – realizziamo la nostra identità – solo nella misura in cui siamo riconosciuti dagli altri come tali.
Come già abbiamo accennato, Hegel, nel considerare il riconoscimento come luogo di libertà, introduce delle innovazioni rispetto alla prospettiva di Rousseau. Ora anche questo passo in avanti compiuto da Hegel può essere meglio compreso. Quando riconosco un altro soggetto, io non sono libero in virtù del fatto che esso, a favore dei cui desideri e interessi ho limitato la mia volontà, appaia identico a me in senso qualitativo o in qualche altro modo; bensì perché, e solo nella misura in cui, nell’autolimitarmi in suo vantaggio io do realtà alla mia propria autocomprensione, e quindi acquisisco al contempo un’identità, pubblicamente confermata, pari a quella del sé per il quale io, in base alla mia autocomprensione, limito me stesso. Sono quindi libero in quanto le norme alle quali mi sottopongo nel riconoscere l’altro sono, allo stesso tempo, anche le leggi in accordo alle quali costituisco il mio sé. Ma sotto quali condizioni può avvenire questo?
È importante che, nel rispondere alla domanda su come riconoscimento e libertà siano da pensarsi congiunti, la nostra attenzione si sposti dal soggetto che viene riconosciuto a colui il quale riconosce. Rousseau, nelle sue annotazioni sulla condizione risultante dalla soddisfazione dell’amour-propre, si concentrava sul senso di appagamento esperito da chi era stato riconosciuto e sul sentiment de sa existence che questi avrebbe ottenuto grazie alla stima positiva di coloro che gli accordavano riconoscimento. Per comprendere, però, l’equiparazione hegeliana di libertà e riconoscimento, dobbiamo focalizzarci innanzitutto su colui che riconosce e che, nell’accordare riconoscimento a un altro soggetto, accetta di sottoporsi a norme ben definite, che stabiliscono come quel soggetto vada trattato. Ma colui che riconosce può trovare la sua libertà solo se il suo riconoscere l’altro si associa allo scoprire-sé-stesso {Sichselbsterfinden}, all’acquisizione del proprio sentimento di sé. Poiché un sé è anche sempre un essere-per-l’-altro, l’ottenimento del sentimento di sé da parte di chi riconosce deve abbinarsi a un elemento di conferma pubblica di ciò, ossia: colui che riconosce, il quale nel riconoscere l’altro ha realizzato anche la propria libertà, nel medesimo atto deve essere al contempo oggetto di riconoscimento. Il riconoscimento che conferisco a un’altra persona può permettermi di costituirmi come un sé, e quindi di realizzare la mia libertà, se il mio atto di riconoscimento suscita nello stesso tempo, nell’altro soggetto, un atto simmetrico.
In Rousseau c’è grande abbondanza di esempi di riconoscimento unilaterale, che, almeno così pare, sono vissuti come soddisfacenti da colui che viene riconosciuto. Egli menziona ad esempio un artista che ambisce continuamente all’applauso del proprio pubblico (Rousseau, 1971a, p. 18), o un abitante dell’età dell’oro che vuol essere ammirato dal prossimo come il più bello o come colui che canta meglio (Rousseau, 1975, p. 139). In questi casi è completamente assente l’idea hegeliana secondo la quale solo il riconoscimento reciproco può rendere giustizia al carattere razionale del riconoscimento stesso. Di certo, nulla in Rousseau esclude che possano darsi forme di riconoscimento reciproco. L’abitante più bello e il cantante più bravo potrebbero reciprocamente riconoscersi come tali, ma questa reciprocità sarebbe puramente frutto del caso e rimarrebbe esterna alla soddisfazione che i singoli otterrebbero. Se invece, con Hegel, dirigiamo la nostra attenzione alle forme del riconoscimento generatore di libertà, dobbiamo prendere in considerazione esempi di riconoscimento reciproco in cui il mio limitare la mia propria volontà in base a norme che esprimono la considerazione che io accordo al valore dell’altro, suscita al contempo, e non per caso, il riconoscimento da parte dell’altra persona.
A questo punto è importante notare che il riconoscimento da parte dell’altro, che per Hegel permette di trovare-sé, deve consistere in qualcosa di più che in semplicemente un giudizio di approvazione emesso dall’altro nei miei confronti. Il signore perviene a una realizzazione della propria identità di signore attraverso il riconoscimento del servo non, in prima istanza, perché quest’ultimo pronuncia un qualche giudizio su di lui – qualcosa come «il signore è autonomo, al contrario di me, che non sono autonomo» – ma perché il servo tratta il signore in maniera conforme all’autonomia di esso, e porta ad espressione concreta le conseguenze normative di questa autonomia (PhG, p. 285).
Un esempio – ispirato a Rousseau – di riconoscimento reciproco, che si avvicini alla concezione del riconoscimento realizzatore di libertà presente in Hegel, si può trovare nei rapporti che secondo Rousseau i cittadini di una repubblica ben ordinata intrattengono l’uno con l’altro, là dove il mio volontario autolimitarmi nei confronti della volonté générale dovrebbe suscitare al contempo l’ubbidienza dei miei concittadini verso questa stessa volonté générale e inoltre il loro rispetto, espresso attraverso le azioni, per il mio essere un cittadino dello Stato. Con le mie azioni che esprimono riconoscimento per le leggi e per gli interessi fondamentali dei miei concittadini suscito in essi azioni dello stesso tipo, da cui consegue che la mia identità di cittadino dello Stato viene concretamente confermata dalle loro azioni e ottiene esistenza pubblica.
Ciononostante, un simile esempio roussoviano di riconoscimento reciproco, in cui i soggetti si danno reciprocamente conferma della loro identità comune, per Hegel non può valere come paradigma della libertà sociale. Quest’ultima richiede infatti un rapporto ancor più stretto tra la mia azione e quella dell’altra persona – un rapporto in cui io agisca come individuo particolare e, in tal modo, susciti le azioni a loro volta particolari di un particolare altro. In questi casi – come, per esempio, nell’amore tra sposi o nel rapporto tra relatore/relatrice e dottorando – le nostre azioni sono dirette ai particolari desideri e interessi di individui specifici, e le identità che in tal modo vengono realizzate sono identità particolari, che per questo motivo, in Hegel, spesso «stanno a cuore» all’individuo più che le identità propriamente comuni, che condividiamo con molti altri esseri umani.
Il motivo per cui secondo Hegel queste particolari relazioni di riconoscimento – come quelle nella famiglia o nella società civile – costituiscono l’essenza della libertà, si trova nell’idea per cui i rapporti riconoscitivi nei quali gli uomini si comportano l’uno verso l’altro come individui particolari possono rimandare a quest’ultimi un riflesso più preciso delle loro identità di quanto sia possibile nel caso di identità comuni, astratte, condivise da tante persone. I componenti della famiglia e della società civile trovano rispecchiamenti della propria identità nei rapporti con l’altro non nel senso che, nel riconoscimento, essi si vedono confrontati da esatte repliche di se stessi, bensì in quanto il mondo esterno, costituito da oggetti e da altri soggetti, si mostra ai loro occhi come un mondo in grado di offrire una nicchia particolare, «solo per loro», in cui essi possano, in senso forte, essere presso di sé.
Axel Honneth propone, giustamente, che l’identità che deve sussistere tra soggetti liberi e riconoscentisi a vicenda vada compresa come una complementarità, e, precisamente, come una complementarità dei desideri e degli obiettivi di tali soggetti che si rapportano reciprocamente (Honneth, 2011, p. 86). Coloro che partecipano alle istituzioni etiche sono individui con caratteristiche diverse e reciprocamente complementari, le quali rendono loro possibile lo svolgimento delle varie funzioni sociali – in quanto figli e genitori, o contadini e lavoratori di fabbrica – essenziali alla buona riproduzione complessiva delle istituzioni stesse. I desideri e gli interessi di questi individui non sono identici o uguali, bensì si completano a vicenda: una madre, ad esempio, può realizzare i suoi desideri e i suoi obiettivi solo se il suo sposo e i loro figli hanno altri desideri e obiettivi, ai suoi complementari (e viceversa). Quando, per rimanere su questo esempio, i membri di una famiglia agiscono insieme, – quando cioè si limitano reciprocamente in favore dei particolari desideri e bisogni degli altri componenti della famiglia – in breve, quando si riconoscono a vicenda – ognuno di essi non trova riflessa davanti a sé un’immagine identica di se stesso, bensì soggetti diversi da lui, le cui particolari caratteristiche e i cui atteggiamenti pratici sono però ad esso necessari per il suo specifico esser-se-stesso.
Questa complementarità non è quindi, naturalmente, un’identità in senso stretto. E, nonostante ciò, si dà comunque una sorta di identità tra i partecipanti a un’istituzione etica – un’identità senza la quale la libertà sociale non sarebbe pienamente realizzata. Per Hegel, infatti, la mera complementarità dei desideri e degli obiettivi dei membri delle istituzioni non basta a costituire una reale totalità etica. Tale complementarità è in ampia misura presente, ad esempio, tra i partecipanti alla moderna economia di mercato, ma in relazioni di questo tipo manca l’identità tra di essi che è necessaria al determinarsi della libertà sociale (PhR, §§ 186-187). L’identità senza la quale la libertà sociale non esisterebbe può essere paragonata all’identità dei pezzi di un puzzle: le caratteristiche particolari di ogni singolo tassello richiedono a tutti gli altri pezzi caratteristiche di complementarità; ciò fa sì che, una volta che i pezzi siano disposti tutti insieme, essi vadano a costituire una totalità che equivale a qualcosa di più della semplice somma delle parti che la compongono. I partecipanti a una siffatta totalità etica possono realizzare finalità più ampie (più “universali”), alle quali ognuno dà il proprio contributo ma che al singolo individuo, considerato da solo, sarebbero risultate irrealizzabili. I componenti di un’istituzione etica, i quali godono della libertà sociale, realizzano quindi le loro identità particolari nella misura in cui prendono parte a progetti comuni, orientati ad obiettivi condivisi con gli altri membri della società. Una simile condivisione di fini è all’origine di un nuovo tipo di identità, rilevante ai fini del riconoscimento, tra i componenti di una totalità etica: essi condividono gli stessi scopi, e questo accordo relativo ai fini dell’azione è esso stesso una forma di riconoscimento reciproco – che si configura come molto più profonda di molti dei fenomeni che Rousseau, nelle sue opere, descrive come esempi di riconoscimento riuscito. L’identità degli obiettivi finali che accomuna i componenti di un’istituzione implica una conferma di ciascuno, da parte di ogni altro, per quanto riguarda il valore dei suoi obiettivi e valori fondamentali. Nelle istituzioni in cui la libertà sociale ottiene realizzazione, non sono solo le mie capacità come padre o come lavoratore che vengono apprezzate dagli altri, ma anche (e in senso ancor più importante) le mie competenze di soggetto morale, in grado di formulare il proprio giudizio rispetto a quale sia il bene umano. Che ogni nesso di relazioni di riconoscimento realmente soddisfacenti implichi una comunità normativa – e che quindi un’autocoscienza singola possa realizzarsi unicamente come spirito – è una proposizione fondamentale del pensiero hegeliano, le cui tracce possono essere reperite qui e là nelle opere di Rousseau, ma sempre in maniera parziale e confusa.
In conclusione, è il caso di richiamare brevemente la domanda sul perché sia importante rilevare questa differenza tra Hegel e Rousseau. La risposta più breve a tale questione è: la concezione hegeliana del riconoscimento come libertà permette a Hegel di comprendere il valore etico del riconoscimento meglio di quanto faccia Rousseau, e quindi anche di spiegare in modo più chiaro perché il riconoscimento debba essere uno dei temi più importanti per la filosofia sociale. A mio parere lo stesso Rousseau non dispone di una risposta esauriente alla domanda relativa a dove risieda il valore del riconoscimento e se ad esso appartenga una valenza etica di cui la filosofia sociale dovrebbe tenere conto. Se è possibile affermare che la filosofia sociale di Rousseau concepisce il riconoscimento come un bene, essa fa questo, comunque, su basi di tipo empirico: gli esseri umani, infatti, aspirano al riconoscimento spinti dalla loro natura, e in quanto, si potrebbe dire, il perseguimento della loro felicità richiede questo. Tuttavia, come nota lo stesso Rousseau, la semplice circostanza che gli uomini siano fatti in questo modo, che essi si orientino fattualmente verso un qualche obiettivo definito, non basta a fissare lo status di quest’ultimo in quanto bene o interesse umano fondamentale (Neuhouser, 2008, pp. 49-52). Per Hegel, al contrario, non ci sono dubbi sul perché al riconoscimento debba spettare un posto di rilievo nella filosofia sociale: senza riconoscimento (del genere giusto, non patologico), la nostra libertà rimane incompleta. Anche qualora Rousseau attribuisse al riconoscimento lo status di un bene umano fondamentale, si darebbe pur sempre un’importante differenza tra i due pensatori. Per Hegel, infatti, il riconoscimento non si colloca a fianco della libertà come un interesse primario tra altri interessi primari; esso è inestricabilmente legato all’interesse che entrambi gli autori riconoscono come il sommo bene umano: la libertà pratica.
Hegel, con la sua concezione del riconoscimento, segna un progresso rispetto ai suoi predecessori nella misura in cui, attraverso di essa, egli fornisce alla filosofia sociale dei criteri in base ai quali differenziare le forme di riconoscimento eticamente più importanti – quelle che una società razionale deve promuovere – da altre forme meno importanti. Questi criteri scaturiscono dall’idea che alcune forme di riconoscimento – quelle che hanno luogo nella famiglia moderna, nella società civile e nello Stato di diritto – giochino un ruolo più rilevante di altre nella realizzazione della libertà. Spiegare nella sua interezza quale sia la fondazione che Hegel conferisce a questa tesi è, tuttavia, un compito estremamente complesso, e svolgerlo nel dettaglio richiederebbe un ulteriore saggio, molto più esteso.


(traduzione di Eleonora Piromalli)

Bibliografia

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Hegel, Georg Wilhelm Friedrich (2004 {1821}), Lineamenti di filosofia del diritto, ed. it. a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari (citato con numerazione per paragrafi).

Honneth, Axel (2011): Das Recht der Freiheit: Grundriss einer demokratischen Sittlichkeit, Suhrkamp, Frankfurt a. M.

Neuhouser, Frederick (2000): Actualizing Freedom: Foundations of Hegel’s Social Theory, Harvard University Press, Cambridge (USA).

Neuhouser, Frederick (2008): Rousseau’s Theodicy of Self-Love: Evil, Rationality, and the Drive for Recognition, Oxford University Press, Oxford.

Rousseau, Jean-Jacques (1971a {1750}): Discorso sulle scienze e le arti, ed. it. in Scritti politici, vol. 1, a cura di M. Garin, Laterza, pp. 1-115.

Rousseau, Jean-Jacques (1975 {1754}): Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, ed. it a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma.

Rousseau, Jean-Jacques (2003 {1762}): Il contratto sociale, trad. it. Feltrinelli, Milano.

Rousseau, Jean-Jacques (1969 {1762}): Emilio o dell’educazione, trad. it. Armando, Roma.

Rousseau, Jean-Jacques (1971b {1763}), Lettere dalla montagna, ed. it. in Scritti politici, vol. 3, a cura di M. Garin, Laterza, Bari, pp. 3-114.

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