Sommario: editoriale – Michel Gribinski, In casa d’altri – Gianni De Renzis, La mente è estatica, di ciò non so nulla – Mario Bottone, Quel che ci insegna l’allucinazione verbale – Francesco Conrotto, Che cos’è la realtà? – Maria Luisa Algini, Il fuoco e la crisalide. Sui bambini e la ‘realtà’ della morte – Laurence Kahn, Lo sterminio e la liquidazione della tragedia. A proposito di Kertész e della lingua atonale – Recensioni
Direttore responsabile: Lucia Schiappoli
Redazione: Mariella Ciambelli, Barbara De Rosa, Felicia Di Francisca, Riccardo Galiani, Maria Lucia Mascagni.
Comitato scientifico: Maurizio Balsamo, Catherine Chabert, Francesco Conrotto, Manuela Fraire, Roland Gori, Michel Gribinski, René Kaës, Laurence Kahn, Massimo Recalcati, Antonio Alberto Semi.
editoriale
La ‘perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi’, e tutti gli stati al limitare, la ‘follia privata’, il ritiro nel godimento solipsistico o nel disimpegno infantile, marcano un campo nel quale gli individui si negano a una scena del mondo intollerabile o troppo dolorosa.
Ma di cosa si tratta in queste perdite di realtà, che scriviamo intenzionalmente al plurale?
È noto il carattere problematico del termine ‘realtà’, che Freud utilizza nella prima topica contrapponendo al dominio del principio di piacere-dispiacere l’accesso al principio di realtà, e possiamo ripercorrere ancora oggi agevolmente i semplici ma precisi interrogativi che Lacan formulava in proposito nel lontano 1959 nel suo seminario sull’etica: «si tratta della realtà quotidiana, della realtà immediata, della realtà sociale? Del conformismo a categorie prestabilite e ad usi comuni? Della realtà scoperta dalla scienza, o di quella che non lo è ancora? Della realtà psichica?».
E l’ulteriore complicazione che ne viene dalla seconda topica è già adombrata nel saggio di Freud del 1911 sui due principi dell’accadere psichico quando parla delle «esigenze della realtà». La realtà dunque non solo è, ma esige. Di nuovo, di che cosa si tratta nella sua prescrittività?
In più, un segno epocale del pensiero moderno è nel sentimento condiviso di una perdita culturale, di un ridisegnarsi delle geografie del potere, di un continuo irrompere di falle nella costruzione dell’edificio collettivo della civiltà, ossia dell’interpretazione collettiva del mondo: dalle guerre per riscriverne o per abolirne la storia, alla crisi dei miti e degli ideali collettivi che sorreggono la sua impalcatura simbolica, ai traumi delle violenze di Stato che cancellano intere regioni e popoli, all’affacciarsi sulla scena del mondo di un proliferare di ‘neorealtà’ che si presentano intrinsecamente ‘dimentiche della storia’.
Si tratta in effetti di un imponente dominio di quella ‘porzione del pensiero’ che si è distaccata, secondo Freud, dal suo ceppo principale quando quest’ultimo si è piegato alle esigenze della realtà: quella ‘fantasia’ nella quale si inscrivono tanto la più elevata delle sublimazioni e delle opere creative dell’uomo quanto la più efferata e barbara ‘neorealtà’, che celebra la potenza di ciò che sfugge al processo di incivilimento. Un proliferare che in questa seconda determinazione minaccia con la sua brutalità iperreale la sosta nella semplice ‘nostalgia del padre’ che ha dato fondamento per secoli, mediante le religioni monoteistiche, a quel sentimento di sicurezza che l’edificio collettivo della realtà offre come premio di felicità alla rinuncia pulsionale indispensabile alla crescita individuale e alla convivenza umana.
La perdita di realtà culturale di fronte alla quale ci troviamo è in effetti la perdita di un premio di felicità indispensabile al narcisismo? Alla vitalità stessa della psiche? La corsa al godimento immediato è il suo tampone? Il sintomo di una depressione generalizzata?
Dal canto suo cosa può dirne la psicoanalisi? Vorremmo ricordare ancora una riflessione ispiratrice del seminario della fine degli anni Cinquanta attraverso il quale Lacan articolava la questione di un’etica psicoanalitica: «…l’esperienza della psicoanalisi è altamente significativa di un certo momento dell’uomo, quello in cui viviamo, senza poter sempre, e anzi ben lungi, individuare cosa significhi l’opera, l’opera collettiva in cui siamo immersi».
L’opera collettiva in cui si esprime non solo consciamente il Kulturarbeit, il lavoro della civiltà.
L’intendimento della psicoanalisi, d’altronde, non è primariamente creare legami, ma dare forma all’incontro con l’altro e alla sua soggettivazione nella psiche individuale. La sua cifra è la costruzione di una possibilità di comunicazione che abbia potuto transitare l’angoscia di perdere e di perdersi prima di trovare il proprio linguaggio.