Fabiola Di Fazio
- Introduzione.
La gnoseologia bergsoniana mostra il valore, i limiti e la natura pragmatica dell’intelligenza, senza confinarla entro le sue forme. Bergson le apre prospettive diverse.
La teoria della conoscenza elaborata dal filosofo francese segue le orme delle filosofia kantiana, ma procede oltre Kant: l’intelligenza è fenomenica e intuitiva, non è limitata alle sue forme a priori e può cogliere la dinamicità del reale. Il metodo intuitivo concesso all’intelligenza, oltre all’analisi, rende il bergsonismo un empirismo radicale.
La teoria bergsoniana implica tre nodi concettuali fondamentali: in primo luogo, la teoria della percezione e della memoria, così come è stata presentata in Materia e memoria; in secondo luogo, un modello evoluzionista della filosofia della vita; in terzo luogo, la nozione di durata reale, ovvero il tessuto virtuale e temporale della realtà in contrapposizione all’ordine geometrico – matematico proprio della filosofia moderna.
Si può affermare che il lavoro dell’intelletto, nel processo della conoscenza, chiude il lavoro della memoria. Nel soggetto conoscente intervengono contemporaneamente le immagini percepite, le immagini apportate dalla memoria e i generi costruiti dall’intelletto. Percezione, rappresentazione e intellezione rientrano nel medesimo circuito.
La prospettiva evoluzionista caratterizzante la filosofia di Bergson si ripresenta anche in ambito gnoseologico; il filosofo, infatti, evidenzia legami e differenze tra le tre facoltà del pensiero – istinto, intelligenza e intuizione – in rapporto allo slancio vitale dal quale hanno origine. Si tratta di una prospettiva peculiare, non riducibile a nessuna delle teorie evolutive, sebbene da ciascuna tragga qualcosa. L’evoluzionismo bergsoniano fornisce i tratti essenziali del vivente e ci permette di cogliere le abitudini dell’intelligenza di fronte ai propri oggetti; dunque, oltre a presentarsi come un modello di filosofia della vita, esso mostra la natura dell’esperienza.
Da buon empirista, Bergson pone l’esperienza come origine della conoscenza; un’esperienza, però, che si presenta sotto una duplice natura: ordinaria, quando è dominata dalle necessità dell’azione, dalle abitudini del corpo; straordinaria, quando diviene intuitiva.
L’intelligenza non è rivolta esclusivamente al mondo fenomenico, ma può invertire la sua naturale direzione perché quest’ultima riguarda solo la sfera pratica. In origine l’intelligenza ha una natura pragmatica e non teoretica, essa ha sempre a che fare con “qualcosa” ma, al di fuori delle abitudini contratte per l’azione, può acquisirne una conoscenza diretta, interna, in un certo senso istintuale. L’intelligenza nell’uomo ha la possibilità di aprirsi ad un’esperienza integrale, un’esperienza slegata dalle necessità pratiche. Essa può rivolgersi verso l’ordine vitale, verso il tempo che è creazione. Le è concessa la possibilità di interrompere il meccanismo cinematografico che le è proprio per cogliere, con uno sforzo di intuizione, il divenire reale.
Il metodo dell’intuizione permette a Bergson di pensare una metafisica senza posizione di trascendenza, una percezione della realtà metafisica, della realtà in sé. L’intuizione coincide con l’esperienza integrale della durata.
La conoscenza intuitiva oltrepassa il metodo pragmatico ordinario dell’intelligenza, è slegata dalle necessità dell’azione, dal vantaggio pratico, e si volge verso una concezione dinamica della razionalità e dell’esperienza. L’intuizione consiste nella possibilità di un’esperienza pura e integrale. Per questo essa rappresenta il metodo che bisogna seguire per cogliere la complessità e la dinamicità del reale; inoltre, consiste nel metodo al quale la filosofia dovrebbe affidarsi per rinnovare se stessa. Invece, nella filosofia e nella scienza moderna è ancora viva l’eredità greca, cioè quell’incapacità di cogliere il movimento mentre si sta compiendo perché si tiene fisso lo sguardo sul movimento compiuto, perché si nutre una incondizionata fiducia nei riguardi dell’inclinazione naturale del pensiero.
Nella gnoseologia bergsoniana si distinguono due metodi conoscitivi differenti: l’analisi, la conoscenza intellettiva, e l’intuizione. Ma analisi e intuizione rappresentano anche le due facce del pensiero, le due facce della metafisica. Per cui, se la metafisica da Platone a Kant è imbevuta di fede in una scienza unica e integrale che abbracci la totalità del reale, se è piegata sugli atti di ripartizione e ricomposizione naturali per l’intelligenza di fronte al divenire, essa può finalmente, attraverso il metodo del bergsonismo, liberare se stessa dalle illusioni dell’intelligenza.
Anche il linguaggio metafisico necessita di essere riformato in base al metodo dell’intuizione; infatti, esso deve liberarsi delle idee per iniziare ad esprimere la fluidità della realtà intuita. Le “maglie troppo larghe” devono essere sostituire con prospettive mobili. Le relazioni reali devono soppiantare le rigide dicotomie. Il pensiero intuitivo, la vera metafisica – che include filosofia e scienza in un rapporto di scambio, come i due volti dell’assoluto: la prima rivolta verso lo spirito e la seconda verso la materia – riconosce la propria origine, cioè l’ordine vitale, e la propria provvisorietà, ovvero la mobilità che deve mantenere. Caratteristiche della metafisica devono diventare l’immanenza e la precisione. Il linguaggio metafisico deve riuscire ad esprimere il “nuovo”, deve penetrare l’assoluto e restituire la realtà come mutamento e creazione.
La filosofia deve estendere il più possibile quella capacità che di tanto in tanto la natura rivela nell’uomo attraverso l’arte: l’acutezza di una visione disinteressata ma consapevole della complessità del reale.
Bergson presenta due generi di conoscenza che corrispondono a due generi di metafisica, ovvero a due modi di guardare il tempo: da un lato, l’intelligenza ordinaria, l’analisi sulla quale si è strutturata la metafisica moderna e che ha origine nell’abituale modo di procedere del pensiero di fronte al divenire; dall’altro, l’intuizione, la metafisica bergsoniana stessa che consiste nell’esperienza integrale, nella conoscenza “interna” della realtà che è durata, successione reale, tempo e non spazio, vita e creazione e non morte e ripetizione.
Più che un pensatore “psicologico” e intuizionista, Bergson dimostra di essere un empirista radicale, un pensatore profondo della vita.
2. Tre generi di conoscenza.
Fin dal suo esordio, il pensiero di Bergson ha goduto di una popolarità che ha a lungo condizionato l’immagine del bergsonismo stesso. Dibattiti, polemiche, consensi e critiche che hanno accompagnato la pubblicazione delle opere e hanno promosso un sorprendente affollamento di pubblico ai suoi corsi al Collège de France, hanno al contempo contribuito alla formazione del “mito” di Bergson “antipositivista”, “irrazionalista”, “spiritualista”. Bergsonismo di “moda” rapidamente liquidato dal sorgere della fenomenologia esistenziale; fortunatamente, le trasformazioni del clima culturale hanno favorito, non solo il tramonto della fama dei primi decenni del Novecento, bensì anche la caduta in disuso delle “etichette” e delle semplificazioni eccessive.
È stata così resa possibile, a partire dagli anni Cinquanta ad oggi, una rilettura dell’opera del pensatore francese volta a restituirle la complessità che le è propria[1].
La prima immagine ad essere stata corretta è proprio quella di Bergson come “nemico della scienza”; l’atteggiamento del filosofo, infatti, non è volto a screditare o a mettere su di un piano gerarchico inferiore i saperi scientifici, quanto piuttosto a denunciare i rischi di una prospettiva metodologica ristretta, soprattutto nell’ambito della conoscenza. L’anti-intellettualismo sottolineato in passato, in realtà male si accorda con il valore dell’intelligenza e la «portata del pensare»[2] presenti nelle opere di Bergson.
L’intuizione non è un metodo alternativo alla conoscenza scientifica, non ha il compito di sostituire l’approccio scientifico, bensì è una prospettiva in aperto dialogo con quella scientifica. In particolare, in ambito gnoseologico l’intuizione non rappresenta una facoltà diversa rispetto a quella intellettiva, ma configura l’intelligenza stessa che trova in sé la forza per invertire la propria naturale direzione e «risvegliare le virtualità di intuizione che ancora dormono in lei»[3]. Insomma, l’intelligenza resta sempre preferibile.
Oggetto specifico di questo saggio non è la posizione bergsoniana riguardo al rapporto tra scienza e filosofia, né la natura dell’intuizione come metodo “in dialogo” con la prospettiva scientifica, ma tale prospettiva sottende la teoria della conoscenza presentata ne L’evoluzione creatrice.
In quest’opera Bergson distingue tre generi di conoscenza: istinto, intelligenza e intuizione. Essi rappresentano le vie attraverso le quali il movimento vitale si attualizza.
La vita, intesa in senso generale, è pura mobilità ma le forme in cui essa si manifesta constano di materia e arrestano, o rallentano, il movimento che la vita trasmette loro; considerata nella sua essenza, ossia come transizione da specie a specie, «la vita è un’azione sempre crescente» ma ogni specie «mira soltanto alla propria comodità, orientandosi verso ciò che richiede minore fatica»[4].
Ogni specie assorbe e organizza da sé il movimento ricevuto, il quale porta in primo luogo all’azione. Il movimento vitale acquisito da una specie si manifesta, dunque, nella tendenza ad utilizzare il più facilmente possibile l’ambiente circostante.
«Ogni specie, nell’atto in cui si costituisce, tende a ciò che le è più comodo»[5].
L’evoluzione del regno animale si è così compiuta lungo due vie divergenti, di cui l’una conduce all’istinto e l’altra all’intelligenza. Le direzioni in cui la vita si dirama – il torpore vegetativo, l’istinto e l’intelligenza – non possono essere interpretate come tre gradi successivi dello sviluppo della vita; esse rappresentano tre elementi che coincidevano nell’impulso iniziale, il quale crescendo si è necessariamente suddiviso.
Torpore, istinto e intelligenza sono tre direzioni nelle quali lo slancio vitale si manifesta, direzioni tra le quali sussiste una differenza di natura, non una differenza di intensità o di grado.
«L’errore fondamentale, che tramandandosi da Aristotele in poi ha viziato la maggior parte delle filosofie della natura, consiste nel vedere nella vita vegetativa, nella vita istintiva e nella vita razionale tre gradi successivi dello sviluppo di una sola e medesima tendenza, mentre si tratta di tre direzioni divergenti di un’attività che crescendo, si è divisa. La differenza tra queste direzioni non è di intensità, né più in generale di grado, ma di natura»[6].
L’impulso vitale, esplodendo come una granata, crea innumerevoli tendenze che prendono corpo; se nel torpore vegetativo esso si arresta, continua invece la sua corsa nel regno animale differenziandosi ancora. Per cui, come regno animale e regno vegetale rappresentano due tendenze di un antenato comune, motivo per il quale in natura troviamo svariate forme di mescolanza, così istinto e intelligenza si contrappongono e al contempo si completano. La commistione tra i regni risulta dal modo in cui l’evoluzione crea lungo linee divergenti apparati identici; allo stesso modo, l’intelligenza non succede all’istinto, queste due facoltà non si trovano in un rapporto gerarchico, né si incontrano mai allo stato puro. In quanto tendenze e non stati definitivi, ogni istinto concreto è mescolato all’intelligenza così come ogni intelligenza reale è compenetrata di istinto.
«Abbiamo detto che nella pianta possono risvegliarsi, in quanto vi permangono assopite, la coscienza e la mobilità dell’animale, e che l’animale vive nella costante minaccia di un’inversione verso la vita vegetativa. Le due tendenze, vegetale e animale, erano così bene compenetrate all’origine, che non c’è mai stata tra loro una rottura completa: l’una continua ad accompagnarsi all’altra; ovunque le troviamo mescolate; cambia solo la proporzione. Lo stesso vale per l’intelligenza e l’istinto. Non c’è intelligenza in cui non si scoprano tracce d’istinto, né, soprattutto, istinto che non sia contornato da una frangia di intelligenza»[7].
Se nello studio dei caratteri delle divergenti specie dobbiamo cogliere le differenze di proporzione, per desumere cosa siano l’intelligenza e l’istinto in generale dobbiamo procedere allo stesso modo; di conseguenza, dato che la vita in un organismo si manifesta come un determinato sforzo per ottenere qualcosa dalla materia, intelligenza e istinto dovranno differire in questo sforzo. Rappresentano, quindi, due differenti metodi per agire sulla materia grezza.
«Istinto e intelligenza rappresentano dunque due soluzioni, divergenti e ugualmente eleganti, di un solo e identico problema»[8].
L’intelligenza, nel suo momento originario, si presenta come la facoltà di fabbricare oggetti artificiali e, in particolare, utensili atti a produrre altri utensili[9]; l’istinto, invece, consiste nella facoltà di utilizzare un meccanismo innato, esso rappresenta il compimento dell’attività organica stessa, ovvero la capacità di servirsi degli “strumenti” che fanno parte del corpo stesso.
Allora, l’intelligenza tecnica dell’homo faber non è il grado di sviluppo maggiore della vita animale, che appartiene all’uomo in quanto animale più sviluppato, perché artefice di strumenti altamente specializzati; al contrario, intelligenza e istinto si trovano sempre in forma mista negli esseri viventi ma differiscono, in linea di principio, in quanto rappresentano due modalità per adattarsi attivamente, o meglio, per rispondere efficacemente all’ambiente.
Se avessimo la possibilità di vedere istinto e intelligenza nelle loro forme pure, sicuramente l’istinto apparirebbe come «la facoltà di utilizzare e anche di costruire strumenti organici»; l’intelligenza sarebbe «la facoltà di fabbricare e usare strumenti inorganici»[10].
Da ciò derivano tutte le loro caratteristiche.
L’istinto è necessariamente specializzato, non rappresentando altro che l’utilizzazione di un determinato strumento per un determinato fine; pertanto, risulta efficace soprattutto nell’appagamento dei bisogni immediati e chiude il vivente all’interno di un cerchio d’azione ben delimitato. Al contrario, essendo composti di materia inorganica, gli strumenti dell’intelligenza sono imperfetti e generici; grazie a queste caratteristiche essi risultano essere più vantaggiosi rispetto a quelli istintuali: possono assumere un’altra forma al presentarsi di nuove difficoltà. Gli strumenti inorganici conferiscono al vivente una quantità illimitata di potere d’azione. Se, rispetto a quelli organici, essi risultano meno efficienti nel soddisfare i bisogni immediati, sicuramente sono più efficaci nel soddisfare i bisogni non urgenti. Gli strumenti fabbricati dall’intelligenza permettendo al vivente di esercitare nuove funzioni, gli conferiscono una dimensione più ricca, gli aprono un campo d’azione illimitato.
Istinto e intelligenza presentano due diversi gradi di conoscenza: una conoscenza immediatamente “applicata” nell’istinto; una conoscenza propriamente “pensata” nell’intelligenza. Entrambi i gradi di conoscenza sono rivolti all’azione, ma si può affermare che l’intelligenza sia maggiormente orientata verso la coscienza mentre l’istinto tende all’incoscienza; bisogna però chiarire in cosa consistono coscienza e incoscienza. L’incoscienza può essere di due tipi: «quella che consiste in una coscienza nulla e quella che deriva da una coscienza annullata»[11].
Ad esempio, una coscienza nulla è l’incoscienza di una pietra che cade, perché la pietra non ha alcun sentimento della propria caduta; ma una tale incoscienza non può appartenere all’istinto, dunque l’incoscienza dell’istinto è una coscienza annullata.
La coscienza, in generale, misura lo scarto tra la rappresentazione, cioè la configurazione virtuale delle azioni possibili, e l’azione stessa; la coscienza è «la differenza aritmetica tra l’attività virtuale e l’attività reale» dell’essere vivente. Pertanto, nei casi in cui si profilano molte azioni possibili la coscienza sarà intensa, nei casi in cui l’azione reale è l’unica azione possibile la coscienza sarà annullata. E l’istinto è la facoltà per la quale l’essere vivente usa uno strumento fornitogli dalla natura, dunque modalità di applicazione e risultati sono determinati dalla natura stessa, «ben poco margine è lasciato alla scelta». Nell’istinto rappresentazione e azione coincidono, nella vita istintuale il sorgere della rappresentazione è immediatamente controbilanciato dall’esecuzione dell’atto. Allora il deficit, la distanza che separa l’azione possibile dall’atto reale, «è la condizione normale dell’intelligenza»[12].
Tra l’istinto, in quanto coscienza annullata, e l’intelligenza, come coscienza, sembrerebbe sussistere solo una differenza di intensità: la conoscenza nell’istinto è prevalentemente “usata”, mentre nell’intelligenza è propriamente “pensata”. Tuttavia, sono gli oggetti delle due forme di conoscenza, intellettiva e istintuale, ad illuminarne la differenza essenziale; istinto e intelligenza, quindi, differiscono in natura perché estremamente distinti sono gli oggetti verso i quali si rivolgono. L’istinto implica la conoscenza innata di cose, ossia della materia che è data alla facoltà percettiva immediatamente.
«Quando un imenottero paralizzatore sta per colpire la vittima nei punti precisi in cui si trovano i centri nervosi, in modo da immobilizzarla senza ucciderla, agisce come un esperto entomologo ma anche come un abile chirurgo. […] La conoscenza, se di conoscenza si tratta, è solo implicita. Si estrinseca in mosse precise anziché interiorizzarsi in coscienza»[13].
L’intelligenza, invece, implica in modo innato la conoscenza dei rapporti, vale a dire della forma intesa come l’insieme dei rapporti che si stabiliscono tra i dati materiali. All’intelligenza appartiene una conoscenza sistematica.
«Diciamo dunque che se nell’istinto e nell’intelligenza si considera quanto vi è contenuto in termini di conoscenza innata, si scopre che tale conoscenza innata riguarda nel primo caso le cose e nel secondo i rapporti. […] L’intelligenza, in ciò che ha di innato, è conoscenza di una forma, l’istinto implica la conoscenza di una materia»[14].
L’istinto coglie in modo immediato oggetti determinati nella loro materialità, «esso dice: “ecco ciò che è”». Esso ha una conoscenza intima e piena dell’oggetto sul quale agisce, ma non si tratta di una conoscenza in senso proprio perché non c’è scarto tra rappresentazione e azione; appunto, consiste in una conoscenza “agita” e non pensata. La conoscenza istintiva «si formulerebbe secondo quelle che i filosofi chiamano proposizioni categoriche». Invece, l’intelligenza consiste nella naturale facoltà di porre in relazione oggetti o parti di essi; ad essa appartiene una conoscenza esteriore, vuota, e nella sua formalità risiede il suo vantaggio: l’intelligenza dispone degli schemi nei quali oggetti diversi potranno trovare posto. La conoscenza intellettiva «si esprime sempre ipoteticamente»[15]. Se l’intelligenza rappresenta la facoltà di fabbricare strumenti artificiali per rispondere adeguatamente al mutare delle circostanze, la sua conoscenza non può che essere formale e incredibilmente vantaggiosa. La funzione essenziale dell’intelligenza consiste «nell’individuare, in qualsiasi circostanza, il mezzo per trarsi d’impaccio»[16].
Analizziamo più da vicino il meccanismo dell’intelligenza.
Se la finalità principale della conoscenza intellettiva consiste nello stabilire dei rapporti, quando si considera l’intelligenza solo nella sua forma pura, come conoscenza formale, ogni considerazione ci induce a ritenere gli schemi generali dell’intelligenza come un “assoluto”, come qualcosa di irriducibile e inesplicabile. Dato che l’intelligenza sembra non dipendere da niente, tutto allora potrebbe dipendere da lei; la conoscenza intellettiva sarebbe così relativa a se stessa.
«L’intelletto sarebbe caduto dal cielo con la sua forma, come ciascuno di noi nasce con il proprio volto»[17].
Secondo Bergson, invece, l’intelligenza è sicuramente relativa ma non alla sua forma, bensì è relativa alle necessità dell’azione.
«Posta l’azione, se ne deduce la forma stessa dell’intelligenza. Tale forma non è dunque né irriducibile né inesplicabile»[18].
Il carattere relativo della conoscenza non è determinato dalle condizioni a priori dell’esperienza, bensì dal riferimento ai bisogni: la relatività nasce da motivazioni pratiche.
La conoscenza non è un “prodotto” dell’intelligenza, ma è relativa alla realtà stessa; essa affonda nella materia le sue radici e si concentra su ciò che la materia grezza offre di solido ed inerte, proprio perché tende essenzialmente alla fabbricazione. Se l’intelligenza tende a fabbricare ne segue che si trova a suo agio solo tra i corpi. Da ciò derivano due tratti essenziali della conoscenza intellettiva: che il suo oggetto principale è la dimensione solida dell’inorganico; che si rappresenta chiaramente solo il discontinuo e l’immobilità.
«Se dunque l’intelligenza tende a fabbricare, è possibile prevedere che quanto di fluido c’è nel reale in parte le sfuggirà, e che quanto di propriamente vitale c’è nel vivente le sfuggirà del tutto»[19].
Come vedremo di seguito, l’intelligenza risponde alla sua naturale tendenza scomponendo e ricomponendo l’estensione reale grazie allo schema spaziale che traccia sotto di essa; e continua a seguire le abitudini contratte durante l’azione anche quando non agisce sulla materia grezza ma pensa se stessa. I concetti, infatti, assumono le stesse caratteristiche degli oggetti nello spazio: sono esterni gli uni agli altri; sono stabili, essendo creati in base al loro modello; infine, il loro insieme costituisce il “mondo intelligibile”.
La logica rappresenta per il mondo intelligibile ciò che la geometria è per il mondo sensibile, o mondo dell’estensione. Essa costituisce l’insieme delle regole che bisogna seguire per indagare questo mondo e applicarne i simboli.
L’intelligenza opera allo stesso modo sia sulla materia sia su stessa: tende sempre a trasformare ciò che incontra in strumento d’azione. Di conseguenza, l’aspetto della materia al quale accede è solo ciò che consente all’azione di effettuarsi.
Per poter modificare un oggetto, infatti, è necessario percepirlo come divisibile e discontinuo. L’intelligenza non può pensare la vera continuità, la reale mobilità, a meno che non inverte la propria naturale direzione. La continuità reale della vita implica in modo congiunto la molteplicità degli elementi e la loro compenetrazione reciproca: due proprietà che si escludono a vicenda sul piano dell’attività pratica, dove risiede normalmente l’intelligenza. Quest’ultima è abituata a rappresentare il movimento come un divenire di una serie di stati: cerca sempre di ricostruire il movimento a partire da elementi dati; per cui le sfugge quanto di nuovo si produce. Essa respinge l’imprevedibile e trova appagamento solo «quando determinati antecedenti portano a un determinato conseguente». L’intelligenza si trova a suo agio solo in «un passato che si ripete»[20].
La causalità che l’intelletto cerca e ritrova ovunque esprime esattamente il meccanismo del suo agire.
«Ci troviamo a nostro agio solo nel discontinuo, nell’immobile, nel morto. L’intelligenza è caratterizzata da un’incomprensione naturale della vita»[21].
L’intelligenza, così abile nel manipolare l’inerte, mostra tutta la sua inadeguatezza davanti al vivente; l’istinto, invece, si è forgiato sulla forma stessa della vita perché non fa che continuare il lavoro con cui la vita ha organizzato la materia. L’istinto è in simpatia con la vita.
Il fatto che una data specie possiede una “conoscenza istintiva” di un’altra specie, su un dato punto particolare, si radica nell’unità stessa della vita; la vita in generale, quando contrae se stessa in una specie particolare, perde contatto col resto di sé, salvo che per alcuni aspetti che la interessano direttamente. In natura molte specie di insetti mostrano una “conoscenza” circa la localizzazione dei centri nervosi delle loro vittime, ma tali istinti sono qualcosa di sentito e non di certo qualcosa di propriamente pensato. Le difficoltà che l’entomologo incontra quando cerca di spiegare tali fenomeni nascono dalla traduzione dell’istinto in termini propri solo all’intelligenza. Ad esempio,
«lo sphex dovrebbe, come l’entomologo, apprendere una a una le posizioni dei centri nervosi del bruco, o acquisire almeno la conoscenza pratica di tali posizioni sperimentando gli effetti della sua puntura»[22].
In realtà, lo sphex e il bruco non si trovano uno di fronte all’altro come due organismi, bensì come due attività: il primo non conosce la sua vittima dall’esterno; piuttosto, tra i due insetti si instaura immediatamente un interesse specifico e vitale. Bergson non vuole mettere in discussione la validità del procedimento scientifico, – è chiaro che la scienza opera come si conviene non anteponendo l’attività alla realtà organica, non sostituendo la percezione e la conoscenza con la simpatia – ciò che invece mette in luce è il meccanismo del pensiero che fonda il procedimento scientifico.
«Che consideri l’istinto un “riflesso composto”, o un’abitudine contratta intelligentemente e diventata poi automatismo, oppure una somma di piccoli vantaggi accidentali accumulatisi e fissatisi per via di selezione, in ogni caso la scienza cerca di scomporre completamente l’istinto, sia in movimenti intelligenti che in meccanismi costruiti pezzo per pezzo, come quelli allestiti dalla nostra intelligenza. D’accordo che la scienza proceda in questo caso come si conviene: in mancanza di un’analisi reale dell’oggetto ci darà una traduzione di questo oggetto in termini di intelligenza»[23].
L’istinto è in simpatia con la vita e l’uomo riesce a sperimentare qualcosa di simile «in certi fenomeni affettivi, in certe simpatie e antipatie irriflesse»[24], sebbene in forma vaga e già troppo intrisa di intelligenza.
Il movimento della vita ha condotto la facoltà d’azione verso due direzioni capaci di svilupparla fino in fondo. Per questo, in quanto capacità di agire sulla materia inerte, l’intelligenza conosce tutte le cose dall’esterno, essa è abituata a mettere in relazione un oggetto con un altro, un punto dello spazio con un altro; invece, l’istinto è rivolto solo verso ciò che lo interessa, ma lo coglie dall’interno grazie ad un’intuizione vissuta. Il carattere puramente formale dell’intelligenza la priva della “zavorra” di cui avrebbe bisogno per riuscire a cogliere la realtà dall’interno, le toglie momentaneamente la possibilità di speculare senza fuoriuscire dall’ordine reale. L’istinto, invece, non esce mai dall’ordine del vivente, ma non è in grado di spingersi molto lontano: non specula. Qui risiede la differenza più grande tra istinto e intelligenza:
«ci sono cose che solo l’intelligenza è in grado di cercare, ma che da sé non troverà mai. Solo l’istinto potrebbe trovarle; ma l’istinto non le cercherà mai»[25].
Un essere intelligente, però, ha in sé tutto ciò che gli serve per superare se stesso attraverso uno sforzo dell’intelligenza stessa; infatti, l’intuizione è «l’istinto divenuto disinteressato, cosciente di sé, capace di riflettere sul proprio oggetto e di estenderlo all’infinito»[26].
Mentre l’istinto simpatizza solo con alcune attività della vita, l’intuizione può rivolgersi sull’intera produzione vitale. Non bisogna, però, confonderla con un istinto generalizzato, perché non è possibile derivare l’intuizione dall’istinto: è l’intelligenza ad imprimerle l’impulso. Senza l’intelligenza l’intuizione conserverebbe la sua forma di istinto.
Nell’uomo questo sforzo è attestato dall’esistenza della facoltà estetica accanto alla percezione ordinaria. L’intuizione conduce l’intelligenza a riconoscere che la vita non rientra in nessuna delle sue categorie, che non appartiene al molteplice né all’uno e che non è retta da un principio di causalità o di finalità. L’intuizione, in generale, e l’intuizione estetica, in particolare, presentano due caratteri fondamentali: il superamento della percezione ordinaria, ovvero l’allargamento della facoltà di percepire verso una comunicazione simpatetica col vivente; la dilatazione della coscienza, per farla focalizzare sul “farsi” e sulla formazione piuttosto che sulla forma, e per farle cogliere la compenetrazione reciproca e la creazione continua quali caratteristiche proprie della vita.
Per questo l’uomo sembra essere il fine della vita stessa: grazie all’intuizione la vita torna ad avere se stessa come oggetto.
3. Intelletto e materia.
Intelligenza e istinto rappresentano, in termini evolutivi, due differenti sforzi per agire sulla materia. La prima, rispetto al secondo, consiste in uno sforzo cosciente e la coscienza misura il deficit di partenza, vale a dire lo scarto tra l’azione possibile e quella reale. La coscienza pondera il «campo di indeterminazione» che circonda l’intelligenza e configura la possibilità di creare strumenti sempre nuovi. La conoscenza intellettiva è relativa al campo d’azione che si apre davanti all’intelligenza stessa; tuttavia, quest’ultima nell’uomo trova la forza per invertire la sua abituale direzione, per riuscire ad aprirsi sulla vita in generale, e dunque puntare alla conoscenza della durata reale.
L’intelligenza umana è aperta verso due ordini: il geometrico, dal quale ricava la visione della materia distinta in corpi; il vitale, nel quale intuisce la continuità del reale.
La teoria della conoscenza bergsoniana è volta a chiarire come l’intelligenza si adatti al suo oggetto su entrambi i fronti: un “adattamento naturale”, per quanto riguarda il primo ordine, perché sussiste un rapporto di reciprocità tra intelletto e materia; un adattamento che richiede uno sforzo, quando l’intelligenza si rivolge verso il secondo ordine.
Considerare l’intelligenza diretta verso due ordini differenti – il geometrico e il vitale – significa considerare la conoscenza intellettiva non limitata alle sue forme a priori, non costretta nel suo naturale modo di procedere. All’intelligenza è concessa la possibilità di superare se stessa e questo movimento non implica alcun salto nella trascendenza, bensì solo un cambio di direzione sempre all’interno dell’esperienza. La gnoseologia bergsoniana resta in ogni caso una teoria empirica.
Prima di esaminare le modalità con le quali l’intelligenza arriva a cogliere l’ordine vitale, è necessario capire perché tra intelletto e materia si instaura un rapporto di reciprocità nell’ordine geometrico. Innanzitutto, bisogna indagare la natura del rapporto che l’intelligenza instaura col proprio oggetto, dunque il modo proprio della conoscenza intellettiva.
Locke pose le idee come oggetto del pensiero e contro l’innatismo sostenne che esse derivano esclusivamente dall’esperienza. «Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da essa in ultimo deriva»[27], recita l’adagio empirista.
L’esperienza consiste nell’osservazione adoperata sugli oggetti esterni e sulle operazioni interne del nostro spirito; sensazione e riflessione rappresentano le uniche due fonti della conoscenza, messe in luce dal filosofo britannico.
«Non mi pare che l’intelletto abbia il minimo barlume di una idea che non le provenga dall’una o dall’altra di queste due fonti»[28].
L’intelletto dovrebbe essere immaginato come un foglio bianco sul quale queste due fonti inscrivono le loro idee: stando alla prima, i sensi trasmettono allo spirito le percezioni distinte di oggetti sensibili particolari, secondo i vari modi in cui quegli oggetti agiscono sui sensi; la seconda, invece, consiste nella percezione delle operazioni del nostro spirito, ossia nella consapevolezza delle azioni compiute, nel senso interno.
«Io dico che queste due cose, cioè le cose esterne materiali quali oggetti della sensazione, e le operazioni del nostro spirito dentro di noi quali oggetti della riflessione, sono le sole origini dalle quali tutte le nostre idee hanno inizio»[29].
Bergson sposa l’adagio empirista: nell’indagare l’oggetto del pensiero procede a partire dall’esperienza; tuttavia, non ritiene che l’intelligenza si apra all’esperienza come una tabula rasa sulla quale le idee si imprimono. La conoscenza, secondo il filosofo parigino, nasce in funzione dell’interesse pratico del corpo: la conoscenza inizia con un “sentimento di generalità”.
In Materia e memoria, il ruolo del corpo nella conoscenza ordinaria è presentato per dissolvere i dualismi che hanno reso difficile affrontare il «problema delle idee generali». La problematica è volta a risolvere il circolo vizioso entro il quale gravitano «nominalisti» e «concettualisti». Come nascono le nozioni di somiglianza e generalità in virtù delle quali conosciamo la molteplicità degli enti individuali?
I nominalisti, prendendo in considerazione solo l’estensione dell’idea, la riducono in una serie aperta e indefinita di oggetti individuali; dunque, l’unità dell’idea viene espressa dalla forza del simbolo. I concettualisti, invece, guardando alla comprensione dell’idea, considerano racchiusa in potenza una molteplicità di generi nei singoli oggetti rappresentativi di ciascuna qualità. Entrambi cadono in un ragionamento in circolo poiché «per generalizzare bisogna prima astrarre, ma per astrarre utilmente bisogna già saper generalizzare»[30].
Perché le qualità individuali, isolate da uno sforzo d’astrazione, non restano individuali ma si ergono a generi? Erigerle a generi non è un nuovo atto dello spirito che impone ad ogni qualità un nome e poi colleziona sotto questo nome una molteplicità di oggetti individuali? La “bianchezza” del giglio non è la “bianchezza” della distesa di neve, allora cos’è il bianco?
Il circolo si spezza svelando l’errore nel postulato di partenza comune ad entrambe le posizioni: tanto la teoria nominalista, quanto quella concettualista suppongono che la conoscenza inizi dalla percezione di oggetti individuali.
«La prima compone il genere con una enumerazione; la seconda lo ricava da un’analisi; ma è su degli individui, considerati come altrettante realtà date all’intuizione immediata, che esse conducono l’analisi e l’enumerazione. Ecco il postulato»[31].
In realtà, sostiene Bergson, non iniziamo né con la percezione dell’individuo, né con la concezione del genere, ma «con una conoscenza intermedia, con un confuso sentimento di qualità importante o di somiglianza»[32].
Questo confuso sentimento di somiglianza ci riporta immediatamente alla natura pragmatica della percezione; infatti, ciò che cogliamo immediatamente in una situazione è “ciò che ci interessa”, è l’aspetto per cui essa risponde ad una tendenza del corpo, ad un bisogno: «il bisogno va dritto alla somiglianza o alla qualità, e non sa che farsene delle differenze individuali»[33].
La conoscenza immediata consiste, dunque, in un discernimento dell’utile, al quale la percezione dell’animale si arresta mentre la memoria nell’uomo perfeziona innestandovi delle distinzioni. L’erbivoro è attirato dall’erba in generale, dal suo colore e dal suo odore sentiti come delle forze e non di certo pensati come dei generi; ed è su questo fondo di generalità, di somiglianza, ottenuto nella percezione immediata che la memoria farà valere le differenze.
Ogni organismo vivente, centro di indeterminazione, coglie dell’ambiente circostante ciò che lo attira, ciò che risponde ad un interesse pratico, e non ha alcun bisogno di effettuare uno sforzo d’astrazione perché il resto dell’ambiente gli resta indifferente. Questa somiglianza vissuta, sentita, agita automaticamente, non è di certo la stessa somiglianza prodotta dall’intelletto, la quale rappresenta invece la concezione dei generi.
Lo spirito, dunque, si scinde in un duplice sforzo: della memoria e dell’intelletto. In virtù della prima percepisce gli individui, in virtù del secondo costruisce la concezione dei generi.
L’intelletto è in grado di cogliere «dall’abitualità delle somiglianze l’idea chiara di generalità»; l’intelligenza, imitando il lavoro della natura, ha costruito anch’essa «degli apparati motori, questa volta artificiali», affinché rispondano «ad una moltitudine illimitata di oggetti individuali: l’insieme di questi meccanismi è la parola articolata»[34].
Se la memoria lancia verso il presente delle immagini (i ricordi utili), l’intelletto rilancia con le proprie idee (i generi); ed entrambe concorrono ad illuminare l’azione presente. Sia che si tratti di un’azione in senso proprio, o di una decisione in cui interviene il nostro carattere, oppure di un lavoro intellettuale, ovvero di una concezione da formare, la realtà presente rappresenta in ogni caso l’ago della bussola. Anche se l’attività dello spirito e della memoria oltrepassano le sensazioni e i movimenti nascenti nel presente, è la realtà del corpo a configurare lo spirito incarnato; «come una piramide che si tenesse in piedi sulla sua punta»[35].
Nella raffigurazione della vita mentale come un cono rovesciato, la vita dell’«Io normale» oscilla costantemente tra le due posizioni estreme: tra il vertice del cono, che rappresenta il punto d’equilibrio strutturato su meccanismi senso-motori; e la base del cono, che consiste nella totalità dei ricordi, ossia nella vita inconscia. L’io normale si posiziona, di volta in volta, in una sezione del cono: fornisce alle sue rappresentazioni quanto basta dell’immagine (ricordo) e dell’idea (genere), affinché possano concorrere utilmente all’azione presente[36]. Lo spirito ben equilibrato, dunque, riesce a compiere il movimento del pensiero nella sua interezza, giungendo a concepire sia il particolare sia l’universale.
L’esistenza meramente giocata, raffigurata nel vertice del cono della memoria, rappresenta la maggiore semplificazione possibile della vita mentale e conoscitiva: ogni percezione si prolunga automaticamente in reazioni appropriate, perché le analoghe percezioni antecedenti hanno costruito degli apparati motori più o meno articolati, i quali entrano in funzione alla ripetizione dello stesso richiamo. In questo meccanismo di riconoscimento meccanico opera un’associazione per somiglianza e per contiguità; in virtù dell’associazione per somiglianza la percezione presente agisce come le percezioni passate, in virtù dell’associazione per contiguità i movimenti consecutivi a queste vecchie percezioni si riproducono. Per questo lo spirito impulsivo, o “uomo d’azione”, vive come un automa cosciente. Egli è sempre spinto dall’abitudine ed è incapace di pensare l’universale, vive esclusivamente a partire dalla memoria motoria che imprime il segno della generalità ad ogni sua azione e ad ogni sua conoscenza. È incapace di cogliere le differenze.
L’altro estremo, ovvero la base del cono della memoria, rappresenta la vita esclusivamente sognata nella quale, non vigendo la legge dell’azione, tutto si delinea nei minimi dettagli; il sognatore, non essendo volto all’azione, non ha bisogno di cogliere le somiglianze, può non uscire mai dal particolare. La vita di sogno corrisponde alla mente contemplativa che nella sua visione apprende solo il singolare.
Nella normale vita conoscitiva questi due stati estremi si compenetrano ed alla confluenza delle due correnti sorge l’idea di genere.
«Di fatto noi percepiamo le somiglianze prima degli individui che si assomigliano, e, in un aggregato di parti contigue, il tutto prima delle parti. Noi andiamo dalla somiglianza agli oggetti somiglianti, ricamando sulla somiglianza, questo canovaccio comune, la varietà delle differenze individuali. E andiamo così dal tutto alle parti, attraverso un lavoro di scomposizione, di cui più avanti vedremo la legge, e che consiste nello spezzettare, per la maggior comodità della vita pratica, la continuità del reale»[37].
Memoria e intelletto lavorano nello stesso modo.
Innanzitutto, nel riconoscimento meccanico il lavoro della memoria è ridotto al minimo perché basta il corpo; infatti, vi intervengono solo i meccanismi senso-motori automatici creati dall’abitudine. Anche per quanto riguarda l’origine della conoscenza trova riscontro lo stesso principio: conosciamo a partire da un confuso sentimento di generalità, il quale nasce dall’esperienza del corpo.
In secondo luogo, nel riconoscimento attento la memoria spinge verso l’impressione ricevuta delle immagini-ricordo attivamente create, le quali nascono da uno sforzo di sintesi della memoria stessa; allo stesso modo, l’idea di genere è attivamente creata dall’intelletto. Infatti, essa corrisponde ad un’oscillazione tra una mera conoscenza delle somiglianze (le immagini del corpo) e la specificità di un’idea particolare (come il ricordo puro nella memoria in senso proprio)[38].
Inizia ad essere delineata la genesi comune dell’intelligenza e dei corpi. Perché l’intelligenza e il suo oggetto si adattano naturalmente nell’ordine geometrico?
In primo luogo perché l’origine della conoscenza è un discernimento dell’utile, dunque è legata al corpo ed alla sua azione sulla materia; in secondo luogo, perché l’oggetto sul quale l’intelligenza si sofferma consiste nella dimensione solida dell’inorganico, ovvero l’unica che risponde alle necessità dell’homo faber. Se, da un lato, le linee principali dell’intelligenza riproducono la forma generale della nostra azione sulla materia, dall’altro, non si può non notare che la materia stessa si regola sulle esigenze della nostra azione. Tutto ciò sembra proprio mostrare che “intellettualità” e “materialità” si siano costituite attraverso un adattamento reciproco, che condividano la stessa origine. «Come non accorgersi – domanda Bergson – che, nel momento in cui si pongono gli oggetti e i fatti, si presuppone l’intelligenza?»[39]
Le nostre percezioni tracciano il profilo della nostra azione possibile sulle cose, i contorni che riscontriamo negli oggetti indicano ciò che possiamo coglierne o modificarne, le linee tracciate attraverso la materia sono le stesse sulle quali siamo costretti a camminare. Contorni e tracciati che si profilano nella materia rispecchiano l’azione virtuale della coscienza sulla stessa, vale a dire il progressivo costituirsi dell’intelligenza.
«Più la coscienza si intellettualizza, più la materia si spazializza»[40].
L’intelligenza umana, secondo la rappresentazione di Bergson, è lontanissima da quella indicata da Platone nel mito della caverna; l’intelligenza non ha né la funzione di guardare le ombre che passano, né di contemplare, una volta liberatasi, l’astro abbagliante, bensì essa ha la funzione di agire sulla realtà ed esserne consapevole[41]. Per questo il suo ruolo essenziale è quello «di collegare l’identico all’identico»[42], perché solo i fatti che si ripetono si adattano totalmente allo schema dell’intelligenza.
L’intelligenza lavora essenzialmente nello spazio, perché solo la “spazialità” consente la rappresentazione del discontinuo, dell’esteriorità delle parti e della completa indipendenza dei punti materiali; di contro, è incontestabile che la materia si presti a questa suddivisione. L’origine comune tra “intellettualità” e “materialità” va ricercata, dunque, nella realtà dello spazio. La percezione porta alla luce i corpi, le loro qualità e con essi lo spazio: noi supponiamo che la materia si estende nello spazio.
Qual è allora la natura dello spazio? L’estensione è forse una “qualità” delle cose, una sorta di “qualità delle qualità”? Oppure le qualità sono per essenza inestese e l’estensione è qualcosa che vi si aggiunge? Lo spazio ha un carattere “relativo” oppure è un “assoluto”?
Il merito di Kant, secondo Bergson, va rintracciato nell’aver attribuito allo spazio «un’esistenza indipendente dal suo contenuto», nell’aver dichiarato «isolabile di diritto ciò che ognuno di noi separa di fatto»[43].
Lo spazio non è un concetto empirico, «è una necessaria rappresentazione a priori, che sta alla base di tutte le intuizioni esterne»; lo spazio è la forma a priori del senso esterno, è la forma che organizza il contenuto delle intuizioni empiriche riferendole a «qualcosa fuori di me», a qualcosa posto in un luogo diverso dal mio, ed è la forma che permette il disporsi delle sensazioni «l’una accanto all’altra»[44].
Nello spazio «il realismo kantiano vi vede un ambiente ideale in cui la molteplicità delle sensazioni si coordina»[45]. Affinché, dunque, dalla coesistenza delle sensazioni scaturisca l’estensione, è necessario un atto sui generis dello spirito che le abbracci tutte contemporaneamente e le giustapponga; atto che ha tutto in comune con la forma a priori della sensibilità kantiana e che rappresenta, per Bergson, l’intuizione di un «mezzo vuoto omogeneo»[46].
Lo spazio è un principio di differenziazione che permette di distinguere l’una dall’altra più sensazioni identiche e simultanee; l’uomo gode della facoltà di concepire «una realtà senza qualità»[47], una realtà omogenea, di ordine differente rispetto alla realtà eterogenea delle qualità sensibili. Questo è quanto Kant «ha messo bene in luce»[48] ma «la spiegazione del fatto», sostiene Bergson, andrebbe ricercata «in una direzione del tutto diversa da quella di Kant»[49].
Bergson è in relativo accordo col filosofo di Königsberg: lo spazio è una forma della sensibilità, ma non è antecedente alle cose materiali bensì tracciato al di sotto di esse dall’intelligenza stessa; la natura dello spazio sta al fondo della reciprocità tra l’intelletto e la materia.
La nostra facoltà di pensare ritrova nella materia tutte quelle “proprietà” in precedenza depositatevi dalla nostra facoltà di percepire; la materia, dunque, si piega docilmente ai nostri ragionamenti perché della realtà cogliamo solo la rifrazione attraverso le forme della nostra facoltà di percepire. Arbitrariamente supponiamo che la realtà sia divisibile, perché poniamo al di sotto di essa un mezzo vuoto omogeneo che facilita le nostre scomposizioni; tuttavia, ogni divisione della materia in corpi e qualità indipendenti è artificiale, in quanto deriva dalle necessità della vita.
Ma l’errore fondamentale commesso dal filosofo tedesco è stato quello di considerare il tempo un mezzo omogeneo, allo stesso modo dello spazio; fu indotto, quindi, a credere che gli stati interni si riproducano nella coscienza proprio come i fenomeni fisici si producono nello spazio[50].
Il tempo, secondo Kant, è l’altra forma a priori della sensibilità, «è una rappresentazione necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizioni»; il tempo è la forma pura dell’intuizione sensibile, la condizione necessaria affinché sorga la rappresentazione della simultaneità e della successione. Il tempo è la forma del senso interno, «cioè l’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno»[51].
La durata reale, invece, si compone di momenti interni gli uni agli altri, gli stati della coscienza si compenetrano e il tempo kantiano è solo «l’intrusione dell’idea di spazio nel campo della coscienza»[52]. Nella coscienza non c’è giustapposizione e il rapporto di causalità interna non è lo stesso riscontrabile all’esterno.
Confondere il tempo con lo spazio ha come primo effetto quello di rendere incomprensibile la libertà; tuttavia, Kant «credeva fermamente nella libertà»[53] e la elevò al livello dei noumeni:
«così come aveva confuso la durata con lo spazio, trasformò questo io reale e libero, che di fatto è estraneo allo spazio, in un io ugualmente esteriore alla durata, e, di conseguenza, inaccessibile per la nostra facoltà di conoscere»[54].
Non attribuendo alla durata un’esistenza assoluta, avendo posto a priori il tempo sullo stesso piano dello spazio, Kant crea il problema della “cosa in sé” inconoscibile. Il filosofo criticista pone una soggettività trascendentale come principio formativo ed organizzativo della realtà, come condizione di possibilità del reale stesso. L’intelletto kantiano è la facoltà attraverso la quale pensiamo i dati sensibili tramite i “concetti puri”, cioè le categorie[55]; il soggetto conoscente è fondamentalmente attivo e il mondo oggettivo dipende dalle sue funzioni sintetiche, poiché solo attraverso le categorie, che l’intelletto contiene in sé a priori, è possibile la conoscenza[56]. L’attività sintetica culmina con l’“Io penso”, l’appercezione pura, la rappresentazione che accompagna tutte le altre ed è identica in ogni coscienza[57].
Il mondo conosciuto è un mondo fenomenico costituito da eventi la cui realtà coincide con il loro apparire al soggetto conoscente; tuttavia, secondo Bergson, la barriera invalicabile innalzata tra il mondo fenomenico, completamente consegnato al nostro intelletto, e quello noumenico è in realtà «più valicabile di quanto pensiamo»[58].
Kant pone una frattura netta tra l’ordine dell’intelligenza e l’ordine della materia, egli limita lo sguardo dell’intelligenza a se stessa e misconosce la natura pragmatica della prima apertura sul mondo da parte dell’intelligenza; l’intelletto kantiano raccoglie passivamente i dati della percezione e li organizza nelle sue categorie. Per Bergson, invece, l’intelligenza si pone in rapporto attivo-pratico con la materia e agisce su di essa fin dal suo sorgere: sia in termini evolutivi, come facoltà nata nel processo di attualizzazione dello slancio vitale; sia a partire dalla percezione, o meglio, dall’esperienza, intesa come punto d’origine della conoscenza.
L’intelligenza bergsoniana è una funzione dello spirito essenzialmente rivolta all’azione sulla materia inerte, per cui né la materia determina la forma dell’intelligenza né l’intelligenza impone la sua forma alla materia né, tantomeno, sono regolate in virtù di una qualche armonia prestabilita; intelligenza e materia «si sono progressivamente adattate l’una all’altra per fermarsi infine a una forma comune»[59].
La conoscenza della materia, proprio come avviene nella percezione pura, è senz’altro approssimativa, ma non di certo relativa in senso kantiano; tra percezione, o conoscenza, della materia e la materia stessa sussiste solo una differenza di grado: il rapporto che si instaura è quello tra le parti e il tutto.
Il mondo fenomenico kantiano è il mondo della natura ordinato e strutturato secondo l’obiettività delle scienze matematiche, secondo i parametri di spazio, tempo, causalità e azione reciproca, cioè le principali categorie della matematica e della fisica moderne, ed è l’unico accessibile alla mente umana. Secondo Bergson, invece, l’intelligenza può dirigersi anche verso un altro ordine, quello vitale, ed il carattere relativo della conoscenza dipende solo dall’ordine scelto; per questo c’è un rapporto di reciprocità tra l’intelligenza e il suo oggetto.
Nell’ordine geometrico, tutte le operazioni dell’intelligenza presuppongono una rappresentazione geometrica, immanente alla rappresentazione dello spazio; lo stesso ordine lo si ritrova immanente alla materia perché la materialità presenta tutto ciò che occorre per rientrare negli schemi dell’intelligenza. La reciprocità deriva direttamente dal principio di utilità, dalla natura pratica dell’intelligenza stessa. Il successo delle leggi fisiche sarebbe inspiegabile se il movimento costitutivo della materia, sul quale si applicano, non fosse lo stesso implicito nell’intelligenza stessa. In altri termini, la relatività della conoscenza non è un assoluto bensì dipende dall’ordine nel quale opera abitualmente l’intelligenza: la conoscenza intellettiva è relativa perché opera in virtù dell’azione. È necessario che la materia sulla quale opera l’intelligenza si adatti in modo naturale alle sue operazioni, perché ha origine dallo stesso principio: l’ordine geometrico del mondo non è un ordine necessario ma artificiale.
L’intelligenza misura, conta, sovrappone, «mette in relazioni tra loro variazioni “quantitative” per ottenere delle leggi, e ci riesce»; ma la natura è durata, «non pensa a questa sovrapposizione, non misura, e nemmeno conta», per cui il successo della scienza sarebbe miracoloso se “intellettualità” e “materialità” non si producessero alla stessa maniera.
«Sarà dunque possibile capire come la nostra scienza, per quanto contingente, relativa alle variabili che ha scelto, relativa all’ordine in cui ha posto successivamente i problemi, sia nondimeno valida. Avrebbe potuto essere, nel suo complesso, del tutto differente e restare valida lo stesso. E questo appunto perché alla base della natura non c’è alcun sistema definito di leggi matematiche, e perché la matematica in generale rappresenta semplicemente la direzione nella quale ricade la materia»[60].
Nel tentativo di comprendere la natura del rapporto tra intelletto e materia, tutte le difficoltà che sorgono dipendono da “false idee” sedimentatesi nella ragione. Si tratta di idee nate da un’indebita trasposizione in ambito speculativo di un procedimento nato per la pratica.
La conoscenza intellettiva malvolentieri accetta la natura artificiosa della materia che ha per oggetto, proprio perché viziata da una di queste idee: quella di disordine.
L’intelligenza è abituata a pensare nel seguente modo: “potrebbe esserci disordine, assenza di ordine; quindi, l’ordine geometrico – matematico, essendo una conquista sul disordine, necessariamente possiede una realtà positiva”.
Bergson evidenzia il vizio di forma al fondo di questo ragionamento: l’intelligenza esprime “ciò che trova” in funzione di “ciò che cerca”. Ad esempio, cercando un libro di poesia, prendo un volume dalla libreria e dopo un’occhiata lo ripongo affermando: “non sono versi”. «È proprio questo che ho visto sfogliando il libro? Evidentemente no. Non ho visto, né mai vedrò un’assenza di versi. Ho visto la prosa»[61].
Ho tradotto i dati della mia percezione in un linguaggio che esprime la mia aspettativa. Supponendo che esistano due specie di ordine differenti, come la prosa e la poesia, l’idea di disordine sorgerà tutte le volte che cercando una delle due specie incontrerò l’altra.
«L’idea di disordine avrebbe allora un significato preciso nella pratica corrente della vita»[62].
Il disordine rappresenta l’oscillazione dello spirito tra due ordini, consiste nell’assenza di un certo ordine ma «a vantaggio di un altro», il quale non ricopre alcuna utilità per lo spirito che vi distoglie lo sguardo. Di contro, la realtà appare ordinata nell’esatta misura in cui soddisfa le pretese dello spirito.
«L’ordine è dunque un certo accordo tra il soggetto e l’oggetto. È lo spirito che si ritrova nelle cose»[63].
Il problema essenziale della teoria della conoscenza, il problema di come sia possibile una scienza efficace, affonda le sue radici in una sola questione: “perché nelle cose c’è ordine e non disordine?”
La questione sorge perché l’intelligenza si fissa sull’idea che l’ordine sia un conquista sull’assenza di ordine, dunque, deve avere una realtà positiva; in verità, ogni ordine è contingente, perché si presenta sempre in rapporto all’ordine inverso. Nell’idea di disordine è «la nostra volontà a oggettivarsi»[64], il disordine rappresenta la delusione di un’aspettativa. Quando si cerca di rappresentare il disordine come un assoluto, come il caso che fa da sostrato all’ordine, in realtà si è in presenza di due ordini differenti ma la mente, «incapace di fissarsi definitivamente sull’uno o sull’altro», fa la spola tra entrambi, «passando a questo non appena ci si sorprende in quello»[65]. “Assenza di ordine” è una giustapposizione di parole, «e niente di più»[66].
Come si è detto, l’intelligenza è aperta su due ordini differenti, può seguire due direzioni opposte che la conducono o verso l’estensione, verso il «meccanicismo geometrico», oppure verso la tensione, nella «attività libera». In entrambi i casi c’è ordine perché lo spirito si ritrova nel suo oggetto. Il primo genere di ordine è quello dell’inerte, dell’automatico, della legge causale; il secondo è l’ordine del vitale, del voluto. Ad esempio,
«si dirà che i fenomeni astronomici manifestano un ordine mirabile, intendendo con ciò il fatto che possono essere previsti matematicamente; e un ordine non meno mirabile si potrà trovare in una sinfonia di Beethoven, che è la genialità, l’originalità e di conseguenza l’imprevedibilità stessa»[67].
Solo eccezionalmente i due ordini si presentano in forme nettamente distinte, perché raramente cogliamo la spontaneità e l’imprevedibilità della vita; quotidianamente, invece, incontriamo “questo o quel” determinato essere vivente, “queste o quelle” particolari manifestazioni della vita, «che ripetono pressappoco forme e fatti già noti»[68].
Il generico sembra allora prendere il posto del vivente, e abbiamo tutto l’interesse a sostituire gli ordini perché la generalizzazione è essenziale dal punto di vista dell’azione; infatti, la vita quotidiana è rivolta alla pratica, non certo alla speculazione, e la conoscenza stessa nasce da un sentimento di generalità che risponde ad una esigenza immediata. La confusione tra i due ordini dipende dal fatto che l’ordine vitale, essendo essenzialmente mobilità e creazione, non manifesta immediatamente la sua essenza ma si mostra nei «suoi accidenti»[69]; gli esseri viventi sono i depositari dello slancio vitale ma, essendo composti di materia, presentano delle “ripetizioni”, degli elementi identici, i quali permettono le nostre generalizzazioni e vanno a costituire l’ordine fisico-geometrico immanente alla materia[70].
Ammettendo che il “disordine” è solo la presenza dell’ordine inverso a quello cercato, non sarà possibile porre un rapporto gerarchico al cui vertice c’è l’ordine vitale, poi il geometrico e infine l’incoerenza, o assenza di ordine, ma ci saranno solo il geometrico e il vitale. Per cui, l’incoerenza altro non sarà che l’oscillazione dello spirito tra l’uno e l’altro ordine.
Lo spirito può, dunque, passare dall’estensione alla tensione, dalla necessità meccanica alla vita libera, in un certo senso dal fenomenico al noumenico, attraverso un’inversione di rotta.
«Affinché la nostra coscienza coincida almeno in parte con il suo principio, essa dovrebbe distaccarsi dal già fatto e dirigersi a ciò che si fa»[71].
Ma l’intelligenza è una funzione essenzialmente pratica, è fatta per rappresentare “cose” e relazioni tra cose piuttosto che cambiamenti e atti; essa fissa le proprie prospettive sul divenire e non si accorge che il mondo rigorosamente determinato in cui vive è «azione che si disfa»[72], è solo lo slancio vitale incarnato che rallenta il suo ritmo. L’intelligenza chiude gli occhi di fronte allo slancio perché non è strutturata per cogliere la materia dall’interno, bensì per agire su di essa dall’esterno, «e vi riesce soltanto praticando, nel flusso del reale, dei tagli istantanei ciascuno dei quali diviene, nella sua fissità, indefinitamente scomponibile»[73].
Affinché la vita stessa raggiungesse il suo scopo, l’uomo ha dovuto rinunciare a beni preziosi; in particolare, al tipo di conoscenza interna alla vita proprio dell’istinto. Ma l’uomo può, in un certo senso, riconquistarlo attraverso l’intuizione; la conoscenza intuitiva rappresenta l’intelligenza aperta sull’ordine vitale, una conoscenza che coglie dall’interno la durata reale, il tempo reale.
Se nella conoscenza dell’ordine geometrico l’adattamento dell’intelligenza al suo oggetto è naturale, data la natura dello spazio, per rivolgersi verso il tempo reale, per adattarsi a questo nuovo oggetto che è l’ordine vitale stesso, l’intelligenza deve compiere uno sforzo di inversione.
Lungo l’intero percorso del suo pensiero Bergson torna sempre su un unico tema: il tessuto della realtà è virtuale, è durata. Sia che si consideri l’universo, sia che si guardi allo spirito, la realtà è un «perpetuo divenire che si fa e si disfa»: questa è l’intuizione che abbiamo dello spirito «quando scostiamo il velo che si frappone tra noi e la nostra coscienza»; ed è anche ciò che l’intelligenza e i sensi rivelerebbero della materia se «potessero ottenere una rappresentazione immediata e disinteressata»[74]. Tuttavia, l’intelligenza, preoccupata dalle necessità dell’azione, e la coscienza che si regola su di essa, fissano dei punti e si rivolgono solo al già fatto; quindi, quando speculando sulla natura del reale continuiamo a considerarlo come l’interesse pratico dell’intelligenza ci richiede di fare, del divenire cogliamo solo stati e della durata solo istanti.
Se l’intelligenza non sterza verso l’intuizione, se continua a seguire la sua naturale direzione, sarà preda di due illusioni strutturali nelle sue speculazioni.
La prima illusione consiste nel parlare della durata quando in realtà pensa qualcos’altro, nel credere che «sia possibile pensare l’instabile attraverso lo stabile, il movimento attraverso l’immobile»; la seconda consiste nel «trasporre sul piano speculativo un procedimento che è fatto per la pratica»[75].
L’azione dell’intelligenza è per essenza volta ad ottenere un oggetto di cui è priva: l’intelligenza fabbrica strumenti inorganici, crea qualcosa che non esiste.
«In questo senso molto particolare essa colma un vuoto: procede dal vuoto al pieno, da un’assenza a una presenza, dall’irreale al reale»[76].
Ma l’irrealtà dalla quale muove non è assoluta, bensì relativa alla direzione assunta dall’intelligenza stessa: quando la realtà presente non è quella che cerca allora parla di assenza. Il vizio di forma dell’intelligenza è sempre lo stesso: esprimere ciò che trova in funzione di ciò che cerca. L’assenza di una realtà non è che la costatazione della presenza di un’altra realtà, la quale non ha influenza sull’intelligenza perché non ricopre alcuna utilità.
L’idea di vuoto, proprio come l’idea di disordine, non è che una pseudo – idea, perché l’intelligenza è sempre immersa nella realtà che le pone delle domande, che le solleva contro delle questioni, e l’intelligenza stessa è il risultato dello sforzo vitale teso ad impadronirsi della materia, sforzo compiuto grazie alla costruzione di strumenti.
Servirsi del vuoto per pensare il pieno è un procedimento legittimo nell’ambito dell’azione, ma quando l’intelligenza trasporta questa abitudine nell’ambito speculativo genera le sue stesse illusioni; infatti, il problema fondamentale riscontrabile nella conoscenza ordinaria è rappresentato dal non riconoscere che idee come quella di vuoto, disordine e caso hanno una valenza essenzialmente pratica: corrispondono alla delusione relativa ad una determinata attesa, delusione che spinge alla creazione.
Il disordine non è l’assenza di ordine ma la presenza di un ordine che al momento non riveste alcun interesse. Anche quando si cerca di negare l’ordine in modo assoluto non si fa che constatare l’andirivieni dello spirito da un ordine all’altro. L’illusione dell’intelligenza si fonda su una concezione radicalmente falsa della negazione, del vuoto e del nulla. L’idea di nulla, afferma Bergson, sospinge sotto gli occhi della coscienza «i problemi angosciosi, le questioni su cui non ci si può soffermare senza essere colti da vertigine»[77].
Quando la coscienza cerca la ragione d’essere dell’esistenza in generale, sia riconducendo l’universo ad un principio trascendente che lo crei, sia ad un principio immanente che lo sostenga, non fa che spostare la difficoltà verso il principio stesso; arriva fino a porsi la domanda estrema:
«perché esiste questo principio piuttosto che il nulla?»[78]
La domanda più vasta e profonda, la domanda originaria e inseparabile, quando sorge, dal forte carico emotivo. L’esistenza arriva ad apparire come una conquista sul nulla, generando l’illusione che fonda la metafisica moderna.
«Insomma, non posso liberarmi dell’idea che il pieno sia un ricamo sul canovaccio del vuoto, che l’essere si sovrapponga al nulla e che nella rappresentazione del “nulla” ci sia meno che in quella di “qualcosa”. Da qui tutto il mistero»[79].
La metafisica moderna attribuisce all’essere un’esistenza logica, non cogliendo la realtà della durata e rendendo la questione della libertà inconcepibile.
«Se il principio di tutte le cose esiste nella stessa maniera in cui esiste un assioma logico o una definizione matematica, le cose stesse dovranno derivare da questo principio come le applicazioni di un assioma o le conseguenze di una definizione, e non ci sarà più posto, né nelle cose né nel loro principio, per una causalità efficiente intesa nel senso di una libera scelta. E queste sono per la precisione le conclusioni di una dottrina come quella di Spinoza, o per esempio dello stesso Leibniz, e questa ne è stata la genesi»[80].
Per riuscire a cogliere al fondo delle cose la durata e la libera scelta, occorre mostrare che l’idea di nulla è solo una pseudo – idea. Cosa si pensa quando si parla del nulla?
Sia tentando una rappresentazione in termini di abolizione sia di negazione, l’immagine del “nulla” non si forma mai nel pensiero; si può sopprimere un oggetto esterno, una cosa, oppure uno stato interno, ma ogni abolizione è in realtà una sostituzione, «in natura non esiste il vuoto assoluto». Solo un essere dotato di memoria e di previsione può pronunciare parole come “vuoto” o “nulla”, esprimendo così una «colorazione affettiva del pensiero», ovvero il desiderio di sostituzione o il rimpianto di uno stato precedente. Che si tratti di un “vuoto di materia” o di un “vuoto di coscienza”, la rappresentazione del vuoto è sempre «una rappresentazione piena» che è possibile risolvere in due elementi positivi: «l’idea, distinta o confusa, di una sostituzione, e il sentimento, provato o immaginato, di un desiderio o di un rimpianto»[81].
Ma l’illusione è tenace così, affrancandoci dalle coordinate spaziali o temporali, non ci rappresentiamo più l’oggetto come assente o abolito ma affermiamo di pensarlo “inesistente”; cosa stiamo in realtà pensando?
Ad esempio, per pensare l’oggetto A “inesistente”, ci rappresentiamo innanzitutto l’oggetto A “esistente”, poi «con un tratto di penna intellettuale» vi cancelliamo l’esistenza. Ma «Kant ha fatto piena luce su questo punto»[82]: l’essere non è un predicato reale, non è «un concetto di un qualcosa che possa aggiungersi al concetto di una cosa»[83].
La rappresentazione dell’inesistenza non può nascere dall’idea di sottrarre l’esistenza a qualcosa, come se l’essere fosse un attributo. La rappresentazione dell’oggetto A “inesistente”, dunque, può significare soltanto aggiungere, all’idea dell’oggetto A, l’idea dell’esclusione dello stesso dalla realtà attuale. Pensare A “inesistente” significa sostituirlo con un’altra realtà sulla quale non ci soffermiamo perché poniamo attenzione al ricordo dell’espulso. In altre parole, «c’è di più e non di meno nell’idea di un oggetto concepito come “non esistente” che nell’idea del medesimo oggetto concepito come “esistente” »[84], perché l’idea dell’oggetto “non esistente” è necessariamente l’idea dell’oggetto “esistente” con l’aggiunta della rappresentazione di un’esclusione di questo oggetto dalla realtà attuale.
Tuttavia, l’illusione che la negazione sia simmetrica all’affermazione, che basti a decretare sull’esistenza, resta ancora salda.
«La negazione avrebbe allora, come l’affermazione, il potere di creare idee, con l’unica differenza che si tratterebbe di idee negative»[85].
Bisogna allora fare ricorso nuovamente alla lezione kantiana: negare significa eliminare un’affermazione possibile, prevenire l’errore[86]. La negazione è un «atteggiamento mentale» di fronte ad una affermazione eventuale; ad esempio, il giudizio “questo tavolo non è bianco” si riferisce al possibile giudizio che lo dichiara bianco, qualora il tavolo sia di un colore diverso. Se l’affermazione riguarda direttamente la realtà, “questo tavolo è nero”, la negazione mira alla realtà attraverso un’affermazione interposta; «una proposizione affermativa traduce un giudizio che riguarda un oggetto, una proposizione negativa traduce un giudizio che riguarda un giudizio»[87].
La negazione ha principalmente una funzione pedagogica e sociale, avverte su un possibile errore o ne corregge uno formulato.
«Quando si nega, lo si fa o per istruire gli altri o per istruire se stessi, si affronta un interlocutore, reale o possibile, che si sta sbagliando e lo si mette sull’avviso»[88].
Prendendo in considerazione la negazione come operazione intellettuale, ci si rende conto che il giudizio negativo scivola verso l’opportunità di essere sostituito con un altro giudizio affermativo, la cui natura resta però indeterminata. Torniamo all’esempio del tavolo: la proposizione negativa “questo tavolo non è bianco” indica che la proposizione affermativa “questo tavolo è bianco” deve essere sostituita con l’affermazione di un altro colore, senza precisare quale.
In definitiva, la negazione comporta due atti: la prevenzione di un errore; l’annuncio di una seconda affermazione che dovrà sostituire quella presente. Anche considerando i giudizi d’esistenza si arriva alla stessa conclusione. Si consideri, ad esempio, l’enunciato “l’oggetto A non esiste”: si è posto l’oggetto A esistente almeno come possibile o pura idea; in secondo luogo, la negazione, l’aggiunta delle «due parole “non è”», è solo un giudizio preventivo, un giudizio rivolto ad un giudizio falso, «qualora mi spingessi oltre, qualora elevassi l’oggetto possibile a oggetto reale»[89].
I giudizi di “non esistenza” formulano il contrasto tra il possibile e l’attuale, ovvero tra due “specie d’esistenza”, l’una pensata e l’altra constatata; qualora venisse prodotto, anche solo nell’immaginazione, un giudizio che pone a torto l’esistenza di un certo possibile, affermarne l’inesistenza significa indicare velatamente una realtà che esclude quel possibile. L’espressione della sostituzione nella negazione resta tronca, cioè non viene specificata la realtà per la quale il possibile resta escluso, perché è sul possibile che si fissa l’attenzione[90].
La negazione ha un valore solo per la coscienza «che si desti dal suo torpore», ovvero per l’intelligenza dotata di memoria, che arriva alla rappresentazione del possibile ed è capace di soffermarsi sul passato; invece, un’intelligenza che segue passivamente il filo dell’esperienza non può arrivare a concepire il vuoto né a negare il possibile, essa vive rilegata nel presente e i suoi giudizi, se fosse in grado di giudicare, affermerebbero solo l’attuale[91]. Una mente dotata di memoria, al contrario, possiede la facoltà di dissociare e distinguere, essa si rappresenta il passaggio come un cambiamento, dunque, considera il contrasto tra “ciò che è stato” e “ciò che è”; inoltre, è in grado di soffermarsi sul passato e di rimpiangerlo, restando «legata al ricordo di uno stato precedente quando già un nuovo stato è presente»[92], ed è anche in grado di esprimere il contrasto tra il reale e il possibile, tenendo in considerazione soltanto il possibile. La negazione esprime il contrasto tra l’esistenza attuale e quella possibile «in funzione di ciò che avrebbe potuto essere e non di ciò che è»[93].
Le false idee dovrebbero crollare sotto il peso dell’analisi: l’intelligenza non pensa realmente né il vuoto né il nulla, non fa che contrapporre il “pieno” al “pieno”; tuttavia, le sue illusioni permangono perché le abitudini contratte per l’azione prevalgano sulle rappresentazioni. Ogni azione umana ha il suo punto di partenza in un’insoddisfazione, in un sentimento d’attesa, e l’essenza stessa dell’azione consiste nel «ricamare “qualcosa” sul canovaccio del “nulla”»; il “nulla” però non è tanto l’assenza di qualcosa quanto la mancanza di utilità.
«Se conduco un visitatore in una stanza che non ho ancora arredato, lo avverto che “non c’è niente”. So tuttavia che la stanza è piena d’aria; ma siccome non è che ci si sieda sull’aria, davvero la stanza non contiene niente di ciò che, in quel momento, per me e per il visitatore conti qualcosa. In linea generale, il lavoro umano consiste nel creare utilità; e, sino a che il lavoro non è compiuto, non c’è “niente”: niente di ciò che si voleva ottenere»[94].
L’intelligenza è spinta a colmare dei “vuoti” sotto l’influsso del desiderio, del rimpianto e sotto la pressione delle necessità vitali; procede costantemente dal vuoto al pieno, dall’assenza di utilità alla costruzione di strumenti utili. Questa è la direzione dell’azione e la speculazione, generalmente, non può che seguirla; in fondo, «è per agire che pensiamo»[95].
4. Le origini del meccanismo del pensiero.
Intelligenza, percezione e linguaggio si fondano su di un unico principio e muovono da un medesimo metodo. Secondo Bergson, il principio e il metodo del pensiero rappresentano l’eredità greca ancora viva nella filosofia e nella scienza moderne.
Il compito principale dell’intelligenza è quello di presiedere a delle azioni, di conseguenza l’attività intellettiva è necessariamente inserita nel mondo materiale e tesa verso il fine da realizzare; per questo motivo l’intelletto non coglie immediatamente la vera durata. Se non fissasse dei punti di stasi sul perpetuo scorrimento, l’intelligenza non potrebbe portare a termine nessuna delle sue azioni.
Sin dal primo sguardo sul mondo, ancora prima di delimitarvi dei corpi, l’intelligenza vi distingue delle qualità; ciascuna delle quali, invece, considerata dal punto di vista del fisico, si dissolve in un numero enorme di movimenti elementari, di vibrazioni.
«Nella più piccola frazione percettibile di secondo, nella percezione quasi istantanea di una qualità sensibile, possono esserci trilioni di oscillazioni che si ripetono»[96].
L’intelligenza, per soddisfare la propria immaginazione e le proprie esigenze, riferisce sempre il movimento ad un “mobile”. Già nella funzione percettiva, le serie di cambiamenti elementari sono colte sotto la forma di una qualità o di uno stato: la percezione è essenzialmente un lavoro di condensazione; per cui, maggiore è la forza d’azione, o di reazione all’ambiente, propria di una specie più numerosi saranno i cambiamenti che la facoltà di percepire concentra in istanti.
In natura gli esseri viventi si posizionano lungo una progressione che va dagli organismi che «vibrano quasi all’unisono con le oscillazioni dell’etere», fino a quelli che fissano trilioni di oscillazioni nelle percezioni semplici; «quanto più siamo in grado di circoscrivere, a colpo d’occhio, un maggior numero di eventi, tanto più siamo “uomini d’azione”»[97].
L’uomo d’azione non solo fissa delle prospettive statiche, cioè le qualità, sulla fluidità della materia ma prosegue delimitando i corpi nella continuità delle qualità sensibili; egli distoglie il più possibile lo sguardo dalla mobilità poiché ciò che lo interessa è «il disegno immobile del movimento piuttosto che il movimento stesso». Cerca sempre di rappresentare una «figura immobile» che sottenda il movimento.
Bergson distingue tre tipi di movimento: qualitativo, evolutivo ed estensivo. Ad ognuno dei quali l’intelligenza fa corrispondere una rappresentazione: le qualità; le forme, o essenze; gli atti. A ciascuna rappresentazione appartiene una categoria di parole: gli aggettivi; i sostantivi; i verbi.
Di fronte al divenire, sia che si tratti di percezione o di comunicazione attraverso il linguaggio, l’artificio dell’intelligenza è sempre lo stesso: estrarre dalla mobilità delle forme attraverso le quali ricomporre, per addizione, una rappresentazione vuota del divenire in generale. La rappresentazione del movimento viene ricostruita a partire dall’immobile, generando un «divenire indeterminato, semplice astrazione»[98].
Il divenire, o meglio, la mobilità reale diviene un’idea «oscura e inconsapevole», alla quale vengono aggiunte le immagini che rappresentano singoli stati, singole immobilità. La molteplicità eterogenea scorre indifferente davanti agli occhi dell’intelligenza mentre questa si dispone a vedere solo differenze di colori e di forme, al di sotto delle quali immagina fluire «un divenire sempre e ovunque identico, invariabilmente incolore»; essa giunge ad immaginare un tessuto di ripetizione.
L’artificio del pensiero è lo stesso del cinematografo; ad esempio, il cinema può riprodurre la vitalità della sfilata di un reggimento su pellicola, legando in successione singoli fotogrammi.
«Così funziona il cinematografo. Con dei fotogrammi, ciascuno dei quali raffigura il reggimento in atteggiamento immobile, si ricostruisce la mobilità del reggimento che passa. […] Affinché le immagini si animino è necessario che da qualche parte vi sia un movimento. E il movimento c’è, appunto, nell’apparecchio»[99].
Sulla pellicola cinematografica ciascun fotogramma della scena si prolunga in quello successivo e, quando l’apparecchio è in funzione, il movimento si riproduce sullo schermo; ma è un falso movimento, un movimento prodotto dall’immobile e ricomposto su di un movimento impersonale. L’artificio del cinema segue il meccanismo del pensiero: la realtà che scorre viene guardata dall’esterno e vengono fissate sul suo divenire delle istantanee; dopo di che si ricompone il movimento infilando le istantanee, una dietro l’altra, in un divenire astratto, uniforme e invisibile, posto nell’apparecchio(coscienza).
La natura del pensiero è cinematografica perché rappresenta l’unico metodo efficace nella pratica, ma trascina la mente nelle proprie vertigini quando se ne serve nella speculazione; invece, per cogliere il cambiamento bisogna stabilirsi nel cambiamento stesso. Non è possibile ricostruire il movimento reale partendo dagli stati in successione.
«Per avanzare con la realtà in movimento sarebbe necessario collocarsi al suo interno. Provate a stabilirvi nel cambiamento: potrete cogliere al tempo stesso sia il cambiamento come tale sia gli stati in successione in cui esso potrebbe, in ciascun momento, immobilizzarsi. Ma ricorrendo agli stati in successione, percepiti dall’esterno in quanto immobilità reali e non già virtuali, non sarete mai in grado di ricostruire il movimento»[100].
I paradossi di Zenone sono figli del meccanismo cinematografico del pensiero, essi nascono dall’avere applicato il movimento alla traiettoria percorsa, ma «la possibilità di applicare il movimento alla linea percorsa» si verifica solo quando un osservatore esterno immagina, ad ogni istante, la possibilità di un arresto e ricompone «il movimento reale con queste immobilità possibili». Tale possibilità svanisce quando «si assume con il pensiero la continuità del movimento reale», continuità della quale spontaneamente abbiamo coscienza negli atti semplici, come ad esempio quando si solleva un braccio o si compie un passo. Tuttavia, l’intelligenza agevolmente estende gli argomenti di Zenone, applicati al movimento estensivo, anche al movimento evolutivo e qualitativo. Si consideri, ad esempio, l’evoluzione della vita nei singoli individui: la realtà presenta un movimento in successione di infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia. Cogliere il movimento evolutivo dall’interno significa considerare le quattro fasi come meri punti di vista della mente, come «stasi possibili» immaginate nel corso del progresso; l’errore, e dunque l’impossibilità di cogliere il divenire, consiste nel considerarle come parti integranti dell’evoluzione, come «stasi reali». Anche il linguaggio è stato regolato sulle abitudini dell’intelligenza e conduce verso impasse logiche che spingono al paradosso. Infatti, abitualmente ci si esprime secondo la seguente proposizione: «Il bambino diventa uomo».
Questo enunciato vorrebbe esprimere la transizione, ma crea contraddizione, conflitto, tra il soggetto e l’attributo: come può “uomo”, stasi che indica la maturità, essere attribuito a “bambino”, stasi che indica l’infanzia?
Una volta posto il soggetto “bambino”, l’attributo “uomo” non gli conviene. Un linguaggio che rinunci alle abitudini cinematografiche, per modellarsi sulla realtà, si esprimerebbe secondo la seguente proposizione: «C’è divenire da bambino a uomo».
“Bambino” e “uomo” sono qui soltanto dei punti di vista estratti dal divenire, sono stasi virtuali che si riferiscono al movimento oggettivo. Il soggetto è il divenire stesso. Un linguaggio che risale la china delle abitudini intellettuali richiede uno sforzo davanti al quale, di solito, la mente indietreggia.
Le origini del metodo cinematografico possono essere rintracciate nella filosofia antica; i Greci, per Bergson, nutrivano una fiducia incondizionata nella naturale inclinazione del pensiero e nel linguaggio come sua esteriorizzazione. Una fiducia che li condusse a «dare torto al corso delle cose»[101]. Il cambiamento in generale era considerato un decadimento della verità. Secondo il pensiero antico, nella realtà sensibile si è in presenza del divenire ma la realtà intelligibile, la realtà come dovrebbe essere, è immutabile; «la realtà cambia ma non dovrebbe cambiare», per cui è necessario cogliere l’immutabile sotto il cambiamento.
Al di sotto del divenire qualitativo, evolutivo o estensivo il pensiero deve raggiungere ciò che non muta; il termine ειδος possiede, secondo Bergson, un triplice significato, in quanto è presente in tutte e tre le forme del movimento. Designa: la qualità; la forma o essenza; il fine, il disegno dell’atto che si compie, o si suppone compiuto. Corrisponde, dunque, alle tre categorie essenziali del linguaggio: aggettivi, sostantivi e verbi. Ricondurre le cose alle idee significa risolvere il divenire nei suoi momenti essenziali, allora
«dovremmo tradurre ειδος con “veduta” o, meglio ancora, con “movimento”. Questo perché ειδος è la veduta stabile presa sull’instabilità delle cose»[102].
Nel momento in cui al fondo della realtà in movimento vengono poste le idee immutabili, fisica, cosmologia e teologia seguono necessariamente lo stesso principio. Le diverse dottrine della filosofia antica profilano tutte la visione che un’intelligenza sistematica ha dell’universale divenire, dopo averlo considerato attraverso delle prospettive prese sul suo fluire.
Il postulato al fondo della filosofia antica recita:
«c’è di più nella immobilità che nel movimento, e si passa per via di diminuzione o di attenuazione dalla immutabilità al divenire»[103].
Per ottenere il cambiamento è necessario contrapporre al principio positivo un altro principio, altrettanto eterno, ma negativo: la materia.
«Di fatto, la materia vi aggiunge il suo vuoto innescando, nel contempo, il divenire universale. Essa è l’ineffabile nulla che, scivolando tra le idee, crea l’agitazione senza fine e l’eterna inquietudine, come un sospetto che si insinua tra due cuori che si amano»[104].
Se ci si collocasse, invece, direttamente nel divenire, sarebbe la durata ad apparire come la realtà fondamentale e le forme non sarebbero che puri e semplici punti di vista assunti dalla mente sulla continuità del divenire; le forme sarebbero relative alla mente che le rappresenta e non dotate di per sé di esistenza. Considerando il divenire secondo il metodo cinematografico, le forme diventano elementi costitutivi del cambiamento; tanto che nel Timeo, Platone definisce Χρόνος come icona dell’Αιών, come “immagine mobile dell’eternità”. La filosofia delle forme, o delle idee, stabilisce tra l’eternità e il tempo lo stesso rapporto sussistente tra la moneta d’oro e la moneta spicciola, «il pagamento continua all’infinito senza che il debito possa mai essere estinto: quando, con il pezzo d’oro, potremmo liberarcene subito»[105].
Estensione spaziale e distensione temporale appartengono ad una realtà incompleta, una realtà costantemente alla ricerca di sé; le forme sensibili, ostacolate dalla materia, sono infatti condannate alla parzialità, sono «condannate da una legge ineluttabile a ricadere come il macigno di Sisifo, proprio quando stanno per toccare la vetta»[106].
La filosofia antica ed il principio latente dell’intelligenza coincidono:
«il fisico è semplicemente una forma corrotta del logico»[107].
Poiché il movimento nasce dalla degradazione dell’immutabile, non potrebbe esservi movimento né mondo sensibile se da “qualche parte” non si fosse realizzata l’immutabilità: è necessario che le idee esistano di per se stesse.
«La filosofia antica non poteva sfuggire a questa conclusione. Platone la formulò, e invano Aristotele cercò di sottrarvisi»[108].
Lo Stagirita, infatti, pose al di sopra del mondo fisico la forma delle forme, «l’idea delle idee», il “pensiero di pensiero”.
Un movimento perpetuo è possibile solo se è fondato su di una immobilità eterna; per tanto, l’intero processo del divenire e del mutamento deve avere un termine ultimo, un atto privo di potenzialità da cui tutto il processo dipende e a cui tutto il processo tende come suo fine, come sua causa finale. Questo termine ultimo è il primo “motore immobile” aristotelico, esso muove come il desiderato muove il desiderante, senza essere a sua volta attratto o mosso da altro.
«Se il movimento esiste, o, in altri, se gli spiccioli circolano, vuol dire che la moneta d’oro da qualche parte c’è»[109].
In breve, il pensiero si è strutturato in base a due atti fondamentali: attraverso il primo, distingue il divenire in due elementi, uno di ripetizione (la forma definibile per ogni caso particolare), l’altro che vi fa da sostrato (il puro indeterminato); in base al secondo, ricostruisce il mondo sensibile seguendo un principio di “degradazione”, per il quale ogni grado inferiore di realtà consiste in una diminuzione di quello superiore e i caratteri specifici di ciascun grado misurano la distanza che lo separa dalla realtà integrale.
Da questi due originari atti del pensiero nasce quella filosofia che compone il reale ponendo, da un lato, elementi definiti ed immutabili e, dall’altro, un principio indeterminato di mobilità, il quale sfuggirà sempre ad ogni definizione. Si tratta di una filosofia che finisce per contrapporre l’essere al nulla, e che più rivolge «la propria attenzione sulle forme che il pensiero delimita e il linguaggio esprime» più le vede «innalzarsi al di sopra del sensibile e distillarsi in puri concetti»; i quali risultano in grado di compenetrarsi reciprocamente, e infine di raccogliersi in un concetto unico, «sintesi di ogni realtà, compimento di ogni perfezione»[110].
La metafisica moderna, tanto quanto la metafisica greca, è irresistibilmente attratta verso il movimento naturale dell’intelligenza; di conseguenza, la scienza moderna, proprio come quella antica, procede secondo il metodo cinematografico. Esse rispondono alle esigenze, soprattutto pratiche, dell’intelligenza. Ogni scienza, infatti, manipola dei segni che sostituisce alle cose stesse; i segni utilizzati dalla scienza differiscono per precisione dai segni linguistici, ma nascono per soddisfare lo stesso scopo: «registrare in forma statica un aspetto fisso della realtà»[111].
Se per pensare il movimento l’intelligenza effettua necessariamente uno duplice sforzo, di separazione e di ricostruzione, i segni le risparmiano di rinnovare continuamente tali sforzi, proprio perché rappresentano una ricomposizione artificiosa della realtà in movimento. I segni raffigurano una realtà manipolabile direttamente ed agevolmente, essi sono utili per la pratica. Lo scopo essenziale della scienza coincide con quello dell’intelligenza, il suo obiettivo è accrescere la propria influenza sulle cose; «anche quando si lascia andare alla teoria, la scienza è tenuta ad adattare il suo procedere alla configurazione generale della pratica»[112]. La conoscenza nella scienza non può volgersi esclusivamente alla speculazione, perché i suoi contenuti si regolano, anche se non immediatamente, su fini pratici.
Ma scienza moderna e scienza antica differisco essenzialmente per quanto riguarda la scomposizione del tempo in fisica. Nella fisica antica il tempo è composto da tanti periodi indivisi quanti sono i fatti in sequenza, e ogni periodo simboleggia una sorta di individualità; per i moderni, invece, il tempo non è suddiviso oggettivamente in base alla materia che lo riempie, non ha “articolazioni naturali”, ma la sua scomposizione è indefinita. Nella fisica moderna tutti gli istanti si equivalgono; quindi, la conoscenza di un cambiamento nasce dalla determinazione dello stesso in uno qualsiasi dei suoi momenti: lo studio del movimento è divenuto quantitativo, e non deve più essere eminentemente descrittivo.
«La scienza antica crede di conoscere a sufficienza il suo oggetto quando ne ha sottolineato i momenti più significativi, mentre la scienza moderna lo prende in considerazione in un momento qualsiasi»[113].
La differenza tra le due forme di scienza è profonda, ma può essere considerata come una semplice differenza di grado; infatti, la mente è passata dal primo genere di conoscenza al secondo ricercando un maggiore grado di precisione. La fisica antica si ferma ad un descrizione qualitativa del moto, basandosi su concetti, e finisce per essere una scienza statica; la fisica moderna, invece, attraverso la formulazione di leggi, è volta a cogliere le variazioni quantitative nel moto, essa vuole porre rapporti costanti tra grandezze variabili. La caratteristica sostanziale della scienza moderna, partendo da Keplero per giungere a Newton, passando per Galilei, consiste nel porre il tempo come la grandezza a cui rapportare tutte le altre. Il problema ideale, la cui soluzione deve fornire la chiave per tutti gli altri, consiste nel determinare le posizioni relative degli elementi materiali in un momento qualsiasi, una volta che se ne conoscano le posizioni in un momento determinato.
«La scienza moderna deve definirsi soprattutto per la sua aspirazione ad assumere il tempo come variabile indipendente. Ma di quale tempo si tratta?»[114]
Il tempo nella scienza moderna si riferisce al movimento di un certo mobile lungo la sua traiettoria; esso è un movimento uniforme, nel quale ogni momento è identico all’altro, per cui lo si può considerare in uno qualsiasi dei suoi momenti. Gli istanti rappresentano solo delle stasi virtuali. Come gli antichi, i moderni non considerano che «immobilità», con la sola differenza che gli istanti sono tutti uguali e non è possibile distinguere dei momenti essenziali.
Il tempo reale, la durata, la mobilità stessa dell’essere sfugge alla conoscenza scientifica. A partire dal punto di origine, si dividerà la traiettoria del mobile in parti uguali e si dirà che sono trascorse un certo numero di unità di tempo quando il mobile si troverà nei diversi punti della linea che percorre; in questo modo, vengono considerati solo dei punti sul fluire, solo delle posizioni, ma mai il fluire stesso.
«Si sono, dunque, contate le simultaneità, ma non ci si è occupati del fluire che passa dall’una all’altra»[115].
Il linguaggio della scienza, per Bergson, non coglie la successione nella sua specificità, esso non dispone di alcun segno che esprima la durata così come impressiona la coscienza.
«Non si applica al divenire, e al movimento che ne costituisce l’essenza, più di quanto i ponti che sovrastano il fiume seguano l’acqua che scorre sotto le loro arcate»[116].
Eppure la successione è un fatto, del quale ne abbiamo sempre coscienza davanti ad un processo fisico il cui cambiamento non dipende dalla nostra percezione. «Se voglio prepararmi un bicchiere d’acqua zuccherata – sostiene Bergson – per quanto possa darmi da fare, devo aspettare che lo zucchero si sciolga»[117]. E il tempo che devo aspettare non è il tempo matematico, bensì coincide con una porzione della mia durata, «con la mia impazienza», che non è una relazione ma un assoluto.
«Se per il fisico la durata del fenomeno è relativa, in quanto si riduce a un certo numero di unità di tempo che, di per sé, sono poste ad arbitrio, per la mia coscienza questa durata è un assoluto, giacché coincide con un certo grado di impazienza, che oltretutto è rigorosamente determinato»[118].
Il fisico si comporta come il bambino che si diverte a ricostruire un puzzle: il tempo è accessorio, perché l’immagine è data fin dall’inizio e per riottenerla è necessario solo un lavoro paziente di ricomposizione. La durata si presenta, invece, come parte integrante del lavoro dell’artista: è il progredire del pensiero, il maturare dell’idea mentre prende corpo. Contrarre o dilatare questo tempo significa modificare sia l’evoluzione psicologica che in esso si distende, sia l’invenzione che ne costituisce il termine.
«Il tempo di invenzione fa tutt’uno con l’invenzione stessa»[119].
Ad esempio, immaginiamo un pittore, di cui conosciamo lo stile, mentre si appresta a raffigurare il modello. Conosciamo tutti gli elementi del problema – stile, colori e modello – e possiamo risolverlo in maniera astratta; affermeremo, infatti, che il quadro somiglierà al modello secondo lo stile del pittore. Tuttavia, non potremo prevedere cosa apparirà sulla tela perché l’opera, la soluzione concreta, richiede tempo che «apporta quell’imprevedibile nulla che è il tutto dell’opera d’arte»[120].
Lo stesso accade nelle opere di natura: appare di continuo il “nuovo” e l’imprevedibile, provenienti da una spinta interiore all’universo stesso che è progresso, o successione reale. Ma l’intelligenza preferisce allineare in uno spazio ideale i termini che percepisce in successione, rappresentandosi la successione sotto la forma della giustapposizione; così, per abitudine si persuade che il futuro abbia gli stessi tratti del passato, come noi, nell’esempio, immaginiamo l’opera già dipinta sulla tela. Risalendo la china dell’abitudine, ci si persuade che «il tempo è invenzione, oppure non è assolutamente niente»[121].
Una fisica ancorata al metodo cinematografico non terrà mai conto del tempo-invenzione; essa si limita solo alla registrazione di simultaneità, separa gli eventi dal tutto e li considera allo stato astratto, «come se fossero al di fuori della totalità del vivente, ossia in un tempo dispiegato in spazio»[122]. Ordinariamente in fisica vengono considerati solo eventi, o sistemi di eventi isolabili; si sostituisce al tempo-invenzione il tempo-misura. Il tipo di conoscenza insito nella fisica presenta il vantaggio di farci precedere il futuro e di renderci, in una certa misura, padroni degli eventi; al prezzo, però, di cogliere della realtà in movimento solo immobilità, prospettive fissate dalla nostra mente su di essa.
Dalla fisica moderna avrebbe potuto nascere una metafisica diversa, dato che nella scienza moderna il cambiamento non è più una diminuzione dell’essenza, come era per gli antichi. Anche se colloca tutti gli istanti di tempo sullo stesso livello, pone il fluire del tempo come una realtà e le cose che passano sono il suo oggetto di studio; di conseguenza, è sì vero che la conoscenza scientifica si limita a prendere delle istantanee sulla realtà che scorre, ma la realtà del movimento è ormai stata posta. Per coglierla, tuttavia, c’è bisogno di un altro genere di conoscenza che vada ad integrare quella scientifica, è necessaria una conoscenza che segua fino in fondo il tempo come accrescersi progressivo dell’assoluto.
Una metafisica che indossi l’abito dell’intuizione è la sola capace di cogliere il tempo reale; invece, la metafisica moderna non ha perseguito la via dell’intuizione, portando alle estreme conseguenze i risultati della scienza. Come la fisica che coglie nel tempo solo ciò che può dispiegarsi in maniera analoga nello spazio, la metafisica ha presunto necessariamente che il tempo non creasse, che la durata non avesse alcuna efficacia. La metafisica vincolata al meccanismo cinematografico è giunta ad una conclusione implicitamente ammessa: «tutto è dato»[123].
Metafisica antica e moderna presuppongono entrambe una scienza compiuta ed unitaria, con la sola differenza che la prima la dispone al di sopra del sensibile, la seconda in seno al sensibile.
In Aristotele il “pensiero di pensiero”, la sintesi di tutti i concetti, il principio di compressione e compenetrazione reciproca delle idee – le quali rappresentano allo stato compiuto le cose mutevoli del mondo – è un principio trascendente. La durata delle cose è la controparte della sua eternità, ne rappresenta un indebolimento. In generale, per gli antichi la scienza si fonda su concetti considerati come “cose”; quindi, comprimendo tutti i concetti in uno solo si arriva ad un essere che si può chiamare pensiero:
«quando Aristotele definiva dio come la νοήσεως νόησις, probabilmente faceva cadere l’accento su νοήσεως, e non su νόησις»[124].
La scienza moderna, mossa dal meccanicismo universale, non condensa più in un principio unico concetti-cose ma leggi o relazioni; ora, una relazione non esiste separatamente, e una legge collega due termini che cambiano, quindi il principio è divenuto immanente in ciò che regge. Il principio è divenuto il sostrato della realtà, esso è immanente e non più trascendente la realtà sensibile stessa. Questo è il paradosso al fondo della metafisica moderna, perché una relazione non è che un legame stabilito dalla mente tra due o più termini; «un rapporto non è niente al di fuori dell’intelligenza che lo pone»[125]. Di conseguenza, l’universo può essere un sistema di leggi solo se i fenomeni passano attraverso il filtro dell’intelligenza. Ora, questa intelligenza può appartenere ad un essere infinitamente superiore all’uomo, un essere che pone al contempo la materialità delle cose e i legami che le uniscono, come vuole l’ipotesi di Leibniz, o di Spinoza; ma per ottenere un’intelligenza che legiferi sulla natura non è necessario arrivate a tanto, perché basta l’intelligenza umana, come ha dimostrato Kant.
«Tra il dogmatismo di uno Spinoza o di un Leibniz e la critica di Kant, c’è esattamente la stessa distanza che intercorre tra il “bisogna che” e il “basta che”»[126].
Anche la filosofia kantiana, stando a Bergson, è imbevuta di fede in una scienza unica e integrale che abbraccia la totalità del reale, ma gli viene riconosciuto il merito di avere arrestato il dogmatismo «sulla china che stava facendolo scivolare troppo lontano»[127].
L’“io penso” è un intelletto impersonale che ricopre una funzione unificatrice, non è qualcosa che appartiene all’uomo quanto piuttosto è l’uomo a ritrovarsi in esso, «come se la sua coscienza respirasse in un’atmosfera di intellettualità»[128]. Kant ha arginato il dogmatismo dei suoi predecessori, egli ha accolto la loro concezione della scienza ma ne ha ridotto al minimo le implicazioni metafisiche, infondendo all’insieme della coscienza un carattere relativo e propriamente umano. L’errore più grande, però, lo ha commesso distinguendo la forma e la materia della conoscenza. Egli ha sostenuto che la conoscenza non può essere risolta completamente in termini di intelligenza, perché ha posto una materia extraintellettuale, il noumeno. Perché la coscienza non potrebbe sostenere due sforzi di senso opposto?
In un certo senso, la filosofia kantiana stessa apre la strada ad una “nuova” filosofia: la coscienza potrebbe, con uno sforzo intellettuale, elevarsi e percepire la realtà dall’esterno; oppure, attraverso uno sforzo d’intuizione, abbassarsi e cogliere la realtà dall’interno. Ma Kant non perseguì questa strada e pose gli schemi dell’intelletto, e l’intelletto stesso, come già dati; aprendo così una frattura netta tra la materia offerta alla nostra intelligenza e l’intelligenza stessa. Stando alla filosofia kantiana, l’accordo tra le due deriverebbe soltanto dal fatto che l’intelligenza impone la propria forma alla materia. Egli ha accettato preliminarmente che esistesse una sola forma d’esperienza: quella conforme alla direzione dell’intelligenza. Se la scienza presentasse in tutte le sue parti il medesimo successo, non si potrebbe non convenirne; la scienza, invece, diventa «sempre meno obiettiva e sempre più simbolica» a mano a mano che si passa dall’ordine fisico all’ordine vitale.
Allora, posta l’intuizione del vitale, ovvero la possibilità di una percezione immediata della realtà, l’intelligenza traspone il materiale ricevuto in simboli: così facendo ha superato se stessa, ottenendo «un’intuizione sovraintellettuale»[129].
Grazie all’intuizione lo spirito ritrova la possibilità di prendere possesso di sé, e non è più limitato ad una conoscenza esteriore e fenomenica.
5. Un empirismo trascendentale.
L’intelligenza ha la possibilità di rivolgersi, grazie ad uno sforzo, verso l’ordine vitale.
Cos’è l’ordine vitale? È la durata reale, la dimensione virtuale, puramente temporale e mobile della realtà.
In Materia e memoria viene presenta una complessa teoria della materia che descrive quest’ultima come un insieme di immagini, una molteplicità eterogenea; Bergson rende, così, reale e sostanziale il movimento. La materia, come insieme di immagini, indica quel tessuto dinamico e temporale della realtà sul quale il corpo, nella percezione, e l’intelletto, nella conoscenza, ed infine il linguaggio, ricamano le loro abitudini motorie e utilitaristiche.
Attraverso l’intuizione è la natura dinamica e temporale della realtà a divenire oggetto di conoscenza; per questo, l’intuizionismo bergsoniano si presenta come un empirismo radicale.
La teoria della materia segue le acquisizioni della riflessione sulla coscienza. Il metodo di indagine dei fatti della coscienza, applicato nel Saggio sui dati immediati della coscienza, ha permesso all’autore di introdurre il concetto di durata, illuminando così la natura degli stati psicologici, e di contro di rivelare il lavoro di rappresentazione costantemente eseguito dall’intelletto. In quest’opera, per mostrare l’errore degli psicologi che stabilivano una differenza quantitativa tra gli stati interni, e per poter affermare la natura degli stati psicologici come molteplicità qualitativa, Bergson ha sostenuto che nel passaggio dalla sensazione alla rappresentazione della stessa viene sostituita, all’impressione qualitativa ricevuta dalla coscienza, l’interpretazione quantitativa fornita dall’intelletto.
Nell’esercizio ordinario del pensiero associamo ad una certa qualità l’idea di un oggetto esterno, percepito o abitualmente richiamato, che ne rappresenterebbe la causa; dunque, il carattere affettivo della sensazione tende a cancellarsi per passare allo stato di rappresentazione, nel quale poniamo una causa estensiva dietro un effetto che estensivo non è. L’oggettivazione degli stati interni nasce da un interesse pratico poiché, in vista dell’azione, sono più importanti gli oggetti esterni che appartengono al dominio comune piuttosto che gli stati soggettivi. In Materia e memoria, il problema si trasforma nel tentare di cogliere il mondo fenomenico al di qua dello spazio omogeneo sul quale si applica e tramite il quale lo suddividiamo, proprio come la vita interiore può distaccarsi dal tempo indefinito e vuoto per ritornare pura durata.
Ordinariamente i corpi, o ciò che chiamiamo un fatto, non rappresentano la realtà così come apparirebbe ad una intuizione immediata della stessa; consistono, invece, in un adattamento del reale agli interessi dell’azione e alle esigenze della vita sociale. L’esperienza ordinaria, dunque, ci presenta un mondo di oggetti distinti e per lo più immobili. Oggetto di una pura intuizione, al contrario, è una continuità indivisa, sia che ci si rivolga verso l’interno sia che ci si rivolga verso l’esterno. Come nel Saggio gli stati di coscienza sono una molteplicità qualitativa senza somiglianza col numero, una eterogeneità pura di elementi che si fondono gli uni negli altri, in Materia e memoria l’universo è un sistema di immagini che influiscono le une sulle altre in maniera tale che l’effetto resti sempre proporzionato alla causa; ma, in un caso come nell’altro, la durata reale viene riorganizzata in stati distinti in funzione di interessi pratici. In virtù delle abitudini, la continuità indivisa della durata reale viene frazionata in elementi giustapposti utili alla vita pratica.
Il bergsonismo si presenta come una filosofia il cui compito è pensare il reale come mutamento, il bergsonismo è un «empirismo trascendentale»[130]: un metodo per cogliere la molteplicità dei ritmi del reale stesso. La durata reale è un piano che può tendersi e distendersi, essa presenta diversi livelli di tensione che costituiscono altrettanti campi trascendentali, in quanto condizioni di una certa modalità d’esperienza.
Dati i limiti dell’esperienza ordinaria, il trascendere da parte del pensiero il suo esercizio ordinario non implica alcun “salto” fuori dall’esperienza; anzi, consiste nella conquista di un’esperienza integrale, ovvero nella sperimentazione di molteplici gradi tensivi della durata stessa.
Il bergsonismo si presenta, dunque, come un empirismo perché la fonte della conoscenza resta l’esperienza, ma si tratta di un empirismo superiore, appunto trascendentale, dato che fa appello ad un’esperienza non incatenata alle condizioni del suo esercizio ordinario.
Dall’applicazione di tale metodo teoretico nascono i quattro lineamenti della teoria della materia bergsoniana: ogni movimento è assolutamente indivisibile; esistono movimenti reali; ogni divisione della materia in corpi indipendenti dai contorni ben definiti è artificiale; il movimento reale è la traslazione di uno stato più che di una cosa.
Considerare il movimento divisibile significa sostituire la traiettoria al tragitto, vuol dire esaminare un movimento già compiuto e ricomporlo; invece, un movimento reale, o meglio, un tragitto mentre si sta compiendo è assolutamente indivisibile. Il tragitto è dato alla coscienza come un tutto indiviso, esso ha una propria durata e la durata è di per sé compatta e indivisa; al contrario, ogni rappresentazione spaziale del movimento descrive solo una traiettoria, la quale può essere valutata come una linea geometrica e diviene, dunque, divisibile all’infinito. Solo disteso nello spazio il movimento è divisibile. Per questo la fisica rivela meglio della matematica cosa sia il movimento; il fisico compie un passo avanti rispetto al matematico nello studio del movimento perché non pretende di darne una definizione astratta secondo le leggi della geometria, ma si volge verso l’analisi dei cambiamenti concreti che si compiono nell’universo. Grazie al contributo della fisica, dal movimento relativo si passa al movimento reale.
Il movimento è un fatto percepibile, il quale appare come un cambiamento di stato o di qualità. Tuttavia, per necessità della vita, l’intelletto spezzetta la continuità mutevole dell’estensione materiale, intuitivamente percepita come tale, in corpi indipendenti; di conseguenza, esso si rappresenta la permanenza attraverso i corpi e il cambiamento attraverso dei movimenti omogenei nello spazio.
«I nostri bisogni sono, dunque, altrettanti fasci luminosi che, puntati sulla continuità delle qualità sensibili, vi delineano dei corpi distinti»[131].
Non si otterrà una conoscenza della materia scomponendola in particelle; infatti, gli atomi stessi e le forze immaginate agire tra di essi conservano il carattere di cose e azioni esercitate nello spazio da queste cose. Non si fa altro che studiare parti della materia, corpi, ma questi sono gli oggetti specifici della chimica più che della fisica. Approfondire la conoscenza della materia significa far astrazione dalle immagini abituali e discontinue che abbiamo di essa, al fine di coglierla nella sua struttura organica.
Figure, immagini e simboli derivanti dalla fisica aprono alla filosofia un orizzonte di ricerca sulla natura, mostrando nell’estensione concreta delle modificazioni, delle perturbazioni, dei cambiamenti di tensione o di energia, e nient’altro. L’immagine della materia si ricongiunge così con quella del movimento: la divisione in corpi e la ripartizione del movimento in posizioni successive appartengono ad una nostra abitudine più che alla realtà delle cose.
Sotto gli occhi del fisico
«le masse si polverizzano in molecole, le molecole in atomi, gli atomi in elettroni o corpuscoli: finalmente il supporto assegnato al movimento sembra nient’altro che un comodo schema, semplice concessione dello scienziato alle abitudini della nostra immaginazione visiva»[132].
Il movimento non presenta solo delle differenze di quantità, non è una serie di posizioni successive, non è un cambiamento di rapporti, ma rappresenta la qualità stessa che vibra. L’errore comunemente commesso è quello di attribuire un valore assoluto alla divisione della materia; quest’ultima, invece, corrisponde più ai bisogni della vita che alla realtà stessa della materia.
La materia vivente si risolve in vibrazioni innumerevoli, le quali sono tutte collegate in una continuità ininterrotta ed eterogenea. È tale continuità che viene scomposta e ricomposta a livello simbolico sotto la pressione delle esigenze della vita.
«Legate gli uni con gli altri, in una parola, gli oggetti discontinui della vostra esperienza quotidiana; risolvete, in seguito, l’immobile continuità delle loro qualità in vibrazioni sul luogo; fissatevi su questi momenti, liberandovi dello spazio divisibile che li sottende per considerare soltanto la mobilità […]: otterrete una visione della materia […] pura e sgombra di ciò che le esigenze della vita vi fanno aggiungere nella percezione esterna- Adesso ripristinate la vostra coscienza e, con essa, le esigenze della vita; […] prenderanno forma delle vedute quasi istantanee, vedute questa volta pittoresche, i cui colori più nitidi condensano un’infinità di ripetizioni e di cambiamenti elementari. È così che le mille posizioni successive di un corridore si contraggono in un solo atteggiamento simbolico, che il nostro occhio percepisce, che l’arte riproduce e che diventa per tutti l’immagine di un uomo che corre»[133].
Al di là della difficoltà ad immaginare la materia come pura mobilità, ciò che diviene facilmente intelligibile è la solidarietà tra le singole cose, i singoli corpi, e l’ambiente; la stretta solidarietà che lega gli oggetti dell’universo materiale, e l’influenza reciproca delle loro azioni, provano a sufficienza che non hanno i limiti precisi che la percezione e la speculazione vi attribuiscono.
Le “deformazioni” della realtà divengono possibili perché arbitrariamente si suppone che la realtà sia divisibile. Al di sotto dell’estensione concreta poniamo una rete astratta dalle maglie indefinitamente deformabili, arbitrariamente collochiamo la continuità concreta delle qualità sensibili in uno schema astratto che favorisce la divisione. Questo substrato presupposto è lo spazio omogeneo. La nostra azione, però, non riguarda soltanto la divisione della continuità nello spazio ma anche la sua solidificazione in momenti successivi nel tempo; allora è giocoforza immaginare uno schema astratto della successione in generale. Lo schema astratto della successione rappresenta il tempo omogeneo. Spazio e tempo non sono né delle qualità delle cose né le condizioni della nostra facoltà di conoscerle; essi sono, invece, gli schemi della nostra azione sulla materia. Spazio omogeneo e tempo omogeneo esprimono il duplice lavoro dell’intelligenza di fronte al divenire: la divisione e la solidificazione della mobilità del reale. Essi nascono da un interesse vitale e non speculativo, sono introdotti nel reale in vista dell’azione e non della conoscenza.
6. Intelletto e vita, il metodo intuitivo.
L’intuizione bergsoniana rappresenta un metodo conoscitivo nato per inversione del naturale movimento del pensiero, essa costituisce il mezzo di conoscenza della realtà posta in termini dinamici. Essa consiste nell’intelligenza che sospende il suo abituale meccanismo cinematografico, che abbandona il paradigma di verità a favore della complessità del reale, che crea concetti fluidi e sempre nuovi. L’intuizione esprime, inoltre, il metodo di una “nuova metafisica”, a partire dalla quale è possibile pensare un nuovo piano di incontro tra scienza e filosofia. L’intuizionismo bergsoniano è un appello di riforma della filosofia, per renderla una filosofia della vita.
In nessun caso l’intuizione delinea un metodo “irrazionalista”, anzi, porta alla luce la forza della ragione stessa. Il pensiero è capace di liberarsi dalle illusioni che gli hanno precluso la vista della durata reale. Analisi (conoscenza intellettiva, o pratica) e intuizione (conoscenza metafisica) rappresentano i due modi, profondamente diversi, attraverso i quali l’intelletto conosce una cosa.
Come si è visto, è abitudine dell’intelligenza scomporre il divenire reale in ripetizioni, in parti, stati o corpi, per ricomporre, in un secondo momento, il movimento su di un piano astratto e vuoto; così procedendo, ogni sua conoscenza resta relativa, mera prospettiva. Solo ponendosi all’interno stesso del divenire reale, l’intelligenza riesce ad intuire l’assoluto come qualcosa di semplice, come un tutto che dura.
L’assoluto, la durata reale, non è un “tutto” composto di “parti”, quindi scomponibile ed analizzabile, bensì è una “unità semplice” infinitamente ricca, una molteplicità eterogenea; per questo, un assoluto non può essere dato che per intuizione. Al contrario, l’analisi è l’operazione per la quale si riporta ogni oggetto a elementi noti, dunque si cerca ciò che l’oggetto ha in comune con gli altri; ma così facendo si esprime la “cosa” in funzione di ciò che in realtà “non è”.
Ogni analisi è «uno sviluppo in simboli», è una traduzione della successione reale in elementi giustapposti. E l’inconveniente sta nel fatto che i simboli si sostituiscono all’oggetto, rinviando ad un concetto generale e astratto. Per quanto i concetti astratti siano utili all’analisi, dunque al progresso della conoscenza scientifica, essi sono incapaci di rendere l’indagine metafisica dell’oggetto: sono inadeguati ad affermare ciò che l’oggetto reale ha di essenziale e di proprio.
L’analisi è un procedimento tanto utile nella vita pratica, quanto pericoloso per la speculazione, ovvero per la conoscenza metafisica. L’intelligenza si illude che l’insieme dei concetti possa essere una ricostruzione adeguata della durata reale; tuttavia, ponendo «concetti accanto a concetti», si ottiene solo una ricomposizione artificiale della realtà. Di quest’ultima vengono raffigurati solo gli aspetti generali, impersonali, dunque utili. Il concetto deforma sempre la realtà nella misura in cui astrae: per rendere manifeste le proprietà degli oggetti attraverso i simboli è necessario “trarle fuori” dagli oggetti stessi, e renderle comuni ad una infinità di cose.
Nessun concetto si applica esattamente ad un oggetto. Un concetto non appartiene mai all’essenza di quel singolo oggetto. I concetti rappresentano dei “cerchi troppo larghi”, comprendenti una moltitudine di oggetti. Affidandosi ad essi, l’intelligenza si sforza di ricostruire la realtà attraverso delle “maglie larghe” nelle quali la realtà stessa si perde. Nell’analisi l’oggetto reale, con la sua semplicità, svanisce. Il lavoro abituale dell’intelligenza procede nella direzione che va “dai concetti alle cose”, e non è un lavoro disinteressato. La conoscenza intellettiva combina insieme concetti già fatti per ottenere un equivalente pratico della realtà; solitamente, quindi, “non conosciamo per conoscere” ma conosciamo in vista di una decisione da prendere, di un vantaggio da ricavare, di un interesse da soddisfare. Fissiamo delle direzioni concettuali che applichiamo alle cose da gestire.
«Provare un concetto a un oggetto significa domandare all’oggetto che cosa dobbiamo fare di lui e che cosa esso possa fare per noi»[134].
In quanto orientata verso la pratica, la conoscenza intellettiva è legittimamente limitata ad enumerare i possibili principali atteggiamenti della cosa verso di noi e i possibili migliori atteggiamenti di noi verso la cosa. Ma pretendere di rendere la natura intima delle cose attraverso questi concetti, significa trasportare indebitamente punti di vista nati per la pratica in ambito speculativo. L’intuizione, invece, segue il senso inverso: va “dalle cose ai concetti”. Per cui, la metafisica deve essere «uno sforzo per risalire la china naturale del lavoro del pensiero», e per collocarsi immediatamente, grazie ad una dilatazione dello spirito, nella cosa studiata; la metafisica deve far proprio uno sforzo per andare dalla realtà ai concetti e non più dai concetti alla realtà.
L’intuizione è un «atto semplice», e non ha nulla a che vedere con una rappresentazione concettuale; essa è l’unica via per esperire l’assoluto, perché per simpatia ci si trasporta all’interno dell’oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico. L’intuizione è un atto: è l’espressione di uno sforzo; dunque, non è l’atto abituale del pensiero che “pensa un oggetto”. “Intuire” non significa pensare la durata ma pensare in durata: cambiare il paradigma del pensiero, invertire le modalità dell’atto del pensiero, liberandosi dal pensare il reale secondo il modello soggetto-predicato.
«L’intuizione è perciò declinabile come “partecipazione”(«coincidenza parziale»)»[135].
Intuire significa in qualche modo “coincidere” con l’assoluto: cogliere la vera continuità, il mouvant. Il “movimento”, il “movente”, non significa “qualcosa che cambia”; questo participio presente indica «l’atto presente del divenire»[136].
Se l’analisi appartiene di diritto alla scienza positiva e alla metafisica ad essa collegata, l’intuizione costituisce il metodo da seguire per una “nuova” metafisica. Scienza e filosofia sono state, afferma Bergson, «opera di pura intelligenza»[137]. Si trovano a proprio agio solo quando agiscono su di una materia inorganica, esse progrediscono quanto più riescono a considerare la materia secondo una prospettiva meccanica. L’intelligenza, anche quando affronta lo studio della vita, resta legata alle abitudini che costituiscono le condizioni del suo agire efficace.
La filosofia dovrebbe allora invertire la direzione delle abitudini contratte e rivolgersi al vivente senza pregiudizi di ordine pratico, essa dovrebbe liberarsi dalle forme, dalle consuetudini e dalle illusioni propriamente intellettuali. L’oscurità intorno alla questione della vita e dei fatti psicologici deriva, secondo Bergson, dalla rassegnazione della filosofia al metodo scientifico-intellettivo. La filosofia deve riconfigurare il metodo di conoscenza al quale si affida: la conoscenza propriamente metafisica deve liberarsi dalle esigenze di relazione e di confronto, peculiari dell’intelligenza, per arrivare a simpatizzare con la realtà. Bisogna però fare attenzione ad un punto fondamentale. Bergson non nega in assoluto la validità del metodo scientifico nell’ambito biologico, non è sua intenzione sostituire la filosofia alla scienza nello studio del vivente; propone, invece, un metodo di indagine che sia libero dalle necessità della pratica e fecondo, per entrambe, in ambito speculativo.
La conoscenza intellettiva punta in una direzione ben definita dallo scopo pratico, essa dispone il suo oggetto in vista della misura; tuttavia, l’intelligenza può procedere in una direzione differente, inversa alla prima, giungendo ad allargare i confini della propria esperienza. Rinunciando all’unità fittizia che l’intelletto impone dall’esterno alla natura, l’intelligenza ritrova l’unità vera e interiore del vivente. La conoscenza scientifica, o analisi, implica un sapere che “gira intorno alla cosa”, in quanto dipende dal punto di vista assunto e dai simboli con i quali ci si esprime; al contrario, la conoscenza metafisica, o intuizione, delinea un metodo attraverso il quale “si penetra” nella realtà stessa. Se il primo metodo conviene allo studio della materia, perché si ha a che fare col tempo spazializzato e con lo spazio, il secondo è idoneo per indagare lo spirito e la durata reale. Per questo, Bergson definisce “scientifico” il primo metodo di conoscenza, e “metafisico” il secondo, ma non esclude che ciascuno dei due metodi possa appartenere tanto alla scienza, in generale, quanto alla filosofia.
La conoscenza, tanto negli antichi quanto nei moderni, è stata circondata di simboli; l’intelligenza ha svolto indisturbata, sia nella metafisica sia nella scienza, antiche e moderne, il suo lavoro di fissazione, di divisione e di ricostruzione. Non riconoscendo due modi diversi di conoscere, considerando la conoscenza intellettiva come la sola conoscenza possibile, non c’è scienza o metafisica che possa sottrarsi alla critica kantiana. La riflessione bergsoniana, al contrario, apre al pensiero la possibilità di un’intuizione metafisica (o intellettuale), cioè di quell’atto nato dallo sforzo per collocarsi nel cuore della realtà.
L’intuizione nasce per insight, è un salto compiuto dal pensiero stesso sempre all’interno dell’esperienza. Come colui che, abituato alla terra ferma, decide di buttarsi in acqua per imparare a nuotare. Solo una percezione della realtà metafisica, cioè della realtà in sé, permette alla metafisica stessa di costituirsi. Per questo Kant «ha creduto la metafisica impossibile», ed è proprio questo che Bergson afferma con forza.
L’intuizione metafisica, ovvero una visione della realtà in sé, non è possibile per Kant perché l’ha intesa come una facoltà di conoscere distinta dalla coscienza e dai sensi; per Bergson, invece, l’intuizione, cioè una conoscenza diversa dalla conoscenza intellettiva, è possibile perché coincide con l’inversione della naturale direzione del pensiero. La “nuova” metafisica non implica alcun salto nella trascendenza, «la si potrebbe definire come l’esperienza integrale»[138].
Il compito della filosofia è quello di mitigare la logica del pensiero, per adattarla alla durata in cui il “nuovo” è sempre presente e il tempo è creazione.
Bergson stesso avverte di non confondere l’intuizione della durata col metodo già messo in luce da altri filosofi; infatti, numerosi sono stati coloro che hanno evidenziato l’impotenza del pensiero concettuale ad attingere il fondo dello spirito, di conseguenza numerosi sono stati coloro che hanno portato alla luce una facoltà sovraintellettuale. Costoro però hanno opposto l’intuizione all’intelligenza, perché credevano che l’intelligenza operasse nel tempo, e «ne hanno concluso che oltrepassare l’intelligenza consistesse nell’uscire dal tempo». L’intelligenza, invece, opera sul fantasma della durata, il tempo di cui parla non è che l’eliminazione del tempo stesso; «l’eliminazione del tempo è l’atto abituale, normale, banale del nostro intelletto»[139].
La relatività della conoscenza intellettiva deriva esattamente dall’abituale modo di procedere dell’intelletto stesso; dunque, per passare dal “relativo” all’“assoluto”, per oltrepassare l’impotenza del pensiero concettuale, non occorre uscire dal tempo ma riprendere posto nella durata, e cogliere la realtà nella mobilità che ne è l’essenza.
La vera intuizione procede dall’interno della realtà e si dirige verso la creazione di concetti sempre nuovi. Per ogni nuovo problema esige un rinnovo dello sforzo; dunque, nessuna soluzione viene geometricamente dedotta da un’altra, e nessuna verità è un prolungamento di una verità già acquisita. La metafisica deve rinunciare a racchiudere virtualmente in un principio unico la scienza universale.
«Quanto più istruttiva sarebbe una metafisica veramente intuitiva, che seguisse le ondulazioni del reale, che non avesse la pretesa di abbracciare in un sol colpo la totalità delle cose, ma di ciascuna offrisse una spiegazione che vi si adatti esattamente, in modo esclusivo»[140].
La nuova metafisica è libera dalla necessità di ottenere risultati praticamente utilizzabili, essa può astenersi dal convertire l’intuizione in simboli e può dedicarsi alla creazione di “concetti fluidi”.
Per rinnovarsi, la metafisica deve rinunciare alle soluzioni radicali e alla manipolazione dei soli concetti, deve affidarsi a soluzioni incomplete e a conclusioni provvisorie. Essa deve ricollocarsi sul terreno dell’esperienza per poter penetrare la vita, e legare (sympathiser) con lei.
L’intuizione è il movimento per il quale si raggiunge lo spirito, la durata reale, il mutamento, cioè l’aspetto dinamico del divenire; grazie all’intuizione non si sarà più legati ad aspetti astratti, convenzionali e immobili, ritagliati dal senso comune o dal linguaggio, al contrario si otterranno vedute multiple complementari e non equivalenti.
«Pensare intuitivamente è pensare in termini di durata»[141].
Come si è sottolineato, il ricorso ad un metodo conoscitivo differente, capace di cogliere il “nuovo”, apre una nuova stagione non soltanto per la filosofia bensì anche per la scienza. Bergson stabilisce un valore specifico per la scienza come per la filosofia; infatti, a ciascuna delle due conferisce un oggetto determinato, ma le pone in uno stretto legame di scambio. Scienza e filosofia nascono da uno sforzo comune e progressivo rivolto verso due direzioni differenti: l’intuizione della durata reale come materia e come spirito. La metafisica non è il grado superiore delle scienze, non è qualcosa che si aggiunge alla scienza positiva per ottenere una conoscenza più alta della realtà. Scienza e metafisica hanno eguale valore, entrambe partono dall’esperienza, e possono attingere all’essenza del reale se abbracciano il metodo dell’intuizione, ma hanno un oggetto diverso: sono rivolte ciascuna ad una metà dell’assoluto. La filosofia non si erge più a sintesi delle scienze, non si eleva più in alto della scienza.
Bergson lancia un appello di riforma della filosofia: bisogna condurla alla precisione, renderla in grado di risolvere problemi speciali, farne l’ausiliaria e, se necessario, la riformatrice della scienza. La conoscenza intellettiva ha il vantaggio di ampliare il nostro dominio sulla materia, al prezzo però di simbolizzare il reale; al contrario, la conoscenza intuitiva è «praticamente inutile» ma può abbracciare «in una stretta definitiva la realtà stessa». Integrare i risultati dell’intuizione con la prima forma di conoscenza significa abituare l’intelligenza «ad abitare nel movimento»; dunque, l’intuizione rende all’intelligenza il servizio di aprirle nuove prospettive.
Il metodo dell’intuizione non è attentatore della scienza, né minaccia l’intelligenza, piuttosto mostra i limiti di un ceco razionalismo.
Se l’intelligenza parte dall’immobile e ricostruisce un movimento astratto, facendo delle cose stabili l’essenziale e del mutamento un accidente, nell’intuizione essenziale è il mutamento e la “cosa” non è altro che una prospettiva. Per l’intelligenza il “nuovo” è solo una nuova organizzazione di elementi preesistenti, nulla si perde nulla si crea; intuire, al contrario, significa percepire una continuità ininterrotta di imprevedibile novità. Se il lavoro abituale del pensiero è agevole e prolungabile indefinitamente, l’intuizione è faticosa e non potrebbe durare a lungo; per questo, anche l’intuizione finisce per sistemarsi in concetti. Sia che si tratti di intellezione sia di intuizione, il pensiero utilizza sempre il linguaggio; solo che, ai concetti derivanti da un’intuizione appartiene una chiarezza “passiva”, subita: la chiarezza radicalmente nuova, assolutamente semplice, appartenente alle idee che captano la realtà. Ai concetti dell’intelletto, invece, appartiene un tipo di chiarezza diverso: quello di un’idea nuova che adatta in un nuovo ordine idee elementari già possedute; questa è la chiarezza che desideriamo perché espressa dall’intelligenza in relazione ai suoi bisogni. Anche l’intuizione, dunque, si esprime in immagini, e l’immagine in quanto “espressione” di un’intuizione ha una natura semiotica: l’immagine è un segno. «Ha dunque la natura del rinvio, del rimando»[142].
L’immagine-segno non è il “simbolo convenzionale” che esprime il concetto, ma è semioticamente un indice. L’indice implica una correlazione fra il veicolo segnico e il referente basata su un rapporto di contiguità. Come la banderuola sul tetto che indica la presenza e la direzione del vento. La critica bergsoniana al linguaggio è rivolta verso la pretesa che l’uso pragmatico del linguaggio, l’uso ordinario al servizio dell’intelligenza, sia l’unico possibile. Bergson fa appello ad una «letteralità del senso»[143], ad un uso della parola che aderisca perfettamente alla complessità, all’eterogeneità e alla molteplicità intensiva del reale. Non si tratta di adoperare un “altro” linguaggio per esprimere l’intuizione, bensì semplicemente di suggerirne un uso differente da quello ordinario. Il linguaggio “intuitivo” è un linguaggio espressivo, il cui dato immediato è il senso colto dall’interno del movimento vitale.
«Vi sono casi in cui è il linguaggio immaginato che parla coscientemente in modo proprio, e il linguaggio astratto che parla inconsciamente in senso figurato»[144].
Il linguaggio ordinario è vittima dei simboli, descrive la cosa in base alla sua presunta essenza statica; al contrario, l’espressione che fa propria la “letteralità del senso” coglie il ritmo della cosa stessa.
L’attitudine comune del pensiero, così come risulta dalla percezione, dalla conoscenza intellettiva e dal linguaggio, evidenzia l’incapacità di cogliere la durata reale; destinato a preparare la nostra azione sulle cose, il pensiero è costretto per le medesime ragioni a cogliere la realtà in un tempo polverizzato. Tuttavia, per ottenere l’intuizione non è necessario trasportarsi fuori dal dominio della coscienza, basta reinstallarsi nel tempo.
«Non più stati inerti, non più cose morte, nient’altro che la mobilità di cui è fatta la stabilità della vita»[145].
L’errore di Kant fu quello di credere impossibile una metafisica intuitiva, ma il tempo e il cambiamento ai quali siamo solitamente sottoposti non sono il tempo e il movimento reali, o meglio, sono la durata reale ridotta in polvere per facilitare l’azione sulle cose. Basta disfarsi delle abitudini per ottenere una conoscenza di genere diverso, senza far ricorso a facoltà nuove.
«Se questa conoscenza si generalizza, non è solamente la speculazione che ne approfitterà. La vita di tutti i giorni potrà esserne riscaldata e illuminata. Poiché il mondo in cui i nostri sensi e la nostra coscienza ci introducono abitualmente, non è altro che l’ombra di se stesso; ed è freddo come la morte»[146].
[1] Per un excursus nella storia della critica vedi A. Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Bari 1996, pp. 91-117. In particolare, per una revisione del rapporto tra il pensiero bergsoniano e la cultura psicologica vedi M. Meletti Bertolini, Bergoson e la psicologia, Franco Angelini, Milano 1985 e V. Paola Babini, La vita come invenzione. Motivi bergsoniani in psichiatria, Il Mulino, Bologna 1990; il primo saggio sottolinea le connessioni tra la filosofia bergsoniana e la nascente psicologia scientifica, il secondo indaga l’influenza del pensiero di Bergson nell’ambito della psicologia.
[2] L’espressione si trova in P. Godani, Bergson e la filosofia, ETS, Pisa 2008, p. 127.
[3] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2002, (abbrev. EC), p. 151.
[4] EC, p. 109.
[5] EC, p. 110.
[6] EC, p. 114.
[7] Ibidem
[8] EC, p. 120.
[9] «L’invenzione meccanica è stata all’inizio il passo decisivo: ancora oggi la nostra vita sociale gravita intorno alla fabbricazione e all’utilizzo di strumenti artificiali, e le invenzioni che segnano la strada del progresso ne hanno anche tracciato la direzione. […] Se, per definire la nostra specie, ci attenessimo rigorosamente a ciò che la storia e la preistoria ci presentano come la caratteristica costante dell’uomo e dell’intelligenza, forse non diremmo Homo sapiens, ma Homo faber». EC, pp. 116-117.
[10] EC, p. 118. «Se la forma immanente alla vita fosse una forza illimitata, avrebbe forse sviluppato indefinitamente sia l’istinto sia l’intelligenza nei medesimi organismi. […] Le risulta difficile spingersi molto in là e in più direzioni contemporaneamente. Deve scegliere. E ha a disposizione due modi per agire sulla materia grezza. Può farlo immediatamente creandosi uno strumento organico con cui lavorare, oppure può farlo mediatamente in un organismo che, invece di possedere naturalmente lo strumento richiesto, lo fabbricherà da sé elaborando la materia inorganica. Da qui l’intelligenza e l’istinto, che più si sviluppano più divergono, ma che non si separano mai del tutto». EC, p. 119.
[11] EC, p. 121.
[12] EC, p. 122.
[13] EC, pp. 122-123.
[14] EC, pp. 124-125.
[15] EC, p. 125.
[16] EC, p. 126.
[17] EC, p. 127.
[18] EC, p. 128.
[19] Ibidem
[20] EC, p. 136.
[21] EC, p. 138.
[22] EC, p. 144.
[23] EC, p. 145.
[24] Ibidem.
[25] EC, pp. 126-127.
[26] EC, p. 147.
[27] Locke, Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. I, par. 2.
[28] Locke, Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. I, par. 5.
[29] Locke, Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. I, par. 4.
[30] H. Bergson, Materia e memoria, a cura di A. Pessina, Laterza, Bari 2009, (abbrev. MM), p. 132.
[31] MM, p. 133.
[32] MM, p. 134.
[33] Ibidem.
[34] MM, pp. 135-136.
[35] MM, p. 145.
[36] Vedi la figura in MM, p. 137.
[37] MM, p. 139.
[38] Per quanto riguarda la teoria del riconoscimento vedi MM, cap. II e III.
[39] EC, p. 157.
[40] Ibidem.
[41] «Aggiogati come buoi a un pesante lavoro, sentiamo il movimento dei nostri muscoli e delle nostre articolazioni, il peso dell’aratro e la resistenza del suolo. Agire ed esserne consapevoli, entrare in contatto con la realtà, e viverla, ma solo nella misura in cui essa ha a che fare con l’opera che si sta compiendo, con il solco che si sta scavando: ecco la funzione dell’intelligenza umana». EC, p. 159.
[42] EC, p. 166.
[43] H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2002, (abbrev. DI), p. 61. E di nuovo: «ciò che l’Estetica trascendentale di Kant ci sembra aver stabilito in maniera definitiva, è che l’estensione non è un attributo materiale paragonabile agli altri». EC, p. 169.
[44] Kant, Critica della ragione pura, Est. trasc., sez. I, par. 2.
[45] MM, p. 193.
[46] DI, p. 63.
[47] Ibidem.
[48] «L’intelligenza, così come Kant ce la presenta, è immersa in un’atmosfera di spazialità alla quale è inseparabilmente unita, come il corpo vivente all’aria che respira» EC, p.169.
[49] Ibidem.
[50] «L’errore di Kant è stato quello di considerare il tempo un mezzo omogeneo». DI, p. 147.
[51] Kant, Critica della ragione pura, Est. trasc., sez. II, par. 4-6.
[52] DI, p. 65.
[53] DI, p. 147.
[54] Ibidem.
[55] «Noi possiamo ricondurre tutti gli atti dell’intelletto a giudizi, cosicché l’intelletto può essere rappresentato, in generale, come la facoltà di giudicare. […] esso è la facoltà di pensare. Pensare è la conoscenza mediante concetti». Kant, Critica della ragione pura, Logica trasc., Anal. trasc., libro I, cap. I, sez. I.
[56] «Il primo strumento, che ci deve essere dato per la conoscenza a priori di tutti gli oggetti, è il molteplice dell’intuizione pura; la sintesi di questo molteplice attraverso la capacità di immaginazione costituisce il secondo strumento, ma non fornisce ancora alcuna conoscenza. I concetti, che danno unità a questa sintesi pura, e che consistono unicamente nella rappresentazione di questa unità sintetica necessaria, sono il terzo strumento per la conoscenza di un oggetto che si presenti, e si fondano sull’intelletto». Kant, Critica della ragione pura, Logica trasc., Anal. trasc., libro I, cap. I, sez. III, par. 10.
[57] «L’unità di tale rappresentazione, io la chiamo anche l’unità trascendentale dell’autocoscienza». Kant, Critica della ragione pura, Logica trasc., Anal. trasc., libro I, cap. II, sez. II, par. 16.
[58] DI, p. 149.
[59] EC, p. 171.
[60] EC, pp. 181-182.
[61] EC, p. 183.
[62] Ibidem. L’idea di disordine «per comodità di linguaggio, oggettiverebbe il disappunto di uno spirito che si ritrova in presenza di un ordine differente da quello di cui ha bisogno, ordine di cui, per il momento, non sa che fare e che, in tal senso, per lui non esiste». EC, pp. 183-184.
[63] EC, p. 184.
[64] EC, p. 192.
[65] EC, p. 193.
[66] EC, p. 194.
[67] EC, p. 185.
[68] EC, pp. 185-186.
[69] EC, p. 190.
[70] «Da qui l’idea di un ordine generale della natura, ovunque identico, che domina a un tempo sulla vita e sulla materia. Da qui la nostra abitudine di designare con lo stesso termine, e di rappresentarci alla stessa maniera, l’esistenza di leggi nell’ambito della materia inerte, e l’esistenza di generi nell’ambito della vita». EC, p. 187. Più avanti: «perciò possiamo affermare che la ripetizione che sta alla base delle nostre generalizzazioni è essenziale nell’ordine fisico, ma accidentale nell’ordine vitale. Quello è un ordine “automatico”; questo è, se non proprio volontario, analogo all’ordine “voluto”». EC, p. 191.
[71] EC, p. 196.
[72] EC, p. 204.
[73] EC, p. 206.
[74] EC, p. 223.
[75] EC, p. 224.
[76] Ibidem.
[77] EC, p. 225.
[78] EC, p. 226.
[79] Ibidem
[80] EC, p. 227.
[81] EC, p. 231.
[82] EC, p. 233.
[83] Kant, Critica della ragione pura, Logica trasc., Dial. trasc., Libro II, cap. III, sez. IV.
[84] EC, p. 234.
[85] EC, pp. 234-235.
[86] «La logica trascendentale considera il giudizio anche secondo il valore o contenuto di questa affermazione logica, costituita mediante un predicato puramente negativo, ed esamina quale guadagno essa procuri riguardo alla conoscenza complessiva. Se io avessi detto dell’anima, che essa non è mortale, avrei almeno evitato un errore, con un giudizio negativo». Kant, Critica della ragione pura, Logica trasc., Anal. trasc., libro I, cap. I, sez. II, par. 9.
[87] EC, p. 235. E ancora: «la negazione differisce dunque dall’affermazione propriamente detta in quanto è un’affermazione di secondo grado: afferma qualcosa di un’affermazione, la quale, a sua volta, afferma qualcosa di un oggetto». EC, p. 235.
[88] EC, p. 236.
[89] EC, p. 237.
[90] «Si avvertiranno gli altri, o si avvertirà se stessi, di un errore possibile, anziché fornire un’informazione positiva». EC, p. 238.
[91] «L’intelligenza passiva, che segue macchinalmente le orme dell’esperienza, che non è mai in anticipo né in ritardo sul corso del reale, non avrebbe alcuna velleità di negare. […] Affinché una tale intelligenza arrivi a negare, sarà necessario che si desti dal suo torpore, che formuli la delusione di un’attesa reale o possibile, che corregga un errore attuale o eventuale, che si proponga insomma di istruire gli altri o se stessa». EC, p. 239.
[92] EC, p. 231.
[93] EC, p. 241.
[94] EC, p. 243.
[95] Ibidem.
[96] EC, p. 246.
[97] Ibidem.
[98] EC, p. 248.
[99] EC, p. 249.
[100] EC, p. 251.
[101] «È quanto fecero, senza troppi scrupoli, i filosofi della scuola di Elea. Poiché il divenire urta le abitudini del pensiero e male si inserisce all’interno degli schemi del pensiero, essi lo dichiararono irreale». EC, p. 256.
[102] EC, p. 257.
[103] EC, p. 258.
[104] Ibidem.
[105] EC, p. 259.
[106] EC, p. 261.
[107] Ibidem.
[108] EC, p. 262.
[109] EC, p. 265.
[110] EC, p. 266.
[111] EC, p. 268.
[112] EC, pp. 268-269.
[113] EC, p. 269.
[114] EC, p. 274.
[115] EC, p. 275.
[116] EC, p. 276.
[117] EC, p. 14.
[118] EC, p. 276.
[119] EC, p. 277.
[120] Ibidem.
[121] EC, p. 278.
[122] Ibidem.
[123] EC, p. 281.
[124] EC, p. 290.
[125] Ibidem.
[126] Ibidem.
[127] Ibidem.
[128] «È molto meno di un dio sostanziale, ma anche un po’ di più del lavoro isolato di un uomo e persino del lavoro collettivo dell’umanità». EC, p. 290.
[129] EC, p. 292.
[130] P. Godani, op. cit., p. 13.
[131] MM, p. 167.
[132] H. Bergson, Il pensiero e il movimento, a cura di F. Sforza, Bompiani, Milano 2000, (abbrev. PM), p. 139.
[133] MM, p. 175.
[134] PM, p. 167.
[135] R. Ronchi, Bergson. Una sintesi, Marinotti, Milano 2011, pp. 14-15.
[136] Ibid., p. 65.
[137] EC, p. 162.
[138] PM, p. 189.
[139] PM, pp. 23-24.
[140] PM, p. 24.
[141] PM, p. 27.
[142] R. Ronchi, op. cit., p. 19.
[143] P. Godani, op. cit., p. 149.
[144] PM, p. 35.
[145] PM, p. 118.
[146] PM, p. 119.